mercoledì 2 dicembre 2009

Tra crack e geopolitica

Una serie di articoli sul crack di Dubai (ma non solo...) e gli annessi risvolti geopolitici.

La geopolitica della crisi del debito di Dubai: è Iran contro Stati Uniti
di John Carney - http://alethonews.blogspot.com - 29 Novembre 2009
Traduzione a cura di Jjules per www.comedonchisciotte.org

Il ruolo dell’Iran potrebbe essere l’aspetto più trascurato nella crisi del debito di Dubai.

Di tutti gli stati della federazione degli Emirati Arabi Uniti, Dubai è quello che ha mantenuto i legami più stretti con l’Iran. In effetti, mentre nell’ultimo decennio aumentava la pressione internazionale sull’Iran, Dubai ha prosperato grazie a questi legami: fornendo collegamenti bancari e commerciali fondamentali per l’Iran e spesso agendo da tramite per le aziende europee o asiatiche e le società finanziarie che vogliono fare affari con l’Iran senza violare le sanzioni internazionali.

Abu Dhabi, il membro più ricco degli EAU e un fedele alleato degli Stati Uniti, potrebbe esercitare pressioni su Dubai per limitare i suoi rapporti con l’Iran. Sicuramente potrebbero celarsi queste pressioni dietro le dichiarazioni che provengono da Abu Dhabi sull’offerta di un aiuto “selettivo” per Dubai. Le aziende o i creditori che si pensa abbiano intrecciato rapporti troppo stretti con l’Iran potrebbero ritrovarsi tagliati fuori da qualunque salvataggio.

Il governo degli Stati Uniti, che è rimasto alquanto silenzioso durante questa crisi, sta senza dubbio spingendo Abu Dhabi a mettere in pratica queste pressioni. A causa in parte dei rapporti di Dubai con l’Iran, gli istituti finanziari americani non sono tra i maggiori creditori di Dubai World.

Naturalmente non si tratta solo dell’Iran. I problemi di Dubai, il membro degli Emirati Arabi Uniti che si è ritrovato in una spaventosa crisi finanziaria, rispecchia da vicino coloro che stanno dietro la crisi finanziaria globale.

Nel corso dell’ultimo decennio, il paese ha cercato di diversificare la propria economia dalla dipendenza dalle proprie riserve petrolifere in calo – e in buona parte c’è riuscito. Ma come una banca di Wall Street che cerca di superare il declino del proprio business tradizionale investendo pesantemente in prodotti immobiliari a forte leva, Dubai ha accumulato debiti enormi – stimati in circa 80 miliardi di dollari.

Buona parte degli asset di Dubai dipendevano dal turismo, dalle spedizioni, dall’edilizia e dal mercato immobiliare – che si sono trovati in difficoltà nel corso della flessione economica globale.

Come gli altri membri degli EAU, Dubai è governata da un’esuberante famiglia reale. In questo caso, si tratta della famiglia Al Maktoum. Quello che esattamente viene considerato come proprietà personale della famiglia regnante e quello che è di proprietà del governo a Dubai non è molto chiaro.

Il governo di Dubai possiede tre società: la Investment Corporation of Dubai, la Dubai Holding, che è gestita da Mohammed Al Gergawi, e Dubai World, gestito dal sultano bin Sulayem.

Abu Dhabi sta cercando di mettere pressione su Dubai per troncare i rapporti con l’Iran. La separazione tra Abu Dhabi e l’Iran in parte ha origine in antiche liti territoriali, nella paura delle aspirazioni nucleari iraniane, nelle differenze religiose tra sciiti e sunniti e – l’aspetto più importante – gli stretti rapporti di Abu Dhabi con Washington.

Gli EAU sono vicini al raggiungimento di un accordo di collaborazione sull’energia atomica con Washington, una mossa che molti esperti della regione ritengono rappresenti una sfida alla tradizionale egemonia saudita nel Golfo. Un punto d’arresto nei negoziati con Washington sono stati i timori che Dubai possa condividere la tecnologia nucleare americana con l’Iran.

