Dall'Afghanistan, al Pakistan, allo Yemen, alla Somalia e agli eventuali fronti che potrebbero aprirsi in America Latina a causa delle 7 nuove basi militari USA in costruzione in Colombia ce n'è a sufficienza per affermare che si prospettano tempi veramente difficili. Per non parlare naturalmente di Iraq, Israele-Palestina e Medio Oriente più in generale.
E se a ciò si aggiunge anche la crisi economica in corso il quadro è veramente completo...
Ieri, giusto per citare uno dei conflitti che i media mainstream stanno ignorando, ai confini dello Yemen oltre cinquanta civili sono morti in seguito ad un bombardamento saudita, mentre le autorita' di Sana'a hanno scatenato un attacco aereo in cui sono state uccise 49 persone, tra cui 23 bambini e 17 donne.
Mentre continuano ininterrotti anche i bombardamenti dei droni senza pilota sul territorio pakistano. Si calcola che dall'inizio dell'anno ci siano stati oltre 50 attacchi del genere che hanno causato oltre 800 morti.
E sono solo alcuni esempi che bastano e purtroppo avanzano...
Il Grande Gioco: la guerra Usa e NATO in Afghanistan
di Rick Rozoff - www.globalresearch.ca - 5 Dicembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Concetta Di Lorenzo e Giovanni Piccirillo
Più di cinquanta nazioni in un unico teatro di guerra
Gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna) cominciarono a bombardare la capitale afgana di Kabul, il 7 ottobre 2001 con missili da crociera Tomahawk lanciati da navi da guerra e sottomarini nonché con bombe sganciate da aerei da guerra; poco dopo le forze speciali americane iniziarono le operazioni di terra, un compito che è stato poi condotto dalle unità regolari dell'esercito e della Marina. I bombardamenti e le operazioni di combattimento a terra continuano da più di otto anni ed entrambi saranno intensificati a livelli record in breve tempo.
La combinazione delle forze degli Stati Uniti e della NATO rappresenterebbe un numero impressionante, superiore a 150.000 soldati. Per fare un confronto, a partire dal settembre di quest'anno ci sono stati circa 120.000 soldati americani in Iraq e solo una piccola manciata di personale di altre nazioni, quelli assegnati alle missioni di addestramento della NATO - Iraq, che si trovano ancora con loro.
"Il segretario Gates ha dichiarato che i conflitti nei quali siamo coinvolti devono essere molto in alto nel nostro ordine del giorno. Vuole assicurarsi che non stiamo sprecando le risorse necessarie a un qualche ignoto conflitto futuro. Vuole assicurarsi che il Pentagono possa essere letteralmente sul piede di guerra… per la prima volta da decenni, gli astri politici ed economici sono allineati per una revisione fondamentale del modo in cui il Pentagono opera".
Afghanistan: precedenti storici e Antecedenti
Negli ultimi dieci anni i cittadini degli Stati Uniti e altre nazioni occidentali, e loro malgrado anche i cittadini della maggior parte del mondo, si sono abituati a vedere Washington, i suoi alleati militari in Europa e quelli nominati come avamposti armati della periferia della "comunità euro-atlantica", impegnarsi in aggressioni armate in tutto il mondo.
Le Guerre contro la Jugoslavia, l’Afghanistan e l’ Iraq, nonché le numerose operazioni di minore profilo militare in vari paesi, come la Colombia, lo Yemen, le Filippine, la Costa d'Avorio, la Somalia, il Ciad, la Repubblica Centrafricana, l’ Ossezia del Sud e altrove, sono diventate una prerogativa indiscussa della Stati Uniti e i suoi partner della NATO. Tanto che molti hanno dimenticato come le stesse azioni sarebbero considerate se fossero tentate da paesi non occidentali.
Trenta anni fa, questo 24 dicembre, le prime truppe sovietiche entrarono in Afghanistan in sostegno del governo di una nazione vicina, per combattere una rivolta armata con base in Pakistan surrettiziamente (poi apertamente) sostenuta dagli Stati Uniti.
Durante gli ultimi giorni dello stesso anno, il 1979, e i primi di quello seguente, il numero delle truppe sovietiche crebbe di circa 50.000 soldati.
Il Grande Gioco
Vale la pena notare a questo proposito che nel 1839 la Gran Bretagna invase l'Afghanistan, con 21.000 truppe proprie e indiani, nonchè nel 1878 con un numero doppio del precedente, per contrastare l'influenza russa nel paese, in quello che è diventato famose come “il Grande Gioco”.
Il 23 gennaio 1980 il presidente statunitense James Earl (Jimmy) Carter ha dichiarato nel suo ultimo discorso sullo Stato dell'Unione che "Le implicazioni dell’invasione sovietica dell’ Afghanistan potrebbero rappresentare la minaccia più grave per la pace dopo la seconda guerra mondiale."
Quando l'Unione Sovietica ha iniziato il ritiro delle sue forze dalla nazione -la prima parte dal 15 maggio al 16 agosto 1988 e l'ultima dal 15 novembre 1988 al 15 febbraio 1989 - il numero delle truppe era arrivato a poco più di 100.000.
Il 1° dicembre del 2009, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha annunciato che ci sarà un invio di 30.000 nuove truppe in Afghanistan, in aggiunta alle 68.000 già in loco, e due giorni dopo il segretario alla Difesa Robert Gates ha detto al Congresso che “le forze saliranno ad almeno 33.000, quando le truppe di supporto saranno incluse” [1]
Ciò vuol dire che si arriverà a più di 100.000 soldati. Insieme a militari privati e a fornitori per la sicurezza il cui numero è ancora maggiore.
Le truppe sovietiche sono state in Afghanistan poco più di nove anni. Le truppe americane sono ora al nono anno di operazioni da combattimento nel paese e in meno di quattro settimane raggiungeranno il loro decimo anno di guerra.
Il 25 novembre il portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs, ha assicurato al popolo della sua nazione che "siamo al nono anno del nostro impegno in Afghanistan. Non abbiamo intenzione di rimanere qui per altri otto o nove anni." [2] L'implicazione è che gli Stati Uniti potrebbero condurre una guerra in Afghanistan che potrebbe durare fino al 2017. Per sedici anni.
La guerra più lunga nella storia americana prima di quella attuale è stata in Vietnam. Consiglieri militari Usa sono stati presenti nel paese dalla fine degli anni ‘50 in poi e operazioni segrete sono state portate avanti fino agli anni ‘60, ma solo l’anno dopo il programmato incidente del Golfo di Tonchino - 1965 - il Pentagono ha dato inizio alle principali operazioni di combattimento nel sud e regolari bombardamenti nel nord. L'ultima unità americana di combattimento lasciò il Vietnam del Sud nel 1972, sette anni più tardi.
Gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna) cominciarono a bombardare la capitale afgana di Kabul il 7 ottobre 2001 con missili da crociera Tomahawk lanciati da navi da guerra e sottomarini e con bombe sganciate da aerei da guerra; poco dopo le forze speciali americane hanno iniziato le operazioni di terra, un compito che è stato condotto da allora da unità regolari dell'esercito e della Marina. I bombardamenti e le operazioni di combattimento a terra continuano da più di otto anni ed entrambi saranno intensificati a livelli record in breve tempo.
Dalla fine della scorsa estate, gli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO hanno lanciato missili regolari drone e sferrato assalti con elicotteri d'attacco all'interno del Pakistan. Se i sovietici avessero tentato di fare altrettanto trenta anni fa - quando i loro confini erano minacciati - la risposta di Washington avrebbe potuto innescare una terza guerra mondiale.
L'URSS non schierò le truppe di nessuna delle nazioni alleate del Patto di Varsavia in Afghanistan durante gli anni ‘80. In una ironia storica che merita più attenzione di quanto ne abbia ricevuto - nessuna - ognuna di queste nazioni ha ora forze armate al servizio della NATO per uccidere e morire nel teatro di guerra afghano: Bulgaria, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Slovacchia e l'ex Repubblica Democratica Tedesca (accorpate in una Repubblica federale unita che ha lì quasi 4.500 soldati di stanza).
Sono tra le truppe di quasi 50 nazioni che servono o che si apprestano a servire sotto il comando NATO sul fronte di guerra in Afghanistan-Pakistan, che comprende le seguenti nazioni dell'Alleanza e molte altre nei suoi programmi di collaborazione.
Membri della NATO:
Albania
Belgio
Gran Bretagna
Bulgaria
Canada
Croazia
Repubblica Ceca
Danimarca
Estonia
Francia
Germania
Grecia
Ungheria
Islanda
Italia
Lettonia
Lituania
Lussemburgo
Paesi Bassi
Norvegia
Polonia
Portogallo
Romania
Slovacchia
Slovenia
Spagna
Turchia
Gli Stati Uniti (35.000 soldati, con ben oltre a venire)
Collaborazione per la Pace / Euro-Atlantic Partnership Council (EAPC):
Armenia
Austria
Azerbaijan
Bosnia
Finlandia
Georgia
Irlanda
Repubblica di Macedonia
Montenegro
Svezia
Svizzera (ritirato l'anno scorso)
Ucraina
Nazioni di Contatto:
Australia
Giappone (forze navali)
Nuova Zelanda
Corea del Sud
Adriatic Charter (sovrapposizioni con il Partenariato per la Pace):
Albania
Bosnia
Croazia
Repubblica di Macedonia
Montenegro
Iniziativa di collaborazione di Istanbul:
Emirati Arabi Uniti
Commissione Trilaterale Afghanistan-Pakistan- NATO :
Afghanistan
Pakistan
Varie:
Colombia
Mongolia
Singapore
L’elenco di cui sopra comprende sette delle quindici ex repubbliche sovietiche (un altro sviluppo degno di considerazione), con la Moldavia dopo quest’anno di "Twitter Revolution" e il Kazakistan dove, nel mese di settembre, l'ambasciatore statunitense ha fatto pressione sul governo per le truppe, i candidati per le implementazioni nell'ambito del Partenariato per gli obblighi di Pace. (Entrambi avevano in precedenza inviato truppe in Iraq).
La loro partecipazione avrebbe portato al 60% gli ex stati sovietici che hanno truppe impegnate sotto la NATO in Afghanistan. Con l’aggiunta della Moldavia, ogni nazione europea (esclusi i microstati come Andorra, Liechtenstein, Monaco, San Marino e Città del Vaticano), tranne la Bielorussia, Cipro, Malta, la Russia e la Serbia, avrà forze militari in servizio in Afghanistan sotto la NATO.
Mai nella storia mondiale della guerra si sono avuti contingenti militari da così tante nazioni - cinquanta o più – in servizio in un unico teatro di guerra. In una sola nazione. Truppe da cinque continenti, Oceania e Medio Oriente. [3]
Anche la coalizione putativa dei volenterosi cucita insieme da Stati Uniti e Gran Bretagna dopo l'invasione dell'Iraq nel marzo del 2003 e finchè le truppe sono stati riprese per la riconversione in Afghanistan, consisteva solo di forze militari di trentuno nazioni: Stati Uniti, Gran Bretagna, Albania, Armenia, Australia, Azerbaigian, Bosnia, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, El Salvador, Estonia, Georgia, Ungheria, Giappone, Italia, Kazakistan, Lettonia, Lituania, Macedonia, Moldavia, Mongolia, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Sud Corea, Spagna, Thailandia e Ucraina.
