mercoledì 16 dicembre 2009

Il raschiamento del barile

Non sprecherò parole sulla penosa messinscena di domenica scorsa, utile solo "alla povera vittima" per uscire dall'angolo in cui si era cacciato, riguadagnare una "positiva" visibilità sui media nazionali e internazionali, recuperare un consenso in costante discesa e soprattutto ricompattare una maggioranza quanto mai divisa, in vista anche del fondamentale voto di fiducia sulla Finanziaria.

Ma si è trattato di una sceneggiata che ha anche come obiettivo quello di mettere un'ulteriore mordacchia sui social network, sulla Rete in generale e sul diritto di manifestare in piazza.

E il cerchio si chiude. Siamo di fronte quindi all'ennesimo show di un grande attore nella parte della povera vittima che si sta giocando le sue ultime carte pur di garantirsi una parvenza di sopravvivenza politica.

Ma neanche quest'ultimo coup de theatre gli servirà per cambiare il corso della storia, già ampiamente segnato.


Piazze e web. Il governo prepara leggi speciali
da www.unita.it - 15 Dicembre 2009

Leggi speciali per le manifestazioni, divieti di orario, limitazioni di itinerari, pene più dure per chi «interrompe» e mostra «atteggiamenti di dissenso», come se uno a un corteo andasse solo in nome del pensiero unico. Alle manifestazioni e ai comizi come allo stadio: chi sgarra entra nella black list degli indesiderati.

Dopo quello per i tifosi, anche un Daspo per la politica. E una volta blindate le piazze vere, il governo provvederà a blindare anche quelle virtuali con leggi speciali per chi usa il web per, dice il ministro Maroni, «istigare alla violenza».

Un bavaglio reale per i gruppi che sui vari social network in queste ore si stanno organizzando a favore di Tartaglia e contro Berlusconi dietro lo slogan: «A Natale possiamo fare di più». Pessimo gusto, non c’è dubbio.

Ma da qui all’istigazione a delinquere ce ne corre. Invece di smussare e ridimensionare e trattare l’aggressione al premier per quello che è - il gesto terribile, da condannare ora e sempre, e però di uno squilibrato - c’è un gran da fare nel centro destra per agitare il rischio di un ritorno al terrorismo, agli anni settanta, a quel clima e anche, in conseguenza alla necessità di leggi speciali.

«Guai a sottovalutare, c’è una brutta aria» dice il ministro Alfano. Berlusconi «poteva essere ucciso» dichiara il ministro dell’Interno Roberto Maroni. «Anche nel ‘68 qualcuno diceva che erano solo squilibrati isolati» aggiunge il ministro Matteoli. Leggi speciali, quindi.

La scelta più sbagliata che potrebbe fare adesso il governo sarebbe proprio quella di cambiare il modello di ordine pubblico nelle piazze, di blindarle in nome della sicurezza. Quando è stato fatto - luglio 2001 - è andato in scena l’orrore del G8 di Genova, campionario infinito di errori da parte di tutti. Adesso agitare la paura e il pericolo potrebbe suonare come una sfida e una provocazione.

Il primo a parlarne ieri è stato il ministro della Difesa Ignazio La Russa. Esiste già una norma che vieta le contestazioni durante i comizi nei trenta giorni di campagna elettorale con pene da 1 a 3 anni. L’idea di La Russa è di «far mandare a regime la norma e di alzare la pena da 2 a 4 anni». L’obiettivo è evitare, d’ora in poi, che «duecento persone possano intrufolarsi in una piazza e disturbare il comizio altrui».

Più o meno quello che sarebbe successo domenica in piazza del Duomo a Milano. E sarebbe stato proprio quel gruppetto, quel clima che si era creato, ad aizzare Tartaglia armando il lsuo braccio. A ruota di la Russa si sono fatti sentire il governatore Formigoni e, ovviamente il ministro Maroni, che ieri sera si è chiuso nel suo ufficio al Viminale per studiare un pacchetto di norme.

Con buona probabilità al prossimo Consiglio dei ministri sarà già pronto il giro di vite sui siti web. In realtà il tentativo di stringere sulle piazze è in corso da tempo. I primi segnali risalgono a più di un anno fa. I primi ad essere limitati furono i cittadini islamici. A Roma, ad esempio, è diventato sempre più difficile per gli organizzatori avere l’ok della questura per un vero e proprio corteo. La tendenza è di rilasciare permessi per presidi e sit in piazza. In un posto solo le persone vengono controllate meglio.

«Inaccettabile e antidemocratica la proposta del ministro Maroni di procedere all'oscuramento dei siti internet che diffondono messaggi di istigazione a delinquere». Lo ha affermato il parlamentare del Pd Sandro Gozi, commentando il proposito manifestato dal ministro dell'Interno nelle sue comunicazioni all'Aula di Montecitorio, relative all'aggressione del presidente del consiglio.

«Ritengo -spiega Gozi- che i tentativi della maggioranza di controllare e di dare una normativa dura ed inflessibile alla rete siano ingiustificati e dannosi per le potenzialità del web e per la società più in generale: si tratta di tentativi mirati esclusivamente a mantenere lo status quo delle cose e, elemento ancora più grave, ad imbavagliare la libertà di manifestazione del pensiero sancita dalla nostra Costituzione».

«Il confronto democratico, proprio in quanto tale, deve prevedere un utilizzo libero della rete e svincolato da ogni forma di controllo esasperato: ogni affermazione che circola sulla rete - conclude il deputato del Pd - può essere condannabile o non condivisibile ma non per questo deve essere censurata, semmai si dovrebbe fare leva sulle responsabilità personali».


Web, altre regole non sono necessarie
di Beppe Severgnini - Il Corriere della Sera - 16 Dicembre 2009

La Rete non è stata nè causa nè strumento della violenza di domenica

Lanciarsi contro Internet perché qualcuno scaglia un souvenir appuntito al presidente del Consiglio appare bizzarro. La Rete non è stata né causa né strumento della violenza di domenica. E’ stato però il teatro delle conseguenze. Brutte. La crudeltà di chi festeggia il dolore altrui. La vigliaccheria di chi sparla e non firma. L’irresponsabilità di chi incita alla violenza — una tragedia che l’Italia ha conosciuto e non ha dimenticato.

È arrivato il momento di mettere regole a Internet? Prima di rispondere, è bene che qualcuno si prenda la briga di capire — e poi di spiegare — a cosa le stiamo mettendo. La sensazione è che molti, tra quanti oggi maledicono Facebook e accusano Twitter, non siano mai entrati in un social network, non abbiamo mai inviato un tweet né cliccato il pulsante «pubblica» di un blog.