Questo braccio di ferro tra Abu Dhabi e Arabia Saudita sta avendo anch’esso un ruolo importante. In maggio, gli EAU si sono tirati fuori dalla proposta di un’unione monetaria del Golfo dopo l’insistenza saudita per ospitare la banca centrale della regione.

Dubai, che è un luogo molto aperto e tollerante rispetto all’Iran, viene visto da molti iraniani come un posto in cui lasciarsi andare liberamente. Ha un’attiva comunità di emigrati iraniani e l’Iran è la destinazione più gettonata dell’aeroporto di Dubai, con oltre 300 voli alla settimana. Ma la cosa più rilevante è che Dubai è un importante esportatore verso l’Iran e un importante riesportatore di merci iraniane.

Il commercio tra Iran e Dubai è una delle fonti principali della fiducia di Teheran di poter sopravvivere alle sanzioni avviate dagli Stati Uniti. Gli investimenti iraniani a Dubai ammontano ogni anno a circa 14 miliardi di dollari. I funzionari dell’intelligence americana da tempo sospettano che il governo iraniano utilizzi delle società con sede a Dubai per aggirare le sanzioni.

Alcune delle banche che si dice abbiano avuto le maggiori esposizioni verso Dubai hanno avuto rapporti in passato con l’Iran. In particolare, HSBC, BNP Paribas e Standard Chartered negli ultimi anni hanno subìto le indagini e le pressioni delle autorità americane per troncare i legami con l’Iran.

Alcuni funzionari americani hanno affermato tranquillamente che queste banche facevano passare i propri traffici con l’Iran attraverso Dubai. Gli Stati Uniti potrebbero voler vedere questi creditori subire perdite dalle loro esposizioni verso Dubai.

Possiamo starne certi: il governo americano non vuole assistere al disastro finanziario di Dubai. A parte i suoi legami con l’Iran, Dubai è largamento considerato come un paese islamico modello.

Ha un governo relativamente irreprensibile e, per la regione, vi è un notevole livello di tolleranza religiosa e un atteggiamento progressista nei confronti delle donne. I diplomatici americani hanno indicato Dubai come il loro modello per una nuova Baghdad – progressista, tollerante e capitalista.

Quello è che molto probabile che avvenga ha caratteristiche più sfumate. Gli Stati Uniti e Abu Dhabi sperano di utilizzare le difficoltà finanziarie di Dubai come mezzo per troncare definitivamente gli stretti rapporti con l’Iran.

Per anni, Dubai ha goduto dei benefici di mantenere una linea equidistante tra la sua alleanza militare ed economica con gli Stati Uniti e i benefici economici provenienti dai rapporti bancari e commerciali con l’Iran.

Il prezzo di un salvataggio da parte di Abu Dhabi potrebbe essere alla fine quello di dover rinunciare ai rapporti iraniani.


Dietro il crack della finanza islamica, la vendetta dei petrodollari
di Gianni Credit - www.ilsussidiario.net - 30 Novembre 2009

Il default da 60 miliardi di dollari del Dubai World, il braccio finanziario dell’emirato del Golfo, sta apparentemente riproiettando un “video” finanziario già quasi logoro. Da un lato c’è la gestione valutaria a Dexia, alle Landesbanken tedesche fallite o a un altro “paese virtuale” andato in rovina come l’Islanda: un mix di aiuti pubblici e di mutuo soccorso interbancario sovrannazionale, anche se attraverso la probabile variante un po’ tribale dell’intervento da parte di Abu Dhabi: emirato formalmente federato con Dubai, sostanzialmente retto da una nobiltà rivale.

Semmai l’ironia della sorte è che Dubai, nei primi mesi della Grande Crisi veniva indicato come sede di uno di quei fondi sovrani dei paesi emergenti/emersi che avrebbero sorretto le economie del G8 azzoppate dalla finanza derivata.

