Sigle sindacali guidate da Cisl e Uil mentre la Cgil si è dichiarata contraria all'accordo, con la Fiom che ha già proclamato uno sciopero di 8 ore dei metalmeccanici per il 28 Gennaio.
P.S. Buon Anno....
Fiat voluntas tua
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 30 Dicembre 2010
L’accordo con la Newco Fiat, siglato ieri dai sindacati governativi guidati da Bonanni e Angeletti con la benedizione di un esultante Sacconi, che coglie così la sua vendetta covata da anni contro la Cgil, rappresenta la quintessenza del nuovo modello di relazioni industriali.
Che possono, sostanzialmente, essere così riassunte: il comando d’impresa sostituisce la dialettica tra le componenti sociali e il governo del Paese abbandona definitivamente il ruolo terzo per entrare a piedi uniti nel piatto di una vendetta ideologica sognata da decenni.
L’interesse delle imprese diventa l’unico riferimento della società, la quale perde ogni funzione di rappresentanza degli interessi generali per trasformarsi in fornitrice silente di braccia a basso costo e menti sgombre da diritti di qualsivoglia natura.
Il contratto nazionale di lavoro, che sancisce la sintesi tra i diversi bisogni delle parti sociali, viene nei fatti abolito per assegnare alla contrattazione d’impresa il luogo unico della decisionalità in quanto luogo unico dell’affermazione d’interessi.
E’ uno strappo violento e volgare alle regole stabilite, che scavalca le organizzazioni di categoria da un lato e il ruolo del governo dall’altro, che ferisce nel profondo la democrazia italiana, già gravemente malata.
Marchionne gongola, perfettamente cosciente che negli stessi States, pedissequamente citati come fonte ispiratrice dei suoi modelli industriali, nessuna amministrazione, nemmeno repubblicana, avrebbe mai permesso un accordo di questo tipo.
Perché quanto siglato non ha nessuna attinenza con la necessità di attrezzare un gruppo industriale alla sfida della concorrenza internazionale, è solo una dichiarazione di guerra contro il sindacato. Cioè contro la Cgil e, più significativamente, contro la Fiom, principale organizzazione dei metalmeccanici.
Questo è il senso dell’accordo: lo scambio vergognoso tra lavoro e diritti. Non c’è nessuna idea di come reinventare e riprogrammare la produzione industriale nell’era della globalizzazione e della crisi profonda del turbo capitalismo. Semplicemente, si ritiene il comando d'impresa come l'alfa e l'omega delle politiche del lavoro.
S’instaura quindi una lettura delle politiche industriali che, guardandosi bene dal proporre cosa e quanto produrre in relazione al fabbisogno interno ed alle strategie di import-export, si concentra sul come, proponendosi di fronte alla competizione internazionale con una equazione semplice: salari e diritti da terzo mondo per reazlizzare profitti da primo mondo.
Quest’accordo sancisce che lo Statuto dei lavoratori, come fosse una Multipla, viene rottamato. I diritti, sanciti dalla Costituzione e dalla giurisprudenza del lavoro, diventano un pallido ricordo. La funzione sociale dell’impresa, prevista dalla Carta, diviene un fastidioso orpello da cancellare magari per via legislativa, non appena si presentassero le condizioni per una riforma costituzionale sarà tra i primi articoli della Carta ad essere sbianchettato.
La storiella dell’adeguamento ai tempi di crisi dei diritti viene spacciata pressocchè all’unanimità, ma è palesemente fumo negli occhi. Perché la questione non è se la Fiat continua o no ad investire in Italia. L’Italia ha garantito alla Fiat, per oltre mezzo secolo, privilegi e sostegni finanziari senza i quali l’azienda torinese avrebbe chiuso.
Senza i pesanti costi sociali sostenuti dalla fiscalità generale, l’azienda della famiglia Agnelli non avrebbe avuto la possibilità di sbagliare tutta la sua politica di crescita e sviluppo industriale e rimanere comunque a drenare risorse e accantonamenti.
