A 48 ore dall'approvazione della nuova legge elettorale è puntualmente riesplosa la violenza in Iraq.
È infatti di oltre 100 morti e quasi duecento feriti il bilancio ancora provvisorio di una serie di esplosioni avvenute oggi in diversi punti di Baghdad, provocate molto probabilmente da varie autobombe.
Una delle esplosioni è avvenuta a Dora, poco dopo un'autobomba è esplosa nella zona di Nahda, davanti ad un edificio dove sono ospitati uffici del ministero degli interni, un'altra nei pressi di un ufficio giudiziario davanti alla moschea al Nidaa, nel quartiere al Qahiria, un'altra ancora nei pressi dell'università al Mustansiriya, poco distante dall'ingresso del ministero del lavoro e degli affari sociali, mentre la quinta è esplosa nei pressi della piazza al Rusafi, nel centro della capitale.
L'ultimo sanguinoso attentato nella capitale irachena è del 25 ottobre scorso quando un duplice attentato aveva provocato 165 morti e oltre 500 feriti.
Come era facilmente prevedibile, il periodo pre-elettorale sarà sempre più contraddistinto dall'ennesima nuova ondata di violenza.
Tutti contenti della nuova legge elettorale
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 7 Dicembre 2009Sarebbero stati i kurdi, e non l’eventualità di un secondo veto da parte del vice presidente Tariq al Hashimi, il fattore che rischiava di far saltare l’accordo faticosamente raggiunto fra le diverse forze politiche sulla legge elettorale.
Approvata dal Parlamento nella versione definitiva (la terza) dieci minuti prima della mezzanotte di ieri. Appena in tempo. Con il sì di tutti i deputati presenti – 138 su 275, il minimo per il quorum.
La stampa statunitense oggi riferisce non solo di una febbrile attività, nel corso di tutto il fine settimana, da parte dei diplomatici della Missione Onu in Iraq (UNAMI) e di quelli dell’ambasciata Usa a Baghdad, ma di pressioni al massimo livello – telefonate a tarda notte da parte del vice presidente americano Joe Biden, nonché dello stesso presidente Barack Obama – a Mas’ud Barzani, il presidente della regione autonoma del Kurdistan.
Colloqui che oggi sono stati confermati dal portavoce della Casa Bianca Robert Gibbs. Pressioni, ma anche – pare – garanzie. Secondo il deputato kurdo Faryad Rawanduzi, da Washington dovrebbe arrivare un comunicato relativo proprio alle promesse fatte a Barzani nel corso delle telefonate notturne. Impegni in tal senso sarebbero stati strappati anche alle Nazioni Unite.
Comunque sia, è andata. Il compromesso raggiunto fra le diverse forze politiche, oltre a scongiurare un secondo veto da parte di Hashimi, la cui opposizione aveva determinato una situazione di stallo che porterà comunque a un rinvio delle elezioni legislative di almeno un mese, apparentemente soddisfa tutti.
Il vice presidente, dopo il sì del Parlamento al testo emendato, ha ritirato formalmente il primo veto, contento di quella che ha definito “una vittoria storica per il popolo iracheno”. E ora si parla di andare a votare il 27 febbraio - data che già l’UNAMI aveva definito “fattibile”.
Tutti contenti?
La legge elettorale, nella sua versione definitiva, non è molto diversa da quella approvata l’8 novembre – la stessa a cui Hashimi aveva posto il veto, in quanto non avrebbe garantito una rappresentanza adeguata agli iracheni che vivono all’estero.
I negoziati febbrili degli ultimi giorni hanno riguardato soprattutto il numero di seggi da assegnare alle 18 province in cui è diviso l’Iraq, senza scontentare nessuno – sunniti, sciiti, e kurdi – questi ultimi, sul piede di guerra, avevano minacciato di boicottare le elezioni, sostenendo che le tre province che compongono la loro regione autonoma del nord (Irbil, Dohuk, e Sulaimaniya) erano state penalizzate.