Neppure l’analisi a caldo dell’ennesimo scoppio di bolla sta del resto riservando sorprese particolari. C’è l’odore forte e dominante di immobiliarismo bruciato in fretta sulle sabbie costiere del Golfo: rispetto a quello massiccio dell’America post 11 settembre (o di quello un po’ più pittoresco dei “newcomers” italiani come Ricucci o Zunino) c’è magari con la variante esotica e glamour degli alberghi a sette stelle con campo da tennis sul tetto; o delle mega-tower alte il doppio dei grattacieli di Manhattan, ma alla fine più simili all’inquietante gigantismo di un dittatore come Ceausescu.

Attorno a Dubai si nota anche sicuramente il pullulare di investment bank impegnate nell’ennesima corsa all’oro. In questo caso il “fly to quality” - per la verità molto terra-terra - si è risolto nella ricerca di un luogo dove la “regulation” finanziaria era inversamente proporzionale all’immagine mediatica e dove fosse quindi possibile tentare di replicare il modello turbo-finanziario. Ma - come la gelida, spopolata e ultra-europea Islanda - anche il rovente, immigratissimo ed occidentalizzante emirato si è rivelato una piattaforma drammaticamente inconsistente, al di là dei giganteschi cantieri aperti.

Mentre Rejkyavik, tuttavia, fino a quindici anni fa era più o meno un grande porto peschereccio, reinventatosi come paradiso fiscale della City londinese, travestito alla bell’e meglio da “parco per new business”, le monarchie del Golfo - capeggiate dall’Arabia Saudita - hanno alle spalle più storia, sia recente che antica.

Hanno alle spalle quasi mezzo secolo di grandi incassi petroliferi: centinaia, migliaia di miliardi di dollari di ricchezza finanziaria “reale”, per almeno un decennio “sottratti” in termini reali alle economie occidentali, che hanno dovuto lavorare duro per ristrutturare i propri sistemi produttivi.

Potrà sembrare un paradosso, ma la terziarizzazione globalistica e finanziarizzata dell’economia euramericana a partire dagli anni ’80 è stata certamente accelerata - se non provocata - dagli choc petroliferi. L’euro - come simbolo sintetico di una dinamica storico economica di lungo periodo - è il punto d’approdo del Vecchio Continente dopo un ventennio di squilibri valutari e più in generale macroeconomici. I

l “big bang” delle Borse e il gigantismo bancario sono due altre facce di un cammino di liberalizzazione e internazionalizzazione economica che ha avuto nella finanza di mercato il traino e - da ultimo - una leadership ora sotto processo.

Ma i veri grandi “neo-capitalisti” del pianeta a lungo sono stati emiri e sceicchi: molto prima che le onde della ripresa di fine secolo ricreassero i surplus finanziari nelle tasche di centinaia di milioni di famiglie o, via via, in quelle dei primi tycoons di Brasile, Russia, India e Cina. Ora, già quasi al giro di boa del primo decennio del nuovo secolo, Dubai (che di petrolio non ne ha molto, ma di petrodollari sì) si rivela poco più che un “parco di divertimenti” per banche d’affari in fuga.

Così - non diversamente da molti americani indebitati a forza di subprime per comprarsi case che non potevano permettersi - anche un emirato islamico può vedersi ritornare parte dei propri capitali - intermediati dalle grandi banche apolidi - sotto forma di investimenti solo apparentemente reali, ma di fatto altamente speculativi.

E in questo, il capitalismo islamico non si è rivelato più attrezzato nel resistere al richiamo della scorciatoia: dello sviluppo indotto per via esclusivamente finanziaria, con l’illusione (in fondo il cuore della cultura globalista entrata in crisi) che la mobilità apparentemente totale dei capitali fosse condizione necessaria e sufficiente per impiantare, da subito e ovunque, imprenditorialità, occupazione, education.

Il crack di Dubai conferma - tristemente - che la finanza autoreferenziale colpisce indiscriminatamente: perfino chi ha avuto - oggettivamente - la possibilità di determinarne il gioco.