Ventidue di queste trentuno erano nazioni dell'ex blocco sovietico (l’Albania alla lontana) o ex repubbliche jugoslave che avevano da poco (1999) aderito alla NATO o erano in corso di preparazione per l'integrazione, o in altre maniere, con il blocco.
Le ultime tre principali guerre nel mondo- quelle in e contro la Jugoslavia, l’ Afghanistan e l’Iraq - sono state utilizzate come terreno di prova e allenamento per l'espansione della NATO globale.
Il consolidamento di una forza di risposta internazionale rapida (attacco) e l’occupazione militare sotto il controllo della NATO, è stato ulteriormente avanzato questa settimana dal discorso dell’aumento di truppe di Obama del 1° [Dicembre] e successivi sforzi del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton e il segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen per reclutare più truppe alleate durante la riunione appena conclusa dei ministri degli esteri della NATO (e affini).
Il 4 dicembre "un alto funzionario della Nato” ha detto ... che almeno 25 paesi invieranno un totale di circa 7.000 ulteriori forze in Afghanistan il prossimo anno 'con ulteriori altre a venire', mentre il segretario di Stato degli Usa Hillary Rodham Clinton ha cercato di rafforzare la risolutezza degli alleati. " [4]
Al vertice della NATO a Bruxelles vi erano anche un imprecisato numero di ministri degli Esteri dei paesi non appartenenti alla NATO che forniscono truppe per la guerra in Afghanistan, alti comandanti militari degli eserciti USA e NATO, il generale Stanley McChrystal e il ministro degli Esteri afghano Rangeen Dadfar Spanta.
7.000 e più truppe della NATO con "ulteriori altre a venire", aggiunte a circa 42.000 soldati non americani attualmente in servizio con la NATO e, allo stesso modo, 35.000 soldati americani, vorrebbe dire almeno 85.000 soldati sotto il comando della NATO, anche senza le 33.000 nuove truppe Usa dirette in Afghanistan. Il più grande dispiegamento di forze all'estero del blocco prima di questo è stato in Kosovo nel 1999, quando l'Alleanza guidata da Kosovo Force (KFOR), era composta da 50.000 soldati di 39 nazioni. [5]
La combinazione degli eserciti degli Stati Uniti e della NATO rappresenterebbe un numero impressionante, superiore a 150.000 soldati. A titolo di confronto, a partire dal settembre di quest'anno ci sono stati circa 120.000 soldati americani in Iraq e solo una piccola manciata di personale di altre nazioni, quelli assegnati alla Training Mission NATO - Iraq, ancora con loro.
Tra gli Stati membri della NATO, il Ministro italiano della Difesa Ignazio La Russa, ha recentemente annunciato un aumento di 1.000 uomini, portando il totale della nazione a quasi 4.500, il 50% in più di quello che era stato in precedenza di stanza in Iraq.
La Polonia invierà altri 600-700 soldati, che, sommati a quelli già in Afghanistan, costituirà la più grande aggregazione polacca di spiegamento militare all'estero nel periodo post-Guerra Fredda e il più alto numero di truppe sempre schierato al di fuori dell'Europa nella storia della nazione.
La Gran Bretagna fornirà altri 500 soldati, e il suo totale aumenterà a circa 10.000.
Il ministro della Difesa bulgaro Nikolay Mladenov ha detto la scorsa settimana che "c'è una forte possibilità che il paese aumenterà il suo contingente militare in Afghanistan." [6] Per indicare la natura degli impegni che i nuovi Stati membri della NATO si addossano quando si uniscono all'Alleanza e quali diventano allora le loro priorità, tre giorni prima Mladenov, parlando dei vincoli di bilancio immessi sul forze armate a causa della crisi finanziaria, ha affermato che "possiamo tagliare alcune altre voci del bilancio delle forze armate, ma ci saranno sempre abbastanza soldi per le missioni all'estero." [7]
Washington ha anche fatto pressioni sulla Croazia, che è diventata un membro effettivo del blocco lo scorso aprile, affinché fornisca più truppe e il Primo Ministro Jadranka Kosor si affrettò a promettere che "la Croazia, essendo un membro della NATO, avrebbe adempiuto ai suoi obblighi". [8]
Il Ministro della Difesa della Repubblica ceca, Martin Bartak, ha parlato dopo il discorso di Obama all'inizio di questa settimana e ha minacciato il parlamento ceco, affermando "che dovrà essere spiegato agli alleati perché la Repubblica Ceca non vuole prendere parte ai rinforzi mentre la Slovacchia e la Gran Bretagna, per esempio, rafforzeranno i loro contingenti ...." [9]
La Slovacchia ha annunciato che farà più che raddoppiare le sue forze in Afghanistan.
Il parlamento tedesco ha appena rinnovato per un altro anno il dispiegamento di quasi 4.500 soldati in Afghanistan, il massimo consentito dal Bundestag, anche se si svolgono dibattiti per aumentare tale numero a 7.000, dopo una conferenza sull'Afghanistan a Londra il 28 gennaio. Le forze armate tedesche nel paese sono impegnate nelle loro prime operazioni di guerra dalla Seconda Guerra Mondiale.
Un telegiornale il 3 dicembre ha detto che l'ambasciatore Usa in Turchia James Jeffrey faceva pressioni su Ankara perchè fornisse un “numero specifico" di truppe e perché fosse "più flessibile" [10] sul modo in cui esse saranno impiegate, il che significa che la Turchia deve abbandonare i cosiddetti vincoli di combattimento e impegnarsi in combattimenti attivi insieme ai suoi alleati della NATO.
Dopo un incontro con il vice presidente degli Stati Uniti Joseph Biden il 4 dicembre, il Primo Ministro ungherese Gyorgy Gordon Bajnai ha promesso di inviare 200 soldati in più nella zona di guerra del sud asiatico, con un incremento del 60%, visto che l'Ungheria ne ha lì attualmente 360.
Per quanto riguarda gli Stati partner della NATO, il Vice Assistente Segretario alla Difesa USA per la Russia, l'Ucraina e l'Eurasia Celeste Wallander è stata in Armenia per garantire il primo dispiegamento militare della nazione in Afghanistan, l'opera del primo rappresentante speciale per il Caucaso e l'Asia centrale della NATO Robert Simmons [11], che ha anche ottenuto il raddoppio delle truppe dal vicino Azerbaigian e un impegno di ben 1.000 soldati georgiani dal prossimo anno.
Nel corso di una conferenza stampa al quartier generale della NATO, il primo giorno del recente consiglio di guerra afgano dell’Alleanza, il 3 dicembre, il capo del blocco Anders Fogh Rasmussen ha espresso gratitudine agli Emirati Arabi Uniti per l'invio delle truppe in Afghanistan e "l’ospitalità... della Conferenza Internazionale sulle relazioni NATO-Emirati Arabi Uniti e per il futuro della Iniziativa di Cooperazione di Istanbul lo scorso ottobre ". [12]
L’Iniziativa di Collaborazione di Istanbul è stata varata in occasione del vertice della NATO in Turchia nel 2004 per aggiornare le partnership militari con i membri del Dialogo Mediterraneo (Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia) e il Consiglio di Collaborazione del Golfo (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti). [13]
Un'agenzia informativa militare degli Stati Uniti ha pubblicato un articolo il 3 dicembre che ha esaminato la Quadrennial Defense Review che viene attualmente deliberata al Pentagono.
Il vice segretario alla Difesa William J. Lynn III, che prima di assumere quella carica è stato vice presidente delle Operazioni di Governo e della Strategia per Raytheon, si è vantato che "La Quadrennial Defense Review ... sarà diversa da qualsiasi altra: la prima ad essere guidata con attuali requisiti di tempo di guerra, a bilanciare le capacità convenzionali e non convenzionali, e ad accettare un 'intero approccio di governo' per la sicurezza nazionale .... Questa è una QDR che sarà un punto di riferimento".
Lynn ha anche detto che "il segretario Gates ha chiarito che i conflitti in cui ci troviamo, debbano essere al primo posto del nostro ordine del giorno. Vuole assicurarsi che non stiamo abbandonando potenzialità ora necessarie per quelle che saranno necessarie per qualche ignoto conflitto futuro. Egli vuole assicurarsi che il Pentagono è veramente sul piede di guerra… Per la prima volta da decenni, le stelle politiche ed economiche sono allineate per una revisione fondamentale del modo in cui il Pentagono opera". [14]
La guerra di oltre otto anni in Afghanistan non sta per finire nel 2011, nonostante le asserzioni di Obama, né sarà l'ultima del suo genere. Essa continuerà ad inghiottire il vicino Pakistan con la minaccia di riversarsi anche in Asia centrale e in Iran.
La crisi che il mondo affronta non è solo la guerra nel Asia del Sud: è la guerra stessa. Più in particolare, l'incoscienza di auto-proclamarsi l’unica superpotenza e l’unico blocco militare, conduce ad arrogare a se stessi il diritto esclusivo di minacciare le nazioni di tutto il mondo con l'aggressività militare.
Se tale politica non viene portata a una fine da parte della comunità internazionale reale - più di sei settimi di umanità oltre il più grande mondo euro-atlantico (come ritiene se stesso) - l'Afghanistan non sarà l’ultimo fronte di guerra di questo secolo, ma quello primo e prototipico. Indizi dicono che il peggio deve ancora venire
NOTE:
1) New York Daily News, December 4, 2009
2) New York Times, November 26, 2009
3) Afghan War: NATO Builds History’s First Global Army
Stop NATO, August 9, 2009
http://rickrozoff.wordpress.com/2009/09/01/afghan-war-nato-builds-historys-first-global-army
4) Associated Press, December 4, 2009
5) U.S., NATO Poised For Most Massive War In Afghanistan’s History
Stop NATO, September 24, 2009
http://rickrozoff.wordpress.com/2009/09/24/u-s-nato-poised-for-most-massive-war-in-afghanistans-history
6) Sofia News Agency, November 26, 2009
7) Standart News, November 23, 2009
8) Xinhua News Agency, December 3, 2009
9) Czech News Agency, December 2, 2009
10) PanArmenian.net, December 3, 2009
11) Mr. Simmons’ Mission: NATO Bases From Balkans To Chinese Border
Stop NATO, March 4, 2009
http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/27/mr-simmons-mission-nato-bases-from-balkans-to-chinese-border
12) Emirates News Agency, December 3, 2009
13) NATO In Persian Gulf: From Third World War To Istanbul
Stop NATO, February 6, 2009
http://rickrozoff.wordpress.com/2009/08/26/nato-in-persian-gulf-from-third-world-war-to-istanbul
14) American Forces Press Service, December 3, 2009
L'amministrazione Obama - dal presidente al segretario di Stato, Hillary Clinton, al capo del Pentagono, Robert Gates - ha pubblicamente affermato, più e più volte, che lo scopo della guerra in Afghanistan è impedire che quel paese torni a essere un covo e una base operativa per i terroristi che minacciano la sicurezza dei cittadini americani. Lasciando intendere che gli Stati Uniti sono pronti a una riconciliazione e a una trattativa con il movimento talebano se questo prendesse chiaramente le distanze da Al-Qaeda.