Vedremo cosa proporrà il ministro Maroni al Consiglio dei ministri, domani. «Misure delicate che riguardano terreni come la libertà di espressione sul Web e quella di manifestazione», ha anticipato. Speriamo non sia una norma inapplicabile come l’abolizione dell’anonimato (non ci sono riusciti i cinesi, che di censura se ne intendono); e neppure un decreto contro generici «siti estremisti».

Cosa vuol dire, infatti, «estremista»? A giudicare dal dibattito (?) alla Camera di ieri, infatti, molti deputati definirebbero così l’homepage dei colleghi che non la pensano come loro. Non c’è bisogno, forse, di norme nuove. Ingiurie, minacce, apologia di reato, istigazione e delinquere: nel codice penale ci sono già, come ha scritto ieri Stella sul Corriere , e dovrebbero bastare. A meno di considerare la Rete come uno stadio virtuale: una zona franca dove comandano gli ultras, e tutto è lecito.

Per anni abbiamo difeso Internet distinguendo tra il mezzo e il messaggio (se qualcuno ci offende al telefono, non diamo la colpa al telefono; se qualcuno delira su Internet, perché prendersela con Internet?). Oggi — bisogna ammetterlo — le cose sono cambiate. Le interazioni del web 2.0 (blog, forum, chat, Wikipedia, YouTube, Facebook, Myspace, Twitter, eBay...) hanno creato un mondo.

Internet non è più, come negli anni 90, un binario su cui viaggiano insieme il bene e il male (la solidarietà e la pedofilia, l’amicizia e la xenofobia). Luca Sofri lo ha spiegato ieri su wittgenstein. it : «Quando il mezzo ha una potenza quantitativa straordinaria, questa si riverbera sulla qualità delle cose e determina cambiamenti. Limitarsi a definirlo 'neutro' non è sufficiente».

Ci sono, poi, alcune caratteristiche italiane. Internet raccoglie giovani umori anti-berlusconiani che, in tv, non arriveranno mai; e sui giornali non hanno più (o ancora) voglia di arrivare. Alcuni legittimi e articolati; altri aggressivi e sgangherati. Ma è curioso notare come umori simili appaiano nei siti d’informazione, nei blog e nei social networks internazionali. I commenti, dopo l’aggressione di piazza Duomo, sono divisi quanto in Italia, se non peggio.

Conduco Italians da 11 anni, conosco gli umori che girano nella Rete. So che esiste un cuore oscuro di Internet, ma ho imparato ad apprezzarne l’anima chiara e pulita. La Rete è il luogo dove qualcuno strilla «Ecce (d)uomo!», credendo d’essere spiritoso; ma dove Sabina Guzzanti, che spiritosa è davvero, ha messo frasi di buon senso nel suo blog.

Facebook è il posto dove il gruppo «fan di Massimo Tartaglia» contava 68 mila iscritti, il giorno dopo l’aggressione; ma ora è sparito e altri gruppi che inneggiano allo squilibrato armato di souvenir sono rimasti senza amministratore.

Lo stesso è accaduto ai gruppi farlocchi che, dopo aver cambiato nome, inneggiavano a Berlusconi. Chiusi. Twitter, che qualche giorno fa ha esordito anche in italiano, è il luogo dove si trovano centinaia di rimandi interessanti e commenti fulminanti in molte lingue.

Quelli volgari e violenti basta non seguirli più (unfollow). Morale? Anche gli imbecilli hanno facoltà a esprimere la propria opinione, e in questi giorni — bisogna dire — se ne sono avvalsi. Basta non insultare, diffamare o minacciare. Per chi commette questi reati, ci sono la polizia postale e i magistrati.

Vogliamo combattere gli eccessi di Internet? Benissimo: rendiamo più efficaci e rapidi i tribunali. Ma forse è meglio non dirle queste cose, in Italia. Appena si parla di giustizia, infatti, molti insultano e minacciano. Non in Rete: in Parlamento.


Gli utenti internet pagheranno per Tartaglia?
di Vittorio Zambardino - http://zambardino.blogautore.repubblica.it - 14 Dicembre 2009

L’odio nasce in rete o la rete si limita a mostrarcelo?

Premessa: il 18 dicembre sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale il pacchetto di norme approvate dal Parlamento europeo in cui l’accesso e l’uso di internet per la propria espressione personale viene definito un “diritto fondamentale” del cittadino dell’Unione.

Diritto fondamentale…

Davanti a certe affermazioni – come quelle del ministro Ronchi e del sottosegretario Mantovano – gli appartenenti al nocciolo duro dell’utenza internet la mette in burla. C’è chi pensa che non ci sia censura applicabile alla rete internet per i maghi del computer. E’ vero. Ma milioni di italiani che si esprimono in rete non sono maghi di internet. Sono persone comuni che scrivono cose normali, pubblicano foto di famiglia e citano la musica che gli piace. La loro libertà è in pericolo.

Ogni tanto qualcuno o molti di loro entra in un gruppo a cuor leggero: che si tratti di “uccidiamo Berlusconi” o di “buttiamo a mare l’immigrato” la grande maggioranza lo fa come se esprimesse una fantasia momentanea, una di quelle follie che tutti pensiamo in momenti di ira, e che la coscienza personale e civile filtra e manda nel cestino delle cose sporche dell’anima (Sì è vero, poi c’è qualcuno che non le filtra, e lancia una statuetta del duomo, ma cosa c’entra la rete? Gli attentatori del passato avevano internet?).

Fa parte del nuovo col quale viviamo, questa leggerezza dello strafalcione: una libertà che i politici prendono per sé quando si tratta di manipolare nei media “tradizionali”.

In altri paesi gli utenti internet sono più moderati, è vero. Ma in altri paesi non ci sono politici che fanno la guerra civile verbale all’ora del tg e ministri che insultano intellettuali e dipendenti dello stato a ogni passo. La rete “segue” e “mima”, non crea.

Gli esponenti di governo che parlano di monitorare la rete – ne siamo certi – sarebbero pronti a dire che chi si comporta bene “non ha niente da temere”. Ma intanto invocano filtri e controlli (e repressioni) che, per lo stesso fatto di essere evocati, invitano chi dovrà compiere quelle indagini a una difficile corsa ad ostacoli contro la privacy e la libertà d’espressione, correndo il pericolo di deragliare ad ogni passo dalla legalità. Perché “monitorare” qui non significa accertare chi ha aperto un gruppo, operazione in sé banale per una forza di polizia attrezzata.