E proprio per accontentare tutti, i seggi del nuovo Parlamento passano dagli attuali 275 a 325 – restituendo alle province a maggioranza sunnita quelli persi con il primo emendamento alla legge elettorale, approvato il 23 novembre. Dei 325 seggi, 310 saranno distribuiti fra le province: i restanti 15 sono i cosiddetti “seggi di compensazione”, e comprendono quelli riservati alle minoranze – cristiani, yazidi, sabei-mandei, e shabak.
La ripartizione dei seggi che vanno alle province è contenuta in un allegato, approvato anch’esso ieri assieme alla legge elettorale.
In assenza di un censimento generale della popolazione, che è stato rinviato al prossimo anno, per il conteggio sono state utilizzate le statistiche del ministero del Commercio (ovvero i dati delle tessere del razionamento governativo) relative al 2005, con l’aggiunta di un 2,8% annuo, per tener conto della crescita media della popolazione – aumento che è stato applicato a tutte le province.
Insomma, tutto a posto – o quasi.
Ora dall’UNAMI esortano il Consiglio di presidenza – ovvero il presidente della Repubblica Jalal Talabani e i suoi due vice - a far presto e a fissare una data per le elezioni. Di tempo se ne è perso fin troppo.
Non chiudono ancora le carceri Usa
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 7 Dicembre 2009
Oltre alla data delle elezioni, in Iraq slitterà anche il calendario previsto per il trasferimento agli iracheni dei detenuti ancora in custodia delle forze statunitensi.
Anche se una data precisa non è mai stata fissata, si era parlato di gennaio 2010 – il 10 gennaio, per l’esattezza, quando Camp Taji, la più grande delle strutture di detenzione ancora gestite dagli americani, avrebbe dovuto essere consegnata alle autorità di Baghdad.
Ora le previsioni sono per fine febbraio o primi marzo (curiosamente coincidenti con le nuove date possibili per le elezioni legislative), ha detto oggi il capitano Brad Kimberly, un portavoce militare americano – senza dare alcuna spiegazione per il ritardo.
La comunicazione di Kimberly è contenuta in una e-mail. “Intendiamo trasferire o rilasciare quasi tutti i detenuti in nostra custodia entro fine agosto 2010”, si legge nel messaggio. “Tuttavia, lavorando assieme al governo iracheno, potremmo trattenerne circa un centinaio, su loro richiesta. Sarebbero i detenuti più pericolosi”.
La consegna alle autorità di Baghdad di tutti i detenuti in custodia delle forze Usa è fra le varie disposizioni dell’”accordo di sicurezza”, il cosiddetto SOFA, firmato dall’allora Amministrazione Bush con il governo dell’Iraq a fine 2008, dopo mesi di lunghi e faticosi negoziati. Esso prevede che il loro rilascio avvenga in modo “sicuro e ordinato”. O che vengano consegnati al sistema della giustizia iracheno, se è stato determinato che ci sono buone ragioni per tenerli in carcere.
Dal 2003, data dell’invasione del Paese, per le carceri gestite dagli americani in Iraq sono passati in circa 100.000. Dal gennaio di quest’anno, sempre in base al SOFA, gli americani non possono più arrestare un iracheno se non con un mandato del magistrato – iracheno, a sua volta.
Secondo le cifre fornite da Kimberly, 7.499 detenuti sarebbero stati rilasciati dagli inizi dell’anno, e 1.441 consegnati alle autorità irachene. Le forze Usa ne tengono ancora in custodia 6.466.
Chiuso a settembre Camp Bucca, la maggiore delle strutture carcerarie, in mezzo al deserto nell’estremo sud del Paese, sarebbe dovuto toccare a Camp Taji, appunto il 10 gennaio 2010. Per ultimo Camp Cropper, dove si trovano, fra gli altri i cosiddetti “detenuti eccellenti”, nei pressi dell’Aeroporto internazionale di Baghdad – ad agosto.
A sentire Kimberly, la decisione spetterebbe agli iracheni.
“In ultima analisi, è il governo dell’Iraq che decide chi resta nelle nostre strutture, e per quanto tempo”, dice il portavoce militare statunitense.