L'offerta dei talebani. Finora queste aperture da parte statunitense non avevano portato a nulla, poiché i talebani avevano sempre detto che nessun negoziato sarà mai possibile se prima le truppe straniere non si ritireranno dall'Afghanistan.
Ma un paio di settimane fa qualcosa è cambiato. I talebani, per la prima volta, hanno di fatto aperto la trattativa, mettendo sul tavolo, in cambio della fine dell'occupazione, proprio quello che gli Stati Uniti vanno cercando: una netta presa di distanza dal terrorismo internazionale di Al Qaeda.
Nel testo del messaggio, inviato lo scorso 5 dicembre via posta elettronica alle principali testate giornalistiche Usa, il nome dell'organizzazione di Osama Bin Laden non compare, ma il riferimento è chiaro. "Noi non abbiamo interesse a immischiarci negli affari interni di altri Paesi e siamo pronti a fornire garanzie legali se le forze straniere si ritirano dall'Afghanistan".
Insomma: i talebani si dicono pronti a bandire Al Qaeda dal loro paese in cambio del ritiro degli eserciti alleati. Eserciti che stanno in Afghanistan esattamente per ottenere questo obiettivo.
Il rifiuto di Washington. Questa clamorosa apertura da parte talebana è stata incredibilmente snobbata dall'amministrazione Obama, e largamente ignorata dai media.
Solo il Wall Street Journal di Rupert Murdoch ne ha parlato brevemente il 5 dicembre, riportando i commenti scettici di un anonimo rappresentante del governo: "Questi sono gli stessi che si rifiutarono di consegnarci Bin Laden pur sapendo che ciò avrebbe evitato una guerra al loro paese. Non hanno rotto con i terroristi allora: perché oggi dovremmo prenderli sul serio?".
Il giorno dopo, questa posizione è stata ufficializzata dal segretario di Stato, Hillary Clinton, che alla AbcNews ha dichiarato: "Sono scettica sul fatto che i talebani vogliano rinunciare ad Al Qaeda e alla violenza. Quando chiedemmo al mullah Omar di consegnarci Bin Laden prima dell'11 Settembre lui non lo fece. Non so perché dovremmo pensare che ora sia cambiato".
Nella stessa intervista televisiva, il segretario alla Difesa, Robert Gates, ha fatto chiaramente capire che la parola rimane alle armi, dicendo che i talebani romperanno con Al Qaeda "solo se riusciremo a indebolirli, mettendoli nella posizione di intravedere la loro sconfitta".
Nessun dialogo, solo guerra. Due giorni dopo, l'8 dicembre, i talebani hanno preso atto del rifiuto, scrivendo in un nuovo messaggio che "Washington ha rigettato la costruttiva proposta della leadership dei mujaheddin", e rilanciando l'offerta con un chiaro riferimento al Pakistan. "Siamo pronti a garantire che il prossimo governo dei mujaheddin non si immischierà negli affari interni di altri paesi, inclusi quelli a noi vicini, se le truppe straniere si ritireranno dall'Afghanistan".
La totale chiusura al dialogo dell'amministrazione Obama, assieme alla decisione di inviare al fronte decine di migliaia di soldati in più, dimostra che l'obiettivo del governo degli Stati Uniti non è proteggere il popolo americano dal terrorismo, ma proseguire una guerra d'occupazione contro un nemico impossibile da sconfiggere, con il risultato di fomentare i sentimenti antiamericani aumentando, semmai, il rischio di rappresaglie terroristiche.
di Webster G. Tarpley - www.rense.com - 18 Dicembre 2009
Traduzione per Megachip a cura di Milena Finazzi e Pino Cabras.
Il discorso del primo dicembre di Obama a West Point rappresenta molto più dell’ovvia brutale escalation in Afghanistan – non è niente di meno che una netta dichiarazione di guerra da parte degli Stati Uniti contro il Pakistan. Si tratta di una guerra nuova di zecca, di una guerra molto più vasta rivolta contro il Pakistan, un paese di 160 milioni di abitanti munito di armamenti nucleari.
Strada facendo, il programma prevede lo smembramento dell’Afghanistan.
Non siamo più di fronte alla guerra contro l’Afghanistan di Bush e di Cheney cui eravamo abituati in passato. È qualcosa di enormemente più vasto: il tentativo di distruggere il governo centrale pakistano di Islamabad e di far sprofondare quel paese nel caos della guerra civile, nella balcanizzazione, nella frammentazione e nella confusione totale. La strategia prescelta si basa sull’esportazione della guerra civile afghana in Pakistan e oltre, sulla frammentazione del Pakistan secondo i suoi diversi gruppi etnici.
È un conflitto subdolo che adotta tecniche belliche di quarta generazione e operazioni di guerriglia per dare l’assalto a un paese che gli Stati Uniti e i loro soci, per la loro debolezza, non possono attaccare direttamente.
In questa guerra, i talibani sono utilizzati come procuratori USA. Questa aggressione contro il Pakistan è il tentativo di Obama di imperversare nel Grande Gioco contro il cuore dell’Asia Centrale e dell’Eurasia o su scala più generale.
USA DISSUASI DA UNA GUERRA APERTA DAL NUCLEARE PAKISTANO
La guerra civile in corso in Afghanistan è un mero pretesto, una copertura destinata a fornire agli USA un trampolino di lancio per una campagna di destabilizzazione geopolitica dell’intera regione che non si può ammettere pubblicamente.
Nel mondo del cinismo brusco dell’aggressione imperialista à la Bush e Cheney, si sarebbe costruito un pretesto per attaccare il Pakistan in modo diretto. Ma il Pakistan è di gran lunga troppo esteso e gli Stati Uniti sono di gran lunga troppo deboli e troppo indebitati per una tale impresa. Inoltre, il Pakistan è una potenza nucleare, dispone di bombe atomiche e di missili a media gittata atti a lanciare tali bombe.
Ciò a cui stiamo assistendo è un nuovo caso di deterrenza nucleare in atto.
Gli USA non possono inviare una flotta di invasione o costruire basi aeree nelle vicinanze poiché le armi nucleari pakistane potrebbero distruggerle.
Da questo punto di vista, gli sforzi di Ali Bhutto e di A.Q. Khan per fornire il Pakistan di un potenziale deterrente sono stati giustificati. Ma la risposta USA consiste nel trovare altri modi per attaccare il Pakistan al di sotto della soglia del nucleare, addirittura al di sotto della soglia delle armi convenzionali. E questo è il punto in cui entra in gioco la tattica di esportazione della guerra civile afghana in Pakistan.
L’architetto della nuova guerra civile pakistana è il Generale delle Forze Speciali USA Stanley McChrystal, l’organizzatore della rete delle tristemente note camere della tortura USA in Iraq. Le credenziali specifiche di McChrystal nella guerra civile pakistana sono legate al suo ruolo nello scatenare la guerra civile irachena dei sunniti contro gli sciiti creando "al-Qa'ida in Iraq" grazie all’aiuto del famigerato agente doppiogiochista al-Zarkawi, ora defunto. Se la società irachena nel suo intero si fosse allineata contro gli invasori USA, gli occupanti sarebbero stati presto scacciati.
La gang del controspionaggio nota come "al-Qa'ida in Iraq " ha evitato questa possibilità uccidendo sciiti e provocando in tal modo una rappresaglia di massa sfociata in una guerra civile. Queste tattiche sono tratte dall’opera del generale britannico Frank Kitson, che ne ha scritto nel nel suo libro “Low Intensity Operations”.
Se gli Stati Uniti possedessero un’incarnazione moderna di Heinrich Himmler delle SS, si tratterebbe certamente del Generale McChrystal, scelto personalmente da Obama. Il superiore di McChrystal, Generale Petraeus, asprira invece ad essere il nuovo Capo di Stato Maggiore von Hindenburg: in altre parole, mira ad essere il prossimo presidente degli Stati Uniti.
La vulnerabilità del Pakistan che gli Stati Uniti ed i loro soci della NATO stanno cercando di utilizzare per il proprio tornaconto si può comprendere meglio consultando una mappa dei gruppi etnici prevalenti in Afghanistan, Pakistan, Iran, ed India. La maggior parte delle mappe mostra soltanto i confini politici che risalgono ai tempi dell’imperialismo britannico, e quindi mancano di riportare i principali gruppi etnici della regione.
Ai fini della nostra analisi, dobbiamo iniziare con l’identificare un certo numero di gruppi. Prima di tutto il popolo Pashtun, situato principalmente in Afghanistan e in Pakistan. In secondo luogo abbiamo i beluci, localizzati principalmente in Pakistan e in Iran. I punjabi abitano il Pakistan, così come i sindhi. La famiglia Bhutto è originaria del Sindh.
PASHTUNISTAN
La strategia USA e NATO comincia con i pashtun, il gruppo etnico dal quale provengono in larga misura i cosiddetti talibani. I pashtun rappresentano una parte consistente della popolazione dell’Afghanistan, ma sono stati estromessi dal governo centrale sotto il Presidente Karzai a Kabul, sebbene lo stesso Karzai, marionetta degli USA, passi per essere lui stesso un pashtun.
La questione riguarda l’Afghan National Army (l’Esercito Nazionale Afghano), che è stato creato dagli Stati Uniti dopo l’invasione del 2001. Gli alti ranghi dell’esercito afghano sono costituiti prevalentemente da tagiki provenienti dall’Alleanza del Nord che si era coalizzata con gli Stati Uniti contro i talibani pashtun. I tagiki parlano il dari, noto anche come persiano orientale. Altri ufficiali afghani provengono dal popolo degli hazara. La cosa importante da rilevare è che i pashtun si sentono degli esclusi.
La strategia USA si può meglio intendere come sforzo deliberato teso a perseguitare, attaccare ripetutamente, antagonizzare, assaltare, reprimere ed uccidere i pashtun. Il contingente di ulteriori 40mila soldati USA e NATO chiesto da Obama per l’Afghanistan si concentrerà nella provincia di Helmand e in altre aree in cui i pashtun sono maggiormente concentrati.
Il risultato finale sarà quello di istigare alla ribellione i pashtun, ardentemente indipendenti, nei confronti di Kabul e dell’occupazione straniera, e allo stesso tempo di spingere molti di questi combattenti mujahiddin di recente radicalizzati ad attraversare la frontiera con il Pakistan, per dichiarare guerra al governo centrale ad Islamabad. Gli aiuti statunitensi giungeranno direttamente ai signori della guerra e ai signori della droga, incrementando in tal modo i movimenti centrifughi.