Ma si tratta di invocare puramente e semplicemente la cancellazione di una espressione del pensiero, e di passata “registrare” chi l’ha fatta. Insomma “tenere memoria” di chi ha detto cosa, nevvero?

Non c’è bisogno di essere esponenti del centro destra per pensarla così. Un ministro del centro sinistra si rese famoso anni fa per una invocazione all’applicazione del modello cinese di filtri internet all’Italia. Succede ogni volta che attraverso la rete si esprimono opinioni o sentimenti ripugnanti o comunque disdicevoli. Le si pone alla base di un fenomeno criminale da reprimere, non come manifestazioni di quel fenomeno. Da qui poi si passa alla rappresaglia verso il contenitore di quei pensieri. E’ un caso si discute in questi giorni.

In questa settimana avrà la parola al processo di Milano la difesa dei dirigenti di Google che sono a giudizio per il caso del bambino autistico abusato dai suoi compagni e del relativo video, realizzato dai suoi assalitori, e pubblicato su Google Video. I magistrati della pubblica accusa invocano “controlli preventivi” da parte di Google e pongono la mancata esecuzione di quei controlli alla base della loro richiesta di condanna.

Si tratta di richieste (quelle del magistrato, quelle dei ministri) assurde: cosa le accomuna? Nel caso dei ministri si pensa di eliminare una espressione di pensiero solo perché ripugnante. Ma chi stabilisce la soglia di sopportazione della ripugnanza? Il governo? Forse l’onorevole Carlucci, che poco fa ha sobriamente parlato di social network come luogo di delinquenti?

Siamo o no in uno stato di diritto dove la libertà di espressione è tutelata in costituzione? E questa libertà non si applica forse ai casi limite, al controverso e all’ambiguo? Ma qui gli esponenti politici invocano il codice penale, e la fattispecie dell’istigazione a delinquere.

Operazione concettuale analoga a quella dei magistrati che chiedono la condanna di una piattaforma web che ha ospitato quello schifoso video. Queste due posizioni condividono l’equivoco di equiparare Facebook ai giornali e Google Video (o YouTube) a un canale televisivo.

Non vedono che con questi mezzi è arrivata anche ai comuni cittadini la capacità di esercitare l’espressione dei propri pensieri, senza alcuna altra mediazione. Non ci sono direttori responsabili dentro Facebook, e se qualcuno commette dei reati, la responsabilità penale resta personale.

Si cerchino gli individui che quel reato hanno commesso, li si processi. Ma non si cancelli lo strumento in cui quella libertà si esprime – anche nel gruppo che inneggiava a Tartaglia c’erano i contrari, ed esercitavano la loro libertà di dirsi contrari.

Ma al fondo di tutto, c’è altro e peggio che prende tutta la società italiana. C’è questa voglia di menare le mani su tutto ciò che è fuori schema, questo pensiero sommario per cui bisogna eliminare il messaggero che porta le cattive notizie. Come se eliminato quello, avessimo risolto il problema.

Dimenticano la lezione della storia, che la libertà si esercita nei casi limite e che la libertà esiste anche per gli imbecilli, e va pure tutelata anche e nonostante loro. Se non accetti l’imbecille che inneggia alle statuette del duomo, non fermi quelli che odiano Berlusconi al punto da volerlo morto. Continui solo a governare secondo uno stato mentale di guerra, di conflitto dall’alto, di repressione come defoliante del pensiero. La prima vittima è la libertà individuale.


Facebook? I politici non sanno di cosa parlano
di Nicola Bruno - Il Manifesto - 15 Dicembre 2009

«Facebook che istiga all'odio? Mi sembra solo un'esagerazione che dimostra una totale mancanza di cultura digitale. Quello che succede online non è altro che la fotocopia della vita politica di un paese. Ci possono essere espressioni forti, ma per lo più più si tratta di semplice condivisione estemporanea di opinioni, come nelle chiacchiere da bar. Non c'è bisogno di nessun oscuramento».

Così Corinna De Gennaro, ricercatrice all'Oxford Internet Institute in Gran Bretagna e autrice di un recente studio sul legame tra Internet e proteste politiche in Italia, commenta la crociata anti-Facebook lanciata dal centro-destra dopo che sul social network sono nati gruppi di sostegno a Tartaglia.

Ci risiamo. Appena un fatto di cronaca prende piede online, si torna a parlare di oscurare Facebook e togliere l'anomimato in rete...

Non ha alcun senso affermare che Facebook possa istigare alla violenza. Le dinamiche scaturite con i gruppi pro-Tartaglia non rappresentano nulla di nuovo. Semplicemente, quando c'è un forte evento politico, gli utenti si riversano online per commentarlo.

C'è bisogno di scambiare idee perché magari, per mancanza di tempo, non si riesce a farlo più nella vita reale. E poi è bene ricordare che sui social-network spesso si ha un tipo di partecipazione politica ad elastico: è più forte quando accade un evento e poi va lentamente scemando.

Le dichiarazioni di Maroni e degli altri esponenti del centrodestra sono quindi del tutto fuori luogo?

Certamente. A dimostrazione del fatto che non sia colpa di Facebook, ieri sono subito nati gruppi pro-Silvio in cui una parte degli utenti utilizzava espressioni altrettanto violente nei confronti dei fan di Tartaglia.

Il problema dell'Italia è che molti politici non conoscono affatto i fenomeni che vorrebbero regolamentare. Da altri studi che ho condotto su gruppi «violenti» online (come quelli pro-anoressia) è sempre emerso che, ad un certo punto, scatta una forma di autoregolamentazione. Dopo l'escalation iniziale, i toni si fanno più pacati e si tende ad isolare chi prende posizioni fuori luogo.

C'è chi sostiene, però, che in Italia il dibattito politico online sia molto più acceso rispetto ad altri paesi...

Non penso proprio. Chiunque abbia seguito l'ultima campagna presidenziale statunitense sa bene il picco di violenza verbale che si è raggiunta. E ancora adesso, su tanti blog molto schierati si continua ad utilizzare toni violenti nei confronti di Obama. Internet non fa altro che rispecchiare la cultura politica di un paese in un determinato momento. Con la differenza, rispetto agli media tradizionali, che qui c'è spazio per tutti.

Ma una particolarità in Italia c'è: in nessun altro paese le tv sono così controllate...

Questo dato certamente influisce sul modo in cui viene condotto il dibattito politico in rete. Dallo studio sui Vaffa-Day di Beppe Grillo che abbiamo appena pubblicato su First Monday (nota rivista di cultura digitale, ndr), è emerso con chiarezza una scollatura tra i media tradizionali (che hanno del tutto oscurato l'evento, sia prima che dopo) e quelli online.

