Color Viola Costituzione
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 6 Dicembre 2009
Un milione di persone? Cinquecentomila? Sono tante. Tantissime. Ancor di più se si considera che arrivano spontaneamente, con un passa parola degno dei nostri tempi, su Internet.
Sono i social-network, i blog e i siti internet a fornire e a gestire l’idea di un raduno di popolo.
In un’Italia sommersa dall’informazione di regime, dove il controllo totale del Presidente del Consiglio sui mass-media si avverte in tutta la sua virulenza, la comunicazione dal basso, quella piena di entusiasmo e povera di risorse, per un giorno ribalta il mercato della circolazione delle idee.
Ad organizzare questo pezzo di popolo non ci sono partiti, sindacati, gli specialisti dell’organizzazione, coloro insomma in qualche modo deputati a convocare. Nella chiarezza che la forza di questo governo risiede innanzitutto nella debolezza cronica dell’opposizione ufficiale, qualcuno si è rimboccato le maniche, come in un’emergenza nazionale. Sono arrivati a Roma con treni, pullman, aerei e navi, macchine e moto: tutto quello che trasporta andava bene per esserci.
L’opposizione di oggi si autoconvoca, si autodisciplina, si dà un colore e un tono, un obiettivo massimo di gran lunga simile a quello minimo: dire forte e chiaro che di questo governo non ne possono più.
Non propone campagne, non chiede riforme, non vuole scambi, non ammette inciuci. Ha nella Costituzione della Repubblica il suo riferimento valoriale, il suo programma politico; ha in coloro che la calpestano o che la ignorano i suoi avversari.
Le facce. Sono facce normali e straordinariamente serene quelle di chi marcia. Una manifestazione di popolo autentica, fatta da chi è comunista, da chi un tempo lo é stato e da chi non lo è mai stato, da chi è democratico e da chi non si è mai nemmeno autodefinito. Ma la domanda di tutti è una e una sola: dov’è finita la sinistra?
A manifestare ci sono, certo, la Federazione della Sinistra e l’Italia dei Valori. Ci sono perché vogliono e perché devono, se in qualche modo aspirano a rappresentare quanti, anche senza di loro, sarebbero stati in piazza lo stesso. Non c’è invece, tanto per cambiare, il Partito Democratico: e questo, invece, merita una riflessione.
Se un milione di persone si mobilitano contro il governo senza - anzi nonostante - il principale partito d’opposizione (così almeno si autodefinisce il PD) non è perché non avvertano la necessità di saldare l’opposizione di piazza e quella parlamentare.
Quel milione di persone che ieri manifestava a Roma, non voleva né cercava una distanza programmatica dal PD; è il PD che invece ha deciso che a quella manifestazione non si doveva partecipare, é il PD che ha stabilito, unilateralmente, una distanza da quella piazza.
Perché? Perché Bersani ed il suo gruppo dirigente ha ritenuto di restarne fuori? Eppure in buona sostanza quel milione di persone rappresentano una parte importante del blocco sociale di opposizione culturale e politica a Berlusconi ed al berlusconismo.
Rifiutarsi di aderire balbettando poco credibili distinguo tra il promuovere e l’aderire, poi dividersi al suo interno tra chi va e chi non va, per poi ritrovarsi schiacciati tra un governo e la sua opposizione, ugualmente indifferenti alla sua presenza o alla sua assenza, rappresenta infatti, per l’ennesima volta, la raffigurazione di un’armata Brancaleone che procede in ordine sparso, di un partito che, così, non serve a niente ed a nessuno. Peraltro, succede che molti dei suoi militanti ed elettori in piazza ci siano, cosicché gli errori di valutazione si sommano.
C’è nei vertici del PD un errore di valutazione figlio di una cultura profondamente sbagliata nell’interpretare lo scenario politico del Paese. Se si ritiene - come vuole Violante - che Berlusconi debba difendersi non solo nei processi ma dai processi e che la politica debba normalizzare il conflitto tra la giustizia e il potere e, nello stesso tempo, si pensa che scendere in piazza contro il governo non sia una strada perseguibile, come si crede possa cadere Berlusconi? Sostiene, il PD, che Berlusconi non cade con la piazza.
