Ieri intanto Hossein Moussavi ha lanciato l'ennesimo appello su Twitter ai propri sostenitori "a scendere in strada a Teheran... nel caso che sia arrestato qualunque leader del movimento Verde. Ditelo a tutti".
Mentre il governo ha convocato per oggi manifestazioni di piazza a sostegno di Ahmadinejad in diverse città, a cominciare da Teheran. Numerosi cortei sono già in corso in queste ore e sembra che vi stiano partecipando centinaia di migliaia di persone.
Ahmadinejad ha già detto infatti che "La massiccia partecipazione a questi raduni umilierà i nostri oppositori".
La situazione è comunque molto tesa e sembra proprio che si stia arrivando alla definitiva resa dei conti tra i diversi gruppi di potere del Paese, alcuni dei quali sono ovviamente eterodiretti dall'estero.
Teheran, il prezzo del sangue
di Christian Elia - Peacereporter - 31 Dicembre 2009
Ore decisive in Iran per cercare di capire cosa accadrà nel futuro.
Tutto è troppo fluido ora, ma è possibile che tra qualche tempo la Guida Suprema Ali Khamenei e il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad potrebbero rimpiangere l'idea di non permettere manifestazioni pubbliche in onore dell'ayatollah Montazeri, scomparso il 19 dicembre scorso.
Montazeri, dal suo eremo di Qom, finiva per essere una garanzia per una larga parte della società iraniana, che nel suo dissenso vedeva comunque una forma di opposizione, lontana dai cortei e dalle piazze dell'Onda Verde, ma critica verso la linea dura dei falchi di Khamenei.
Una parte di società civile, pezzi interi di ceto medio, che pur storcendo il naso si sentivano tutelati dal nume di Montazeri e, in una qualche misura, rappresentati, rischiano ora di andare a ingrassare le file dei dimostranti. Il 'culto del lutto' nella tradizione sciita dell'Islam ha un peso particolare e vietare le commemorazioni pubbliche non è stata una buona idea.
Gli scontri degi giorni scorsi sono un punto di svolta: dopo i disastri di giugno il movimento di opposizione si era un po' smarrito, ma adesso potrebbe trarre nuova linfa.Nel periodo trascorso tra le sommosse di giugno e quelle di dicembre c'è stata la resa anche dei più ottimisti rispetto all'amministrazione Obama e alla sua politica estera.
Dopo un inizio ben augurante, Washington sembra ritornata all'epoca Bush, pur con toni meno bellicosi. Sanzioni e ultimatum come unica forma di dialogo con Teheran. L'opposizione è tornata, almeno in alcuni suoi segmenti, a sperare nell'intervento armato Usa in Iran, ipotesi che valutate le difficoltà in Afghanistan e il ritorno della violenza in Iraq sembra per il momento problematica per la Casa Bianca. Di contro, Russia e Cina non hanno alcuna fretta di mettere in difficoltà l'Iran, divenuto partner commerciale fondamentale.
Spettatori interessati anche l'Arabia Saudita e i paesi del Golfo, sempre attenti alle mosse dell'opposizione di Teheran.
La guerra in Yemen, dove i ribelli sciiti non cedono e le truppe yemenite e saudite, con armi Usa, non riescono a rendere inoffensivi, hanno alimentato l'idea che Riad e le altre monarchie del petrolio sunnita non ne possano più dell'internazionalismo sciita iraniano, con tanto di finanziamenti e armi alle comunità sciite in giro per il mondo.
Il cerchio, in definitiva, si stringe. L'Onda Verde vive il suo esame di maturità: o arriva fino in fondo, tentando un colpo di mano vero, o si smarrisce tra obitori e carceri. La variabile determinante, però, diventa il potenziale aiuto che arriverebbe o meno dall'estero.
Altro che brogli. Per spiegare le ragioni della sconfitta del fronte riformista in Iran basta citare la vecchia massima di Giancarlo Pajetta: piazze piene, urne vuote. Ovvero: i riformisti dell’ex premier Mousavi hanno perso perché, al di là delle loro roccaforti giovanili ed universitarie di Teheran, al di là della loro capacità di mobilitazione su Twitter e tra i ceti più dinamici della capitale, non sono riusciti a sfondare tra l’elettorato poco scolarizzato delle campagne.
È lì, tra i contadini poveri e tradizionalisti, che Ahmadinejad ha costruito la sua vittoria. Grazie soprattutto a una campagna martellante, villaggio per villaggio, iniziata ormai tre anni e mezzo fa.
Lo dice a Panorma. it Farian Sabahi, opinionista del Tg1, del Corsera e di Vanity Fair e massima esperta di Iran in Italia. “I brogli non sono sufficienti a spiegare la dimensione della vittoria di Ahmadinejad”. Un punto di vista su cui vale la pena riflettere, soprattutto qui in Occidente, dove quello che accade a Teheran, nel variegato mondo giovanile, viene scambiato spesso, erroneamente, per una tendenza più generale del Paese.
Le cose non stanno così, come dice Sabahi. Che piaccia o meno, il presidente populista che ha fatto del suo odio contro Israele la sua bandiera, ha vinto perché è entrato in sintonia con l’Iran profondo, quello di cui i giornalisti occidentali non si occupano mai. Giocando anche con perizia, sulla questione nucleare, la carta dell’orgoglio nazionale.
Perché ha vinto Ahmadinejad?
Innanzittutto, perché la sua campagna elettorale è iniziata tre anni fa, mentre Mousavi ha iniziato solo pochi mesi fa. Poi, grazie ai proventi petroliferi, Ahmadinejad ha dato in questi anni l’assistenza sanitaria gratuita a 22 milioni di iraniani, ha aumentato lo stipendio del 30% agli insegnanti, ha garantito il pagamento delle bollette agli iraniani più poveri, ha aumentato le pensioni del 50 % permettendo agli anziani di arrivare a fine mese. E’ con queste misure che Ahmadinejad ha messo le basi del suo successo. E per la gente comune son cose che contano di più, nelle urne, del dibattito sui diritti civili caro ai riformisti.
Qual è il rovescio della medaglia?
Le politiche redistributive di Ahmadinejad hanno creato inflazione a due cifre, peggiorato tutti i parametri macroeconomici del Paese e prosciugato i fondi accumulati per affrontare le oscillazioni del costo del greggio. Ma le chiedo: è quello cui pensa la gente quando va a votare? La verità è che Ahmadinejad non è mai stato amato dagli intellettuali ma nelle zone rurali, la gente, più che dei diritti umani, si preoccupa del benessere quotidiano o dei mutui a tassi agevolati del governo. Non pensa al Pil o ai dati macroeconomici.
Che Iran esce dalle urne?
Un Paese sempre più spaccato tra città e campagna, tra ceti borghesi della capitale e ceti poveri. Un Iran dove Ahmadinejad, con le sue critiche violentissime a Rafsanjani, che ha accusato di corruzione, ha rotto anche il muro di omertà all’interno dell’establishment politico-religioso nato con la Rivoluzione. Creando una crisi istituzionale senza precedenti.