Devono allora essere dei marziani i manager tedeschi della Wolkswagen, che continuano a tenere la leadership del mercato e ad aumentare i profitti, pur pagando salari di gran lunga superiori a quelli italiani e senza mettere in discussione la struttura delle relazioni industriali.
Invece però di passare al vaglio le abnormi responsabilità di un management incapace e di una famiglia che si è distinta anche nell’esportazione illecita di capitali all’estero, la Fiat sposta ulteriormente l’asticella con l’ennesimo ricatto che propone al paese, confidando in un governo e nella sua capacità di condizionamento dei sindacati gialli per nascondere la polvere dell’incapacità di stare sul mercato sotto il tappeto delle regole.
Se Marchionne pensa di vendere 30 milioni di auto in Europa nel corso del 2011, allora più che piegare i lavoratori italiani dovrebbe piegare i consumatori europei al delirio di Corso Marconi.
Ma se l’accordo e la definitiva rottura sindacale rappresentano una tragedia, la farsa è rappresentata dal Pd. Che - si poteva dubitarne? - è diviso sulla valutazione dello stesso.
Intendiamoci, il PD è ormai diviso su tutto e nemmeno sulle previsioni del tempo il suo gruppo dirigente potrebbe trovare un minimo di sintesi che facesse vagamente intravvedere brandelli di sinistra.
Bene ha fatto Landini a suggerire agli esponenti del PD di andare in fabbrica invece di stare sbracati sulle onorevoli poltrone. “Andate alla catena di montaggio e poi vedremo se continuerete a ragionare in questo modo” ha detto il leader FIOM a Fassino e Chiamparino, che si sono distinti nel lodare l’accordo. La diagnosi, più che d’incapacità a riconoscere le culture di provenienza, sembra risultare un disturbo d’identità ormai cronico.
Ma la divisione del PD su questo è ancora più grave di quelle ormai note sui temi eticamente sensibili, sulla politica economica e su quella estera, sulle alleanze politiche e sulla natura della crisi; è più grave perché priva di sponda parlamentare e istituzionale la FIOM e tutti coloro che si oppongono a quest’accordo.
Dopo gli studenti e i precari, ora anche gli operai saranno privi di sponda politica, di rappresentanza e interlocuzione istituzionale. E il fatto che solo Nichi Vendola e Di Pietro (oltre a Ferrero) abbiano alzato la voce contro questo sfregio alla democrazia, racconta più di mille righe edotte e analitiche sul futuro dell’opposizione.
Sistema Marchionne, guerra ai diritti
di Angelo Miotto - Peacereporter - 29 Dicembre 2010
Quando il futuro diventa un 'indice di produzione globale' che schiaccia sogni, aspirazioni, desideri e il giusto riconoscimento di diritti individuali e collettivi c'è da chiedersi non tanto come si sia potuti arrivare fino a qui. Ma come se ne uscirà
La firma del contratto per Pomigliano, raggiunta ieri con l'esclusione della Fiom, è fine e principio.
Fine di un percorso di alcuni mesi, in cui l'ostinazione di Sergio Marchionne ha portato all'uscita dal Contratto nazionale di riferimento, l'uscita da Confindustria, la fondazione di una Newco, l'esclusione dal tavolo non solo di un attore importante come la Fiom, ma anche di formazioni capaci e agguerrite che risiedono nel sindacalismo di base.
Il ricatto fra lavoro e diritti è sancito. Con buona pace dei sindacati che giustificano le proprie firme in calce all'accordo sostenendo che in periodi di crisi ci si deve adattare e riuscire a strappare le migliori condizioni.
Il principio sta in una strada senza un approdo visibile, in cui l'unica certezza è rappresentata dall'effetto domino che avrà una ferita così profonda nelle relazioni economiche e sindacali inferta dal sistema Marchionne.