Una perla di saggezza, un pensiero acuto. Come se qualcuno avesse pensato che Berlusconi possa dimettersi se non obbligato. per dimettersi bisogna avere una cultura delle istituzioni, un senso del dovere, tutte qualità che Berlusconi non possiede. Ma se invece non andiamo in piazza si dimette?
Sembra di capire che il PD ritenga lo scenario del golpe di Palazzo l’unica strada percorribile. Che sia cioè l’alleanza tra Fini, Casini, Montezemolo e il raggiungimento del livello di non ritorno nei rapporti all’interno del PDL - come nel ’94 con la rottura tra il Cavaliere e Bossi - l’unico cammino percorribile per la crisi di governo e l’uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi.
Allora, a proposito di velleitarismo, sappiano i vertici del PD che Berlusconi non cadrà forse per le manifestazioni di piazza, ma nemmeno per Fini, Casini e Montezemolo, che sono fortissimi nei salotti e piccoli nelle urne.
L'opposizione fa bene ad ascoltare ogni spiffero nella porta del governo, a tendere le orecchie per leggerne le contraddizioni interne. Ma basta questo? Un'opposizione che non dialoga con il blocco sociale e culturale che vorrebbe rappresentare si candida all'autoreferenzialità politica.
Un'opposizione che non sa presidiare i luoghi per eccellenza della democrazia, si candida ad un ruolo subalterno e tutto centrato sul tecnicismo parlamentare; tecnicismo inutile, poi, visti i numeri alla Camera e al Senato.
Il Parlamento e la piazza sono due momenti inscindibili l'uno dall'altro e non saremo certo noi a negare la centralità delle Istituzioni. Ma senza la piazza c’é il silenzio, il bisbigliare delle manovrine da cortile. Con la piazza si manda un messaggio preciso e potente ai disegni autoritari, molto diverso dal messaggio che si lancerebbe chiudendoci in casa.
L’opposizione vera di questo paese, quella che non compone origami e si ciba di complotti prendendo schiaffi in Italia e in Europa, che non riduce la politica ad un coacervo di lotte intestine e di giochini di società, quella cioè che chiede un altro destino per questo martoriato, pur non incolpevole Paese, sceglie la piazza.
Chi pensasse di essere assente oggi nelle piazze ed essere presente domani nelle urne, compierebbe un errore madornale. Gemello di quello che ha dato vita ad un partito che non c'é.
La guerra alla mafia e il marketing politico nel giorno dell'Onda Viola
di Pietro Orsatti - www.antimafiaduemila.com - 5 Dicembre 2009
Arrestati contemporaneamente due latitanti di rango di Cosa Nostra, a Palermo Gianni Nicchi e a Milano Gaetano Fidanzati. Sulle tracce di Nicchi, sfuggito alla cattura dopo l’operazione Gotha di tre anni fa, c’era da più di un anno la squadra Catturandi della polizia del capoluogo siciliano, mentre Fidanzati, che era ricercato da solo un anno anche se la sua “potenzialità” di uomo d’onore era conosciuta fin dagli anni ‘70, è stato tratto in arresto dalla squadra mobile di Milano.
Un ottimo risultato da aggiungere alla recente cattura dell’emergente boss di Altofonte Domenico Raccuglia. E soprattutto per quel gruppo di élite della Catturandi di Palermo, che dopo la cattura di Bernardo Provenzano più di tre anni fa era stata tenuta, in maniera incomprensibile, “fuori dal giro”, in secondo piano, affidando la maggior parte delle indagini sui latitanti a uffici diversi.
Un grande successo, quindi.
Ma c’è un aspetto in queste due operazioni che lascia perplessi. I tempi. Coincidenti con le accuse in aula a Dell’Utri e Berlusconi da parte del pentito Gaspare Spatuzza e con lo svolgersi della manifestazione No B Day.
Un aspetto che avremmo volentieri tralasciato se il premier Silvio Berlusconi non si fosse affrettato a rilasciare questa dichiarazione: «Credo sia una notizia che fa piacere a tutti gli italiani nel buon senso dei quali e nella loro capacità di giudizio non ho mai dubitato».
E fa bene, il premier, a non dubitare nella nostra capacità di giudizio: le coincidenze strane le vediamo ancora.