Dal lato del Pakistan, i pashtun sono stati allontanati dal governo centrale. Islamabad e l’esercito sono visti come emanazioni dirette dei punjabi, con qualche elemento di origine sindhi. Sul versante pakistano del territorio pashtun, le operazioni americane includono assassinii all’ingrosso perpetrati da velivoli senza pilota o da droni, omicidi effettuati dalla CIA e, secondo quanto si dice, dai cecchini della Blackwater, oltre a massacri terroristici alla cieca come quelli avvenuti di recente a Peshawar che i talibani del Pakistan attribuiscono alla Blackwater, che agisce in qualità di subcontractor della CIA.
Queste azioni sono intollerabili ed umilianti per uno stato sovrano orgoglioso. Ogni qualvolta che i pashtun subiscono un attacco violento, essi accusano i punjabi di Islamabad per le loro losche trame con gli USA che rendono possibile che tutto questo avvenga.
L’obiettivo più immediato di Obama nell’escalation Afghanistan-Pakistan è quindi di promuovere una rivolta secessionista generale dell’intero popolo pashtun sotto gli auspici dei talibani, che dovrebbe avere già provocato la distruzione dell’unità nazionale sia di Kabul sia di Islamabad.
BELUCISTAN
L’altro gruppo etnico che la strategia di Obama mira a spronare all’insurrenzione ed alla secessione è quello dei beluci. I beluci hanno i loro motivi di scontento nei confronti del governo centrale iraniano di Teheran, che considerano in mano ai persiani. Una parte integrante della nuova politica di Obama è l’incremento dei voli letali dei Predator della CIA e di altri velivoli telecomandati sul Belucistan.
Uno dei pretesti per tale politica è il reportage fatto circolare ad esempio da Michael Ware della CNN, secondo il quale Osama bin Laden ed il suo braccio destro legato alla risorsa MI-6 al-Zawahiri sarebbero entrambi rintanati nella città beluci di Quetta, dove opererebbero nelle vesti di capopopolo della cosiddetta "Shura di Quetta." Gli squadroni della Blackwater non possono essere molto distanti.
Nel Belucistan iraniano, la CIA sta finanziando il Jundullah, un movimento sanguinario che è stato recentemente denunciato da Teheran per l’uccisione di un numero di alti ufficiali dei Pasdaran - Guardie della Rivoluzione iraniana. La ribellione dei beluci manderebbe in frantumi l’unità nazionale di Pakistan e Iran, favorendo in tal modo la distruzione di due dei principali bersagli della politica USA.
LA STRATEGIA DI OBAMA DELLA COMPLICAZIONE IN STILE RUBE GOLDBERG
Persino Chris Matthews della MSNBC, normalmente un devoto seguace di Obama, ha evidenziato che la strategia USA annunciata nel discorso di West Point assomiglia molto ad uno dei congegni di Rube Goldberg (nel mondo reale, "al-Qa'ida" è naturalmente la legione araba e terrorista della CIA). Nel mondo del mito ufficiale USA si suppone che il nemico sia "al-Qa'ida".
Tuttavia, persino secondo il governo USA, ci sono alcuni preziosi combattenti di "al-Qa'ida" rimasti in Afghanistan. Perché quindi, si chiede Matthews, concentrare le forze USA in Afghanistan dove "al-Qa'ida" non c’è, anziché in Pakistan, dove si ritiene "al-Qa'ida" possa esserci ora?
Un membro eletto che ha criticato questa incongrua discrepanza è il senatore democratico del Wisconsin Russ Feingold il quale ha affermato, nel corso di un’intervista televisiva, che il «Pakistan, nella regione di confine vicina all’Afghanistan, è probabilmente l’epicentro [del terrorismo globale], sebbene al-Qa'ida sia attiva in tutto il mondo, in Yemen, in Somalia, nell’Africa settentrionale, con affiliati nel sudest asiatico.
Perché dovremmo inviare centomila o più soldati in parti dell’Afghanistan che comprendono quelle che non sono nemmeno vicino alla frontiera? Sapete, questo concentramento si trova nella provincia di Helmand. Che non è precisamente la porta a fianco del Waziristan. Quindi mi chiedo: in che cosa consiste esattamente questa strategia, dato che abbiamo ben visto che c’è una presenza esigua di Al Qa'ida in Afghanistan, ma una presenza significativa in Pakistan? È evidente che una massiccia presenza di truppe effettive dove non si trova questa gente non è la strategia giusta. Per me non ha alcun senso.»
Infatti. Il rappresentante democratico del Wisconsin ha anche messo in evidenza che la politica USA in Afghanistan potrebbe in realtà spingere terroristi ed estremisti verso il Pakistan e, di conseguenza, destabilizzare ulteriormente la zona: «Sapete, qualche tempo fa ho chiesto al Capo degli Stati Maggiori Riuniti, Ammiraglio Mullen, e a Holbrooke, il nostro inviato sul posto, se secondo loro sussista il rischio che, nel caso di concentrazione delle truppe in Afghanistan, un numero maggiore di estremisti venga dirottato verso il Pakistan» ha dichiarato alla ABC.
«Non hanno potuto negarlo, e questa settimana il Primo Ministro del Pakistan Gilani ha dichiarato espressamente che la sua preoccupazione circa la concentrazione di truppe è che attirerà più estremisti in Pakistan, e quindi penso che si tratti del contrario, che questo dispiegamento massiccio di forze provochi l’ostilità della popolazione afghana e in particolare incoraggi ulteriori legami tra i talibani e al-Qa‛ida, la qual cosa è esattamente all’opposto rispetto all’interesse per la nostra sicurezza nazionale.»[1]
Naturalmente, tutto ciò è intenzionale e motivato dalla ragione di stato imperialista degli USA.
MALICK: "OBAMA HA DICHIARATO GUERRA AL PAKISTAN?"
Il discorso di Obama ha fatto il possibile per rendere poco chiara la distinzione tra l’Afghanistan ed il Pakistan, che dopo tutto sono due stati sovrani, entrambi membri a pieno titolo delle Nazioni Unite. Ibrahim Sajid Malick, corrispondente USA per Samaa TV, una delle maggiori reti televisive pakistane, ha richiamato l’attenzione su questa manovra: «Rivolgendosi a una sala piena di cadetti dell’Accademia Militare di West Point, il presidente Barack Obama sembrava sul punto di dichiarare guerra al Pakistan.
Ogni volta che ha menzionato l’Afghanistan, prima ha menzionato il Pakistan. Seduto su una delle panche posteriori della sala ad un certo punto sono quasi sobbalzato quando ha detto: "la posta in gioco è ancora più alta in un Pakistan munito di armamenti nucleari, poiché sappiamo che al-Qa'ida ed altri estremisti sono alla ricerca di armi nucleari e abbiamo fondati motivi per pensare che le utilizzerebbero." Sono rimasto scioccato poiché una serie di funzionari americani ha recentemente confermato che l’arsenale pachistano è sicuro.»[2]
Questo articolo è intitolato "Obama ha dichiarato guerra al Pakistan?", e possiamo lasciare il punto interrogativo a discrezione della diplomazia. Durante alcune udienze del Congresso riguardanti il Generale McChrystal e l’ambasciatore USA Eikenberry, l’Afghanistan ed il Pakistan sono state semplicemente fuse in un’entità sinistra nota come "Afpak" o addirittura come "Afpakia."
Nell'estate del 2007, Obama, addestrato da Zbigniew Brzezinski e da altri suoi controllori, fu l'iniziatore della politica unilaterale USA volta a utilizzare aerei senza pilota Predator per compiere omicidi politici all'interno del Pakistan.
Questa politica omicida è stata ora massicciamente sottoposta a escalation assieme alla capacità di soldati messa in campo: «Due settimane fa in Pakistan, cecchini della Central Intelligence Agency hanno ucciso otto persone sospettate di essere militanti dei talebani e di al-Qa'ida, e ne hanno ferito altri due presso una struttura che si diceva fosse usata per addestrare i terroristi.
La Casa Bianca ha autorizzato un ampliamento del programma dei droni della CIA in aree tribali fuorilegge del Pakistan, hanno riferito funzionari questa settimana, per affiancare la decisione del presidente di inviare 30mila ulteriori soldati in Afghanistan.
Funzionari americani stanno parlando con il Pakistan in merito alla possibilità di colpire in Belucistan per la prima volta - una mossa controversa in quanto si trova al di fuori delle aree tribali - perché è lì che si pensa siano nascosti i leader dei talebani afghani.»[3]
Gli Stati Uniti stanno ora addestrando più operatori di Predator che piloti da combattimento.
LA BLACKWATER ACCUSATA DELLA STRAGE DI DONNE E BAMBINI DI PESHAWAR
La CIA, il Pentagono, e i loro vari fornitori tra le imprese militari private sono ora nel mezzo di una folle ondata omicida in tutto il Pakistan, mentre attaccano villaggi pacifici e feste di matrimonio, tra gli altri obiettivi.
La Blackwater, che ora si fa chiamare Xe Servces e Total Intelligence Solutions, è fortemente implicata: «in una base operativa segreta avanzata gestita dal Joint Special Operations Command statunitense (JSOC) nella città portuale pakistana di Karachi, i membri di una divisione d'élite della Blackwater sono al centro di un programma segreto in cui pianificano omicidi mirati di presunti talebani e di membri operativi di al-Qa'ida, "catture lampo" di obiettivi di alto valore e altre azioni sensibili all'interno e all'esterno del Pakistan, come ha scoperto un'inchiesta di “The Nation”.
Gli operativi di Blackwater offrono assistenza anche nella raccolta di informazioni e aiutano a dirigere una campagna segreta di bombardamenti con droni militari USA che corre in parallelo ai ben documentati attacchi con i Predator della CIA, a quanto riferisce una fonte ben collocata all'interno dell'apparato di intelligence militare degli Stati Uniti.» [4]
Per quanto sconvolgente sia il rapporto Scahill, deve tuttavia essere considerato come uno scaltro tentativo di limitare i danni, poiché non vi è alcuna menzione delle accuse persistenti sul fatto che gran parte degli attentati letali a Peshawar e in altre città pakistane sono stati perpetrati da Blackwater, come suggerisce questa notizia: «ISLAMABAD 29 ottobre (Xinhua) - Il capo del movimento dei talibani in Pakistan, Hakimullah Mehsud, ha accusato la controversa ditta privata americana Blackwater per la bomba esplosa a Peshawar, che ha ucciso 108 persone, ha riferito giovedì l'agenzia di stampa locale NNI.» [5 ]
Questo è stato del terrorismo cieco progettato per provocare il massimo del massacro, soprattutto tra le donne e i bambini.
STATI UNITI IN GUERRA ANCHE CON L'UZBEKISTAN?