Questo contesto mediatico poco libero porta molti utenti ad utilizzare internet per discutere di politica e provare a cambiare l'agenda del paese. Su Facebook e i blog traspaiono idee che non avrebbero mai spazio sui grandi media italiani.

Il successo del recente No-B Day è stata una riprova di come Internet sia una potente piattaforma di organizzazione politica. Perché questo successo in Italia?

Sebbene l'Italia sia uno dei paesi con la più bassa penetrazione di internet in Europa, c'è un forte utilizzo della rete per socializzare le proprie idee politiche. E in alcuni casi passare anche all'azione, organizzando proteste come i Vaffa-Day e il No-B Day.

In entrambi i casi, comunque, non si può parlare di semplici manifestazioni nate online. Non si costruisce nulla di duraturo se non c'è anche un forte nucleo organizzativo, capace di tenere le fila fuori dalla rete.

Ma al di là delle proteste una tantum, la rete può davvero cambiare la politica?

Internet certamente facilita la partecipazione civile, ma di qui a dire che può rivoluzionare la politica il passo è ancora lungo. Servono anche altre istituzioni (i partiti, ad esempio), in grado di intercettare questi movimenti e trasformarli in qualcosa di concreto.


Gli anonimi sovversivi di Facebook
di Marco M. - www.pressante.com - 15 Dicembre 2009

Non c'è bisogno di scomodare Orwell per capire che i politici, per natura, una ne fanno e cento ne pensano per limitare le libertà dei cittadini. Negli ultimi anni proliferano in tal senso gli attacchi ad internet.

Stiamo parlando comunque di politici, categoria pesantemente vittima del digital divide, il che da un certo punto di vista è una fortuna: la totale incompetenza in materia rende i loro tentativi spesso inutili e talvolta esilaranti.

Nel settore si sta distinguendo Gabriella Carlucci, che da un po' di tempo ha presentato un progetto di legge censoria con cui, tra le altre cose, vuole l'eliminazione dell'anonimato su internet.

Nello specifico ieri, poiché Facebook è un sito a prova di imbecille ma non di parlamentare (cit), la Carlucci coglie al balzo la solita tiritera propagandistica anti-internet, tornata in auge in occasione dell'aggressione a Berlusconi, per vergare quanto segue:

"Internet e i social network stanno diventando, ogni giorno di più, canali e strumenti di diffusione di odio e veleno.

I gruppi nati su Facebook per inneggiare alla vile aggressione, subita ieri a Milano dal Presidente Berlusconi, provano, ancora una volta, che è giunto il momento di eliminare definitivamente l’anonimato in rete.

Chiedo al Ministro Maroni ed al Ministro Alfano, il quale tempo fa aveva annunciato provvedimenti in tale direzione, di appoggiare la mia proposta di legge anti-anonimato presentata alla Camera dei Deputati qualche mese fa.

Un provvedimento che non è contro la rete, non è contro la libertà di espressione, ma contro i criminali che abusano di Internet per infrangere la legge.

E’ inconcepibile ed inaccettabile che al gesto incontrollato di un folle sia seguita l’adesione fredda e cosciente di migliaia di persone. I social network non sono più luoghi di incontro e socializzazione virtuale. Si sono trasformati in pericolose armi in mano a pochi delinquenti che, sfruttando l’anonimato, incitano alla violenza, all’odio sociale, alla sovversione."

Anonimato. Facebook. Già.


Tanto rumore per nulla

di Mazzetta - Altrenotizie - 16 Dicembre 2009

L'aggressione al premier ha rappresentato allo stesso tempo una ferita ingiusta all'uomo e all'istituzione, una piccola disgrazia per il paese e un bel problema per l'opposizione.

Nell'occasione l'Italia è sembrata un paese sull'orlo di una crisi di nervi, ma la cacofonia generale è invece frutto di azioni calcolate; spesso male; e mirate a cogliere vantaggi politici dalla notizia del giorno.

Liquidato il campo dalle ipotesi più bizzarre, come quella del “fuoco amico” o del pazzo guidato dagli avversari politici, resta in bella evidenza solo il velocissimo tentativo di approfittare del fattaccio da parte degli associati al premier, perché se avessero veramente a cuore il tono e la qualità del dibattito politico, avrebbero minimizzato e sopito.

Di dichiaranti con il pelo sullo stomaco, capaci di diffondere le peggiori calunnie, ne hanno parecchi e non è stato per niente difficile arruolare gente nella caccia ai “responsabili morali” tra le fila dell'opposizione al sire di Arcore. Anche se è stato chiaro fin da subito che si trattava del gesto di uno sconsiderato isolato.

L'opposizione è rimasta disorientata da accuse del genere e dalla furia con le quali sono state scagliate, anche se non sono accuse nuove, perché negli ultimi mesi è stato proprio il premier, ormai isolato e inviso come un appestato, a gettare continuamente offese e secchiate di letame ai suoi nemici.

Offese anche molto pesanti, ribadite dai media che controlla e sostenute dai “politici” che ha miracolato, calunnie a profusione e toni da guerra civile, ogni giorno ad annunciare un golpe o a dar del frocio agli avversari.

Il più fesso è stato Di Pietro che, come gli capita spesso, ha trovato le parole sbagliatissime per esprimere la sua ribellione a questa ipocrisia, offrendo benzina al fuoco degli unni. Altri non hanno saputo fare di meglio e hanno dovuto piegarsi al fuoco di fila su televisioni e giornali.

Ad accompagnare tutto le immagini del premier ferito, immagini crude che mettono tristezza e che non possono piacere a nessuno, subito macinate dai media di ogni colore e latitudine, l'inciviltà dell'immagine che strumentalizza il grande comunicatore, che però in questo caso è anche un uomo ferito e sofferente.

Ma nessuno ha rinunciato a pubblicarle più e più volte, vendono più di qualsiasi geniale editoriale e la fatica nel pubblicarle equivale a zero.

Un grande rumore che ha scatenato un grande caos, fatto di affermazioni deliranti e anche di veri e propri sciacallaggi istituzionali, come quelli del ministro Maroni, che dopo aver fallito nell'assicurare la sicurezza del premier, adesso vorrebbe chiudere internet e proibire le contestazioni, ridicolo se non facesse sul serio per deflettere le sue responsabilità.

