Quindi due diversissime elezioni, simbolo di un'America Latina che insiste nel volersi liberare dal soffocante giogo degli USA, ma che al suo interno vede ancora ampie zone che vogliono invece continuare con il loro bieco servilismo utile solo a mantenere in vita lo storico potere feudale della piccola cricca di ladinos sparsa nel continente.
Honduras, la farsa elettorale
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 30 Novembre 2009
La farsa elettorale in Honduras è andata regolarmente in onda. Presenti i candidati, gli osservatori internazionali, i paesi amici e le urne, hanno declinato l’appuntamento solo il 65-70% degli elettori. E’ l’astensione più alta nella storia del Paese. Cosa volete che sia? Non si può avere tutto.
E’ stato eletto Porfirio Lobo, con più del 56% dei voti quando lo scrutinio era già concluso nella metà dei seggi. Lobo avrebbe sconfitto Elvin Santos, candidato liberale. Le differenze tra i due? Solo nome e cognome, non si perda tempo nel carcare altri elementi quali idee o programmi.
Il fantoccio Micheletti ha assicurato che cederà il potere “senza nessun condizionamento”. Ci mancherebbe altro: non di cessione di potere si tratta, nel caso di specie, ma esclusivamente di subentro di compare.
Ma se la partecipazione al voto é stata piuttosto rachitica, non per questo il sistema di sicurezza destinato a rimarcare chi comandava e chi comanderà ha lasciato a dediderare. Non sono stati lesinati sforzi per impedire che la farsa potesse avere un esito diverso dal previsto.
Le cinquemila urne disseminate nella republica bananera erano sorvegliate da 31.000 soldati e militari, con l’aggiunta di 5.000 riservisti che nessuno conosce e 800 paramilitari definiti “esperti” statunitensi di origine latina. La dittatura, evidentemente, si sentiva sicura del consenso popolare.
A leggere il giornale argentino Clarin, gli 800 “esperti” (chi erano? chi li ha reclutati? a chi rispondevano?) erano distribuiti nei punti chiave del paese ed erano mascherati da civili honduregni, "pronti ad evitare atti di violenza e a controllare i valichi di frontiera con il Nicaragua".
Il companatico per tanto sforzo bellicista era stato acquistato nei giorni scorsi dal fantoccio Micheletti: secondo quanto riportato da una denuncia di Amnesty international, nella settimana precedente il voto la dittatura golpista aveva acquistato dagli Stati Uniti diverse armi, alcuni camion blindati, 10.000 granate di gas lacrimogeno e 5000 proiettili per le stesse da utilizzare “in caso d’emergenza”.
Il costo? Dodici milioni di dollari. Per non sprecare completamente tanto ben di dio, a San Pedro Sula, una manifestazione pacifica a favore dell’astensione é stata attaccata e repressa violentemente. Una persona é scomparsa e decine di altri manifestanti sono stati picchiati ed arrestati.
Il Fronte Nazionale di Resistenza ha quindi politicamente vinto lo scontro con i gorilla golpisti, che hanno goduto dell’appoggio della minoranza della popolazione e dell’indifferenza o ostilità della maggioranza.
Il legittimo, deposto con la forza, Presidente dell’Honduras, Manuel Zelaya, ha chiesto alla comunità internazionale di disconoscere la legittimità delle elezioni e del loro esito. I governi democratici del continente, infatti, non lo faranno, difficile del resto pensare a libere elezioni con un paese con i carri armati nelle strade, in formale stato d’assedio e con il coprifuoco vigente.
Cuba, Nicaragua, Guatemala, Repubblica Dominicana, Bolivia, Ecuador, Venezuela, Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay non hanno nessuna intenzione di riconoscere né la giunta golpista, né la legittimità delle elezioni, figuriamoci il vincitore della partita truccata. Il Messico aveva annunciato la sua posizione ad urne chiuse. Vedremo se si allineerà con lo Zio Sam o con l'America Latina.
Ma il regime golpista non é più solo come sembrava (a chi non voleva leggere bene) immediatamente dopo il golpe. Hanno reiterato l’appoggio ai golpisti ed alla loro farsa elettorale il governo degli Stati Uniti, di Panama e Perù. Lo stesso Oscar Arias, il costaricense scelto dall’Organizzazione degli Stati Americani come “mediatore” nella crisi, si era pronunciato positivamente nei confronti della chiamata alle urne da parte dei golpisti.