Spatuzza: troppe aspettative, ma il pentito conferma le accuse
di Monica Centifante e Lorenzo Baldo - www.antimafiadumeila.com - 4 Dicembre 2009
Tanta pressione e un'aspettativa eccessiva. Di sicuro controproducente. Anche il procuratore generale Antonino Gatto, poco prima dell'udienza, lo aveva dichiarato: “Si sta enfatizzando una cosa certamente importante, ma che non ha il rilievo eccezionale che le è stato dato e tutto questo toglie serenità”.
Nella maxi-aula1 del Palazzo di Giustizia Bruno Caccia erano stipati oggi circa duecento giornalisti, provenienti da tutta Europa, e molti curiosi. Gente comune che ha rinunciato a un giorno di lavoro per ascoltare il super-pentito, come per giorni è stato presentato da tutta la stampa e nel dibattito politico e mediatico.
E che in molti avrà fatto maturare l'idea che Spatuzza, se non addirittura l'unico, fosse comunque il più importante tra i collaboratori di giustizia ascoltati al processo Dell'Utri. Quello in cui il senatore del Pdl, in primo grado, è stato condannato a nove anni di reclusione e con una mole di prove talmente imponente che l'accusa, “per crisi di abbondanza”, nel corso della requisitoria non ha potuto presentarle tutte.
Quello in cui le deposizioni di numerosi pentiti e i relativi riscontri hanno dimostrato il ruolo di mediatore di Marcello Dell'Utri tra l'imprenditore prima e politico poi Silvio Berlusconi e diversi soggetti appartenenti al vertice della mafia siciliana. E la continuità dei rapporti tra il senatore e Cosa Nostra, in contatto per oltre 35 anni.
Le dichiarazioni di Spatuzza, è chiaro, rappresentano una prova in più (e non solo in questo processo). E non sorprende che la difesa, in apertura dell'udienza, questa mattina, abbia tentato invano la carta della revoca dell'interrogatorio con la motivazione che “l'inondazione di carte provenienti da Firenze rischiano di trasformare la natura del processo: non più un appello, ma un nuovo primo grado”.
E che poi, quando il tentativo è caduto nel vuoto, non abbia perso occasione per accentuare la tensione già presente in aula, soprattutto all'arrivo del collaboratore di giustizia, scortato e incappucciato mentre dalle forze dell'ordine veniva accompagnato dietro al paravento allestito davanti al tavolo dei giudici.
Nel corso dell'esame e del controesame il collaboratore di giustizia ha però confermato, passo dopo passo, quanto dichiarato in precedenza ai magistrati e riportato nei verbali depositati a processo. Il suo rapporto di “fratellanza” con la famiglia “di sangue” dei fratelli Graviano, la sua partecipazione alle stragi e il suo percorso di vera e propria “conversione”, che è poi sfociato nella collaborazione con la giustizia. Nonché l'iniziale timore di fare i nomi di Berlusconi e Dell'Utri.
“Dagli anni Ottanta fino al 2000 – ha esordito Spatuzza – ho fatto parte di un'associazione terrostico-mafiosa denominata Cosa Nostra”. “Terroristica perché, per quello che mi consta personalmente, dopo gli attentati di Capaci e via D'Amelio ci siamo spinti un po' oltre. Abbiamo commesso stragi che non ci appartengono”.
Quelle di Milano, Roma e Firenze (presente in aula anche Giovanna Maggiani Chell, madre di Francesca, ferita gravemente nella strage dei Georgofili e fidanzata di Dario Capolicchio, morto nella stessa strage). Il senso di quegli attentati, l'ex boss di Brancaccio lo avrebbe capito più tardi, quando tra il '93 e il '94 si incontrò in due particolari occasioni con il boss Giuseppe Graviano. Prima a Campofelice di Roccella e poi al bar Doney di via Veneto, a Roma.
Nella prima occasione, in compagnia di Cosimo Lo Nigro, chiese al boss il perché di quei morti che non erano strettamente legati agli interessi di Cosa Nostra, sentendosi rispondere: “E' bene che ci portiamo un po' di morti dietro così chi si deve muovere si dà una mossa”. Poi, continua il pentito, “Giuseppe Graviano ci chiede a me e a Lo Nigro se capivamo qualcosa di politica. Noi diciamo di no e lui ci spiega che è abbastanza preparato e che se andrà a buon fine ne avremo tutti benefici compresi i carcerati”.