“Italiani, sempre rumore, sempre casino”, lo devono aver pensato quelli di Facebook, tirati in mezzo perché le discussioni e le reazioni degli utenti hanno offerto il pretesto per indicare utili istigatori del crimine in qualche migliaio di balordi che hanno colto, pure loro, l'occasione di spararla grossa. Un cortocircuito per il quale moltissimi tra i molti milioni che passano al giorno sul sito, hanno offerto l'occasione di strillare al reato.

Non bastasse questo, alcuni furboni, che si dilettavano a costruire gruppi falsi per recuperare dati degli utenti, hanno di colpo cambiato nome ad alcuni siti-bufala, trasformandoli in pagine a sostegno del premier.

Un furto del consenso di una massa enorme di persone, ad esempio il gruppo “No Facebook a pagamento” (una bufala, perché FB non ha mai ipotizzato una cosa del genere), aveva due milioni d’iscritti.

Tutta gente che ieri aveva ancora un diavolo per capello a causa della truffa. Facebook ha reagito salomonicamente, rasando all'ingrosso centinaia di gruppi, forse la risposta migliore alle minacce del governo e al ribollire degli utenti, di sicuro la più semplice e immediata.

Gli utenti “innocenti” potranno appellarsi alla procedura interna o rifare comunque un account usando un altro indirizzo mail. Forse il caso relativo è stato almeno un'utile una lezione sullo stare in rete con gli occhi aperti, che gentaglia pronta ad approfittare dell'ingenuità altrui ce ne sarà sempre.

Anche il sito de Il Giornale si è segnalato come una discreta raccolta di letame: dagli inviti a uccidere Travaglio e altri, fino alla proposta di pene medioevali per i “rossi, non si sono fatti mancare proprio niente.

Eppure lì i commenti devono essere approvati dalla redazione prima di apparire, non è un sito come Facebook che non filtra nulla o come Indymedia; che in più offre l'anonimato agli utenti, lì appaiono solo quelli che sono ritenuti opportuni.

Vedremo che farà Maroni quando si renderà conto che dovrebbe rasare tutti i siti dell'estrema destra e pure chiudere Radio Padania, dalla quale si è incitato al linciaggio di quelli dei “centri sociali”, che non c'entrano niente con l'aggressione a Berlusconi, ma stanno un bel po' sulle balle e sono comunque più intonati all'occasione dei soliti musulmani e anche dei negri.

Caos, rumore che all'opposizione è costato anche il naufragio della fantastica iniziativa della “mille piazze” del Partito Democratico, che doveva essere la forte iniziativa contro il governo, diversa dal No-B Day violetto, del principale partito d'opposizione. Come sia andata non si sa, non ne ha parlato proprio nessuno, come se non si fosse mai tenuta, anche i motori di ricerca restituiscono solo l'immagine del totale disinteresse.

Anche il flop di Berlusconi in piazza del Duomo è passato sotto silenzio, c'era poca gente, a far risaltare qualche decina di rumorosi contestatori e il premier che arringava astioso dal palco i fedelissimi adoranti, ripreso ovviamente in campo stretto, a vedere piazza del Duomo dall'alto faceva tristezza per quanto era vuota.

Tutta questa agitazione spettacolare però, non è servita a molto; già oggi il governo ha dovuto mettere la fiducia alla finanziaria, segno che l'attentato non ha per nulla compattato la pur ampia maggioranza e che il timore d'imboscate c'è ancora tutto, mentre la soluzione dei problemi giudiziari di Berlusconi s'allontana correndo.

L'immagine è quella di un fallimento esteso ben oltre il gradimento di piazza, l'aggressione ha offerto una sospensione momentanea della pressione sul leader, ma il partito di maggioranza del paese senza memoria, farà bene a non contarci troppo.

Se Berlusconi e i suoi sono cinici bastardi, quelli che si stanno accordando per liberarsi del suo governo non sono certo di primo pelo e, tra qualche giorno, l'effimero impatto mediatico dell'incidente sarà superato. Allora premier si concederà l'inevitabile gesto di magnanima benevolenza verso la famiglia dell'aggressore, ma già si starà parlando d'altro.

Il colpo di statua non è sufficiente a provocare un colpo di stato, ma nemmeno a miracolare un governo che non c'è più da tempo, Berlusconi uscendo dall'ospedale si ritroverà esattamente dov'era prima di domenica.


La delusione di Fini con i falchi "Niente lucidità , incendiano lo scontro"

di Francesco Bei - La Repubblica - 16 Dicembre 2009

Gianfranco Fini non riesce a comprendere quale sia la bussola del Pdl, posto che ce ne sia una. Perché, a meno di non credere che al vertice manchi "lucidità politica", la conclusione è che questo innalzamento di toni nasconda davvero l'intenzione di andare ad elezioni anticipate.

A sera il presidente della Camera mette in fila con i suoi deputati "i fatti" di una giornata vissuta sull'ottovolante, con l'aula di Montecitorio - alla faccia dell'appello di Giorgio Napolitano - trasformata in una bolgia di insulti reciproci. Come se l'attentato di Milano non ci fosse stato, come se la politica fosse di nuovo tornata indietro. Ma è al suo partito, ormai in mano ai falchi, che il presidente della Camera, "profondamente deluso", rimprovera gli errori più gravi.

A innescare la miccia è stata la decisione del governo di porre la questione di fiducia sulla Finanziaria, dopo che le opposizioni avevano accettato di ridurre al minimo gli emendamenti. "C'era un accordo politico nella maggioranza - si è lamentato Fini - e quegli emendamenti sarebbero stati tutti respinti. Tremonti lo sapeva. Ma il Parlamento avrebbe lavorato, maggioranza e opposizioni avrebbero collaborato". Insomma, sarebbe stato "un bel segnale in questo clima esasperato".

Fini ha cercato di spiegarlo in tutti i modi a Giulio Tremonti prima della discussione in Aula. Si sono appartati nella "sala del governo", hanno discusso a lungo, ma il ministro è stato irremovibile. "Allora parlerò io in aula", ha chiuso seccamente Fini, "perché la fiducia messa in questo modo, contro la stessa maggioranza, si spiega soltanto con l'ideologia".

E così è stato, Fini ha parlato contro la fiducia e Pdl e Lega lo hanno sommerso nuovamente di critiche. Un deputato del Pdl - Giancarlo Lehner - arriva a dire che Berlusconi ha ricevuto da Fini "un altro colpo in faccia".

Il cofondatore del Pdl, convinto che si sia ormai passato il segno, si sfoga con i suoi per una frase che giudica "una barbarie", preoccupato anche per quello che scriveranno oggi il Giornale e Libero. "Questa volontà di costruirsi il nemico interno - ragiona Benedetto Della Vedova - è davvero incomprensibile". A meno che, appunto, il Pdl non sia in cerca di un pretesto per andare a elezioni anticipate.