Il rapporto Scahill suggerisce inoltre che operazioni segrete USA hanno raggiunto l'Uzbekistan, un paese post-sovietico di 25 milioni di abitanti che confina con l'Afghanistan a nord: «Oltre a pianificare attacchi con i droni e operazioni contro forze sospettate essere di al-Qa'ida e dei Talebani in Pakistan sia per JSOC sia per la CIA, il team della Blackwater a Karachi aiuta anche a pianificare missioni per il JSOC all'interno dell'Uzbekistan contro il Movimento Islamico dell'Uzbekistan», riporta la fonte di intelligence militare.
Blackwater in realtà non conduce le operazioni, ha riferito, poiché sono eseguite sul terreno da parte delle forze JSOC. «Questo ha stimolato la mia curiosità e mi preoccupa assai, perché non so se ci avete fatto caso, ma non mi è mai stato detto che siamo in guerra con l'Uzbekistan», ha affermato. «Così, mi son perso qualcosa, Rumsfeld è forse ritornato al potere?» [6] Tali sono le vie della speranza e del cambiamento.
Il ruolo dell'intelligence USA nel fomentare la ribellione del Belucistan al fine di spezzettare il Pakistan è confermato anche dal professor Chossudovsky: Già nel 2005, un rapporto del National Intelligence Council USA e della CIA prevedeva un “destino jugoslavo” per il Pakistan «nel tempo di un decennio con il paese lacerato dalla guerra civile, i bagni di sangue e le rivalità inter-provinciali, come si è visto recentemente in Belucistan.» («Energy Compass», 2 marzo 2005).
Secondo il NIC-CIA, il Pakistan è destinato a diventare uno "stato fallito" entro il 2015, “una volta che sia colpito dalla guerra civile, la talibanizzazione completa e la lotta per il controllo delle armi nucleari”. (Citato dall'ex Alto Commissario del Pakistan per il Regno Unito, Wajid Shamsul Hasan, «Times of India», 13 febbraio 2005).
Washington favorisce la creazione di un "Grande Belucistan", che dovrà integrare le aree Beluci del Pakistan con quelle dell'Iran e possibilmente della punta sud dell'Afghanistan, portando quindi a un processo di frattura politica in Iran e in Pakistan.» [7]
Gli iraniani , da parte loro, sono convinti che gli Stati Uniti stiano commettendo atti di guerra sul loro territorio in Belucistan: «Teheran, 29 ottobre (Xinhua) – Il presidente del Parlamento iraniano Ali Larijani ha detto che ci sono alcune prove concrete che dimostrano il coinvolgimento degli Stati Uniti nelle recenti esplosioni di ordigni mortali nella provincia del Sistan-Belucistan del paese, a quanto riferisce l'agenzia di stampa ufficiale IRNA.
L'attentato mortale suicida da parte del gruppo ribelle sunnita Jundallah (soldati di Dio) si è verificato il 18 ottobre nella provincia iraniana del Sistan-Belucistan, vicino al confine con il Pakistan, quando i funzionari locali stavano preparando una cerimonia in cui i leader tribali locali avrebbero dovuto incontrare i comandanti militari del Corpo dei guardiani della rivoluzione dell'Iran (pasdaran)» [8].
L'OBIETTIVO USA: TAGLIARE IL CORRIDOIO ENERGETICO PAKISTANO TRA IRAN E CINA
Perché gli Stati Uniti sono così ossessionati dall'intento di spaccare il Pakistan? Uno dei motivi è che il Pakistan è tradizionalmente un alleato strategico e un partner economico della Cina, un paese che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono determinati a contrastare e contenere sulla scena mondiale.
In particolare, il Pakistan potrebbe funzionare come un corridoio energetico in grado di collegare i giacimenti petroliferi dell'Iran e perfino dell'Iraq con il mercato cinese per mezzo di un gasdotto che attraverserebbe l'Himalaya sopra il Kashmir. Si tratta della cosiddetta questione del "Pipelinestan".
Questo garantirebbe alla Cina un approvvigionamento di petrolio ancorato alla terraferma non soggetto alla superiorità navale anglo-americana, oltre a tagliare la rotta di 12mila miglia delle petroliere lungo il bordo meridionale dell'Asia.
Come sottolinea un recente reportage: «Pechino ha fatto pressioni su Teheran per la partecipazione della Cina al progetto di oleodotto e Islamabad - mentre intendeva firmare un accordo bilaterale con l'Iran - ha parimenti accolto con favore la partecipazione della Cina. Secondo una stima, un tale oleodotto si tradurrebbe nel fatto che il Pakistan riceverebbe tra i 200 e i 500 milioni di dollari all'anno in tariffe di solo transito. Cina e Pakistan stanno già lavorando su una proposta di posa di un oleodotto trans-himalayano per trasportare il greggio mediorientale fino alla Cina occidentale. Il Pakistan offre alla Cina il più breve percorso possibile per importare petrolio dai paesi del Golfo.
La conduttura, che andrebbe dal porto meridionale pakistano di Gwadar e seguirebbe l'autostrada del Karakorum, sarebbe in parte finanziata da Pechino. I cinesi stanno anche costruendo una raffineria a Gwadar. Le importazioni attraverso l'uso dell'oleodotto consentirebbero a Pechino di ridurre la quota del suo petrolio spedita attraverso l'angusto e insicuro Stretto di Malacca, lungo il quale oggi fa transitare fino all'80% delle sue importazioni di petrolio.
Islamabad prevede inoltre di estendere una linea ferroviaria in Cina per collegarla a Gwadar. Il porto è considerato anche il probabile capolinea dei previsti gasdotti multimiliardari provenienti dai campi di Pars sud in Iran o dal Qatar, e dai campi Daulatabad in Turkmenistan per l'esportazione verso i mercati mondiali. Syed Fazl-e-Haider, “Pakistan, Iran sign gas pipeline deal” ("Pakistan, l'Iran firma l'accordo sul gasdotto", NdT), «Asia Times», 27 maggio 2009. [9]
Questo è il normale, pacifico progresso economico e la cooperazione che gli anglo-americani vogliono fermare a tutti i costi.
Oleodotti e gasdotti dall'Iran attraverso il Pakistan e fino alla Cina porterebbero le risorse energetiche nel Regno di Mezzo, e servirebbero anche come nastri trasportatori per l'influenza economica cinese in Medio Oriente.
Ciò renderebbe il dominio anglo-americano sempre più tenue in una parte del mondo che Londra e Washington hanno tradizionalmente cercato di controllare come parte della loro strategia globale di dominazione del mondo.
La propaganda interna degli Stati Uniti sta già raffigurando il Pakistan come la nuova casa madre del terrorismo. I quattro patetici capri espiatori che vanno a processo per una presunta trama volta a bombardare una sinagoga nel quartiere Riverdale del Bronx a New York erano stati accuratamente messi in incubazione (“sheep-dipped”, nell'originale, ossia “inzuppati come pecore”, NdT) per associarli con l'ombroso e sospetto Jaish-e-Mohammad, presumibilmente un gruppo terrorista pakistano. Lo stesso vale per i cinque musulmani del Nord Virginia che sono appena stati arrestati nei pressi di Lahore in Pakistan.
INDIA E IRAN
Per quanto gli Stati confinanti siano interessati, l'India posta sotto lo sfortunato Manmohan Singh sembra accettare il ruolo di pugnale continentale contro il Pakistan e la Cina, a nome degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Questa è una ricetta per una tragedia colossale.
L'India dovrebbe piuttosto fare una pace permanente con il Pakistan, con lo sgombero della Vale del Kashmir, dove il 95% della popolazione è musulmana e desidera unirsi al Pakistan. Senza una soluzione a questo problema, non ci sarà pace nel subcontinente.
Per quanto riguarda l'Iran, George Friedman, il capo della società Stratfor, facente parte della comunità di intelligence degli Stati Uniti, ha recentemente dichiarato a Russia Today che la grande novità del prossimo decennio sarà un'alleanza degli Stati Uniti con l'Iran, diretta contro la Russia.
In tale scenario, l'Iran alla Cina taglierebbe del tutto il petrolio. Che è l'essenza della strategia di Brzezinski. È urgente che il movimento contro la guerra negli Stati Uniti si riunisca e inizi una nuova mobilitazione contro la cinica ipocrisia delle politiche di guerra ed escalation intraprese da Obama, che supera anche i crimini di guerra dei neocon Bush-Cheney. In questa nuova fase del Grande Gioco, la posta in palio è incalcolabile.
Note e riferimenti
- Feingold: Why Surge Where Al Qaeda Isn’t ?, by Sam Stein, Huffington Post, December 6, 2009.
- Ibrahim Sajid Malick, “Did Obama Declare War On Pakistan?,” Pakistan for Pakistanis Blog, 2 December 2009.
- Scott Shane, “C.I.A. to Expand Use of Drones in Pakistan,” New York Times, December 3, 2009. See also David E. Sanger and Eric Schmitt, “Between the Lines, an Expansion in Pakistan,” New York Times, 1 December 2009.
- Jeremy Scahill , “The Secret US War in Pakistan,” The Nation, November 23, 2009
- “Taliban in Pakistan blame U.S. Blackwater for deadly blast,” Xinhua News Agency, 29 October 2009, http://news.xinhuanet.com/english/2009-10/29/content_12358907.htm
- Jeremy Scahill , “The Secret US War in Pakistan,” The Nation, November 23, 2009
- Michel Chossudovsky, The Destabilization of Pakistan, Global Research , December 30, 2007
- “Iran says having evidences of U.S. involvement in suicide bomb attacks,” Xinhua, 29 October 2009.
- Asia Times : "Pakistan, Iran sign gas pipeline deal"
* Webster Tarpley è uno storico, giornalista investigativo, conferenziere e critico della politica estera e interna statunitense. Le sue opere più recenti sono "Obama, the postmodern coup, the making of a Manchurian Candidate", "Barack Obama: The Unauthorized Biography" nonché "9/11 Synthetic Terror" la cui versione italiana ha per titolo "La Fabbrica del Terrore". Tarpley ha vissuto in Italia durante gli anni della contestazione e negli anni di piombo. Sulla vicenda di Aldo Moro diresse una commissione indipendente d'inchiesta su incarico del parlamentare DC Giuseppe Zamberletti. I risultati furono pubblicati nel volume Chi ha ucciso Aldo Moro, 1978.
Pakistan: la guerra elettronica
di Mario Braconi - Altrenotizie - 21 Dicembre 2009
Qualche giorno fa Noah Shachtman di WIRED USA è entrato nella base segreta USA dalla quale si tengono sotto controllo le operazioni dei "ragazzi" in Afghanistan. Su un enorme schermo che rappresenta la mappa del Paese, ogni singolo velivolo militare USA (caccia, bombardieri, droni, aerei-cisterna) è rappresentato da un pallino luminoso color blu-petrolio. Anche se la gran parte delle lucine si concentra attorno alle zone più "calde" del Paese (le province di Kandahar, Helmand e Nangarhar), almeno tre di esse si trovano chiaramente in territorio pakistano.