Subito dopo sarebbe iniziata la fase di preparazione dell'attentato all'Olimpico (fallito per un guasto al telecomando della bomba). “Un attentato contro i Carabinieri che doveva essere di portata devastante”, continua Spatuzza, prima di raccontare il secondo degli incontri con Giuseppe Graviano avvenuto appunto al bar Doney di Roma. In quell'occasione, ricorda, “Graviano aveva un atteggiamento gioioso, potrei dire come uno che ha vinto l'Enalotto”.
Il boss lo invita ad entrare nel bar. “Ci siamo seduti ai tavolini e abbiamo consumato qualche cosa e lui, sempre con quell'espressione gioiosa, mi disse: Abbiamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo, grazie alla serietà di quelle persone che avevano portato avanti questa cosa”. E “che non erano come quattro crasti (cornuti ndr.) dei socialisti. Poi mi fece i nomi di Berlusconi e del nostro compaesano Dell'Utri e dice che ci eravamo messi il paese nelle mani”.
Un incontro che già di per sé, prosegue Spatuzza, “rappresentava un'anomalia”. Poiché era la prima volta che “Graviano entrava direttamente nella preparazione di un attentato, tanto che da lui dovevamo aspettare le disposizioni finali”. “Non so cosa stesse aspettando, quali risposte, ma è chiaro che era un'anomalia”.
A una trattativa in corso Spatuzza aveva pensato anche nel luglio del '93, quando lo stesso Graviano gli chiese di imbucare cinque lettere, la sera prima dell'attentato a San Giovanni in Laterano. Lettere dirette a testate giornalistiche: tra le altre “Il Messaggero e il Corriere della Sera”, ricorda il pentito e anche questa, sottolinea era “per me era un po' un'anomalia dalla quale capisco che c'era qualcosa che si stava muovendo a livello politico”. “Le lettere provenivano da Giuseppe Graviano, ma mi sono state consegnate da Fifetto Cannella”.Che in quel periodo del Graviano curava la latitanza.
Nel 2004 poi, prosegue Spatuzza incalzato al pg Gatto, quando “mi ero un po' dissociato da Cosa Nostra”, durante un periodo di detenzione comune insieme al boss Filippo Graviano, “parlo con lui della dissociazione e Filippo mi spiega che non è un discorso che ci interessa, non ci interessa la dissociazione dai magistrati perché noi dobbiamo arrivare alla politica”.
In quello stesso anno, dopo un colloquio investigativo con il dottor Pier Luigi Vigna, Graviano “mi disse ancora: è bene far sapere a mio fratello Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare dobbiamo iniziare a parlare con i magistrati”. “La cosa io la collego al discorso del bar Doney”.
Al termine dell'udienza, alla quale era presente anche l'imputato Dell'Utri, la Corte ha deliberato che il prossimo 11 dicembre saranno sentiti in videoconferenza i fratelli Graviano e Cosimo Lo Nigro.
E mentre in aula la difesa si dice sicura che le dichiarazioni del pentito non saranno riscontrabili, gli attacchi politici proseguono senza sosta. Allargandosi anche ad altri processi e altri contesti che forse fanno più paura.
Dimmi con chi vai...
di Luca Galassi - Peacereporter - 1 Dicembre 2009
Berlusconi in Bielorussia: la fascinazione per i dittatori
Chi pensava che il nostro Paese ormai da tempo languisse nelle paludi di una politica estera vetusta, mediocre, provinciale, deve oggi ricredersi, e salutare l'avvento del pioniere Silvio Berlusconi, navigatore delle rotte geopolitiche più tempestose, primo politico occidentale in visita a Minsk da 15 anni a questa parte.
Gheddafi è un problema per l'Unione Europea? Ci pensa Berlusconi a legittimarlo, promuovendolo al ruolo di statista al recente G8 con un obolo da 5 miliardi di dollari. Che poi la contropartita sia l'applicazione di disumane politiche sull'immigrazione poco importa agli euroburocrati, che da un lato le condannano, dall'altro le implementano con lo scudo navale anti-clandestini Frontex.
Putin deve ripulirsi la suola delle scarpe dai diritti umani calpestati nel suo Paese, con la ferocia e gli abusi sui ceceni, la repressione della stampa ostile, delle opposizioni politiche e degli oligarchi scomodi?.