C’è il pericolo di una Tienanmen persiana come scrive oggi Annunziata su La Stampa?
Mi auguro di no, anche se le notizie che arrivano da Teheran (con sette morti tra i manifestanti ndr) sono molto preoccupanti. Gli iraniani hanno già avuto il loro massacro 30 anni fa, in piazza Jaleh, l’8 settembre 1978. Il famoso Venerdì nero.
Chi è Mousavi?
E’ stato sopravvalutato in Occidente. Più in generale non sappiamo che cosa avrebbe fatto se fosse stato eletto. Sappiamo solo che era l’ex braccio destro di Khamenei, non proprio un innovatore, e che è di origine azera, una minoranza etnica. Inoltre sua moglie si presentava con il chador nero ai comizi persino a Teheran, dove le ragazze si limitano al foulard.
La reazione americana è stata insolitamente cauta. Non vede il pericolo che con queste elezioni entri in crisi la strategia di Obama del dialogo con l’Iran?
No, perché come le dicevo non sappiamo come si sarebbe comportato Mousavi. E poi, va detto che, con l’attuale quadro istituzionale, la politica estera e nucleare la decide la Guida suprema Khamenei. Non il presidente. Queste elezioni sono state sopravvalutate. E il dialogo va avanti.
** Farian Sabahi ha pubblicato nel 2008 per Bruno Mondadori Storia dell’Iran 1890-2008, aggiornato fino agli avvenimenti a ridosso del 30esimo anniversario della Rivoluzione khomeinista
Proteste di piazza e informazione nella Repubblica Islamica dell'Iran
da http://iononstoconoriana.blogspot.com - 30 Dicembre 2009
Queste foto difficilmente compariranno sul mainstream "occidentalista", impegnato in blocco e senza discussioni nel sostegno ai manifestanti di Tehran al punto dallo statuire l'esistenza di una rivoluzione in corso d'opera; una rivoluzione ben strana dal momento che le delegazioni internazionali hanno continuato ad andare e venire, la majilis a funzionare, l'Ashura ad essere celebrato come se nulla stesse succedendo.
Le foto provengono dal sito dell'Islamic Republic of Iran Broadcasting e fanno riferimento a quelle che vengono presentate come "proteste popolari" a Sari e Mashad e ad a Tabriz e Rasht.
Preparate o meno, manifestazioni come queste indicano che la realtà della Repubblica Islamica rimane qualcosa di complesso e di sostanzialmente sconosciuto, per quanto vada di moda semplificarla ad uso e consumo di sudditi "occidentali" che spesso neanche più si accorgono di quanto siano sistematici gli inganni e le prese in giro di cui sono fatti oggetto da parte della cupola inamovibile ed autoreferenziale dei potenti: è noto che le esecuzioni extragiudiziali, gli arresti facili e gli abusi della gendarmeria avvengono solo in Iran.
E' interessante notare che l'Islamic Republic of Iran Broadcasting utilizza, cambiandole di segno, le stesse istanze e le stesse strategie di comunicazione che il mainstream "occidentalista" utilizza per denigrare il dissenso interno: dei "tumulti di Ashura" si mostrano le immagini di devastazione e non altro, allo stesso modo in cui ai tempi del G8 genovese i manifestanti nella loro interezza furono additati al ludibrio e all'odio del rimanente dei sudditi -ben spaparanzato in ciabatte e canottiera davanti al teleschermo e con il grugno nella ciotola dei maccaruna c'a'pummarola a ponderare roba del tipo speriamo li ammazzino tutti- da tutto un sistema mediatico che si intenderebbe ogni giorno di dar lezioni di "democrazia" a chi non ne ha alcun bisogno.
Il peggio che si possa dire dell'"informazione" della Repubblica Islamica dell'Iran è che ha imparato molto rapidamente ad adattare alle proprie necessità la strategia di controparti che dal 1979 in avanti riescono ad intonare al denigratorio perfino una telecronaca dallo stadio Azadi.
L'Islamic Republic of Iran Broadcasting può così asserire che Sayyed Ali Mousavi Habibi è stato ucciso da non meglio definiti "terroristi" e che la morte di tutte le vittime della giornata sarebbe avvenuta in circostanze dubbie.
Qui occorre ricordare che il mainstream "occidentale" non ha alcuna remora, da anni, a definire "terrorista" chiunque non abbia in regola le carte per le quali è la committenza politica a decidere le regole. L'"Occidente" è talmente "libero" che è ormai sufficiente gettare un petardo al pallonaio per doversela vedere, magari dopo mesi, con la gendarmeria e con la galera.
E si deve anche ricordare che il Mousavi sconfitto alle elezioni di giugno e leader dell"onda verde" non è né un signor nessuno né un rivoluzionario nel senso corrente del termine, ma un politico di lunghissimo corso che alla Repubblica Islamica ed al suo assetto istituzionale deve praticamente tutto e che ricoprì l'incarico di primo ministro ai tempi della "guerra imposta", durante la quale la tolleranza verso il dissenso non esisteva neppure come vocabolo.
Se volessimo fare un paragone con lo stato che occupa la penisola italiana, potremmo arrivare a sostenere che manifestare e rischiare la vita per Mousavi è un po' come manifestare e rischiare la vita per Clemente Mastella.
Un'altra cosa interessante riportata dall'articolo in link è l'asserzione secondo la quale la polizia di Tehran sarebbe scesa in piazza disarmata. Esistono immagini che riprendono poliziotti inseguiti da gente intenta a legnarli di santa ragione, ed altre che riprendono persone che agitano scudi, manganelli ed anfibi a mo' di trofei; questo sembrerebbe confermare il fatto.
Le notizie sulle manifestazioni di Ashura riportate dall'Islamic Republic of Iran Broadcasting sono generalmente intonate alla denuncia di un ubiquo complotto ordito da potenze straniere.
La cosa può suonare assurda - in assenza di riscontri obiettivi non la si può qualificare come assurda in modo reciso - ma la storia dell'Iran, almeno dai tempi di Mossadeq in poi, presenta tanti e tanto macroscopici casi di intromissione straniera negli affari interni del paese da consentire al mainstream di fare del complottismo un vero e proprio cavallo di battaglia, ed altre pezze d'appoggio per un simile modo di comportarsi vengono dall'ondata di "rivoluzioni" colorate con le quali gli statunitensi hanno creato negli scorsi anni una rete di governi presuntamente amici, in qualche caso finiti peggio di male come attesta l'umiliante esperienza di Saakashvili, il cadavere politico alla guida della Repubblica di Georgia salito al potere grazie alla "rivoluzione delle rose".