Quante altre imprese si accoderanno, e soprattutto quante altre giocheranno a rimpiattino fra il Contratto nazionale, i contratti esterni e gli integrativi in un sistema ormai disintegrato, pezzo per pezzo, rispetto a quanto era stato conquistato faticosamente in anni di lotte?
Se la questione del lavoro è grave - e il segretario della Fiom Landini bene ha fatto a ricordare alla speculazione politica cosa sia la fatica della catena di montaggio a 1300 euro mese, sotto ricatto - altrettanto grave, pur se su un altro livello, è quello della rappresentanza sindacale.
L'esclusione della Fiom, che al tavolo non si è seduta, e la pervicacia con la quale gli altri due sindacati maggiormente rappresentativi hanno proseguito sulla propria strada, ci dicono di un punto di non ritorno.
Le stesse dichiarazioni, sicuramente surriscaldate dalla cronaca, in cui Cisl e Uil proseguono nelle accuse di istigazione alla violenza rispetto alle durissime critiche rivolte da esponenti della segreteria Fiom sono benzina gettata sul fuoco, che scalda il cuore del ministro Sacconi, particolarmente contento e di tutti quelli che nelle crepe del sindacato vedono un'ottima occasione per infierire nella propria offensiva. Che spacceranno per 'investimento nazionale' e non certo come profitti da accumulare nei propri bilanci.
La saldatura del cerchio è nella riforma Gelmini. Il classismo, il divario ricchi/poveri, le diseguaglianze sociali, di opportunità personale e collettiva, culturale ed economica, che si delineano all'orizzonte non dicono nulla di buono.
Quando il futuro diventa un 'indice di produzione globale' che schiaccia sogni, aspirazioni, desideri e il giusto riconoscimento di diritti individuali e collettivi c'è da chiedersi non tanto come si sia potuti arrivare fino a qui, ma come si potrà uscirne senza situazioni traumatiche.
Per tornare a rivendicare uguaglianza sociale, pari opportunità di accesso alla cultura e al lavoro, un nuovo senso del tempo quotidiano, una diversa concezione di profitto. Un ritorno a quella parola, solidarietà, che prevede di rispondere insieme, in solido appunto, rispetto al futuro.
La precarizzazione del contratto nazionale collettivo di lavoro
da Peacereporter - 29 Dicembre 2010
Andrea Fumagalli, docente di Macroeconomia all'Università di Pavia spiega perché oggi anche il contratto di lavoro è stato precarizzato: "Anche alla Marcegaglia si sta cercando una scappatoia per non applicare il contratto di secondo livello ai neo assunt
Bistrattato e stracciato, è il Contratto Collettivo di Lavoro. Marchionne se ne va dalla Confindustria e ne crea uno nuovo con la compiacenza di Fim e Uilm, mentre Emma Marcegaglia cerca all'interno del contratto la scappatoia per evitare di concedere ai nuovi 200 assunti nell'azienda di famiglia la contrattazione di secondo livello.
"Se il contratto di secondo livello si sta precarizzando è anche colpa dei sindacalisti, che hanno svuotato di contenuto il Contratto Nazionale del Lavoro", risponde Andrea Fumagalli, professore di Macroeconomia all'Università di Pavia, che parla delle trasformazioni "in negativo" del contratto di lavoro italiano, "che è stato precarizzato, perché non considera più l'aspetto dell'innalzamento salariale e non vengono considerate tutte le categorie contrattuali atipiche, sempre più consistenti in questo Paese".
Perché nel contratto di lavoro non si parla più dell'innalzamento salariale?
Il salario viene pretederminato su paramentri che esulano dalla contrattazione. E' successo per la prima volta nel 1993, a un anno di distanza dall'eliminazione della scala mobile. Dal '93 in poi la massima richiesta salariale è stata stabilita in base al tasso di inflazione programmata, definito ogni anno dal Governo sull'inflazione corrente.