Ma l'altro incidente che Fini considera "grave" è l'intervento "incendiario" di Fabrizio Cicchitto, quello in cui il capogruppo del Pdl indica come mandanti morali dell'attentatore alcuni pm, i giornali e i politici più critici contro il premier.

Il presidente della Camera, chiusa la seduta d'aula, è una furia per "l'occasione mancata", quella in cui "si poteva iniziare a respirare un clima diverso". Con la visita a Berlusconi al San Raffaele, con quell'abbraccio al Cavaliere dopo settimane di ostilità, con la visita di Pier Luigi Bersani allo stesso capezzale, Fini era convinto che si fosse iniziata a costruire la cornice di una "pacificazione" politica.

E invece, "grazie agli incendiari siamo di nuovo a questo punto". Stavolta il presidente della Camera ci tiene a distinguere tra il Cavaliere e i falchi del Pdl. Anzi, considera che "i peggiori nemici di Berlusconi" siano propri quelli che soffiano sul fuoco. "Una dimostrazione di poca lucidità politica", visto che un'atmosfera più serena è proprio quella che servirebbe per far passare anche quei provvedimenti sulla giustizia che reclama il presidente del Consiglio.

Per tentare di riportare la calma Fini rompe dunque gli indugi e decide di chiamare Berlusconi al San Raffaele. Con il premier deplora l'atteggiamento di Tremonti e gli attacchi "violenti e incendiari" di Cicchitto. Una telefonata da cui ricava appunto la convinzione che Berlusconi questa volta sia incolpevole.

Anche Pier Ferdinando Casini, allarmato per lo scontro sempre più forte, testimone degli attacchi di Cicchitto prima da Vespa e poi in aula, chiama Silvio Berlusconi chiedendo al premier di "porre un freno" ai falchi.

A sera, Casini partecipa a un ricevimento all'ambasciata di Israele e, parlando sottovoce a Gianni De Michelis e Stefania Craxi, ribadisce il messaggio: "Tutta la solidarietà per quello che gli è successo, ma se Berlusconi insiste con le elezioni anticipate finisce che stavolta le perde di brutto".

Torna dunque l'ipotesi del voto anticipato, almeno come sospetto. In questo caso, se davvero Berlusconi facesse saltare il tavolo, i finiani non starebbero fermi, mollando la casa madre e garantendo con i loro voti l'esistenza di un governo istituzionale. Sono al momento niente più che ragionamenti e vengono fatti filtrare nella speranza che Berlusconi comprenda che non è più tempo di "tirare la corda".

Ma la convivenza tra Fini e i falchi sotto lo stesso tetto è ormai diventata difficile. Tanto che, nei discorsi tra gli uomini del presidente della Camera, si affaccia anche la possibilità di creare un gruppo parlamentare autonomo.

La collocazione sarebbe sempre nel centrodestra, ma offrendo al governo un appoggio esterno e contrattando di volta in volta il sostegno ai vari provvedimenti. Come l'Mpa di Lombardo.


Ecco come dobbiamo sperare che finisca veramente Berlusconi

di Valerio Lo Monaco - www.ilribelle.com - 14 Dicembre 2009

Martiri? No, grazie. Figuriamoci se dopo aver attentato alla democrazia, spaccato in modo virulento l'Italia a metà, calpestato la nostra Costituzione e più in generale aver commesso tante di quelle nefandezze che la metà sarebbero state anche troppe, dobbiamo auspicare che accada qualcosa in grado di far passare Berlusconi come martire per levarcelo di torno.

Riuscire a distogliere l'attenzione dal clamore mediatico di quanto accaduto a Milano con il lancio della statuetta del Duomo (del che, si potrebbero fare diverse elucubrazioni simboliche) non è agevole.

Ancora di più dalla mole di dichiarazioni e contro dichiarazioni (e smentite e contro smentite, in pieno stile berlusconiano) che stanno piovendo da tutti attraverso le agenzie di stampa in tutti i quotidiani. Ma la cosa è necessaria.

E logicamente intuitiva, in fin dei conti. Al di là delle strumentalizzazioni di rito, anche Di Pietro, sul quale si sono abbattuti gli strali di tante parti (anche da parte dei suoi presunti alleati) non ha detto nulla di grave.

Ha condannato l'evento com'era giusto facesse. E ha ribadito che un clima di odio politico c'è. Il responsabile di tale clima è facile individuarlo. Si situa, grossomodo, nella stessa persona che ha ricevuto una statuetta sui denti. L'analisi e le dichiarazioni di Di Pietro sono corrette.

Ma non è di un martire che abbiamo bisogno. Figuriamoci. Nè di attentati Kamikaze. Questa è la cosa più importante da capire. Perché un Berlusconi martirizzato sarebbe veramente troppo da sopportare, per la memoria collettiva.

Berlusconi finirà a modo suo. Tradito e infilato da qualche suo sodale che si sarà stancato di leccargli il culo per decenni e poi vedersi passare sotto al naso, al suo posto e in qualche posizione di rilievo, l'ultima mignotta che ha passato la notte nel lettone di Putin. Oppure finirà come è normale che sia per un uomo dichiarato da molti (sua moglie in primis) come un malato.

Per un uomo considerato da molti come uno squilibrato ipertrofico. Circondato da ambienti e persone di dubbio, se non nullo, spessore morale, etico, politico e civile. Tra collusioni, condannati in Parlamento e prostitute, adolescenti sulle ginocchia e iniezioni e docce fredde e finte colate laviche da parvenue.

Berlusconi deve finire come è giusto che sia. Implodendo su se stesso. Da folle esibizionista malato. Nudo, con un trench aperto davanti a una ragazzina tredicenne di fronte a una scuola media. Poi potremo tirare lo sciacquone.


Questionario/concorso: quanto ci costa un regime populista?

di Giuseppe Cassini* - FabioNews.info - 15 Dicembre 2009

Ogni regime populista lascia dietro di sé, una volta crollato, cumuli di macerie: non solo politiche ed etiche ma anche economiche e finanziarie. Nell’ultimo secolo l’Italia ha subito tracolli simili per due volte: dopo la I° guerra mondiale e dopo la caduta del fascismo.

In entrambi i casi è stato calcolato con buona approssimazione quanto ci hanno rimesso le tasche degli italiani per aver prestato fede ai “pifferai magici”. Presto arriverà la terza volta e si avvererà di nuovo la profezia di Galbraith: Gli sciocchi prima o poi verranno separati dal loro denaro.