La produzione mediatica del mainstream iraniano non ha motivo di sottrarsi alla prassi ed agli interessi che governano la sua controparte "occidentale" in generale ed "occidentalista" in particolare; c'è se mai da chiedersi in tutta serietà per quale motivo il mainstream "occidentale" si prodiga tanto nell'assegnare o nel negare patenti di "democrazia" che nessuno ha chiesto, e per quale motivo amplifichi gli eventi di Tehran in misura tale da finire per nuocere agli stessi manifestanti.
Qualcuno qualche dubbio deve esserselo posto, perché il famigerato Twitter, lanciato in grande stile in occasione delle manifestazioni del passato giugno da un mainstream "occidentale" che ha preso come oro colato tutto quello che ne usciva, stavolta ha di molto diminuito il proprio cinguettio.
La campagna di marketing con il sangue altrui dev'essere già finita.
Ashura, giornalame e repubblica islamica
da http://iononstoconoriana.blogspot.com - 28 Dicembre 2009
Durante le celebrazioni religiose per l'Ashura si sono ripetuti, soprattutto a Tehran, violentissimi scontri di piazza. Chi ha una conoscenza diretta della realtà iraniana non si stupisce gran che; l'Ashura è una celebrazione luttuosa -non una festa nel senso in cui questo termine viene correntemente inteso in "Occidente"- molto sentita da una parte consistente dell'opinione pubblica ed è nota per l'essere un periodo in cui si concentrano e trovano sfogo tensioni sociali di ogni genere.
In altre parole, è difficile che non ci scappi il morto, per un motivo o per l'altro; e fino allo scorso anno la cosa riceveva poca o punta attenzione da parte del mainstream.
Quello che è costruttivo sottolineare è il permanere, assolutamente inscalfibile e totalmente impermeabile perfino all'evidenza, di una presentazione mediatica degli eventi iraniani finalizzata in ogni caso alla conferma di un copione che è lo stesso da trent'anni.
Il bias denigratorio che lo contraddistingue si basa su pochi punti fermi, primo tra i quali quello che statuisce che la Repubblica Islamica dell'Iran è una dittatura.
Le gazzette liquidano in questo modo un paese il cui panorama politico è tra i più variegati e multiformi che esistano, animato com'è da un'opinione pubblica assolutamente indomabile.
Da qualche anno, essendo inviso per programma ed intenzioni alle sue controparti "occidentali", viene definito dittatore anche il presidente in carica; un titolo che nessuno si è mai sognato di adoperare per certi suoi predecessori ritenuti più accomodanti e neppure per i tanti presidenti di altri paesi, giunti a disporre di un potere proporzionalmente maggiore di quello del presidente iraniano utilizzando sistemi sulla cui trasparenza vi sarebbe non poco da ridire. Soltanto la Repubblica Islamica dell'Iran viene sottoposta ogni giorno a puntigliose verifiche di "democrazia" a mezzo stampa.
Di solito la Repubblica Islamica dell'Iran viene presentata come l'unico paese al mondo ad avere l'esclusiva delle esecuzioni capitali, degli arresti e delle carceri. Non più tardi di qualche settimana fa le manifestazioni di piazza nel Regno di Danimarca hanno portato a migliaia di arresti, senza che nessuna gazzetta si sognasse di speculare sul tasso di "democraticità" delle sue istituzioni.
Da questo punto di vista si può ritenere per certo che la Repubblica Islamica dell'Iran ha, per le gazzette "occidentali", il ruolo di capro espiatorio utilizzabile per minimizzare o giustificare a contrario qualunque azione repressiva intentata in "Occidente".
Si ricordi che lo stesso giornalame che stigmatizza gli avvenimenti iraniani plaude istericamente ogni giorno alle fozzedellòddine dello stato che occupa la penisola italiana e non ha esitato ad estendere la definizione di terrorismo a qualunque comportamento potesse venir percepito come lievemente dissonante rispetto agli unici ammessi dal potere "occidentale", che sono i comportamenti di consumo.
L'incensamento della "dissidenza" fa parte della costruzione a tavolino di una Repubblica Islamica metafisicamente malvagia; il suo peccato originale è quello di ergersi su un mito fondante che non tratta di astratte "libertà" ma di giustizia sociale e di anticolonialismo, cose assolutamente fuori dal concepibile.
Un dissidente o un esperto pronto a giurare sull'imminente sfascio delle istituzioni rivoluzionarie e su un crollo che "sarebbe solo questione di tempo" lo si trova sempre.
Lo si trova sempre, da trent'anni filati.
Il problema è che statuire assunti del genere fa a pugni con la realtà. E le gazzette, con la realtà, hanno un rapporto sempre più labile ogni giorno che passa.
La realtà è quella di un assetto istituzionale che dal giorno in cui è nato ha incassato colpi potenzialmente micidiali fatti di guerre di aggressione, di attentati di massa, di boicottaggi economici, di lotte intestine, di uscite di scena di protagonisti e fondatori; di questo assetto istituzionale si auspica il crollo -possibilmente repentino, possibilmente rivendibile mediaticamente a mònito dei nemici prossimi venturi: visto cosa succede a cacciare gli statunitensi a calci?- a seguito di qualche scontro di piazza.
Le istituzioni economiche e sociali della Repubblica Islamica controllano ma anche garantiscono (ed è questo secondo punto quello che viene volutamente trascurato dalla "libera informazione") una percentuale a due cifre del prodotto interno e coinvolgono nel loro funzionamento milioni di lavoratori.
Durante tutto il 2009 gli scontri di piazza si sono susseguiti senza che il funzionamento globale delle infrastrutture e dell'economia del paese ne risentisse con evidenza perché esportazioni ed importazioni, relazioni internazionali, traffico aereo e tutte le altre attività che contrassegnano una società postmoderna sono andate avanti senza fremiti apprezzabili, per tacere delle attività economiche legate all'artigianato, alla piccola impresa ed alla sussistenza pura e semplice; l'esplodere degli scontri di piazza può indicare sicuramente l'esistenza di un'opposizione politica vitale ed agguerrita ma che non è certo un buon indice per chi volesse predire un regime change; una predizione che alcuni pennaioli peninsulari hanno fatto poco o punto curandosi del sangue che un evento del genere potrebbe costare. In fondo a loro cosa importa; difficilmente sentiranno l'odore dei lacrimogeni dalle loro redazioni milanesi, romane o fiorentine.
Gli scontri di piazza, da soli, non hanno mai provocato nulla del genere ed il minimo sentore di un intervento esterno - un eufemismo per non dire yankee - come quello auspicato dal giornalame più obeso ricompatterebbe all'istante tutte le forze politiche della Repubblica contro l'aggressione.
Alcuni esempi del gazzettismo più affezionato ad una realtà che non esiste hanno a tutt'oggi la spudoratezza di venare le loro produzioni mediatiche di un allucinato nostalgismo pro-Pahlevi.