Quella di mediare parteggiando per una delle due parti, del resto, é caratteristica storica di Arias, già sperimentata ai tempi degli accordi di pace tra legttimo governo sandinista e bande terroristiche definiti "contras". E a Micheletti non poteva far mancare il suo appoggio lo Stato d’Israele, che quando sente nell’aria profumo di militari contro i diritti civili, sente che ci si trova di fronte a qualcosa che la riguarda e non riesce a trattenere l’emozione ed il trasporto.
L’ambasciatore israeliano in Honduras, Eliahu Lòpez, aveva informato alla vigilia del voto che “il governo di Tel Aviv appoggia le elezioni e il vincitore delle stesse, perché crede che il voto sia il cammino più adeguato per andare avanti”. Quando il diritto internazionale é schiacciato, Israele non manca mai di far sentire il suo applauso.
Labirinto Honduras
di Stella Spinelli - Peacereporter - 30 Novembre 2009
I golpisti sono riusciti a far vincere al pupillo Lobo le elezioni considerate illegittime da gran parte degli honduregni e degli stati americani. Ma secondo il Fronte contro il golpe, l'astensione ha raggiunto il 65 percento.
"Con piena soddisfazione annunciamo che la farsa elettorale montata dalla dittatura è stata pesantemente sconfitta dalla esigua affluenza alle urne, tanto scarsa da spingere il Tribunale Elettorale a prorogare di un'ora la chiusura dei seggi, spostandola alle 17. Il monitoraggio che la nostra organizzazione ha fatto a livello nazionale evidenzia una percentuale di astenuti fra il 65 e il 70 percento, il più alto della storia nazionale.
Così gli honduregni hanno punito i candidati golpisti e la dittatura, che adesso cercano in tutti i modi di mostrare un volume di voti che non esiste. Denunciamo che per fare questo il regime è arrivato a portare nel municipio di Magdalena Intibucà militanti salvadoregni del partito Arena, affinché potessero votare come honduregni. Dobbiamo aspettarci come minimo una manipolazione del conteggio elettronico.
La disperazione del regime di fatto è tale che ha represso brutalmente la manifestazione pacifica che si stava svolgendo nella città di San Pedro Sula. In quella marcia risultarono feriti, picchiati e quindi arrestati diversi compagni. Si riporta un desaparecido. Tra i feriti, un fotografo della Reuters e fra gli arrestati, due religiosi del Consejo Latinoamericano de Iglesias che stavano svolgendo attività di osservazione dei diritti umani.
Considerando i risultati della farsa elettorale come una grande vittoria per il popolo honduregno, il Frente nacional de Resistencia invita tutto il popolo in resistenza a festeggiare la sconfitta della dittatura. Convochiamo una Grande Assemblea domani, (Oggi ndr) junedì 30 novembre, a partire dalle 12 nella sede del Stybis a Tegucigalpa e alla gran Carovana della Vittoria contro la farsa elettorale che partirà alle 15 da Planeta Cipango".
Questo il lungo comunicato che esprime la posizione del Fronte contro il colpo di Stato nel paese centroamericano nei confronti di una tornata elettorale messa in dubbio non solo, appunto, dalla gente comune che si è riunita ormai dal 28 giugno (giorno del colpo di stato) in movimenti di protesta e resistenza, ma anche da molti stati americani, Oea in testa.
E anche l'Onu, per non legittimare la farsa orchestrata dai golpisti, non ha inviato gli osservatori. Fuori dal coro gli Stati Uniti, che hanno sostenuto le elezioni con Colombia, Perù, Costarica, Panama e Israele.
Ma per comprendere il caos in cui versa quel paese, questa la versione mainstream di quanto accaduto ieri.
"Alle elezioni del dopo golpe in Honduras sembra fatta per Porfirio Lobo. Pur mancando i risultati ufficiali, il candidato del Partido Nacional (destra) ha ottenuto un netto vantaggio sul suo rivale diretto, Elvin Santos, risultato la cui legittimità è però contestata sia dal presidente deposto dal colpo di Stato del 28 giugno, Manuel Zelaya, sia dal Brasile e da altri paesi latinoamericani.