Si tratta, certamente, di droni, cioè di sistemi militari composti da velivoli senza pilota a controllo remoto, da una centrale di controllo a terra e da un dispositivo satellitare: essi possono essere utilizzati tanto a scopo ricognitivo e di intelligence (dalle forze armate) che offensivo (dalla CIA).
In Afghanistan le truppe americane sono tenute sotto pressione da gruppi talebani che spesso fanno base in territorio pakistano; il presidente Obama, che ha reputato la guerra in Afghanistan talmente importante da decidere l'invio su quel fronte di altri 30.000 soldati, è determinato ad impedire che le zone tribali del Pakistan rimangano un porto franco dal quale gli estremisti possono continuare indisturbati ad attaccare i soldati americani, anche grazie alle complicità dei servizi segreti di quel paese.
Poiché però la presenza di truppe USA in Pakistan, ad eccezione di qualche formatore per le truppe speciali locali, è tabù, la soluzione più logica è sembrata quella di utilizzare, anziché marine, robot controllati a distanza.
Il paradosso è che, mentre in Afghanistan, cioè in zona di guerra, gli attacchi americani tendono ad essere un po’ meno distruttivi, al fine di evitare di uccidere (troppi) civili innocenti, quelli dei droni americani in Pakistan sono assai più violenti e letali.
Secondo il think tank New American Foundation, negli ultimi due anni i circa 80 attacchi mediante veicoli senza pilota hanno causato tra i 750 e i 1.000 morti, di cui 320 sarebbero civili. Secondo Altre fonti (vicine all'esercito), i morti sarebbero stati 450, con perdite civili attorno al 10% - ma c'è anche chi parla di "soli" venti civili uccisi.
In realtà, dal punto di vista americano, la zona tribale del Pakistan è un luogo ideale per commettere abusi, dato che esso è chiuso alla stampa e alle ONG e che quindi è impossibile conoscere la verità.
L'aviazione americana ha in tutto 39 tra Predator e Reaper dispiegati in Asia Centrale e Medio Oriente; alcuni di essi vengono utilizzati dalla CIA per le sue missioni. Come quella che si è conclusa con l'assassinio di Baitullah Mehsud, il capo dei Talebani in Pakistan. Nella notte del 5 agosto scorso Mehsud, che stava prendendo il fresco su un terrazzo assieme al suocero e alla moglie, è entrato nel campo visivo di un Predator americano che lo spiava da una distanza di circa 3 chilometri.
Al momento giusto, un agente della CIA, magari direttamente dal quartier generale di Langley in Virginia, ha premuto un tasto sul suo joystick. A 8000 chilometri di distanza, il Preadtor ha lanciato due missili Hellfire sulla casa in cui si trovava Mehsud, uccidendo, oltre a lui e ai suoceri, la moglie, un "ufficiale" e sette guardie del corpo.
Anche se Mehsud era un assassino ed un criminale - è accusato dell'omicidio di Benhazir Bhutto e della strage al Marriott di Islamabad - resta il fatto che egli è stato vittima di un assassinio stragiudiziale ordinato dal governo di un paese democratico.
Come osserva il New York Times, "il sostegno politico al programma dei droni, il suo appeal high tech ed antisettico, e la sua segretezza hanno nascosto fino ad ora il suo approccio estremo. Ma per la prima volta nella storia abbiamo "una agenzia di intelligence civile che impiega robot per missioni militari, selezionando le persone da eliminare in un Paese con il quale gli Stati Uniti non sono ufficialmente in guerra".
Tutto ciò a dispetto dell'ordine esecutivo 11905 rilasciato dal presidente Gerald Ford il 18 febbraio del 1976, con il quale si stabilisce che "Un impiegato del Governo degli Stati Uniti d'America non dovrà mai essere coinvolto in assassinii politici".
Eppure gli Stati Uniti non sono stati sempre così disinvolti in materia di esecuzioni stragiudiziali. Nel luglio del 2001, infatti, solo due mesi prima dell'11 settembre che avrebbe cambiato il mondo, l'ambasciatore americano in Israele, Martin Indyk, denunciando la pratica israeliana di uccidere i terroristi palestinesi, dichiarò: "Il governo degli Stati Uniti è ufficialmente contro gli omicidi mirati. [...] Si tratta di assassinii stragiudiziali, e noi non li sosteniamo". I tempi cambiano, e con esso le idee...
Come nota Hina Shamsi, avvocato alla New York University School of Law, intervistata da Jane Mayer per The New Yorker, l'opinione pubblica americana si è dimostrata alquanto strabica. Infatti, proprio nei giorni in cui veniva resa noto l'assassinio di Mehsud, il Wall Street Journal rivelò che, durante l'amministrazione Bush, la CIA aveva presa in seria considerazione la possibilità di attivare squadroni della morte per catturare o uccidere operativi di Al Qaeda in tutto il mondo.
Non del programma non sono state mai avvisate le commissioni sull'intelligence del Senato e della Camera dei Rappresentanti, ma ad un certo punto è venuto fuori che la CIA intendeva subappaltare una parte del lavoro sporco alla Blackwater, oggi Xe Services, un contractor privato.
Dunque, ciò di cui si sta parlando è uno stato che assolda killer privati per far fuori i suoi nemici senza nemmeno preoccuparsi di processarli. Una storia da far rabbrividire, e che ha fatto rizzare qualche antenna anche presso i media conservatori, come il Wall Street Journal.
Prosegue la Shamsi: "Ci siamo tanto arrabbiati per un programma mai nato (infatti, Leon E. Panetta, attuale capo dell'Agenzia, lo ha cancellato a causa dell'inestricabile groviglio di problemi legali, diplomatici e logistici da esso implicato n.d.r.), ma le uccisioni con i droni esistono già. Si tratta [anche in questo caso] di omicidi mirati sul territorio internazionale.
Anche in questo caso, si fa uso di private contractor per una serie di attiività, tra cui far volare gli apparecchi." Ma, come nota Vicki Divoll, ex avvocato della CIA, pure interpellata da Jane Mayer per The New Yorker: "La gente si sente molto più a suo agio al pensiero di un Predator che fa fuori un po' di persone che con un tagliagole che ne ammazza solo una. Eppure gli omicidi 'meccanizzati' restano sempre omicidi."
Yemen, ribelli sciiti alle corde
di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 18 Dicembre 2009
Bombardamenti aerei e colpi di mortaio, sono questi i suoni che “a intermittenza” tormentano la vita dei contadini e dei pastori yemeniti che fuggono dalle province settentrionali di Saada, Hajjah, Al Jawf e da quella più interna di Amran. Riyadh, che negli ultimi decenni non aveva mai intrapreso azioni militari unilaterali, è preoccupata per la situazione di instabilità che attanaglia lo Yemen e cerca di arginare la crisi colpendo duramente i guerriglieri Zaydi, che intanto esportano il conflitto nelle province arabe di Jazan, Asir e Najran.
Oltre confine gli F-15 e i Tornado della Royal Saudi Air Force bombardano le aree di Jabal Rumaih, Jabal Dukhan e Wadi al Mouked, mentre gli M198 howitzer da 155mm del Saudi Arabian Army martellano i rifugi dei ribelli che, giorno dopo giorno, riprendo il controllo del territorio.
Questo lo scenario di un conflitto che si è riacceso lo scorso 11 agosto e che ora, con le denunce dei rappresentanti dell’ Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati (Unhrc) e dell’Islamic Relief Worldwide, assume un aspetti ancora più brutali: mentre i raid dell’aviazione yemenita colpiscono i campo profughi allestiti dalle organizzazioni umanitarie, un gran numero di adolescenti, tra cui molti bambini, sarebbe stato arruolato tra le fila delle guerriglia.
A Sanaa sono certi che l’Operazione terra bruciata (Operation Scorched Earth), la campagna militare con la quale l’esercito yemenita e le forze saudite hanno deciso di soffocare la rivolta zaydita, stia mettendo i ribelli in forte difficoltà, ma le notizie diffuse negli ultimi giorni delle agenzie internazionali lasciano pensare che la crisi sia tutt’altro che vicina dal finire.
Secondo quanto riportato dall’emittente iraniana Press Tv, il 4 dicembre scorso i guerriglieri del movimento Houthi, il gruppo armato nel quale confluiscono i militanti Zaydi che combattono contro le discriminazioni che colpiscono le popolazioni sciite del nord, avrebbero respinto le incursioni delle truppe saudite e, nonostante gli attacchi missilistici e i raid dell’aviazione, sarebbero stati in grado di mantenere il controllo della zona di confine che si trova nei pressi del villaggio di Ghawiyah.
Negli stessi giorni, il Saudi Arabian Army avrebbe reagito alla perdita di alcuni tanks, distrutti dai ribelli nei pressi del monte Mamdouh, lanciando decine di razzi nell’area di Jabal Dukhan; nella stessa azione sarebbero stati anche colpiti alcuni villaggi ed uccisi numerosi civili. Stessa cosa nei giorni successivi, quando ad operare è stata l’aviazione saudita: 13 attacchi contro i distretti di Malahit e Saqain con il rilascio di oltre 100 missili.
Sono quasi un milione le persone coinvolte in un conflitto che dall’agosto scorso ha già causato circa 175 mila profughi. Nel campo di Al-Mazraq, nella provincia occidentale di Hajjah, arrivano più di 900 civili al giorno, donne e bambini malnutriti, spaventati e disorientati da una guerra che li sta condannando alla povertà più assoluta.
I rifugiati interni si vanno ad aggiungere al drammatico problema dei somali fuggiti dalla guerra che dilania il Corno d’Africa: 100 mila secondo alcune stime; 15 mila nella periferia di Aden, in una sorta di quartiere-baraccopoli nella zona urbana di Basatene, e circa 10 mila nel campo profughi di al-Kharaz.
Per gli altri, lo status di rifugiato ha poco valore. Lontani dalla principale comunità della diaspora somala che ha sede a Nairobi, i più sfortunati sono spesso costretti a vivere sui marciapiedi o all’interno delle bidonville sorte nei pressi del complesso dell’Unhcr di Sana’a, disoccupati, affamati ed ormai sgraditi anche al più povero dei paesi arabi.
A questi si aggiungono poi gli eritrei e gli etiopi che scappano dalla repressione, dai disastri climatici e dalla povertà e che nello Yemen non godono neanche dello status di rifugiati.
Alla guida dello Yemen da oltre trent’anni, Ali Abdallah Saleh sta sicuramente attraversando un momento difficile, uno dei peggiori del suo “regno”. Stretto tra le fiammate di violenza che sempre più frequentemente incendiano il sud e una ribellione che a nord sta assumendo i connotati di una vera e propria guerra civile, Saleh deve fare i conti con enormi squilibri sociali e regionali: lo Yemen è uno dei paesi più poveri del mondo, strangolato dalle pressioni esterne e da scontri interni alimentati dalla corruzione che imperversa nelle stanze del notabilato politico.