Il contratto dura quattro anni e ogni due anni, se il tasso d'inflazione effettivo è superiore a quello programmato nell'accordo contrattuale, allora le parti decidono di pagare la differenza ai lavoratori attraverso una tantum economica che vale solo per i due anni successivi, e non per quelli precedenti. Questo ha causato la perdita del potere d'acquisto. Nell'accordo separato del 2009 il sindacato è riuscito a fare peggio.
L'inflazione viene calcolata a livello dei prezzi europei sul modello Ipca, depurato dagli incremento dei prezzi dei prodotti energetici. Quindi gli aumetni del costo della benzina e delle bollette non vengono considerati. Il risultato è che i nostri lavoratori sono al ventottesimo posto su trentatre Paesi Ocse per potere d'acquisto dei salari.
Perché la parte sindacale se ne disinteressa?
Per mancanza di informazione. Non sempre i sindacalisti hanno una coscienza sul contenuto e sulle modalità di formulazione degli accordi.
Perché Lei parla di precarizzazione del contratto?
In questi anni la struttura contrattuale è stata depotenziata per via della trasformazione del mercato del lavoro, della frammentazione delle categorie professionali, dall'emergere di nuove professioni, dall'indebolimento del manifatturiero. Coloro che sono protetti da Ccnl sono la minoranza dei lavoratori.
Formalmente tutte le categorie sono inserite nel Ccnl, poi se a un lavoratore non viene applicato un regolare contratto a tempo determinato, ma un contratto trimestrale o una collaborazione a progetto, non può certo rivendicare il suo diritto a un contratto. Non lo fa, se non vuole perdere il posto di lavoro. Il risultato è che le forme atipiche - stage, borse lavoro, stagionali, a termine, a somministrazione - stanno dilagando in modo incontrollato.
Il depotenziamento del Ccnl è frutto di una scelta politica dei sindacati, che speravano che depotenziando il Contratto collettivo, a favore di una maggiore flessibilità, sarebbero riusciti ad arginare e governare il fenomeno della precarietà, ma la situazione è sfuggita loro di mano, non hanno capito che la precarietà non era lo scotto che le nuove generazioni dovevano pagare per entrare nel mercato del lavoro, ma il futuro strutturale delle nuove forme di lavoro. Così gli imprenditori si lanciano in una corsa al ribasso nel costo del lavoro, lo fa Marchionne e lo fa pure la Marcegaglia.
In che senso lo fa anche Marcegaglia?
Il fatto che Emma Marcegaglia sia il presendente di Confindustria obbliga l'azienda di famiglia a rispettare le regole del Ccnl. Peccato che la stessa Marcegaglia stia cercando di non applicare la contrattazione di secondo livello ai duecento nuovi assunti, con il risultato di mantenerli per anni a un livello salariale d'ingresso.
Non avviene lo stesso anche in Europa?
In Germania esiste una struttura di welfare diffusa, un salario minimo intercategoriale e un operaio tedesco guadagna il trenta per cento in più di quello italiano.
Ma gli imprenditori dicono di essere disposti a innalzare gli stipendi se potessero pagare meno tasse..
I costi sociali per le aziende tedesche sono gli stessi, ma il tasso di evasione fiscale p più basso. La Germania ha una crescita annua del 2,5% perché negli ultimi dieci anni è stata in grado di favorire l'innovazione a favore dell'industria.
E perchè i lavoratori tedeschi sono più produttivi di quelli italiani?
Perché nelle aziende la tecnologia è adeguata e il parco macchine al passo con l'innovazione. Si provi a fare un giro alla fabbrica di viale Sarca della Marcegaglia, dove le maestranze perdono almeno un'ora al giorno per riparare le macchine che non funzionano. Altro che fannulloni, non esistono le condizioni per essere efficienti e produttivi.
di Paolo Flores D'Arcais - Il Fatto Quotidiano - 30 Dicembre 2010
D’Alema ha fatto la sua scelta: con Marchionne e contro la Fiom. Con qualche se e qualche ma, come è nello stile slalomistico della casta Pd, ma la sostanza non cambia.