Lobo, 61 anni, ricco imprenditore agricolo, aveva già partecipato alle elezioni presidenziali nel 2005, quando venne battuto di misura (con uno scarto del 3,7%) proprio da Zelaya. In quell'occasione, basò la sua campagna elettorale sulla sicurezza, senza escludere la pena di morte contro i delinquenti. Negli ultimi giorni, Lobo ha detto di puntare soprattutto allo sviluppo e alla creazione di posti di lavoro.
Le elezioni di ieri si sono svolte cinque mesi dopo il golpe, in un clima di tensione, con circa 30 mila uomini, tra soldati e polizia, a presidiare Tegucigalpa e le altre città del paese centroamericano, uno dei più poveri dell'America Latina. Il voto ha spaccato in due il continente americano: Washington e altri paesi (tra i quali Perù e Costa Rica) sostengono che le elezioni sono state il primo passo per poter chiudere la crisi politica-istituzionale del paese.
Ma altri stati del continente, in primo luogo il Brasile di Lula, ma anche l'Argentina e il Venezuela, contestano tale interpretazione, e sostengono che accettare quanto accaduto con il golpe, e con la nascita del governo de facto di Roberto Micheletti, vorrebbe dire indebolire la democrazie e dare via libera alla legittimazione di altri colpi di Stato in America Latina.
Non a caso, Lobo ha già fatto sapere che 'la prima porta' alla quale intende bussare affinché la comunità torni a dialogare con l'Honduras del post-golpe è proprio quella di Brasilia. I primi riflessi internazionali del voto di Tegucigalpa sono giunti nelle ultime ore al vertice iberoamericano ad Estoril, in Portogallo, dove il ministro degli esteri del governo deposto di Zelaya, Patricia Rodas, ha chiesto al mondo di non riconoscere le elezioni del suo paese".
Ricostruzioni distanti, che riportano notizie diverse, ma che insieme compongono perfettamente il complesso e grave labirinto politico honduregno. Di certo c'è la repressione violenta esercitata sui manifestanti in marcia pacifica, con il risultato di almeno 83 arresti e di un morto per gli spari dei militari. E si parla di un saldo parziale.
A denunciare questo è Andrés Pavón, il presidente del Comitato per la difesa dei diritti umani in Honduras (Codeh). Dei detenuti, 22 sono ancora rinchiusi nel comando della polizia nazionale aspettando le decisioni della Fiscalia.
Violazione dei diritti umani come norma, dunque, secondo il presidente del Codeh, che ha precisato: "Il risultato di un processo elettorale organizzato nel marco di un colpo di Stato, protetto da coloro che hanno contribuito a colpire la democrazia e in questa aggressione sistematica ai diritti umani, non può essere riconosciuto dalla comunità internazionale".
Elezioni di regime
di Stella Spinelli - Peacereporter - 26 Novembre 2009
"Com'era prevedibile, il coinvolgimento del Dipartimento di Stato e del Pentagono nella
preparazione del colpo di stato che ha destituito il presidente honduregno Manuel Zelaya ha portato a guadagnare tempo per arrivare a una farsa elettorale, organizzata e presieduta dai
golpisti allo scopo di perpetuarsi al potere.
Non è bastato che Barack Obama abbia riconosciuto come unico presidente Zelaya, così come hanno fatto Onu e Oea, perché l'establishment statunitense, i repubblicani, la destra dei democratici, (Hillary Clinton e il suo clan), ed il Pentagono, hanno protetto e salvaguardato i golpisti di Tegucigalpa ed ora riconoscono delle elezioni che sono la continuità ed il culmine del golpe e sperano di legittimarlo".
È così che Guillermo Almeyra, opinionista dell'autorevole giornale messicano La Jornada, commenta quanto sta avvenendo nelle ultime settimane in Honduras, un paese che, vittima del golpe, adesso si prepara ad affrontare una tornata elettorale che è misconosciuta sia dalla maggioranza della popolazione che dalla comunità internazionale, tanto che la Oea non invierà gli osservatori.
Ma ora anche buona parte della classe politica sta cedendo. Più di cento candidati, infatti, hanno deciso di ritirarsi. E si tratta di aspiranti alla presidenza, alla vicepresidenza, al parlamento, al posto di sindaci, assessori, tutti convinti che queste elezioni siano irregolari, in quanto scaturite da un golpe militare. E non c'è nessun accordo o pseudo tale che tenga. La sostanza non cambia: i golpisti sono ancora al potere e il presidente legittimo ancora rinchiuso in un'ambasciata straniera che lo ospita. Come accettare una simile farsa?