Dopo aver pagato a durissimo prezzo gli effetti della prima Guerra del golfo (Ali Abdallah Saleh appoggio Saddam Hussein ai tempi dell’invasione del Kuwait) il regime si è però lentamente riavvicinato a Riyadh e nella lotta al terrorismo internazionale è diventato, in Medio Oriente, uno dei più fedeli alleati della Casa Bianca.
La sensazione è che, comunque, le poche ricchezze del paese non affluiscano nel sud sunnita, da dove proviene l’80% dei proventi derivanti dall’estrazione del petrolio, e non arrivino neppure nel nord sciita, dove la popolazione è praticamente alla fame, ma finiscano nelle tasche dei clan dominanti che sostengono il governo e il presidente Saleh.
Il timore è che nello scenario yemenita stiano confluendo diverse crisi: la guerra civile al nord, il movimento separatista al sud, la presenza di cellule terroristiche sempre pronte a colpire gli Usa nella penisola Araba. Sta di fatto che mentre il governo accusa l’Iran di voler spaccare il paese aiutando i ribelli a restaurare l’imamato Zaydita, la minoranza sciita, discriminata sia sotto il punto di vista religioso che politico, denuncia come il regime lasci l’estrema regione settentrionale nella povertà più assoluta.
Secondo molti esperti la ribellione in atto nelle province settentrionali di Saada, Hajjah, Al Jawf e in quella più interna di Amran, trova le sue radici nella fallita unificazione del 1990; rispetto alla guerra civile del 1994, quando a guidare la guerriglia c’erano i vecchi leader del partito socialista, la rivolta zaydita ha però connotati strategici più ampi.
Il fattore più rilevante è infatti il peso che riveste Teheran all’interno del conflitto: alla fine di ottobre, il quotidiano saudita Al-Watan, ha pubblicato un articolo nel quale parla di crisi diplomatica tra Arabia Saudita ed Iran e delle accuse yemenite nei confronti del regime degli Ayatollah, reo secondo Sanaa di sostenere i ribelli Houthi. L’apprensione deriverebbe dal notevole aumento delle attività iraniane nel Mar Rosso e dal tentativo della Repubblica Islamica di trasformare lo Yemen in una nuova area scontro.
Una tesi avvalorata dalla catturata a fine ottobre di un cargo carico di armi anticarro destinato alla guerriglia zaydita; dal sospetto dell’esistenza in Eritrea di campi di addestramento Pasdaran per i combattenti Houthi; dalle dichiarazioni rilasciate da Sheikh Abdallah Al-Mahdoun, uno dei comandanti della guerriglia che in un’intervista rilasciata ad un giornale arabo rivelerebbe il ruolo svolto dall’Iran nel conflitto yemenita, la massiccia fornitura di armi e di addestramento che oltre ai Guardiani della Rivoluzione starebbe ora coinvolgendo anche gli esperti Hezbollah arrivati dal Libano.
Bombe Usa sullo Yemen?
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 16 Dicembre 2009
I ribelli sciiti di Al-Houthi denunciano raid aerei statunitensi che avrebbero ucciso decine di civili
L'imam Abdul Malik Al-Houthi, leader dei ribelli sciiti che dal 2004 combattono contro il governo filo-occidentale yemenita, ha dichiarato ieri che caccia statunitensi hanno bombardato il loro territorio nel nord-ovest del paese, uccidendo almeno 120 persone, tra cui molti civili, e provocando una quarantina di feriti.
La denuncia dei ribelli Houti. Secondo la denuncia di Al-Houthi, i raid dell'aviazione Usa, condotti tra lunedì e martedì assieme all'aviazione saudita, hanno colpito un mercato, un campo profughi e due moschee della provincia di Saada, al confine con l'Arabia saudita.
Il leader ribelle ha dichiarato che l'aviazione Usa ha colpito ventotto volte lunedì e altre tredici il giorno successivo, accusandola di aver compiuto "uno sconvolgente massacro contro i nostri cittadini", "un crimine selvaggio che mostra il vero volto degli Stati Uniti, che cancella i loro ripetuti proclami sulla protezione dei diritti umani, sulla promozione della libertà dei cittadini e della democrazia".
Nessun commento da Washington. Nessun commento da Washington. Anche il governo yemenita ha scelto il silenzio.
Il coinvolgimento dell'aviazione Usa rimane quindi, al momento, una notizia priva di conferme indipendenti.
Una notizia che, tra l'altro, arriva all'indomani delle dichiarazioni rilasciate all'emittente Al-Arabiya dal generale David Petraeus, capo del Comando Centrale delle forze armate Usa, sul sostegno americano al governo yemenita contro la ribellione Houti, e di un articolo del Daily Telegraph che, sempre domenica, citava fonti anonime del governo Usa sull'invio di forze speciali americane in Yemen per impedire che il paese diventi una nuova base del terrorismo internazionale ‘di riserva' rispetto a quelle tradizionali in Afghanistan, Pakistan e Somalia.
Aumenta il coinvolgimento saudita. Nessun mistero, invece, sul sempre più pesante coinvolgimento delle forze armate saudite nel conflitto yemenita. Da settimane l'esercito e l'aviazione di Riyad conducono attacchi oltreconfine sulle roccaforti dei ribelli sciiti.
Domenica gli Houti avevano già denunciato l'uccisione di 70 persone, in gran parte civili, in un bombardamento aereo condotto dall'aviazione saudita sul villaggio di Bani Maan, roccaforte ribelle nel distretto di Razeh. Le bombe sganciate dai caccia di Riyad avrebbero colpito anche un mercato, uccidendo decine di civili.
Dall'inizio dell'operazione ‘Terra Bruciata', lanciata in agosto dalle forze armate yemenite, sarebbero centinaia i civili uccisi negli attacchi delle forze governative e saudite, e decine di migliaia i nuovi sfollati: 175mila dal 2004 secondo l'Unhcr.
La nuova Guerra del Golfo
di Christian Elia - Peacereporter - 15 Dicembre 2009
I paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo affilano le armi contro l'Iran
"Sorry sir, ma la strada dell'aeroporto è chiusa". Il tragitto dallo scalo internazionale di Kuwait City fino al centro della capitale dello stato del Golfo è un'autentica impresa. La capitale del Kuwait è blindata: posti di blocco della polizia per le strade, cavalli di frisia e militari armati fino ai denti attorno agli obiettivi sensibili. Il motivo è che lunedì 14 dicembre è cominciata a Kuwait City la riunione dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) e, mai come quest'anno, l'agenda è fitta di questioni spinose.
La militarizzazione della città è collegata alla paura di possibili attentati contro gli sceicchi del petrolio. Il Consiglio è nato nel 1981 su iniziativa dell'Arabia Saudita, all'epoca portavoce degli interessi Usa nella regione energeticamente più strategica del pianeta. Ne fanno parte, oltre a Riad, l'Oman, gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait, il Qatar e il Bahrain.
L'iniziativa, all'epoca, partì per calibrare le politiche nazionali rispetto sia alla produzione del petrolio (in un quadro più malleabile per Washington dell'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio - Opec) e alla ricaduta sociale dei proventi della vendita del greggio, creando un mercato comune.
La politica, all'alba dell'organizzazione, stava fuori. Oggi come allora, invece, il tema della moneta unica tra i paesi membri resta all'ordine del giorno.
Come la politica, che ha assunto negli ultimi anni un peso preponderante nelle riunioni del Gcc.
I temi sono molti: la crisi economica di Dubai, la moneta unica e il ruolo regionale dell'Iran. Questa volta, infatti, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad non è stato invitato, come accadde invece nel vertice Gcc del 2007, tenutosi a Doha, in Qatar.
Un ritorno all'antico. Il Gcc, infatti, nacque nel 1981 con scopi evidenti di contenimento della Rivoluzione Islamica in Iran guidata dall'imam Khomeini. L'internazionalismo sciita faceva paura a queste monarchie che, di fatto, rappresentano il cartello delle famiglie reali, divenute miliardarie grazie alla vendita del greggio.
Monarchie sunnite, che si fanno vanto di essere i custodi della tradizione islamica più pura. Khomeini poteva rappresentare una fascinazione per tutti quegli sciiti, che in Bahrain sono addirittura la maggioranza della popolazione, che vengono trattati come cittadini di seconda serie.
Inoltre la censura del'arricchimento personale di queste famiglie reali e del loro stile di vita eccentrico da parte del clero sciita non era certo ben vista dagli sceicchi del petrolio.
Oggi la situazione è tornata più o meno la stessa, in quanto a Riad e altrove nel Golfo (che per tutti questi paesi è Arabico, mentre per Teheran è Persico) temono che Ahmadinejad abbia risvegliato quell'internazionalismo della rivoluzione iraniana sopito dal governo dei conservatori pragmatici di Rafsanjani prima e dei riformisti di Khatami poi in Iran.
Il banco di prova più evidente, secondo i governi del Gcc, è la rivolta degli sciiti in Yemen, che ormai vede da mesi l'esercito yemenita impegnato in una guerra senza quartiere contro i miliziani al confine con l'Arabia Saudita. Confine spesso violato, al punto che l'esercito saudita è ormai parte in causa della battaglia.
Il vertice, dunque, non a caso ha dato all'aspetto della cooperazione militare un'importanza enorme ed è arrivato in Kuwait per chiedere aiuto contro i miliziani sciiti il ministro degli Esteri yemenita, Abdel Qader al-Qurbi.
Il progetto si chiama Al Jazeera Shield (lo scudo della Penisola) e prevede una cooperazione militare a tutti i livelli tra gli stati membri del Gcc, comprese le attività di intelligence e logistica.
Il tutto sotto la benedizione degli Usa, che hanno eletto il Qatar e il Bahrain come centri operativi delle loro forze armate nella regione dopo gli attentati a Washington e New York del 2001 che hanno raffreddato i rapporti con l'Arabia Saudita. Ma l'Iran, per molti, resta il male assoluto e le monarchie del Golfo ne sono più spaventate di tutti.
Altro argomento forte all'ordine del giorno è la situazione economica di Dubai. L'insolvenza dichiarata dalla Dubai World, la società ritenuta il motore della finanza dell'emirato, è stata grantita da un prestito di Abu Dhabi, l'emirato capitale, per dieci miliardi di dollari. Al di là dei giochi di potere interni agli Emirati Arabi Uniti, dove la capitale sta invertendo i rapporti di forza con Dubai, le economie di tutto il mondo hanno tirato un sospiro di sollievo.
Le borse di tutto il mondo hanno reagito positivamente alla notizia e tutti gli stati del Golfo hanno accolto con sorrisi evidenti sui volti degli sceicchi, in posa sulle prime pagine di tutti i giornali, con didascalie che occupano mezza pagina per inserire devotamente tutti i nomi e i titoli dei monarchi.
La crisi di Dubai, infatti, rischia di essere un virus per le economie di tutti i paesi Gcc, da tempo impegnati nel diversificare le proprie economie, troppo dipendenti dai proventi di una fonte esauribile come il petrolio.