Si tratta di un vero e proprio cambiamento di fronte, che rischia di “fare epoca” certificando la definitiva morte del Pd, perché l’inciucio con Marchionne nel quale D’Alema trascina il partito (Bersani seguirà?) ha un sapore strategico, molto più grave perfino dei tanti inciuci “tattici” (comunque devastanti) con Berlusconi.
Anche il diktat di Marchionne, servilmente e prontamente firmato da Uil e Fim, certamente farà epoca, come hanno prontamente e servilmente gorgheggiato gli aedi di regime. Si tratta di capire di quale “epoca” si tratti.
A giudicare senza pregiudizi, si tratta in campo sociale dell’analogo rappresentato dalle leggi berlusconiane di bavaglio ai giornalisti e camicia di forza ai magistrati, fin qui fermate dalla sollevazione popolare della società civile.
Quei disegni di legge, che il governo non ha rinunciato a far approvare, segnano un salto di qualità verso approdi specificamente fascisti dell’attuale regime.
Un equivalente funzionale e soft (soft?) di fascismo risulta anche il diktat di Marchionne. Se qualcuno ritiene il rilievo eccessivo, si accomodi a considerare le seguenti e modeste verità di fatto.
Il diktat marchionnesco prevede che 1) non vi saranno più rappresentanze elette dei (dai) lavoratori, ma solo nominate dai sindacati che firmano l’accordo, e che 2) i lavoratori che scioperino anche contro un solo aspetto dell’accordo possano essere licenziati.
Queste misure costituiscono nel loro insieme un quadro di (non) diritti che negli oltre sessant’anni di vita della Repubblica non era stato mai ventilato, neppure in via ipotetica, neppure dalle forze più retrive della politica e dell’imprenditoria. Per trovare un precedente bisogna risalire agli anni del fascismo. Riassumiamo i fatti storici.
Nell’immediato dopoguerra, dopo la rottura dell’unità sindacale, i lavoratori eleggono in fabbrica i loro rappresentanti nelle “Commissioni Interne”, su liste sindacali in concorrenza.
Lungo gli anni settanta e fino a quasi la metà degli anni ottanta, invece, in un clima di unità sindacale dal basso, imposta dalle lotte del ’68 e del ’69, i rappresentanti operai vengono eletti su scheda bianca, senza sigle sindacali, votando per gruppi o reparti “omogenei” direttamente i nomi dei compagni di lavoro che riscuotono la maggiore fiducia.
Con la nuova rottura dell’unità sindacale si torna a rappresentanze elette su liste di sigle sindacali concorrenti, che abbiano firmato accordi contrattuali o vi si siano opposti (anche i Cobas insomma).
Lo “Statuto dei lavoratori” del 1970 parla di rappresentanze sindacali in termini volutamente generici, proprio perché non intende predeterminare per legge quale delle due forme di elezione vada privilegiata, ma intende come ovvio l’eguale diritto di tutti i lavoratori ad essere rappresentati.
Quanto al diritto di sciopero, esso è tutelato costituzionalmente (art. 40) “nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e dunque non può essere in alcun modo limitato da accordi privati. E la legge oggi lo limita solo in specifici casi, esigendo preavvisi e/o esenzioni per i servizi pubblici irrinunciabili.
Dunque, neppure ai tempi delle più dure repressioni antioperaie, che in campo padronale avevano il volto di Valletta e dei reparti-confino per gli attivisti Fiom, e in campo politico il volto di Mario Scelba e della violenza della “Celere”, era stato mai messo in discussione l’ovvio principio che tutti i sindacati (anzi tutti gli operai) hanno diritto a dar vita alle rappresentanze dei lavoratori, perché altrimenti sarebbero “rappresentanze” non rappresentative.
Per ritrovare un analogo al diktat marchionnesco bisogna infatti risalire al 2 ottobre 1925, al diktat di Palazzo Vidoni con cui Mussolini, il padronato e i sindacati fascisti firmavano la cancellazione delle “Commissioni Interne”, sostituite dai “fiduciari” di regime (equivalente “sindacale” dei capocaseggiato).