Intanto in tutto il paese, sulla scia di Tegucigalpa, le manifestazioni organizzate dal Fronte contro il golpe non si placano. E la comunità internazionale ha espresso serie perplessità dato che l'unica condizione per il successo dell'accordo tra golpisti e sostenitori del governo legittimo, che avrebbe dovuto dunque preparare il terreno per elezioni regolari, era la restituzione del potere a Manuel Zelaya. Condizione che non è stata rispettata. A tutt'oggi.
Tra i rinunciatari più prestigiosi si contano l'aspirante sindaco di San Pedro Sula per il Partito Unificación Democrática (Ud), Samuel Madrid, e l'aspirante deputato per Innovación y Unidad Socialdemócrata (PINU), Gustavo Matute. "Non è prudente, né etico partecipare al processo senza aver restituito il potere a Zelaya", ha commentato Madrid, aggiungendo che in questi casi è necessario mettere da parte l'interesse nazionale e pensare alla nazione.
Hanno rinunciato anche il candidato indipendente alla presidenza, Carlos H. Reyes, e l'aspirante alla vicepresidenza per il Partito liberale, Margarita Elvir. Del Partito liberale è curioso sapere che fanno parte sia il presidente legittimo Mel che quello golpista Roberto Micheletti, e se si pensa che i rinunciatari del Pl sono ormai 55, si comprende che la classe dirigente sta sentendo quanto sia ormai pericoloso continuare a scherzare con il fuoco.
E il fuoco, per la prima volta nella recente storia honduregna, sono finalmente i cittadini, ormai coscienti dei propri diritti e per niente disposti a scendere a patti con gli usurpatori.
"Siamo di fronte a una rinuncia collettiva - ha commentato l'ambasciatore honduregno in Venezuela, Germán Espinal - che implica elementi chiari una crisi profonda e una elezione farsa, con poca capacità di legittimarsi".
Una rinuncia molto apprezzata dal Fronte, questo eterogeneo movimento, formato da contadini, sindacalisti, donne, politici progressisti e rappresentanti di molti settori della società civile, deciso portare il paese verso un veritiero ordine istituzionale, che inizierà con la ripresa del potere di Zelaya e terminerà con l'installazione di un'assemblea costituente, che dia all'Honduras una nuova vita. Per questo chiedono intanto l'annullamento della tornata di domenica, per lasciare spazio alla restaurazione, intanto, della democrazia e dello stato di diritto.
"Se gli Stati Uniti avessero congelato l'invio delle rimesse degli honduregni e tutti i beni dei golpisti, se avessero ritirato tutto il loro sostegno all'Honduras, oltre ad applicargli un embargo come quello che attuano contro Cuba, Micheletti e la sua banda non sarebbero durati nemmeno una settimana - continua nella sua analisi il critico messicano - ma le richieste di Zelaya a Washington, affinché intervenisse in favore della legalità calpestata, giungevano all'orecchio dei promotori di sempre degli assassini di presidenti latinoamericani e degli organizzatori di colpi di stato e dittature".
Quindi conclude spingendosi a definire "L'era Obama" una "invenzione mediatica", dato che il presidente non ha il potere di modificare la politica imperialista degli Usa, in quanto non riesce ad agire sui poteri di fatto che da sempre tengono il mondo in pugno.
"Il golpe e l'appoggio alle pseudoelezioni organizzate dai golpisti s'inseriscono in una politica che ha portato a creare quattro basi militari a Panama e sette in Colombia, dalle quali poter aggredire qualunque paese del Sudamerica, e a schierare la Quarta Flotta in acque latinoamericane, oltre a rinforzare il Plan Merida ed il Plan Colombia e a preparare l'hondurizzazione di Nicaragua e Paraguay, così come la persecuzione militare contro il Venezuela" Parola di Almeyra.
Uruguay, l'ex Tupamaro Mujica è il nuovo presidente
da Peacereporter - 30 Novembre 2009
Con il 53 percento delle preferenze José Mujica candidato del Frente Amplio ha vinto il ballottaggio delle elezioni presidenziali avvenute ieri in Uruguay.
Oltre dieci i punti percentuali ottenuti in più rispetto al suo avversario il liberale Luis Alberto Lacalle, sostenuto anche da Pedro Bordaberry che nella prima giornata elettorale si era attestato intorno al 17 percento delle preferenze.