Berlusconi se ne fa garante, eleggendolo a partner privilegiato e 'amico intimo', offrendogli dorate villeggiature e visitandolo 'privatamente' a San Pietroburgo. La Bielorussia preme con insistenza alle porte dell'Unione Europea, nonostante le manifeste attitudini antidemocratiche del suo presidente? Ci pensa lo sdoganatore Berlusconi a oliare i cardini e stendere il tappeto, con la sua politica estera fai da te.
La visita del presidente del Consiglio italiano a Minsk è solo l'ultimo capitolo in una lunga serie di relazioni diplomatiche artigianali e avventurose, fondate esclusivamente su robusti interessi economici o personali. Missioni dove il visitante è incurante, ignaro, o indifferente alla situazione civile e morale del Paese visitato, del suo grado di democrazia, del suo passato.
La Bielorussia è il luogo che più di ogni altro ha conservato la propria identità sovietica. Dettagli trascurabili, per un Premier che all'estero si fa amici tutti, mentre in Italia continua a parlare del complotto comunista.
Il leader dell'opposizione bielorussa ha definito Berlusconi un businessman puro, uno capace di vendere qualsiasi cosa, anche i valori europei in cambio di un tornaconto. In questo caso, ricche commesse per le aziende italiane, Finmeccanica in testa. "Con Lukashenko - ha detto Anatoly Lebedko, capo del Partito civico unito - Berlusconi non ha parlato di democrazia, libere elezioni o prigionieri politici".
Anzi, il Premier ha candidamente elogiato il presidente bielorusso, un uomo "amato dalla sua gente, come dimostrano tutti i risultati delle elezioni che sono sotto gli occhi di tutti, che noi conosciamo e apprezziamo".
Forse la superficialità di una simile dichiarazione è solo apparente: Berlusconi sa che un presidente eletto con l'80 percento dei voti nel '94, il 75,6 nel 2001 e l'82,1 percento nel 2006 non è un uomo 'amato' dalla sua gente, ma un uomo che obbliga la sua gente a votarlo.
Perché non c'è alternativa. Lukashenko soffoca la stampa libera monopolizzando le televisioni di Stato, sottopone al diretto controllo del governo la magistratura, imbavaglia e incarcera gli oppositori politici, modifica la Costituzione per potersi candidare a un terzo mandato. Tutte le elezioni dove Lukashenko ha ottenuto la grande 'prova d'amore' da parte della sua gente sono state censurate dagli osservatori dell'Ocse e condannate dall'Unione Europea.
Una superficialità apparente, quella di Berlusconi, che sicuramente conosce le risoluzioni di condanna dell'Unione Europea, oltre alle sanzioni che Bruxelles ha prorogato giusto tre settimane fa contro "l'ultima dittatura d'Europa" (secondo la definizione di Condoleezza Rice).
Siffatta dichiarazione di stima ("Lukashenko è un uomo amato dalla sua gente") rivela probabilmente gli inconfessabili sogni di un Premier che ha sempre ammirato chi governa con pugno di ferro, desiderando, non solo in segreto, mutuarne metodi e personalità, emularne le caratteristiche autocratiche, invidiando le circostanze storico-politiche che rendono ancora possibile la sopravvivenza di una dittatura nel cuore del continente. Purtroppo, per sua sfortuna, la Costituzione italiana non si cambia per decreto presidenziale.
Ascarismo italiota e patriottismo di liberazione
da "Indipendenza" - Megachip - 3 Dicembre 2009
Il premio Nobel per la pace, il presidente USA Barack Obama, annuncia la «new strategy» (imperiale) degli Stati Uniti in Afghanistan: prima una dichiarazione-immagine (ritiro entro luglio 2011) poi la sostanza (comprare i capi e clan taliban e, soprattutto, incremento delle truppe con 30mila uomini).
Al Corriere della Sera, il ministro della Difesa Ignazio La Russa dice che l'Italia invierà circa 1.000 soldati(/ascari) per sostenere gli USA. «Finora, gli americani pensavano che prima si dovesse mettere in sicurezza un’area e poi avviare la ricostruzione. Ora si sono convinti che le due operazioni devono marciare insieme (...). C’è da parte nostra la condivisione del piano ed è cambiato l’atteggiamento americano: non siamo più esecutori ma partecipi di un’operazione comune».