Non c’è dunque nessuna esagerazione retorica nell’allarme che i dirigenti Fiom hanno lanciato, ricordando questi precedenti, e invocando lo sciopero generale contro misure che non solo calpestano la Costituzione, ma che di questo “strame della Costituzione” intendono fare il modello delle future relazioni industriali.
Quello che colpisce e lascia anzi allibiti, semmai, è la mancanza di una risposta anche minimamente adeguata, da parte di forze che si dicono democratiche, e che verbalmente presentano rituali omaggi alla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza.
Parliamo del Pd, dove numerose sono le voci di servo encomio alla “voluntas Fiat”, e comunque maggioritarie quelle né carne né pesce, nella migliore tradizione di Ponzio Pilato, e non vi è un solo leader di spicco che abbia preso posizione netta a fianco della Fiom.
Ma parliamo anche, e in questo caso soprattutto, della Cgil: non si capisce davvero cosa debba ancora accadere, in questo sciagurato paese, perché si ritenga necessario uno sciopero generale, se non bastano neppure misure antioperaie che hanno antecedenti solo nel fascismo.
E parliamo anche, purtroppo, di una società civile che è stata ben altrimenti energica e pronta nel rispondere alla volontà di fascistizzazione in tema di giustizia e di informazione, e che invece sembra neghittosa di fronte a questa seconda ganascia della tenaglia di fascistizzazione del paese. Dimenticando che sulla distruzione delle libertà e dei diritti dei lavoratori è già passata una volta la distruzione delle libertà e dei diritti di tutti i cittadini.
Ecco perché la sollevazione morale della società civile a fianco dei metalmeccanici Fiom è oggi il dovere più urgente, e la cartina di tornasole della capacità di resistere alle lusinghe e alle violenze del fascismo postmoderno.
Vendola e i cavalli lenti
di Bartolomeo Paolini - Megachip - 31 Dicembre 2010
«Per me non c'è la possibilità che esista la sinistra se non mette al centro la dignità di chi lavora. Non capisco neppure cosa possa essere la sinistra al di fuori di questa dimensione».
Queste parole, ferme e inequivocabili, le ha pronunciate Nichi Vendola contestando il ricatto di Marchionne e aggiungendo che «avere un giudizio di neutralità o addirittura di consenso nei confronti del ‘modello Marchionne’ significa esser subalterni a una trasformazione autoritaria del capitalismo mondiale e nazionale».
Bravo Nichi! Parole sante! Per fortuna che abbiamo trovato l’Obama de noantri!
Ma mentre l’elettore di sinistra si sfrega le mani, tra le macerie della nostra democrazia, perché il nuovo leader sa scaldare i cuori e non solo la poltrona, si insinua nella mente delle persone più lucide un dubbio: chi ha partecipato negli ultimi trent’anni alla distruzione dei diritti del lavoro, dando al processo di innovazione del capitalismo “mondiale e nazionale” caratteri di ineludibilità e necessità storica?E’ stata anche la sinistra: quella cosiddetta riformista, con al traino le sinistre “radicali” amanti del progresso e dello sviluppo.
Bene (si fa per dire). E con chi è che vuole costruire alleanze strategiche Vendola, per rilanciare la centralità del lavoro e dei diritti, e per scalzare dal ponte di comando il Nano Impunito?
Ops! Proprio con quelle forze che, da Amato in poi, hanno stravolto il controllo costituzionale sull’economia privata in Italia, diffondendo la flessibilità a senso unico nel lavoro e l’idea secondo cui solo accettando le esigenze aziendali sarebbe stato possibile innalzare il benessere degli italiani. Si è visto.
Per quanto possa essere forte la sua corsa, la carrozza andrà alla velocità dei cavalli più lenti che si è scelto. E i cavalli del PD oggi vanno al passo di quei sindacalisti che facevano i patti scellerati con il Mussolini degli esordi. A questo siamo.