Mujica, ha 74 anni ed è molto popolare in Uruguay grazie al suo impegno contro la dittatura che in passato stritolò in Paese. Oggi potrà continuare il percorso iniziato dal suo predecessore Tabarè Vazquez, primo presidente non eletto dalle fila del Partido Colorado o Blanco.
Segno indiscutibile della continuità della politica (soprattutto economica) iniziata da Vazquez sarà Danilo Astori che Mijuca ha voluto come suo vicepresidente e che Vazquez ha già avuto nel suo esecutivo. In ogni caso Mijica ha già promosso di continuare con le politiche di dialogo verso gli investitori che sono stati determinanti per l'economia nazionale.
Adesso il ruolo di Mujica, che tutti conoscono con il nomignolo di "Pepe" sarà molto importante soprattutto per quanto riguarda l'aspetto economico del Paese: l'Uruguay non ha praticamente risentito della crisi economica, secondo i calcoli degli analisti il suo tasso di disoccupazione è in calo e l'inflazione sarebbe sotto controllo.
Prima della giornata elettorale per il ballottaggio erano davvero pochi quelli che pensavano che Mujica non sarebbe riuscito a vincere questa tornata elettorale.
Pepe Mujica ex guerrigliero Tupamaro ha passato 14 anni della sua vita in carcere. Dopo il periodo della dittatura il gruppo guerrigliero si è trasformato in un partito politico e si è unito ai movimenti e ai partiti della sinistra uruguayana, fondendosi poi nel Frente Amplio.
Uruguay, vincono i giusti
di Michele Paris - Altrenotizie - 1 Dicembre 2009
Con poco meno del 53% dei consensi, il candidato della sinistra unita sotto le insegne del Frente Amplio, l’ex tupamaro José “Pepe” Mujica, si è aggiudicato il ballottaggio per le elezioni presidenziali in Uruguay. Il 74enne ex senatore socialista ha sconfitto al secondo turno il candidato conservatore Luis Alberto Lacalle, succedendo così al popolare presidente uscente Tabaré Vázquez, impossibilitato a cercare un secondo mandato dalla Costituzione del piccolo paese sudamericano.
Nonostante i suoi precedenti, Mujica nei prossimi cinque anni non dovrebbe discostarsi significativamente dal suo predecessore, protagonista di un percorso di riforma progressista all’insegna del pragmatismo che ha ridotto il livello di povertà e disoccupazione senza intaccare la fiducia degli investitori.
Dopo la tornata elettorale del primo turno lo scorso mese di ottobre, Mujica aveva raccolto la maggioranza dei voti, senza tuttavia superare la soglia del 50%. Alle sue spalle si erano piazzati Lacalle, presidente uruguaiano dal 1990 al 1995, e Pedro Bordaberry, figlio dell’ex dittatore Juan Maria Bordaberry che guidò il paese negli anni Settanta.
I voti dei due candidati sconfitti, appartenenti ai due partiti che avevano monopolizzato la scena politica uruguaiana dall’indipendenza fino al 2005 (Partido Nacional e Partido Colorado), avevano fatto temere un possibile ritorno di Lacalle al secondo turno. Già dai primi exit polls si era però intuito il successo di Mujica, il quale grazie anche agli elevatissimi indici di gradimento di Tabaré Vázquez ha conquistato la presidenza con un margine tra i sette e i dieci punti percentuali sul suo rivale.
Proprio cinque anni fa, la coalizione composta da una quarantina di raggruppamenti politici che va dai trotskisti ai cristiano-democratici, creata nel 1971, era riuscita ad interrompere il dominio dei due partiti principali. Nel Frente Amplio erano successivamente confluiti gli ex ribelli tupamaro come Pepe Mujica, vera e propria forza trascinatrice del raggruppamento politico.
Costretto in carcere per tredici anni durante la dittatura, il presidente eletto dell’Uruguay ha condotto una campagna elettorale all’insegna della moderazione, distanziandosi dal suo passato di guerrigliero che ha invece quasi sempre occupato le cronache a lui dedicate dalla stampa internazionale.
In un’intervista rilasciata la scorsa estate, Mujica aveva infatti dichiarato di non credere più alle “stupide ideologie degli anni Settanta”, riferendosi alla “predilezione incondizionata per tutto ciò che è pubblico, al disprezzo per gli uomini d’affari e all’odio per gli Stati Uniti d’America”. L’esperienza del carcere, a suo dire, ha contribuito in maniera decisiva al crollo dell’illusione di poter conseguire il cambiamento sociale tramite la lotta armata rivoluzionaria.