E fra quelli che restano in carcere, a Camp Cropper, c’è anche Ibrahim Jassam – cameraman e fotografo che lavorava per la Reuters.
Arrestato più di un anno fa nella sua abitazione di Mahmudiya, circa 30 km a sud di Baghdad, le accuse precise nei suoi confronti non sono mai state rese note.
Nel dicembre 2008 un tribunale iracheno ne aveva ordinato il rilascio, per mancanza di prove.
Prove che invece ci sarebbero – secondo gli americani. Solo che sono secretate.
I postini iracheni mettono la prorpia vita nelle mani di Dio
di Sammy Ketz - Agence France Presse - 27 Novembre 2009
Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq
Alle 10:20 del 25 ottobre, il postino Mussa Sallus ha consegnato delle lettere in una banca presso il Ministero della Giustizia di Baghdad. Cinque minuti dopo essere uscito dall’edificio, un’onda d’urto lo ha scaraventato a terra.
“ Ringrazio Dio per avermi salvato la vita,” dice Sallus, che si trovava a poco meno di trecento metri dall’edificio quando è esploso un camion-bomba, uccidendo decine di persone, molti dei quali bambini che si trovavano nell’asilo per i dipendenti del ministero.
Un minuto dopo, un secondo attentatore si è diretto con un minibus carico di esplosivo verso l’entrata della sede del municipio di Baghdad, situata a soli 800 metri di distanza, innescando un’esplosione che ha fatto salire il bilancio delle vittime a 153.
Questi attentati sono stati i più sanguinosi che hanno colpito l’Iraq in oltre due anni, ferendo centinaia di persone, e causando ingenti danni a decine di edifici vicini.
Quando Sallus, che percorre le strade della capitale irachena da 27 anni, è tornato all’ufficio postale, i suoi colleghi pensavano che fosse un fantasma.
“ Mi hanno detto di stare a casa”, ricorda il 56enne scapolo. "Ma il giorno dopo ero al mio posto; in Iraq siamo abituati a questo tipo di situazioni: non è un motivo per smettere di lavorare”.
A differenza di quanto avviene nella maggior parte dei Paesi, e di com’era durante il regime del dittatore spodestato Saddam Hussein, i postini iracheni non indossano un’uniforme che li distingua, sebbene una proposta per un abbigliamento standard sia al vaglio.
L’ufficio postale del distretto di Salhiya, nel centro di Baghdad, ha 46 dipendenti; tra loro ci sono sei postini, uno dei quali per poco non è stato ucciso in un simile attentato simultaneo, il 19 agosto.
"Avevo appena finito una consegna di raccomandate al Ministero degli Esteri, quando è arrivato”, dice Abdul Hussein Tuma, descrivendo il camion-bomba suicida che ha ucciso decine di dipendenti del Ministero e abitanti della zona.
Tuma, anch’egli 56enne, stava per entrare nella Green Zone, considerata la zona più sicura di Baghdad e luogo di residenza di diplomatici e lavoratori internazionali, che è parte del suo settore, ma ha iniziato a correre scioccato verso il Ponte della Repubblica.
"Le persone inorridivano quando mi guardavano, quindi mi sono fermato e ho visto che ero coperto di sangue”, dice Tuma, “veterano” che lavora per le poste da 30 anni.
Gli attacchi ai Ministeri degli Esteri e delle Finanze dello scorso agosto hanno ucciso 95 persone, ferendone circa 600. Questo evento ha spaventato Tuma, ma non lo ha dissuaso dal fare i suoi giri di consegne il giorno successivo.
“Ovviamente sono tornato al lavoro”, dice. “ Cos’altro si può fare? È la routine. Dio decide quando morirò. Io sono sopravvissuto perché così ha voluto”.
Negli ultimi 18 mesi, la violenza è diminuita notevolmente; nonostante ciò, i ribelli, fedeli a Saddam e ad al-Qaeda – accusati dal governo per gli attentati contro i ministeri – hanno chiaramente ancora una notevole capacità.