C’è però il fondato timore che i mezzi di disinformazione al soldo del Premier mettano a segno in extremis, grazie alla loro potenza di fuoco, un colpo mediatico preventivo: quello di addossare all’opposizione o alla crisi mondiale o al complotto di “poteri forti” stranieri la responsabilità del “buco” lasciato da questo governo.

Vale dunque la pena preparare all’evento gli elettori che hanno votato per questa Destra. A loro si è già rivolto l’economista liberale Luigi Zingales scrivendo: “Berlusconi sostiene che gli italiani lo vogliono così e i sondaggi gli danno ragione. Ma se sapessero quanto ci costano certe sue vicende, in termini di esportazioni mancate e investimenti esteri perduti, una buona fetta di quel consenso probabilmente sparirebbe”.

Su tale linea continuiamo noi con 10 domande.

QUESTIONARIO-CONCORSO.

Invitiamo a contribuire in due modi: formulando meglio le domande e/o fornendo risposte con cifre il più possibile precise. In seguito verrà lanciato un concorso a premi. Vincerà chi si avvicinerà di più alla cifra finale in risposta alla domanda riassuntiva: quanto sarà stato sottratto dalle vostre tasche al termine dell’epopea berlusconiana?

Ecco le 10 domande:


1. Nel mondo è invalso l’uso di “dare i numeri”, stilare cioè graduatorie internazionali che classificano gli Stati secondo il grado di competitività, innovazione, corruzione, ecc. Benché i punteggi siano spesso discutibili, analizzandoli tutti assieme si ottiene la fotografia della realtà.

Un brutto piazzamento allontana gli investitori stranieri, alza il costo del credito, dissuade dall’acquisto di prodotti italiani. Gli Stati in testa alle graduatorie godono di una rendita di posizione, gli altri soffrono di un pregiudizio negativo arduo da smantellare.

Ciò vale soprattutto per la classifica sulla “corruzione percepita”, che ha visto l’Italia scendere dal 29° posto nel 2001 al 63° nel 2009. La corruzione ostacola lo sviluppo, perché corruzione e povertà sono due flagelli che si alimentano a vicenda. La Banca Mondiale stima che la corruzione in Italia “brucia” 50 miliardi di euro l’anno.

Poiché dal 2001 ad oggi l’Italia ha dimezzato tutti i suoi punteggi precipitando in piazzamenti da Paese ex-sviluppato, quanto costerà agli imprenditori ed esportatori italiani recuperare la credibilità necessaria a competere sui mercati? E quanto costa ad ogni italiano il crescendo di corruzione degli ultimi anni?


2. Ogni Paese ha reagito alla crisi economica globale con misure anticicliche secondo la gravità con cui è stato colpito. Il governo italiano si è astenuto dall’adottare misure adeguate, prima negando l’esistenza della crisi, poi sostenendo che il Paese era stato solo sfiorato, infine decretando d’ufficio la fine della crisi.

Questa politica voodoo ha sortito parecchi effetti: ha indebolito la competitività del Sistema Italia sul mercato globale; acuito le ineguaglianze di reddito; spinto la disoccupazione reale al 12% e la pressione fiscale al 45%; costretto 1/3 degli italiani a rompere il salvadanaio per tirare avanti.

Infine, ha azzerato l’avanzo primario realizzato dal governo Prodi e invertito la tendenza alla riduzione del pesante debito pubblico. Esso è in risalita, infatti: dal 105% al 120% del Pil, pur senza investimenti pubblici che la giustifichino.

Quanto costerà agli italiani questa politica economica voodoo, e in particolare quanto costerà il servizio aggiuntivo del debito pubblico a partire dal 2010?


3. Il centrosinistra al governo si rifiutò di varare una legge sul conflitto d’interessi, sostenendo che neppure un decimo dell’elettorato l’avrebbe capita ed approvata. A nessuno era passato per la testa di calcolare quanto sarebbe costata l’assenza di una tale legge.

Nessuna sorpresa, dunque, che il vuoto normativo sia stato riempito con provvedimenti (a volte varati persino dal centrosinistra) a preminente vantaggio dell’impero aziendale di Berlusconi e dei suoi amici. Qualche esempio?

Mediaset.
A) Il Premier–padrone di tre reti si rinnova la concessione da solo pagando un risibile canone dell’1% del fatturato multimilionario di Mediaset: regalo del Natale ’99 offertogli dal governo D’Alema con la Legge Finanziaria n. 488 del 23/12/99 art. 27.

B) La fonte primaria di guadagno per le tv è la pubblicità, vero? Beh, a parità di audience i ricavi pubblicitari della Sipra, concessionaria Rai, ammontano alla metà dei ricavi di Publitalia, concessionaria di Mediaset (nel solo 2009 Sipra avrà ceduto a Publitalia una “dote” di circa 120 milioni di €).

Mediolanum
.
A) In quanto banca di proprietà del Primo Ministro ha ottenuto senza asta di utilizzare i 14.000 sportelli delle Poste, con un guadagno di circa 1 miliardo l’anno.

B) In quanto compagnia d’assicurazione trae ingenti vantaggi fiscali da specifiche norme sulla previdenza integrativa individuale, inserite ad hoc nella riforma della previdenza complementare (D.L. n. 252/2005).

Sommando tutti gli effetti distorsivi del conflitto d’interessi a beneficio delle imprese di Berlusconi e dei suoi cari, a quanto ammonta il danno pecuniario per la collettività? E di quanto ha lucrato l’impero aziendale del Primo Ministro?

4. I decreti Bersani di liberalizzazione approvati nel 2006 stavano fluidificando il mercato e – una volta a regime – avrebbero sortito effetti benefici su prezzi ed occupazione, in settori-chiave come assicurazioni, libere professioni, servizi pubblici locali, mutui immobiliari, farmacie, taxi e class action.

Tutto si poteva immaginare salvo che un governo sedicente liberista si adoperasse a stracciare le “lenzuolate” del governo Prodi. E’ proprio quanto sta accadendo, sotto la spinta di agguerrite corporazioni contrarie al libero mercato e tutelate dal governo in carica. In compenso il governo liberalizza la gestione di un bene pubblico come l’acqua, con un prevedibile aumento del 30% dei canoni idrici.

Quanto inciderà sul portafoglio dei cittadini l’aumento dei prezzi provocato da questa politica anti-mercato nell’insieme dei settori liberalizzati a suo tempo dai decreti Bersani?