Nonostante le differenti personalità di Tabaré Vázquez e Pepe Mujica, prudente e schivo il primo quanto spontaneo e aperto quest’ultimo, le linee di politica economica del governo uruguaiano dovrebbero rimanere pressoché inalterate.
L’enfasi sulla giustizia sociale che ha caratterizzato gli ultimi cinque anni ha d’altra parte contribuito ad abbassare il livello di povertà in Uruguay dal 32% del 2004 al 20% attuale, così come la crescita economica è oscillata tra il 7 e il 12% fino all’anno scorso.
Il tasso di disoccupazione è ugualmente sceso dal 21% del 2002 all’8% del 2009, mentre a dispetto della crisi globale l’economia del paese ha fatto segnare una modesta crescita anche nell’anno in corso.
Artefice dei successi del presidente uscente è stato il ministro dell’Economia Danilo Astori, leader della formazione social-democratica Asamblea Uruguay (affiliata al Frente Amplio), appena eletto vice-presidente di Mujica.
Grazie ad una tassa progressiva che ha gravato sui redditi medio-alti, Astori e Vázquez hanno potuto così consolidare una crescita relativamente equa nel paese, mettendo in atto una politica redistributiva che, tra l’altro, ha allargato considerevolmente la copertura del sistema sanitario. Allo stesso tempo, alcuni progressi importanti si sono registrati sul fronte delle indagini sui crimini della dittatura e dei diritti civili.
Se è innegabile che la presenza alla guida dell’Uruguay di un ex guerrigliero tupamaro farà percepire a molti una possibile maggiore sintonia con i governi di Hugo Chávez o di Evo Morales, è assai più verosimile che la presidenza di Mujica sarà all’insegna della continuità con quella del suo predecessore.
Infatti, sia nell’ambito della politica interna, sia nei rapporti con gli altri paesi sudamericani, lo stesso Mujica ha più volte sottolineato di voler percorrere una “via di mezzo”, ispirandosi, per sua stessa ammissione, alla moderazione del potente vicino brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva.
Ma, quali che saranno le inclinazioni particolari del nuovo Presidente, il voto conferma come l’Uruguay prosegue il suo cammino democratico e progressista, rafforzando l’asse democratica del continente che ha deciso, da diversi anni, di percorrere la strada dell’integrazione latinoamericana e dell’indipendenza da Washington.
In America Latina sta succedendo qualcosa di strano. Le forze di destra latino-americane sono determinate a ottenere di più, durante la presidenza Usa di Barack Obama, di quanto non abbiano ottenuto durante gli otto anni di presidenza di George W. Bush. Bush guidava un governo di estrema destra che non era minimamente in sintonia con le forze popolari latino-americane.
Obama, viceversa, è alla guida di un governo centrista che sta cercando di riproporre la «politica di buon vicinato» proclamata da Franklin Roosevelt per segnalare la fine dell'intervento militare diretto degli Usa in America Latina.
Durante la presidenza Bush, l'unico tentativo serio di colpo di stato sostenuto dagli Usa è stato quello del 2002 in Venezuela contro Hugo Chavez, ed è fallito. Le successive tornate elettorali, in tutta l'America Latina e nei Caraibi, sono state vinte quasi sempre da candidati di sinistra.
Il culmine è stato toccato in un meeting del 2008 in Brasile, a cui gli Stati Uniti non erano stati invitati e in cui il presidente cubano, Raúl Castro, è stato trattato praticamente come un eroe.
Da quando è diventato presidente Obama c'è stato un golpe, riuscito, in Honduras. Malgrado la condanna di Obama, la politica americana è stata ambigua e gli autori del colpo di stato stanno vincendo la loro scommessa di restare al potere fino alla prossima elezione del nuovo presidente. In Paraguay il presidente Fernando Lugo, un cattolico di sinistra, ha appena sventato un golpe militare.
Ma il suo vicepresidente Federico Franco, di destra, sta manovrando per ottenere da un parlamento nazionale ostile a Lugo un colpo di stato sotto forma di impeachment. E i militari stanno affilando le armi anche in una serie di altri paesi.