Sebbene ci siano stati dei miglioramenti dal punto di vista della sicurezza e l’ambiente lavorativo sia migliore, il servizio postale non sta prosperando.
Il numero di lettere e pacchi consegnati a livello nazionale si è dimezzato – da 10 a 5 milioni tra il 2002 e il 2008, a quanto mostrano le ultime statistiche disponibili - e i profitti sono scesi da 2,5 a 1,7 miliardi di dollari.
Paradossalmente, però, il numero dei lavoratori delle poste è cresciuto - da 1.600 a 2.864: un andamento che si ripete in tutto il settore pubblico dell’Iraq, che predomina, e viene utilizzato, fra le critiche internazionali, per limitare la forte disoccupazione.
Ci sono 330 postini in tutto il Paese – rispetto ai 150 di sette anni fa – dice alla Agence France Presse Hannah Ali, direttrice amministrativa e della pianificazione degli uffici postali. Di questi, 130 lavorano a Baghdad.
Dall’invasione guidata dagli Usa, che ha rovesciato Saddam sei anni fa, a oggi, sono stati tre i postini che hanno perso la vita in attentati; altri tre sono morti in attacchi di natura confessionale, dice la Ali, e un altro è stato ucciso a colpi di arma da fuoco in un crimine il cui movente è ancora da chiarire.
Abdul Razak Talib, 43 anni, postino capo a Salhiya, ricorda un episodio avvenuto ad Haifa Street, la zona più pericolosa della capitale al culmine dell’insurrezione nel 2006.
“Ero sul motorino con il mio collega per consegnare le bollette del telefono, quando i ribelli ci hanno detto di tornare indietro perché stavano per iniziare a combattere”, dice. “ Conoscevano le nostre facce, ma, per loro, non facevamo parte del conflitto”.
Gli attacchi contro i ministeri hanno dimostrato che i postini si trovano ad affrontare, ancora oggi, un ambiente di lavoro precario, e i ricordi delle esplosioni giornaliere, che hanno polverizzato la città durante gli anni seguiti all’invasione, sono ancora vivi.
Un attentato a Shawaf Street, una via principale affollata, piena di ristoranti, resta vivido nella mente di Talib.
“Ho temuto per la mia vita”, dice. “ Ho attraversato la strada, e l’attentatore suicida, che indossava una cintura imbottita di esplosivo, si è fatto esplodere pochi secondi dopo”.
L’attentato del 19 giugno 2005 ha ucciso 23 persone, compresi 6 poliziotti, vicino alla Green Zone.
“È un miracolo che così tante esplosioni non abbiano ucciso un numero maggiore di miei colleghi”, dice Talib, con il sorriso sulle labbra.
“Dio deve pensare che facciamo parte di una missione umanitaria”.
Amnesty: fermare immediatamente le esecuzioni
da www.osservatorioiraq.it - 5 Dicembre 2009
L’Iraq ha giustiziato almeno 120 detenuti quest’anno, e altri 900 sono ancora nel braccio della morte.
La denuncia arriva da Amnesty International, che in un comunicato ieri ha chiesto al governo di Baghdad di sospendere immediatamente tutte le esecuzioni, sottolineando che alcuni dei condannati a morte “lo sono stati probabilmente dopo processi iniqui”.
Fra loro ci sono 17 donne: le sentenze sarebbero già state ratificate dal Consiglio di presidenza (composto dal presidente della Repubblica Jalal Talabani e dai suoi due vice) – e perciò sarebbero definitive.
L’Iraq ha reintrodotto la pena capitale (in vigore ai tempi di Saddam Hussein) nell’agosto 2004, dopo una breve moratoria seguita all’invasione guidata dagli Usa e alla caduta del regime nell’aprile 2003. Normalmente, le esecuzioni vengono eseguite per impiccagione.
"In un Paese che ha già uno dei più alti tassi di esecuzione al mondo, la prospettiva che queste statistiche possano aumentare in modo significativo è in effetti inquietante", sottolinea Philip Luther, vice direttore del programma Medio Oriente e Nord Africa dell’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani.