Il ritratto della società iraniana presentato dal mainstream risulta come minimo scotomizzato, e si limita a presentare in luce favorevole quei settori sociali che i sudditi "occidentali" possano percepire come identici a loro secondo il già citato metro dei comportamenti di consumo.
Un altro aspetto del reale sistematicamente trascurato è dato dagli ottimi rapporti economici che molti paesi "occidentali" hanno con la Repubblica Islamica dell'Iran. L'opinione pubblica dello stato che occupa la penisola italiana vede ogni giorno la Repubblica Islamica bersagliata da invettive isteriche, presagi funesti per definizione e semplificazioni peggio che arbitrarie di dinamiche e di stati di fatto che tutto sono meno che semplificabili.
Il fatto che lo stato che occupa la penisola italiana sia il primo partner commerciale di Tehran all'interno dell'Unione Europea, insieme alla Repubblica Federale Tedesca, non viene mai menzionato; ma la realtà è questa.
Una realtà poco utile a chi deve per contratto demonizzare ogni giorno la Repubblica Islamica, e che si trova costretto a servirsi di altri strumenti.
Green revolution for dummies
di Gianluca Freda - http://blogghete.blog.dada.net - 29 Dicembre 2009
Un lettore che si firma Umberto mi scrive nei commenti:
Sei ancora convinto Gianluca che tutto ciò che sta accadendo nell'antica Persia sia opera della Cia e dei disinformatori reazionari oppure siamo in presenza di un regime che opprime,vieta e nega le libertà individuali e fondamentali delle persone? Non e' forse ora di ammettere che in Iran siamo di fronte ad un regime oscurantista, obsoleto e tirannico che vieta le più elementari libertà individuali?
Non e' forse ora che anche i più convinti assertori della politica sciita si arrendano di fronte all'evidenza dei fatti? Davvero siete convinti che tutta questa sia disinformazione occidentale e non lo specchio di una civiltà oppressiva, reazionaria, assolutista e fondamentalista? Cosa deve succedere per convincervi che in Iran siamo di fronte ad una e vera dittatura fondamentalista, che reprime i più elementari diritti umani? Rispondimi sinceramente ti prego.
Gentile lettore, poiché mi chiedi una risposta sincera, dirò senza peli sulla lingua che darti una risposta è davvero difficile. Non perché la questione sia difficile in sé, ché anzi è fin troppo facile da capire.
Ma perché è un immensa fatica parlare di politica internazionale, sia pure nei suoi più basilari rudimenti, con chi esprime una percezione dei meccanismi di potere che non oserei definire né romanzesca, né fumettistica (esistono romanzi e fumetti di straordinaria complessità, con infinite stratificazioni di significato), ma hollywoodiana, degna di certi blateranti blockbuster americani di propaganda, gonfi di retorica e con Bruce Willis come protagonista.
Dai concetti che trapelano nel tuo post direi che fai parte di quella stragrande maggioranza di cittadini del mondo che sono stati appropriatamente condizionati a non distinguere più la realtà delle cose dalle proprie categorie mentali. Non posso fare nulla per te e non mi permetto di spiegarti nulla: i percorsi di decondizionamento, quand’anche io ne conoscessi le tecniche, non sono pane per i miei denti, e comunque richiedono una forte dose di determinazione individuale.
Considera dunque la risposta che segue rivolta non a te, ma a quella minoranza di persone per le quali il percorso di decondizionamento è già stato completato; o perlomeno è giunto ad uno di quegli stadi intermedi in cui l’impostazione per dicotomie (“buono-cattivo”, “tirannia-democrazia”, “libertà-schiavitù”, “destra-sinistra”, eccetera) riesce ad essere tenuta a bada quel tanto che basta da non trasformare l’universo in una trattoria di quart’ordine che offre ai suoi avventori la scelta fra due sole pietanze, per di più entrambe immaginarie (“il signore preferisce le scaloppine di araba fenice o il brasato di sarchiapone?”).
Orbene, dalla missiva in esame emerge un’analisi della situazione iraniana che mi permetto di riassumere in questo modo: in Iran c’è un governo di malvagi tiranni, che nega le libertà individuali. Dunque il popolo dell’Iran si è ribellato e grazie alla propria eroica lotta riuscirà ad avere ragione dei propri aguzzini. Fine dell’analisi.
Ora, di fronte ad affermazioni di questo tipo, il primo problema è capire da quale pagina iniziare a strappare la sceneggiatura disneyana che nelle menti di molti individui ha preso il posto dell’esame razionale di fatti e circostanze. Cominciamo dai malvagi tiranni, tanto, a questo punto, una pagina vale l’altra.
Per quanto mi sforzi, mi vengono in mente ben poche nazioni al mondo i cui cittadini non parteciperebbero con gioia ad una pubblica impiccagione dei propri governanti. Forse farebbero eccezione giusto la Svizzera, il Lussemburgo e il Principato di Monaco, ma nemmeno su questo metterei la mano sul fuoco.
Anzi, mi vengono in mente pochissimi paesi nel cui organismo sociale non siano presenti, in potenza, le condizioni di furore represso che potrebbero portare da un giorno all’altro alle stesse scene di guerriglia urbana che vediamo oggi nelle città dell’Iran. O nel quale, se tali condizioni non sono presenti, non possano comunque essere create con poco sforzo. E questo non certo da oggi e non certo a causa dell’impazzare della crisi, ma in ogni tempo e in ogni condizione storica.
L’Italia è pronta da tempo per una guerra civile, che è stata accuratamente gestita e fomentata; lo stesso vale per la stragrande maggioranza dei paesi europei; negli Stati Uniti basterebbe una scintilla qualsiasi per dare fuoco alle polveri dell’insicurezza, dell’invidia, del razzismo, dell’antagonismo congenito, della disuguaglianza sociale, della disoccupazione dilagante; eccetera eccetera, trovatemi un paese (un paese di rilievo nello scacchiere geopolitico) che non sia pronto, almeno in teoria, ad assaltare in letizia la propria sede del Parlamento o il proprio palazzo dell’Esecutivo.
Eppure questo accade solo in alcuni paesi e solo in particolari congiunture politiche. Come mai?
La risposta del lettore è: perché in questi paesi i crudeli tiranni rendono la vita così impossibile che la gente s’incazza più che altrove. Questa risposta è terribilmente puerile per almeno due ragioni. La prima è la banale considerazione che le grandi rivoluzioni, nella storia, sono sempre state fatte dalle minoranze con la pancia piena, non dalle maggioranze con la pancia vuota.
I panciavuota rappresentano al massimo la manovalanza, non certo la direzione operativa delle rivoluzioni. Detto in altro modo: solo se un governo garantisce un tenore di vita decoroso e una ragionevole sicurezza per il futuro, una piccola parte dei suoi cittadini, quella sazia e tranquilla, può dedicarsi alla difesa della libertà di pensiero, della libertà di stampa, della libertà di associazione e di altre prerogative che sono deliziose dopo un lauto pasto, ma risultano poco commestibili per chi ha l’impellente necessità di mettere insieme pranzo e cena.