Dubai, che il petrolio non ce l'ha, era diventata un modello: real estate di alta classe, progetti faraonici per il turismo di lusso, energie rinnovabili e così via. Il dichiararsi a un passo dal fallimento metteva in cattiva luce tutta la programmazione economica e finanziaria degli altri stati che, piano piano, finiscono tutti per sviluppare città sul modello di Dubai.
La crisi, però, ha indebolito Dubai sul piano negoziale con gli altri membri del Gcc. In primavera, infatti, con la scusa della polemica per la designazione di Riad quale sede della banca centrale per la moneta unica nel Golfo, gli Emirati si erano sfilati dal progetto. Seguiti poco dopo dall'Oman. Non a caso, perché il vero problema è che questi due stati, molto più sensibili ai temi economici che a quelli religiosi e politici, fanno affari d'oro con l'Iran.
Adesso, vista la debolezza di Dubai, la posizione degli Emirati si è di fatto ammorbidita e Riad e gli altri non vedono l'ora di bloccare uno dei mercati più importanit per l'economia embargata di Teheran.
Adesso che Dubai tira il fiato, gli sceicchi e i loro alleati occidentali, sempre più, possono concentrarsi sul nemico per eccellenza: l'Iran di Ahmadinejad.
"La presenza militare Usa in America Latina rilancia la corsa agli armamenti e il rischio di nuovi conflitti."
In America Latina numerosi e importanti processi politici stanno determinando un graduale calo del consenso neoliberale e pro-statunitense.
Dal socialismo bolivariano di Chavez in Venezuela al pragmatismo del Brasile di Lula, sono sempre di più i governi dell’area che cercano uno spazio comune di integrazione e una maggiore autonomia, anche grazie al recupero della piena sovranità sulle risorse naturali ed energetiche.
La via delle nazionalizzazioni seguita da alcuni governi, la diminuita influenza del Fondo Monetario Internazionale sulle economie degli Stati, il rifiuto dell’ALCA (Area di Libero Commercio delle Americhe) stanno a testimoniare come gli Stati Uniti, in appena dieci anni, abbiano perso buona parte della loro leadership sul Nuovo Continente.
E per questo - c’è da temere - potrebbero affidarsi a strategie più “efficaci”.
Anche dopo l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca, la politica estera degli Usa nei confronti dell’America Latina ha continuato a rivelarsi ottusa e aggressiva, senza alcuna differenza sostanziale, se non nella forma, rispetto alle tattiche guerrafondaie dell’era di G.W. Bush.
Secondo il politologo statunitense Noam Chomsky, “l’unica differenza tra le amministrazioni passate e quella attuale, è lo stile retorico. Obama è politicamente corretto, si rivolge agli altri governanti come a dei leaders, anche se nei fatti continua a trattarli come dei vassalli degli Stati Uniti”.
Il punto più criticabile della nuova “dottrina Obama” è lo sforzo per accelerare una nuova militarizzazione nell’area latinoamericana, partendo dal rafforzamento delle basi militari in Colombia (con il solito pretesto della lotta al narcotraffico) e dal ripristino della IV Flotta, le cui unità da guerra dall’anno scorso hanno ripreso ad incrociare nelle acque dei Caraibi e dell’Atlantico dopo quasi 60 anni di inattività.
La concessione di 7 basi militari colombiane all’esercito degli Stati Uniti ha trasformato il presidente Uribe, il più fedele alleato della zona, in un luogotenente imperiale. Non si deve dimenticare che questo Paese, nell’ambito del Plan Colombia, ha già accumulato in soli dieci anni aiuti militari per più di 6 miliardi di dollari.
Ora, in virtù dei nuovi accordi con la Colombia, il South Command (che comprende tutte le forze statunitensi e congiunte nell’area latinoamericana) può contare su 20 basi militari avanzate; inoltre i suoi soldati godono della tutela di una giurisdizione speciale che non li rende responsabili nei casi di lesa umanità o di abusi ai danni delle popolazione civili.
Come era naturale aspettarsi, alla rinnovata ingerenza militarista degli Usa ha fatto seguito un coro di vibrate proteste da parte di Venezuela, Ecuador, Bolivia, Paraguay, Nicaragua, Argentina, Uruguay e Brasile.
Il presidente Lula ha incolpato Uribe di aver trasformato le Ande in una polveriera pronta a scoppiare da un momento all’altro; Correa (Ecuador) ha invece affermato – senza mezzi termini – che il presidente colombiano “ha le mani sporche di sangue” (alludendo all’incursione contro l’accampamento delle FARC, compiuta dalle forze speciali colombiane a Sucumbios, in territorio ecuadoriano, lo scorso anno).
Gli altri mandatari si sono invece limitati a far osservare che l’installazione di basi straniere nei loro territori equivale ad una grave violazione della sovranità nazionale.
Di fronte alla decisione nordamericana di rafforzare la presenza militare nella regione andina, un po’ tutti i governi della zona hanno reagito aumentando, a loro volta, le spese in armamenti.
Negli ultimi 5 anni - oltre alla già citata Colombia - Brasile, Ecuador, Cile e Venezuela sono stati i maggiori compratori di armi e sistemi di difesa. Il Brasile, in particolare, è la nazione che da sola investe in armamenti circa il 50% della spesa complessiva di tutta l’America Latina.
Ma se si analizza questo dato in rapporto al PIL, si scopre che il vero primato spetta ad altri. Sono infatti Colombia e Cile a destinare alle spese militari tra il 3 e il 4% del loro Prodotto Interno Lordo (secondi solo agli Usa, con oltre il 4%); mentre il Venezuela chavista, che colombiani e nordamericani considerano un pericolo per la pace e la stabilità della regione, stanzia “solo” l’1,3% del PIL per la difesa del suo territorio.*
Nel corso degli ultimi mesi la tensione tra Colombia (da una parte) e Venezuela ed Ecuador (dall’altra) è salita alle stelle. Esiste il fondato sospetto che funzionari statunitensi dei servizi di sicurezza cospirino per indebolire il governo di Caracas mediante espedienti diplomatici e militari, come l’infiltrazione di agenti segreti e di unità paramilitari nelle zone di frontiera.
Il mese scorso le autorità venezuelane hanno annunciato la cattura di alcuni agenti del DAS (Dipartimento Amministrativo di Sicurezza, il servizio segreto colombiano), inviati nel Paese limitrofo ad effettuare operazioni di ricognizione e di spionaggio sulle Forze Armate Nazionali Bolivariane del Venezuela.
Da parte colombiana (e statunitense), l’intento di queste operazioni segrete potrebbe essere quello di saggiare le difese di confine per prepararsi - all’occorrenza - a scatenare un’offensiva militare contro il Venezuela e i suoi alleati dell’ALBA, la pericolosa ”Alleanza Bolivariana per le Americhe”.
* Fonte: Istituto di Ricerca Internazionale per la Pace di Stoccolma (dati 2007/2008).
da «NuestrAmérica», dicembre 2009.
Le basi di Pandora
di Stella spinelli - Peacereporter - 15 Dicembre 2009
L'installazione dell'Esercito Usa in sette basi colombiane continua a togliere il sonno ai paesi della regione e la tensione sale. E mentre Morales chiede un referendum, Correa riforma gli 007, perché troppo compromessi con i soliti noti
La tensione tra i paesi progressisti del Sud America e la Casa Bianca continua a crescere, concentrandosi sul tema delle basi che la Colombia ha messo a disposizione dell'esercito statunitense.
Mentre il boliviano Evo Morales chiede un referendum continentale sulla questione, considerata illegittima perché permette a una forza estera di infiltrarsi nella regione, minacciosamente, l'ecuadoriano Rafael Correa decide di rinnovare l'intero apparato di intelligence, dopo aver scoperto la collusione tra i suoi 007 e gli scagnozzi americani stanziati nella base di Manta.
È durante la sessione conclusiva del Summit dell'Alba (Alleanza bolivariana dei popoli della nostra America), celebratasi all'Avana, che il presidente della Bolivia ha espresso la sua convinzione sulla necessaria unità di intenti nei confronti dell'accordo bilaterale siglato dal colombiano Alvaro Uribe con il Pentagono, visto da gran parte dei paesi latinoamericani come un'intrusione illegittima in una zona calda.
"I popoli latinoamericani rigettano democraticamente l'installazione delle basi militari Usa in America Latina", ha dichiarato. "Difenderemo il Sud America di fronte all'aggressione militare degli Stati Uniti, che sconfiggeremo, così come vennero sconfitti in Vietnam, perché l'America Latina reagirà a qualsiasi aggressione", ha dichiarato. Quindi, riferendosi alla tensione che a questo proposito c'è tra Caracas e Bogotà, ha precisato che chiunque vorrà aggredire il Venezuela, dovrà vedersela con tutti i suoi alleati.
E sulla medesima frequenza d'onda si è mostrato Rafael Correa, che è colui che l'ha inaugurato questo atteggiamento irreprensibile verso il tema delle basi Usa. È stato Correa, infatti, a cacciare il Pentagono dell'ecuadoriana base di Manta che da anni occupava con la scusa della lotta alla droga.
Ed è quindi da qui che è nata la necessità di Washington di riscrivere la propria presenza in Sud America poi sfociata nel progetto colombiano. Ecco, il presidente dell'Ecuador ha appena dato il via a una totale ristrutturazione dei servizi segreti nazionali, con l'obiettivo di estirparne le infiltrazioni di paesi terzi.
Un annuncio che arriva dopo che una commissione governativa nata per indagare sull'attacco dell'esercito colombiano in territorio ecuadoriano del primo marzo 2008 ha concluso che furono lavori di intelligence orchestrati da Manta a permettere di localizzare l'accampamento delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia, in territorio ecuadoriano. Di qui la prova della pericolosità di ospitare basi straniere.
Rafael Correa, infatti, ha deciso di riorganizzare la Ley de Seguridad e di rifare tutto in tema di 007 perché "ogni cosa era in mano alle potenze straniere": le informazioni sul confine ecuadoriano che fecero scattare l'attacco colombiano, in cui morì il fariano Raul Reyes e altre 25 persone, arrivarono addirittura prima all'ambasciata Usa e a Bogotà che a Quito.
Una serie di reazioni a catena, dunque, a cui si aggiunge anche quella dei diretti interessati, gli Usa, che finora si sono limitati a smentire a parole, e in maniera piuttosto soft. Ma qualcosa è cambiato. Perché, a quanto dichiarato dal sottosegretario statunitense per l'Emisfero occidentale, Arturo Valenzuela, la Casa Bianca avrebbe inviato una lettera a tutti i governi sudamericani in cui garantisce di non invadere la regione dalle sette basi colombiane.
Una missiva indirizzata a tutti i ministri degli Esteri e della Difesa e al presidente ecuadoriano Rafael Correa, in quanto presidente di turno della Unione sudamericana delle Nazioni (Unasur). "Le operazioni militari saranno esclusivamente in territorio colombiano e non coinvolgerà altri paesi della regione", parola del segretario di Stato, Hillary Clinton, e del ministro della Difesa, Robert Gates.