L’approssimarsi delle elezioni legislative, previste nei primi mesi del 2010, non aiuta, osserva il comunicato di Amnesty: il governo di Baghdad sta infatti cercando di presentarsi come capace di affrontare con il pugno di ferro la criminalità, e di tenere sotto controllo l’assai precaria situazione della sicurezza.
Esponenti politici dell’opposizione hanno espresso la preoccupazione che le esecuzioni dei condannati a morte possano essere utilizzate dal premier Nuri al Maliki e dalla sua coalizione politica a fini di propaganda elettorale.
Secondo Amnesty, nel 2008 in Iraq erano state condannate a morte almeno 285 persone e 34 giustiziate. Nel 2007, le condanne erano state almeno 199, 33 delle quali eseguite.
Non esistono cifre ufficiali sul numero di detenuti in attesa di esecuzione.
Sulla pena di morte, l’attuale leadership irachena è divisa: con il Primo Ministro Nuri al-Maliki che ne è un ardente sostenitore, mentre il presidente Jalal Talabani è contrario.
Solo che ha scelto un atteggiamento ponziopilatesco: ovvero di delegare la ratifica delle sentenze ai suoi due vice, Tariq al Hashimi e Adel Abdel-Mahdi. Che, evidentemente, si fanno meno problemi.
Finanziamenti dall'estero a personalità politiche in vista delle elezioni
da www.osservatorioiraq.it - 4 Dicembre 2009
La data delle elezioni legislative si allontana, ma fra le forze politiche irachene cresce la preoccupazione che quando si andrà al voto il suo esito possa essere influenzato da fattori che nulla hanno a che fare con una competizione corretta e trasparente.
Uno dei problemi riguarda i finanziamenti che arriverebbero dall’estero ad alcuni partiti, movimenti, e personalità – con l’obiettivo di influenzare la situazione in Iraq.
La denuncia arriva da Muwaffaq al Rubai’e, ex consigliere per la sicurezza nazionale, ora Segretario Generale del movimento “al Wasat” (in arabo, “il centro”), che sostiene di avere informazioni in merito, e minaccia di fare i nomi – delle forze politiche e delle personalità irachene che ricevono soldi da fuori, e in particolare dai Paesi confinanti, per la loro campagna elettorale – se su questo non ci sarà subito un accordo.
Rubai’e dice [in arabo] al quotidiano arabo al Sharq al Awsat che le informazioni in suo possesso confermano l’esistenza di tali finanziamenti, e sono “molto precise”. Se quelli che ricevono questi finanziamenti esteri (partiti e personalità) dovessero vincere le elezioni, sottolinea l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, le ingerenze esterne nella situazione irachena diventeranno inevitabili.
Manca una legge sui partiti
Il problema è l’assenza di una legge sui partiti – che regolamenterebbe, fra le altre cose, anche la questione dei finanziamenti. Una bozza che era stata messa a punto non ha fatto molta strada, con il Parlamento bloccato per mesi sulla questione della legge elettorale. E così la patata bollente è stata rinviata alla nuova Assemblea – quella che uscirà, appunto, dalle elezioni, che erano previste per metà gennaio 2010. Data che ormai slitterà.
Che cosa si può fare allora per istituire un minimo di controllo sulle casse di partiti, movimenti, e singoli che si preparano a correre per un seggio in Parlamento?
Secondo Rubai’e, dovrebbe intervenire la Banca centrale irachena, “dato che questi soldi sono da considerarsi denaro politico, che ha l’obiettivo di sabotare il processo politico in Iraq, e di confondere il processo elettorale” – il tutto “per interferire negli affari iracheni”.
E i nomi? L’ex consigliere per la sicurezza nazionale, che è entrato di recente con il suo movimento nella Iraqi National Alliance, la coalizione che raggruppa le principali forze sciite (ma non il partito del premier Nuri al Maliki - al Da’wa), per ora si limita alle minacce.
“Adesso non è il momento opportuno per rivelare i nomi”, dice ad al Sharq al Awsat, “ma se la situazione continuerà così, saremo costretti a farlo”.