Ne derivano due importanti corollari: il primo è che si abbattono con la forza solo i governi che gesticono la propria nazione con un minimo di decenza, non quelli veramente insostenibili. Nessuno si ribellò alle dragonnades di Luigi XIV o alle deportazioni staliniane, mentre furono i meno spietati Luigi XVI e Nicola II a finire sulla ghigliottina o di fronte a un plotone d’esecuzione improvvisato.
Il secondo corollario è che ogni rivoluzione è sempre gestita da una minoranza più facoltosa contro una maggioranza meno facoltosa che la subisce. Succede anche oggi in Iran, dove è la classe media a scendere in strada con gli stracci verdi per abbattere quello stesso governo che la maggioranza dei contadini e del popolo minuto aveva eletto plebiscitariamente pochi mesi fa.
C’è poi la seconda ragione che rende puerile l’idea della ribellione del popolo ai tiranni: un popolo, da solo, non possiede né i mezzi, né le risorse economiche, né le strategie militari, né i contatti politici, né le prerogative culturali per ribellarsi a un bel niente, né in maggioranza né in minoranza.
Al massimo riesce ad organizzare manzonianamente qualche disordinato assalto ai forni delle Grucce, per poi ritrovarsi senza più farina per l’inverno a venire. Una rivoluzione, per avere una qualche probabilità di successo, ha bisogno di coordinamento.
Servono pianificatori delle operazioni che individuino i bersagli da colpire; servono esperti di propaganda che definiscano un’ideologia e provvedano alla sua diffusione presso il pubblico, stabiliscano le parole d’ordine, individuino i momenti e i luoghi più propizi per dare il via alla rivolta, organizzino eventi-simbolo con cui accendere gli animi delle folle (l’assassinio fasullo di Neda o quello, probabilmente autentico, ma non per questo meno pianificato, del nipote di Mousawi); servono finanziatori che provvedano a fornire le armi e i mezzi di propaganda, a pagare le ricognizioni logistiche preliminari, a “ungere” coloro che devono guardare dall’altra parte e a offrire generose elargizioni a chi deve invece svolgere un ruolo attivo durante le operazioni; servono esperti di psicologia delle folle, assistiti da discrete formazioni militari o paramilitari, che si assicurino di indirizzare gli eventi nella direzione voluta, evitando che la situazione sfugga di mano; infine servono persone con contatti politici e diplomatici di alto livello che mettano a punto la fisionomia della classe politica postrivoluzionaria e ne scelgano i membri, onde scongiurare spiacevoli salti nel buio che non sarebbero graditi a nessuno. A progettare tutti questi interventi provvede un gruppo di persone estremamente ristretto che è più corretto definire “élite” che “minoranza”.
Di fronte a qualunque evento rivoluzionario o simil-rivoluzionario, le prime domande che una persona con i piedi per terra dovrebbe porsi sono: da quale élite è stato progettato e gestito? A quale scopo? Sulla base di quali interessi nazionali e/o internazionali?
Senza chiedersi questo si finisce per concepire la politica e la storia come narrazioni favolistiche, che hanno più a che fare con l’immaginario cinematografico di massa che non con le effettive meccaniche geostrategiche degli interessi in campo. Chiediamoci dunque: quale ristretto gruppo ha progettato e sta attualmente coordinando l’ennesima rivoluzione colorata di questi anni, quella “verde” iraniana?
Il lettore di cui sopra non vuol sentire nominare né la CIA (coacervo di interessi sparsi in cui le mire americane giocano un ruolo di rilievo) né i “disinformatori reazionari” del Mossad (dove prevalgono le prospettive di controllo israeliano sul Medio Oriente).
Okay, lo faccio contento e non li nomino. Però ci dica allora lui, se ne è in grado, quali soggetti sono più interessati (e dunque più sospettabili) di questi a dirigere quello che appare a tutti gli effetti come un colpo di stato volto a sovvertire le istituzioni (democraticamente elette o no, poco importa) della Repubblica Islamica.
I servizi segreti pakistani? Stephanie di Monaco? Il Dalai Lama? Sono aperto ad ogni ipotesi. Basta che non si tirino fuori le “persone” che si ribellano al “regime oscurantista, obsoleto e tirannico”. Per questo Natale ho già accompagnato le bambine al cinema a vedere il film della Disney e la mia razione di principesse e ranocchi me la sono già sorbita, grazie.
Del resto non è per semplice idiosincrasia o paranoia che i nomi di queste due agenzie vengono evocati a proposito della crisi iraniana. Esiste, prima di tutto, una cosa che si chiama “modus operandi”, a cui ogni buon investigatore fa riferimento quando si tratta di ipotizzare le responsabilità di un crimine.
La rivoluzione iraniana somiglia a molte altre “rivoluzioni” già viste in passato per i simboli che utilizza (il colore), per le modalità con cui ha preso avvio (la contestazione di brogli inesistenti, la proclamazione preventiva della vittoria dello sfidante fatta prima degli exit poll allo scopo di invalidare il risultato dello spoglio), per l’escalation di tensione generato attraverso omicidi “mirati” e opportunamente propagandati (quello finto di Neda, con un noto contatto dell’intelligence occidentale, Arash Hejazi, che nel video rovescia in faccia alla ragazza la fialetta di liquido rosso; quello più recente del nipote di Mousawi), per l’utilizzo di social network come Twitter e Facebook a scopo di mobilitazione della massa, per le tattiche di guerriglia utilizzate nelle strade, sempre uguali in ogni paese in cui vi sia da rovesciare un “tiranno”, dall’Europa al Medio Oriente.
Di fronte a modalità operative così simili, ipotizzare l’esistenza di una stessa regia dietro i disordini non è semplicemente il vezzo di chi ama accusare dei mali del mondo sempre lo stesso babau: è invece una possibile conclusione logica a cui puntano mille differenti indizi e che solo uno sciocco accecato dall’ideologia rifiuterebbe di prendere in considerazione.
Inoltre, cerchiamo di stare ai fatti e di non farci distrarre dai nostri aneliti ad un mondo perfetto di pace e giustizia: abbiamo un paese che sta sfidando l’intera comunità dei dominanti di questa fase storica per dotarsi di tecnologia nucleare da sfruttare in campo energetico e militare; un paese ricco di petrolio, che ha già attivato una borsa internazionale in cui l’oro nero può essere scambiato in valute diverse dal dollaro; un paese con un’influenza militare e territoriale sulla regione che è cresciuta a dismisura dopo l’invasione americana dell’Iraq, dove gli sciiti filo-iraniani tengono in pugno molte zone cruciali del sud; un paese che aspira ad entrare nello SCO, che ha iniziato a intrattenere rapporti sempre più stretti con grandi potenze emergenti come Cina e Russia, che da esse acquista tecnologia militare all’avanguardia e con esse stringe accordi commerciali ed energetici privilegiati.