I “fondi avvoltoi” fanno festa a Dubai
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 1 Dicembre 2009

George Orwell diceva che «nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario». E aveva ragione. Da vendere. Pensiamo alla crisi finanziaria di Dubai World, la holding finanziaria dell'emirato del Dubai che ancora ieri ha fatto sentire i suoi strascichi sui mercati e fatto tremare le vene ai polsi a molti.

Anche il sottoscritto, giovedì scorso, si era spaventato: i tempi sono quello che sono e cosa ci sia dentro le scatole cinesi dei fondi arabi è davvero impossibile saperlo. Temevo, lo ammetto, un effetto domino devastante e quasi immediato.

Ora ho cambiato idea. Soprattutto alla luce dell'annuncio fatto ieri da Abddulrahman al-Saleh, direttore generale del ministero delle Finanze di Dubai, in base al quale il governo di Dubai non intende garantire i debiti di Dubai World e i suoi creditori subiranno «a breve termine» le conseguenze della ristrutturazione del debito della conglomerata.

«I creditori - ha spiegato Abdulrahman al-Saleh alla tv di Dubai - dovranno assumersi la loro parte di responsabilità per la loro decisione di prestare soldi alle compagnie. Essi pensano - ha aggiunto - che Dubai World faccia parte del governo, il che non è corretto. Il governo è il proprietario della compagnia ma fin dalla sua fondazione è stato stabilito che la compagnia non è garantita dal governo». Dubai World, precisa il direttore generale «fa accordi con tutti su questa base e i suoi prestiti si basano sui suoi progetti e non sulle garanzie del governo».

Secondo Saleh la reazione dei mercati, che ha mandato a picco le Borse di Dubai e di Abu Dhabi, è esagerata. «La ristrutturazione del debito - dice ancora - è una decisione che è nell'interesse di tutte le parti nel lungo termine ma potrebbe infastidire i creditori nel breve termine». La ristrutturazione dovrebbe riguardare 5,7 miliardi di debiti, con scadenza prima del prossimo maggio.

La banca centrale degli Emirati Arabi Uniti ha assicurato che fornirà liquidità extra al sistema bancario, ma Saleh dubita che ce ne sarà bisogno: «Penso - spiega - che le banche a questo stadio non abbiamo bisogno di liquidità extra da parte della banca centrale». Parole che ovviamente hanno picchiato duro sui mercati dell'area, concretizzando i timore con chiusure in profondo rosso per le borse di Dubai e Abu Dhabi. Il listino di Dubai ha perso il 7,3% con tutti i gruppi bancari ed edilizi in picchiata. Giù anche la borsa di Abu Dhabi, che ha fatto registrare un -8,3%.

Peccato che prima del terremoto finanziario, la borsa di Dubai aveva chiuso in rialzo del 28% dall'inizio dell'anno: come mai, invece, la chiusura è stata in direzione opposta per le borse dell’Asia, dove Tokyo ha concluso gli scambi con un balzo del 2,91% e Hong Kong del 3,25% e anche l'Europa e Wall Street non hanno brillato ma certamente nemmeno pianto lacrime di disperazione?

Semplice, la crisi di Dubai è un'opportunità: ci si lancia in shopping a prezzo di saldo in casa di chi, fino a poco tempo fa, lo shopping era abituato a farlo forte dei dollari garantiti dal petrolio.

Certo, le banche inglesi sono quelle che rischiano di pagare il prezzo più caro per le ripercussioni della ristrutturazione del debito del Dubai e a confermarlo ci ha pensato ieri Morgan Stanley in una nota basata sui dati della Banca dei regolamenti internazionali ma attenzione a leggere bene le notizie.

È vero che gli istituti del Regno Unito, tra cui Hsbc e Standard Chartered, hanno investito 50 miliardi di dollari nella regione ed è vero che, come sostengono gli analisti di Morgan Stanley, «le banche inglesi sono quelle potenzialmente più colpite dalle ampie ripercussioni della ristrutturazione del debito del Dubai», ma è altrettanto vero che «l'impatto diretto di Dubai World sulle banche europee è modesto e il rischio è stato fin troppo scontato».