Ora ci dica, il simpatico Vendola, dove stanno la coerenza delle sue proposte e il senso vero della sua indignazione.
Non si accorge, il nostro leader coccolato dalle televisioni, che lo stile Marchionne è l’esito di un processo storico che vede protagonista tanto la sinistra quanto la destra? Tutti a inseguire la crescita del PIL. E lui dov’era in questi decenni?
Il lettore non creda che le parole di Vendola non siano condivisibili. Le prime dieci sono impeccabili e le abbracciamo in pieno: «Per me non c'è la possibilità che esista la sinistra».
Né con Marchionne, né con la Fiom
di Mariano Cirino - Il Fatto Quotidiano - 30 Dicembre 2010
La questione è difficile, e le semplificazioni non aiutano, perché viviamo in un mondo in cui infuria la lotta tra l’economia mondiale e gli stati sovrani.
Di una cosa però sono sicuro: si potrebbe anche discutere una riforma complessiva del mondo del lavoro, ma qui è solo Marchionne a dettare le condizioni e a decidere. Ma è lui il presidente del Consiglio? E’ lui il Parlamento?
Ok, è lui che ha un’azienda, ma non dovrebbe rispettare le regole dello Stato in cui si trova? O in America e in Serbia ha cambiato le regole di quegli Stati?
Insomma, se in un paese a cambiare le regole sono gli industriali e non la politica, unica espressione attuale del popolo, c’è qualcosa che non va. Anche perché non siamo in un paese in cui le aziende possono farsi da sole le regole, o sbaglio? Diciamo che da noi vale la seguente regola pratica: meno i lavoratori sono protetti dai sindacati, più l’azienda ha il coltello dalla parte del manico.
Ora la Fiom promette fuoco e fiamme per i 4.600 operai di Mirafiori, ma il coltello dei datori di lavoro è già affondato nella pancia di milioni di lavoratori precari in Italia, mai protetti realmente da nessun sindacato, come dimostrano anche le manifestazioni di piazza dello scorso dicembre.
Intanto, lì dove la flessibilità potrebbe dare maggiori opportunità al lavoratore, i datori di lavoro applicano una incredibile rigidità, come viene documentato da centinaia di analisi sulla rigidità del mondo del lavoro. E in questo i sindacati sono stati maestri: sempre a difendere i diritti e mai a pensare alle opportunità per i più giovani.
Le sacrosante battaglie civili sulla maternità, sulle ferie pagate, sugli orari di lavoro purtroppo sono un ricordo del secolo scorso, e ora l’ammortizzatore sociale dei giovani precari sono le famiglie che hanno alle spalle, quando ce le hanno, quelle famiglie che godono delle vecchie garanzie.
La tenaglia aziende-sindacati stringe in una morsa il nostro futuro. Massima flessibilità, che diventa precarietà, lì dove non serve, perché un lavoro umile dovrebbe essere solo dignitoso e almeno sicuro, e massima rigidità nei campi dove si tratta di preservare privilegi, assumere con logiche esclusivamente familiari o di potere, limitare la concorrenza, dividere politicamente gli appalti, difendere le categorie storicamente protette dai sindacati.
Qualcuno sostiene che questa logica ha salvato l’Italia facendone un paese con meno tensioni sociali. Ma a che prezzo?
E comunque Marchionne ha rotto questa logica, e la politica e i sindacati non ne conoscono un’altra. Possono solo dire “No!” oppure “Sì!”. Mi sembra che a questo si riducano le posizioni di Cremaschi e Bonanni, e purtroppo anche dei nostri politici di destra e di sinistra.
Diceva Adorno che la vera libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta. Chi è in grado oggi di essere libero, o almeno di pensare liberamente?