In sostanza, l’Iran è un paese che sta dirigendosi a tutta velocità verso lo status di grande potenza indipendente sul piano economico, militare, commerciale, politico, diplomatico, minacciando i visibilissimi piani di predominio israelo-americani sulla regione.
Usiamo il rasoio di Occam: è più probabile che ad aver progettato la caduta del governo di Ahmadinejad siano i grandi interessi geostrategici dei paesi dominanti – che non sono certo nuovi a questo tipo di operazioni e possiedono le risorse e il know how per portarle a termine – minacciati dalla crescita senza freni dell’Iran, oppure un pugno di scalmanati vestiti di verde, che non sembrano in grado di approntare strategie politiche diverse dall’intonazione di slogan e dall’incendio di autoveicoli in sosta?
E’ legittimo porsi questa domanda e cercare di darsi una risposta? O siamo condannati a ragionare in eterno in termini grezzamente e videocraticamente moralistici, dove “libertà” e “oppressione” sono le due uniche categorie di riflessione che ci è consentito utilizzare?
Del resto non c’è bisogno di andare tanto lontano per avere una risposta, se lo stesso Tariq Ali, storico e scrittore che non simpatizza certo per l’establishment iraniano, afferma in un’intervista ( http://www.repubblica.it/2009/11/sezioni/esteri/iran-9/intervista-tariq-ali/intervista-tariq-ali.html ) su Repubblica di ieri: “La Cina e la Russia, che hanno contratti importanti con l'Iran, non si taglieranno da sé la gola sotto il profilo economico. La speranza in Occidente è che il regime venga scalzato dall'interno, che si possa trattare con un nuovo governo”.
Mi limiterei ad aggiungere che l’Occidente non si è mai limitato a osservare le questioni politiche interne di altri paesi e a sperare che si evolvessero nella direzione desiderata; ha invece sempre contribuito attivamente, attraverso i propri corpi militari e d’intelligence, a rendere concreti i propri desideri con ben note tecniche d’ingerenza negli affari interni e con procedure di regime change progettate all’uopo.
C’è un’altra allusione che trapela dal post: quella che chiunque non simpatizzi per i rivoltosi iraniani sia, per definizione, un simpatizzante e sostenitore del regime di Ahmadinejad, anzi di Ahmadinejad stesso, visto che scindere il ragionamento politico da sentimenti personali come simpatia, antipatia, odio, amore, è qualcosa che la banalizzazione giornalistica che ha ridotto in melassa il cervello di nove decimi dell’umanità non contempla e non riesce neppure a concepire.
Tutto viene ridotto alla schematizzazione puerile “amore-odio”, “bello-brutto”, “democrazia-tirannia”, e via riducendo a binomio la complessità dell’universo, proprio come Orwell aveva profetizzato quando descriveva gli effetti devastanti del Newspeak. Più spesso l’accusa è quella di essere disposti ad appoggiare regimi autoritari e brutali sulla base di un antiamericanismo ideologico che preclude ogni contatto con la realtà.
Io non ho certo problemi ad ammettere ed anzi a proclamare il mio antiamericanismo, come del resto faccio spesso. Dico solo che non è ideologico, ma parte proprio dall’analisi di quella stessa realtà che chi muove queste critiche rifiuta di prendere in considerazione.
L’Iran è un esempio perfetto e può servire da modello per illustrare quella che è stata la parabola discendente di ogni nazione che si sia svenduta, per grulleria o per forza maggiore, al potere coloniale della potenza unica che ha preso le redini del mondo negli ultimi vent’anni.
L’Iran è oggi un paese in ascesa. Ha un’economia in forte sviluppo, un apparato militare in grado di garantirgli la dovuta protezione, buoni rapporti diplomatici e commerciali con le potenze orientali, un sistema d’istruzione di alto livello, una posizione territoriale invidiabile che promette di consolidarsi nel futuro, possiede risorse energetiche che possono garantirgli la ricchezza.
Ha una classe politica che sarà anche corrotta e “oscurantista” (qui bisognerebbe capire quale classe politica non lo è), ma che eventualmente lo è in proprio, non per imposizione di manovratori esterni che dettano direttive e politiche nazionali in nome di interessi contrastanti con quelli della nazione.
I manifestanti che vediamo in questi giorni scatenare la violenza nelle strade iraniane rappresentano una miserabile minoranza della popolazione che – consapevolmente o no, poco importa - vorrebbe svendere a una potenza straniera e nemica questa invidiabile posizione geostrategica del paese per averne in cambio le fumose chimere consumistiche martellate nelle loro teste dagli stessi strumenti di propaganda che hanno ridotto un paese un tempo ricco come l’Italia a dibattersi nella melma schiavile in cui oggi la vediamo affondare.
Non c’è un solo paese che, caduto dopo il 1989 nelle grinfie coloniali dell’unica superpotenza rimasta, non sia diventato l’ombra di se stesso. Ne sanno qualcosa i paesi dell’est, molti dei quali rimpiangono ormai apertamente il defunto sistema sovietico.
Lo sanno ancor meglio paesi come la Georgia o l’Ucraina, che hanno incautamente e giovanilmente appoggiato le loro rivoluzioni colorate per trovarsi oggi a combattere – e ad essere repressi con straordinaria efficacia – contro gli stessi governanti a favore dei quali avevano a suo tempo sventolato le bandierine arcobaleno.
Pertanto, l’essere contrario o favorevole al governo iraniano, contrario o favorevole al popolo vociante, è un problema che non mi pongo nemmeno. Quello che voglio è agevolare, in ogni modo possibile, il declino ormai avanzato del sistema monocentrico che ha caratterizzato nell’ultimo ventennio le dinamiche geopolitiche.
E’ più che evidente che ciò che si prospetta all’orizzonte è una fase policentrica, in cui i vecchi equilibri del potere globale saranno scossi dall’ingresso nell’agone politico-economico di nuovi soggetti di rilievo.
La Cina, la Russia, l’India, forse lo stesso Iran, potrebbero dare il colpo di grazia a questa tirannia monocratica della quale anche il nostro paese – forse più ancora di altri – è rimasto vittima.
E non si esce di certo da questo pantano strillando slogan in piazza, incendiando automobili o invocando gli spiriti delle “libertà democratiche” sulle quali intere generazioni di giovani si sono fottuti il cervello a vantaggio dei produttori di queste “libertà”, i quali sono stati ben lieti di fornirgliele nella loro versione fornita di copyright, in confezione regalo, tutto compreso, prendere o lasciare.
Se ne può forse uscire agendo d’astuzia: evitando di farsi infinocchiare ancora dalle vecchie parole d’ordine, appoggiando tutto ciò che può contribuire a demolire – sebbene a volte con modalità dolorose – le sbarre arrugginite del vecchio carcere coloniale e, soprattutto, preparandosi a sferrare il colpo di grazia quando i tempi saranno maturi e i carcerieri disarmati e allo sbando.