Per capire questa apparente anomalia, dobbiamo analizzare la politica interna americana, e il modo in cui essa influisce sulla politica estera americana. C'erano una volta, e non tantissimo tempo fa, due grandi partiti che rappresentavano coalizioni di forze sociali sovrapposte. Il loro equilibrio interno era un po' spostato a destra per il Partito repubblicano, e un po' spostato a sinistra per il Partito democratico.
Poiché i due partiti si sovrapponevano, le elezioni tendevano a costringere i candidati presidenziali di entrambi i partiti a collocarsi più o meno al centro, per conquistare la frazione relativamente piccola di elettori «indipendenti» di centro.
Le cose non stanno più così. Il Partito democratico è la stessa ampia coalizione di sempre, ma il Partito repubblicano si è spostato molto più a destra. Questo significa che i Repubblicani possono contare su una base più piccola. Sarebbe logico aspettarsi che abbiano molti problemi elettorali. Ma, come stiamo vedendo, non è così che funziona.
Le forze di estrema destra che dominano il Partito repubblicano sono fortemente motivate e alquanto aggressive. Esse cercano di purgare tutti i politici repubblicani che considerano troppo «moderati», e di imporre ai Repubblicani al Congresso un atteggiamento uniformemente negativo nei confronti di qualunque cosa il Partito democratico, e in particolare il presidente Obama, possano proporre.
I compromessi politici non sono più ritenuti politicamente desiderabili. Al contrario. I Repubblicani vengono spinti a marciare compatti. Nel frattempo, il Partito democratico sta operando come ha sempre fatto. La sua ampia coalizione va dalla sinistra fino alla destra moderata.
I Democratici al Congresso dedicano la maggior parte delle loro energie politiche a negoziare gli uni con gli altri. Questo significa che è molto difficile approvare leggi significative, come stiamo vedendo attualmente nel tentativo di riformare il sistema sanitario degli Stati Uniti.
Che cosa significa dunque questo per l'America Latina (e per le altre parti del mondo)? Bush poteva ottenere dai Repubblicani al Congresso - dove per i primi sei anni del suo regime ha potuto disporre di una maggioranza netta - quasi qualunque cosa volesse. Le vere discussioni si svolgevano nei circoli esclusivi e riservati di Bush, che per i primi sei anni sono stati sostanzialmente dominati dal vicepresidente Cheney.
Quando Bush, nel 2006, perse le elezioni per il Congresso, l'influenza di Cheney declinò e la politica del governo cambiò leggermente. L'era Bush è stata segnata da un'ossessione per l'Iraq e, in misura minore, per il resto del Medio Oriente.
Le energie rimaste sono state utilizzate per trattare con la Cina e l'Europa occidentale. L'America Latina è sparita dalla prospettiva del governo Bush, relegata in sottofondo. Le forze di destra latino-americane - cosa per loro frustrante - non hanno ottenuto dal governo Usa il consueto impegno in loro favore, un impegno che si aspettavano e che volevano.
La situazione di Obama è completamente diversa. Ha una base diversificata e un'agenda ambiziosa. La sua immagine pubblica oscilla tra una posizione fermamente centrista e gesti moderatamente di sinistra. Questo rende la sua posizione politica sostanzialmente debole.
Sta disilludendo gli elettori di sinistra che aveva motivato durante la campagna elettorale, e che in molti casi si stanno ritirando allontanandosi dalla politica. La realtà di una depressione mondiale gli sta alienando alcuni dei suoi elettori indipendenti di centro, che temono un crescente indebitamento pubblico.
Per Obama, come per Bush, l'America Latina non è in cima alle priorità. Obama però (diversamente da Bush) sta combattendo con tutte le sue forze per restare a galla nelle acque agitate della politica. È molto preoccupato per le elezioni del 2010 e 2012 e non senza ragione. La sua politica estera è notevolmente influenzata dall'impatto potenziale che potrebbe avere su queste elezioni.
La destra latino-americana sta sfruttando le difficoltà politiche interne di Obama per forzargli la mano. Essa vede che Obama non ha l'energia politica per contrastarla. Inoltre la situazione economica mondiale tende a influire negativamente sui governi attualmente al potere.
E oggi, in America Latina, i partiti al potere sono quelli della sinistra.
Se Obama nei prossimi due anni avesse degli importanti successi politici (una riforma sanitaria decente, un vero ritiro dall'Iraq, un calo della disoccupazione), questo in effetti offuscherebbe il ritorno della destra latino-americana. Ma Obama otterrà questi successi?