Insomma, da «esecutori» ascari a «partecipi» ascari. Muta la forma delle parole, non la sostanza dei fatti. La Russa ammette una subalternità dell'Italia che deve molto far riflettere sulla condizione di sudditanza di questo paese. La politica estera è sempre la punta di un iceberg, la spia dello status interno di ogni paese.
Il capo del Pentagono, Robert Gates, ha detto di sperare in un incremento del numero delle truppe alleate in Afghanistan da 44 a 50mila uomini. Svariati analisti giudicano l'affermazione di Obama sul ritiro «rischiosa» e «irrealistica». Non si annuncia una data di ritiro ancora prima dell’inizio di una nuova fase di operazioni varata per ribaltare l’esito della guerra. E' ovvio che l'idea del «ritiro» serve ad indorare la pillola oltre che propagandisticamente.
A parte gli esiti incerti (in termini militari, geopolitici e di perdite), vi sono costi pesanti che torneranno ad essere chiesti anche ai governi dei paesi alleati/subalterni, oltre che al contribuente americano. Obama ha ammesso che la nuova strategia sarà costosa e ai contribuenti americani ha già parlato, per il prossimo anno, di ulteriori 30 miliardi da rastrellare... Insomma, stessa politica e stesse parole di Bush.
I taliban hanno già risposto promettendo agli invasori sangue a fiumi.
La sudditanza politica della nostra nazione tocca anche le tasche. Con buona pace dei pesanti effetti della crisi americana in atto riverberatisi anche nel nostro paese, con i tagli e restrizioni sociali come da un paio di decenni, il Consiglio dei Ministri ha varato con quattro giorni di anticipo sulla scadenza la proroga trimestrale al 31 dicembre 2009 per le "missioni di pace" con uscite autorizzate che arriveranno a fine anno a 1 miliardo e 521 milioni di euro.
In realtà, per le operazioni di "ascarismo militare all'estero" si arriva a quasi 2 miliardi e mezzo di euro compresi i "rilievi" denunciati dalla Corte dei Conti che risultano omessi nella contabilità. Il ministero per lo Sviluppo Economico e l’Industria ha contribuito nel 2008 a finanziare la Difesa per 1.8 miliardi, il ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (e si continua a tagliare nella scuola...) ha contribuito per 1 miliardo.
Con i "rientri" di capitale dal gettito dello scudo fiscale, La Russa ha dichiarato che si prevede di incassare da Tremonti 1.1 miliardi dei 5 previsti con una destinazione di spesa di 480 milioni di euro per le "missioni di pace" del 2010 che vedranno un ulteriore aumento di militari italiani impegnati in Afghanistan.
E si sa già che la spesa lieviterà ulteriormente. La Russa è stato esplicito: «Le illazioni, i numeri e le date apparse sui giornali sono tutte ipotesi (...). Quello che è sicuro è che guardiamo con grande attenzione alla richiesta che viene dalla NATO e dagli Stati Uniti». Insomma, pare si speri solo che Washington sia clemente nel non appesantire l'onere da pagare.
Non c'è opposizione reale, su "queste" problematiche reali, in Italia.
Non ci sono più nemmeno i testimoniali cortei pacifisti di un tempo. Non c'è nemmeno quell' "imperialismo italiano" che è solo servito a non guardare in faccia la realtà della condizione coloniale dell'Italia ed ha consentito di eludere il nodo decisivo di una questione nazionale irrisolta legata a doppio e triplo filo allo status dei rapporti sociali dominanti in questo paese.
Non emergono, dietro questo ascarismo militare italiota, ragioni politiche e nemmeno interessi finanziari, commerciali, industriali. Niente che possa almeno giustificare l’enormità delle risorse profuse e da profondere ancora, nemmeno autonomi interessi capitalistici interni contro cui scagliarsi. I ritorni, per quanto se ne sa, oscillano tra il modestissimo e l'inesistente.Urge più che mai (e latita da troppi decenni) l'assunzione di una rivendicazione patriottica di liberazione in questo paese. E' giunta l'ora di cominciare a muoversi significativamente in questa direzione.