Pessoa diceva che la tirannia consiste nel costringere le persone a scegliere tra due mali, ad esempio tacere o essere arrestati. In questo senso, possiamo vedere la tirannia in tutto ciò che caratterizza lo scenario politico contemporaneo.
Lo vediamo anche nel dibattito sulla situazione iraniana, che ci costringe a decidere se preferiamo una repressione sanguinosa da parte di un governo teocratico o il loop senza fine di una modalità di annientamento delle nazioni che abbiamo già visto ripetersi in innumerevoli occasioni nel corso dell’ultimo secolo.
Ognuno scelga il suo male minore. Per me il male minore è quello che può portare, col tempo, all’affermazione di un bene; e il bene è per me sinonimo di cambiamento, e non si perviene ad esso sclerotizzandosi sulle decrepite categorie morali di un panorama storico in via di rapida dissoluzione.
In questo senso non ho problemi a dire che auspico una sopravvivenza, e anzi un rafforzamento, dell’attuale establishment politico iraniano, il quale possiede – e lo ha dimostrato – alcune delle doti di determinazione necessarie a condurci fuori da questo deserto.
Che poi tale fuoriuscita avvenga o no all’insegna dell’assolutismo e del fondamentalismo, chiedo scusa, ma mi pare assolutamente e fondamentalisticamente privo di rilievo.
Il giorno di Natale tre palestinesi della Striscia di Gaza che cercavano rottami di ferro nei pressi del Muro che Israele ha eretto per tenerli prigionieri sono stati trucidati a colpi di mitraglia dai soldati. Erano in zona "interdetta". Questa è la parola usata dai massmedia occidentali per spiegare la loro uccisione.
Che fossero disarmati ed inermi non conta niente. Nello stesso giorno di Natale, in Cisgiordania, altri tre palestinesi sono stati uccisi dentro le loro case sotto gli occhi dei loro figli. La "velina" diramata dall'ufficio propaganda dell'esercito israeliano racconta che erano membri del partito AlFatah.
A quanto pare è una condizione sufficiente per essere ammazzati. Le agenzie non raccontano se i cadaveri dei sei palestinesi siano rimasti in loco e restituiti alle loro famiglie. Potrebbe anche succedere che i loro organi vengano espiantati per facoltosi israeliani che ne hanno bisogno.
Come i tedeschi di Hitler non sciupavano proprio niente dei cadaveri degli ebrei facendone financo sapone anche i corpi dei palestinesi sono stati usati (per quanto si è riusciti a sapere)come pezzi di ricambio. Non sappiamo se questa pratica è ancora in vigore.
Intanto, con la fattiva collaborazione di Obama che sembra particolarmente scodinzolante ed accondiscente con la lobby sionista che lo controlla, l'Egitto sta costruendo un muro di acciaio profondo trenta metri e lungo dieci chilometri, in gran parte sotterraneo, tra il proprio territorio e la striscia di Gaza, per impedire che il milione e mezzo di palestinesi che vi vivono prigionieri, puniti perchè a suo tempo hanno votato per Hamas, non possano più scavare cunicoli per procurarsi il cibo l'acqua e le medicine di cui hanno bisogno.
Molti di loro sono morti asfissiati dai gas sparsi dagli egiziani e dagli israeliani. Oggi un pulmann di testimoni di Pace è stato bloccato e sequestrato. E' vietato visitare i prigionieri. Gaza come Guantanamo.
Questa vergogna per l'umanità costituita dalla condizione dei palestinesi nei territori occupati da Israele non conta quasi niente per il sistema massmediatico occidentale.
Invece, oggi, tutti i giornali sono pieni da pagine e pagine di articoli con titoli "strillati" che si riferiscono alle grandi proteste per la libertà e la democrazia di Teheran e si domandano per quanto tempo ancora l'Occidente dovrà tollerare (Venturini) un Iran che non obbedisce alle ingiunzioni, che vorrebbe dotarsi di una bomba nucleare, che ha un Presidente la cui elezione è stata una truffa.
La pressione psicologica e politica sull'Iran dura da molto tempo e si sta intensificando. Gli americani hanno bisogno di nuovi teatri di guerra dopo l'Iraq e l'Afghanistan. Ora si dedicano a parte del Pakistan ed allo Jemen.
L'invasione dello Jemen ci è stata preannunziata quando abbiamo letto o sentito che il giovane terrorista dell'aereo su Detroit aveva "subito,subito" dichiarato di appartenere ad AlQaeda e di essere stato addestrato in Jemen.
Dal momento che i generali del Pentagono ci considerano imbecilli erano facile dedurre che si voleva attrarre la nostra attenzione sulle attività terroristiche dello Jemen. Stamane abbiamo sentito che da un anno la Cia è presente in loco e che i preparativi per l'invasione sono a buon punto.
I programmi per l'Iran sono per ora affidati all'opera di destabilizzazione della rivoluzione "verde" colorata secondo il manuale di Gene Harp.
Due autorevoli e stagionati membri dell'estambliscement clericale espressione di ceti medio alti, grandi proprietari terrieri, miliardari come Musavi e Rafsaniani, con la parola d'ordine "a morte il dittatore", guidano una rivolta che sono riusciti a fare diventare endemica negli ultimi sei mesi.
I rivoltosi vengono visti da tutta la stampa occidentale come martiri della libertà e della democrazia negata dal Presidente Ahmanedinjed considerato un usurpatore che deve essere scalzato e appunto messo a morte secondo il loro grido di guerra.
L'obiettivo, sostenuto dagli americani apertamente per ammissione della Clinton, è portare al governo "i riformisti" cioè gente dello stesso stampo di Karzay e di Al Maliki. Una sorta di Quisling, collaborazionisti in funzione di ascari e di sostenitori degli interessi economici e geostrategici degli USA e dei loro alleati.
Se la protesta dei riformisti di teheran non diventa guerra civile capace di scalzare dal potere gli attuali governanti, l'Occidente è sempre pronto a fare la sua guerra di aggressione. Certo, non è facile, ma sono anni che Israele si prepara con manovre della sua flotta che ora è dislocata proprio nei mari antistanti l'Iran.
Molti intellettuali della sinistra europea sostengono i riformisti iraniani. Decontestualizzano la questione dallo scacchiere internazionale e sostengono che non si può spiegare tutto con la geostrategia ma bisogna considerare anche la lotta di classe. Parlano di lotta per i diritti. In sostanza si dice che non si può sostenere un regime come quello di Ahmanedinjed solo perchè è nemico degli USA.