Come dire, le banche non hanno certo brillato per intelligenza in questo periodo ma questo non significa che debbano sbagliare sempre e comunque: basta agire con la logica dei vulture fund, ovvero fondi comuni, soprattutto americani, specializzati nell'investire su società fallite o "decotte". Il rischio, evidentemente, è altissimo ma in caso il fondo riesca a risollevare la società e a pagare i suoi debiti, può realizzare grandi profitti.

Il business principale dei "fondi avvoltoio", negli ultimi anni, è infatti stato quello di comprare, a prezzi stracciati, bond (obbligazioni) dei Paesi in via di sviluppo, vicini al default, che nessun altro oserebbe toccare. Salvo poi passare all'incasso con tutti i mezzi possibili, anche portando i debitori in tribunale: d’altronde, nessuno ha detto loro di contrarre debito in quel modo scriteriato, utilizzando i fondi dei paesi ricchi per mantenere pletore di dittatorelli con cortigiani al seguito e rubinetti d’oro invece di costruire scuole e ospedale.

Si tratta, nella maggior parte dei casi, dei paesi indebitati con l’acqua alla gola dell'Africa, del Congo Brazzaville, Zambia o dell’America Latina, messi nel mirino dalle "locuste" della finanza americana: molti fondi pensioni americani per garantire interessi a doppia cifra ai loro sottoscrittori, li hanno in portafoglio e quindi li finanziano. Smettiamola con il moralismo da quattro lire: i fondi pensione Usa investono circa 80 miliardi di euro l'anno in hedge fund, alcuni arrivano fino al 30-35% delle loro quote in strumenti di investimento alternativi e fortemente speculativi.

Nei prospetti informativi si liquida la parte "hedge" con le voci "equity securities", "debt securities", "other" tutto dipende dalla trasparenza del gestore: ma nessun cliente chiede la trasparenze come prima condizione d’investimento, la voce principale è la potenzialità di guadagno. Come pensate che ragionassero fino a ieri a Dubai, compresi i parrucconi governativi che ora vorrebbero scaricare sugli azionisti gli errori e i guai?

Ora, quindi, paghino il prezzo al libero mercato, tanto vituperato dai pauperisti ma che ora potrebbe chiamare alla cassa chi fino a ieri alla cassa ci è stato e senza troppi scrupoli: democrazia allo stato puro, nessuno moral hazard, la responsabilità personale è totale. Guarda caso, ieri Wall Street ha aperto piatta ma non è crollata e anzi i titoli bancari hanno guadagnato: ascoltate George Orwell, la realtà non è mai un titolo di giornale.



La Morgan Stanley teme la crisi del debito nel Regno Unito per il 2010
di Ambrose Evans-Pritchard - www.telegraph.co.uk - 1 Dicembre 2009
Traduzione a cura di http://informazionescorretta.blogspot.com

L’Inghilterra rischia di diventare la prima nazione del G10 a rischiare la fuga dei capitali e una crisi sul debito nei prossimi mesi, secondo una nota di Morgan Stanley.

La banca d’investimento ha dichiarato che sussiste il rischio che il mix tossico di problemi inglesi arriveranno al capolinea presto, il prossimo anno, attivato dalla paura che Westminster potrebbe dimostrarsi incapace di restaurare credibilità fiscale.

“I crescenti timori di un parlamento senza una maggioranza stabile probabilmente peseranno sia sulla valuta sia sui rendimenti dei Gilt (titoli del debito), dal momento che sarà in un certo senso un salto nel buio, ed aumenterà la probabilità che alcune delle agenzie di rating toglieranno lo status di AAA al Regno Unito”, si legge nel report scritto dalla banca d’investimento europea, di Roman Carr, Teun Draaisma e Graham Secker

“in una situazione estrema, una crisi fiscale potrebbe portare ad una fuga dei capitali interni, grave debolezza del Pound e una svendita di buoni del tesoro inglesi. La Banca d’Inghilterra potrebbe sentirsi costretta ad alzare i tassi per sostenere la fiducia nella politica monetaria e stabilizzare la moneta, minacciando la fragile ripresa economica”, hanno dichiarato.