Fiat, el paso doble della restaurazione
di San Precario - Il Fatto Quotidiano - 30 Dicembre 2010
Gli accordi siglati dalla Fiat relativi alla riorganizzazione dei siti produttivi italiani pone delle questioni ineludibili dal punto di vista sindacale come anche sul piano politico.
1. In primo luogo, questi accordi ci dicono chiaramente che cosa è oggi la democrazia politica in questo paese. Sono decenni che la politica non riveste un ruolo di mediazione dei conflitti e di interessi contrapposti. Oggi la politica è semplicemente l’arte dell’imposizione di un interesse particolare, spacciato come generale.
Prima si schiacciavano i diritti in nome della competitività, della flessibilità come strumento di crescita, del controllo dell’inflazione e del debito pubblico. Ora con la crisi l’approccio è diretto: o la borsa o la vita! Anche i modi si sono fatti espliciti: con la forza o con la corruzione.
Dal regime economico al regime politico tutto si compra (dai sindacati ai partiti); chi pretende politica viene zittito. Per i migranti e il precariato in generale, così come per gli studenti, non c’è mediazione che tenga.
E se la tensione sale? Allora si rispolvererà la tradizionale ricetta del bastone e della carotina: da un lato si apre un’interlocuzione formale con una sponda istituzionale che però non ha alcun potere deliberativo-legislativo – ad esempio il presidente della Repubblica, com’era già successo per i licenziati di Melfi –, dall’altro si mette in cantiere la sospensione dei diritti democratici, com’è di fatto avvenuto con gli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano o con l’idea dell’allargamento del regime Daspo ai manifestanti.
2. In secondo luogo, i due accordi sanciscono in modo definitivo la frattura all’interno del sindacato confederale. Cisl e Uil sono ormai del tutto subalterne a una logica di concertazione prona alle compatibilità aziendali, e accampano giustificazioni in nome della tenuta dell’occupazione e della necessità di adeguare i ritmi di produzioni e di sfruttamento ai modelli organizzativi della Germania e degli Usa (dimenticando – elemento di non poco conto – che lì il salario è il doppio di quello italiano).
La Fiom si trova da sola a tener duro su principi inalienabili connaturati alla propria esistenza, rischiando grosso: l’estromissione al tavolo delle relazioni sociali avrebbe per lei ripercussioni enormi.
La Cgil, come al solito, all’apparenza tiene il piede in due scarpe, dà un calcio al cerchio e uno alla botte, bussa ad ogni porta, alza il volume mediatico, ma la verità è che il sentiero è segnato.
L’elezione di Camusso a segretaria generale propende infatti per una politica concertativa e, nel concreto, tendenzialmente a-conflittuale. Se non avrà il coraggio ora di dare un segno di discontinuità – magari uno sciopero generale, vero – il sindacato più grande d’Italia perderà anima e consenso.
3. Se a Pomigliano non c’è stata trattativa ma un diktat stile “prendere o lasciare”, a Mirafiori si nega la visibilità e l’agibilità politico-sindacale del sindacato riottoso. È il preludio di un nuovo modello di governance delle relazioni industriali che riprende e allarga ciò che già avviene a livello istituzionale. Regime politico e regime economico non sono altro che due facce della stessa medaglia.
4. Infine tutto questo ci porta a ciò che Sanprecario.org ripete come un mantra da alcuni anni. La condizione di precarietà è generalizzata; non riguarda solo chi è contrattualmente precario con un rapporto di lavoro atipico: riguarda anche chi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Perché chiunque sa che basta un niente – una delocalizzazione, una ristrutturazione, una dichiarazione di stato di crisi (più o meno presunto) – a far sì che da un giorno all’altro un lavoro stabile si trasformi in lavoro precario.
Tuttavia, tutto ciò ci ricorda che la precarietà non riguarda solo l’intermittenza di lavoro o il rischio di chiusura, ma anche le condizioni di lavoro e di salario: aumento dei turni, spostamento della pausa mensa a fine turno, obbligo di straordinario, non pagamento della malattia.
E via col liscio…