5. La scelta del governo di porsi alla retroguardia europea nella lotta ai cambi climatici ha aperto una voragine di inadempienze all’obbligo, assunto dall’Italia col Protocollo di Kyoto, di ridurre del 6,5% le emissioni di carbonio.

In pratica si dovranno comprare sul mercato permessi di emissione per un costo stimato dall’angelica Ministro dell’Ambiente attorno al miliardo di €. In caso negativo, come è probabile, l’Italia sarà citata alla Corte di Giustizia europea col forte rischio di esser condannata a pagare multe miliardarie.

Alla fine dei conti tutto ricadrà sulle tariffe elettriche. Quanto inciderà sulla bolletta del consumatore l’indifferenza di questo governo ai vincoli ambientali?


6. La crisi di Alitalia raggiunse il parossismo sotto la direzione Cimoli, nominato da Berlusconi nel 2004. Prodi, tornato a Palazzo Chigi nel 2006, optò per la soluzione di venderla ad Air France con tutti gli assets e liabilities.

Berlusconi si oppose e mise in piedi una “cordata nazionale” che rilevò l’indebitata compagnia di bandiera, inglobandovi anche AirOne. Nello studio più aggiornato al riguardo (Alitalia. Una privatizzazione italiana di Gnesutta e De Blasi) si legge: “Tra mancati proventi della cessione ad Air France, ammortizzatori sociali e debiti si stima che il Piano Fenice sia pesato sulla finanza pubblica tra i 4,1 e i 6,8 miliardi, contro gli 1,2 e 2,4 della soluzione francese”. Oltre ai miliardi di denaro pubblico già versati e i nuovi debiti in formazione, va aggiunto il sovraprezzo gravante sulle tariffe aeree nelle tratte interne soggette a un monopolio di fatto.

Alla fine dei conti quanto verrà a costare al contribuente la soluzione “patriottica” imposta da questo governo?


7. Il sogno berlusconiano di battezzare (col suo nome?) il Ponte sullo Stretto di Messina si basa su fondamenta precarie quanto il terreno sismico su cui dovrebbe ergersi. Manca il progetto esecutivo.

Quanto al piano finanziario, sui 6,3 miliardi di costo dell’opera finora preventivati 3,8 verrebbero prestati dalle banche e 2,5 prelevati dall’erario (ma solo 1,3 a fondo perduto, il resto da restituire con gli interessi).

A causa della concorrenza di voli a basso costo e di navi che trasportano camion e passeggeri direttamente tra Sicilia e continente, il movimento sullo Stretto è in costante discesa: oggi il giro d’affari non supera 120 milioni di € l’anno, briciole rispetto ai 5 miliardi almeno che la società “Stretto di Messina” dovrà restituire grazie ai pedaggi.

Si calcola che, al termine della prevista gestione trentennale del Ponte, non verrà onorata neppure la metà del debito consolidato. Finora il progetto è costato oltre 100 milioni di € in stipendi, uffici e burocrazia; il 6/11/09 il Cipe ha stanziato 1,3 miliardi (soldi nostri) per avviare il progetto esecutivo e aprire i cantieri.

Alla fine dei conti, quanto sarà costato al contribuente un’opera che – come i disegni dell’architetto Sant’Elia – non verrà mai realizzata?


8. Per realizzare un piano di centrali nucleari occorrono aree immuni da rischi sismici o frane, ingenti quantità d’acqua per il raffreddamento e luoghi dove depositare in massima sicurezza le scorie ad alta radioattività e quelle a minor intensità. In Italia dove sono?

Nessuna Regione – al dunque – accetterà di ospitare una centrale. Ciò nonostante il governo, in accordo con l’Enel e la società francese Areva, ha lanciato un piano di costruzione entro il 2020 di almeno quattro centrali, al costo di 5 miliardi ciascuna.

A questi 20 miliardi si dovrà sommarne altri 15 per i depositi delle scorie, dal momento che ormai la Francia rifiuta per legge di ritrattare scorie radioattive straniere. Senza calcolare i costi aggiuntivi in corso d’opera, come insegna l’esperienza delle nuove centrali in via di costruzione all’estero.

Poiché nessuna autorità locale accetterà di ospitare una centrale, quanto verrà a costare un piano nucleare che non sarà mai realizzato? E se si riuscisse a costruirne qualcuna, quanto verrebbe a costare realmente ogni kw prodotto?


9. I governi Berlusconi hanno varato scudi fiscali per tre volte (2001-2003-2009), naturalmente giurando ogni volta che sarebbe stata l’ultimo. Con i due precedenti scudi fiscali furono reimportati capitali per 77 miliardi di €, ma l’aliquota comminata era solo del 2,5%.

Questa volta sarà del 5%, ma sempre inferiore a quella adottata da altri Paesi. L’aspetto di maggior gravità di queste amnistie sta però nel fatto che, essendo ripetuti nel tempo e garantendo l’anonimato degli “scudati”, si incentiva il riciclaggio e si perpetua la propensione all’evasione fiscale.

A parte il regalo (incalcolabile) offerto alla criminalità organizzata, a quanto ammonterà il mancato gettito erariale, tenendo conto anche del differenziale tra l’aliquota italiana e quella adottata in media negli altri Paesi?


10. A proposito di evasione fiscale, le escort in servizio notturno a Villa Certosa e a Palazzo Grazioli sono state retribuite chi 1000 e chi 2000 €. Se avessero partita Iva dovrebbero fatturare le prestazioni, addebitare il 20% d’Iva all’”utilizzatore finale” e dichiarare le retribuzioni nella denuncia Irpef.

Se invece non avessero partita Iva e si trattasse dunque di prestazioni occasionali, i proventi dovrebbero comunque esser dichiarati nella denuncia Irpef come “redditi diversi”.

Nel caso che le escort abbiano trascurato i loro doveri tributari, a quanto ammonta il mancato incasso per l’erario? (E’ lecito dedurre nel computo l’eventuale evasione dei trans nelle prestazioni a favore di Marrazzo).


* Chi è Giuseppe Cassini: nato a S. Margherita Ligure nel 1941, ha svolto la carriera diplomatica nel periodo 1967-2008. E' stato anche ambasciatore a Beirut nonché consigliere diplomatico del contingente italiano in Libano (UNIFIL). Autore di “Gli Anni del Declino. La politica estera del Quinquennio 2001-06”, ed. Bruno Mondadori, 2007. Collabora a quotidiani e riviste, tra cui l’Unità, il Manifesto, il Fatto Quotidiano, il Daily Star di Beirut, il Christian Science Monitor di Boston e “Il Politico” dell’Università di Pavia.