Morgan Stanley ha dichiarato che questi eventi a catena potrebbero alzare i rendimenti del Gilt a 10 anni di 150 punti base.

Questo farebbe alzare il costo dei prestiti ben oltre il 5% - il livello che ora affronta la Grecia, e ben più alto dei costi di Italia, Messico e Brasile (NDFC: l’affezionato lettore avrà tristemente notato l’accostamento del nostro paese ad altri che percepiamo come lontani).

I migliori titoli di debito di aziende come BP, GSK, o Tesco, potrebbero portare un rischio premium inferiore al debito sovrano inglese – semplicemente impensabile in passato.

Una impennata dei rendimenti dei bond potrebbero complicare molto l’obiettivo di finanziare il deficit di budget, che è atteso per essere il peggiore di tutto il gruppo OSCE l’anno prossimo, al 13.3% del PIL.

Per un certo tempo gli investitori sono stati preoccupati, in privato, del fatto che la Banca d’Inghilterra avrebbe dovuto alzare i tassi prima di essere pronta a farlo – rischiando una recessione a W , ed una incipiente spirale di pagamento del debito – ma questa è la prima volta che una principale società di investimenti solleva un warning così forte.

Nessuna nazione del G10 ha visto la sua abilità di fornire uno stimolo di emergenza severamente limitato da forze esterne dall’inizio della crisi del credito.

Non è chiaro come i mercati potrebbero rispondere se iniziassero a mettere in discussione l’efficacia del potere statale (NDFC: vogliamo tirare a indovinare?)

Morgan Stanley dichiara che la sterlina potrebbe cadere di un altro 10% in termini di potere d’acquisto. Questo completerebbe il più aspro declino del Pound dai tempi della rivoluzione industriale, superiore al calo del 30% dopo che l’Inghilterra uscì dal Gold Standard nelle cataclismiche circostanze del 1931.

Le azioni inglesi performerebbero ragionevolmente bene.

Un buon 65% dei guadagni delle aziende della borsa inglese vengono dall’estero, quindi godrebbero di vantaggi della caduta della moneta.

Anche se il report “Tempi più duri nel 2010” non è collegato alla debacle di Dubai , ci ricorda che le nazioni hanno a malapena comprato tempo durante la crisi per rivolgersi agli stimoli fiscali e travasare le perdite private sui libri contabili pubblici.

I salvataggi – per quanto necessari – non hanno risolto il problema sottostante del debito. Hanno accumulato un secondo insieme di problemi, degradagando il debito sovrano in buona parte del mondo.

Morgan Stanley ha dichiarato che il travaglio inglese è una delle tre “sorprese” attese per il 2010.

Le altre due sono

* Rimbalzo del dollaro
* Forti performance delle azioni delle compagnie farmaceutiche (NDFC: “...!”)

David Buik, di BGC Partners, ha dichiarato che l’Inghilterra è particolarmente fuori forma perchè i ritorni fiscali sono soggetti ad una forte leva sul ciclo economico globale: i servizi finanziari hanno fornito il 27% dei ritorni in fase di boom, ma ora sono crollati.

Gli inglesi hanno mancato di mettere da parte denaro negli anni delle vacche grasse per bilanciare questo ciclo fiscale giunto al momento della verità. Hanno avuto un deficit del 3% del PIL al massimo del boom, mentre le nazioni prudenti come la Finlandia e perfino la Spagna avevano un surplus di più del 2%.

“Dobbiamo alzare l’IVA al 20% e fare tagli seriamente drammatici nei servizi che vanno oltre tutto cio’ di cui stanno parlando Alistair Darling o David Cameron. Nessuno sembra avere il coraggio di fronteggiare questo” , ha dichiarato Buik.

Il report coincide con le notizie che l’Inghilterra è ora ufficialmente la sola nazione del G20 ad essere ancora in recessione. Il Canada ha riportato che la sua economia è cresciuta dello 0,1% nel terzo trimestre. L’inghilterra, per contro, si è contratta dello 0,3%, secondo le più recenti stime.