Argomento fragile dal momento che nella geostrategia mondiale si esprimono gli interessi primari della lotta di classe tra imperialismo e colonialismo ed in secondo luogo perchè i cosidetti riformisti sono portatori di interessi, valori, istanze che sono della borghesia miliardaria e medio alta ansiosa di partecipare al buffet dei grandi consumi e di scrollarsi di dosso il grigiore di un regime che dà ai lavoratori ed ai contadini diritti che vengono negati anche nella "libera" America di Obama. Non c'è dubbio che il sistema sanitario iraniano sia migliore e di gran lunga più democratico di quello americano.
Può darsi che la rivoluzione verde in Iran alla lunga abbia successo come le sue consorelle che si succedono come per fotocopiatrice dal 2000. In dieci anni abbiamo avuto tante rivoluzioni per la libertà e contro la tirannide in Serbia, Giorgia, Bielorussia, Kirghistizan, Ucraina, in Libano, Mongolia... Tutte, come si vede, in cruciali zone di forte interesse per l'espansionistico mondiale degli Usa.
Naturalmente, in paesi come la Colombia dove si uccidono ventimila cittadini all'anno perchè sospettati di essere oppositori del regime e nell'Egitto del ferocissimo dittatore Mubarak, non ci sono problemi di rispetto della libertà e della democrazia. Non sono necessarie rivoluzioni "colorate" amenochè non cambi il loro governo.
Ricordo infine che è dal 1920 che gli anglosassoni stanno addosso all'Iran condannandolo alla sofferenza di crudeltà inaudite. Winston Churchill faceva irrorare i loro villaggi di gas iprite.
Il loro primo Ministro, il grande, democratico liberal Mossadeq colpevole di avere nazionalizzato l'industria petrolifera sottraendola alle sette sorelle fu rapito dalla Cia ed ucciso. Al suo posto fu installato un mostro sanguinario come lo Scià.
L'attuale regime deve cadere perchè gli americani non tollerano che il petrolio dia risorse per una civiltà diversa dalla loro. la millenaria cultura dell'Iran, erede della grande Persia, deve essere cancellata come è stata cancellata quella mesopotamica.
Al centro di Bagdad oggi troneggia una base militare USA ed una ambasciata che è grande quanto una citta di trentamila persone. Domani la bandiera a stelle e strisce sventolerà su Teheran ed i giovani che oggi gridano la loro voglia di democrazia e libertà avranno le discoteche con la musica americana dell'ultima generazione,
L'Iran si afferma nelle simulazioni segrete di operazioni di guerra
di James Hider - www.timesonline.co.uk - 23 Dicembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Francesca
Durante le simulazioni, il primo ministro israeliano Binyamin Netanyahu è stato "lasciato nei guai" da un'amministrazione Obama concentrata invece sulla dipolomazia.
L'Iran è risultato il vincitore nelle operazioni di guerra segrete che simulavano un attacco israeliano alle sue centrali nucleari.
In questo scenario, l'amministrazione Obama ha deciso di perseguire un approccio diplomatico con Teheran, lasciando nei guai il più stretto alleato militare dell'America nella regione.
L'esercitazione, organizzata dal Tel Aviv University’s Institute for National Security Studies il mese scorso, ha dimostrato che nemmeno un raid di un commando israeliano sul più grande stabilimento iraniano di produzione d'acqua pesante [ndt- acqua utilizzata nei reattori nucleari per convertire l'uranio in plutonio] ad Arak porterebbe gli USA ad un conflitto militare con l'Iran.
"La nostra influenza sugli Americani, sulla possibilità di allontanarli dagli Iraniani, dagli Europei e dagli altri, è risultata molto limitata", ha affermato Giora Eiland, un ex consulente della sicurezza nazionale israeliana che ha ricoperto il ruolo del primo ministro, Binyamin Netanyahu, nella simulazione.
"Più o meno l'unica carta che avevamo da giocare era quella dell'azione militare. Ed era una carta fallimentare."
"Gli Iraniani hanno cominciato a sentirsi meglio degli Americani perchè sono stati semplicemente più determinati nel perseguire i propri obiettivi", ha aggiunto Mr Eiland.
Mr Netanyahu aveva già capito che le sue relazioni con la Casa Bianca sono tese, ingorando le richieste degli USA di bloccare l'insediamento di nuove strutture in Cisgiordania, prima di acconsentire con riluttanza ad una interruzione temporanea che non include Gerusalemme Est.
Le simulazioni di guerra hanno dimostrato che il suo appoggio a Washington continuerebbe a diminuire, se non si mettesse in riga sull'Iran, che Mr Netanyahu considera come la principale minaccia per lo stato ebraico, dopo che il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha dichiarato che dovrebbe "essere cancellato dalla cartina geografica".
Mr Eiland - “Netanyahu” è riuscito ad avere soltanto brevi e inconcluedenti incontri preliminari con il presidente degli USA, interpretato da un ex diplomatico israeliano.
Gli analisti della sicurezza in Israele e in America hanno messo in guardia riguardo alla possibilità di un costo molto elevato da pagare se Israele attaccasse l'Iran e sostenesse che un tale attacco potrebbe cancellarre del tutto, piuttoso che attenuare, il programma nucleare iraniano.
Il costo sarebbe elevato non solo per Israele, le cui città sono nel raggio dei missili iraniani, e che potrebbe facilmente essere colpita dai militanti di Hezbollah e Hamas presenti in Libano e a Gaza, ma anche per gli Stati Uniti. Gli analisti prospettano che l'Iran scenderebbe in campo per supportare i militanti anti-americani nel Golfo, come ha fatto con le milizie che combattevano contro le forze statunitensi in Iraq e in Afghanistan.
Le simulazioni hanno inoltre dimostrato che, mentre Israele zoppicherebbe sia dal punto di vista diplomatico che da quello militare, l'Iran continuerebbe molto probabilmente ad arricchire l'uranio.
Ieri Mr Ahmadinejad ha ignorato la scadenza di fine anno posta da Washington a Tehran per accettare le condizioni proposte dalle Nazioni Unite per sostituire l'uranio arricchito con il materiale fissile [ndt. materiale in grado di sviluppare una reazione di fissione nucleare].
Aharon Zeevi-Farkash, un ex ufficiale dell'intelligence militare che nelle simulazioni rivestiva il ruolo della guida suprema dell'Iran, l' Ayatollah Ali Khamenei, ha affermato che Tehran non sarà ostacolato nella corsa all'acquisizione di armi nucleari a meno che il suo regime non verrà minacciato fino al collasso.
Egli ritiene che gli americani hanno bisogno di rivedere la loro linea diplomatica verso lo schieramento navale nel golfo o di persuadere l'India, chiave del commercio iraniano, ad allentare i suoi legami con Tehran.
Mr Eiland ha affermato che l'obiettivo a lungo termine degli USA sarà probabilmente il contenimento dell'Iran nel caso dovesse ottenere lo status di potenza nucleare e che Israele non ha altra scelta che seguire il suo principale alleato.
"Israele non può agire da sola qui. Un accordo tra l'America e l'Iran priverebbe Israele della possibilità di attaccare l'Iran", ha dichiarato.