venerdì 17 dicembre 2010

Update italiota

Uno sguardo al triste panorama italiota.


Sciliputin
di Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano - 15 Dicembre 2010

Nell’estate del 1994, la prima di B. al governo, Montanelli scrisse sulla Voce: “Oggi, per instaurare un regime, non c’è più bisogno di una marcia su Roma né di un incendio del Reichstag, né di un golpe sul Palazzo d’Inverno. Bastano i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa: e fra di essi, sovrana e irresistibile, la televisione. Il risultato è scontato: il sudario di conformismo e di menzogne che, senza bisogno di leggi speciali, calerà su questo Paese riducendolo sempre più a una telenovela di borgatari e avviandolo a un risveglio in cui siamo ben contenti di sapere che non faremo in tempo a trovarci coinvolti”.

Sette anni dopo, l’ultima volta che s’incontrarono in tv, nel 2001, Biagi gli chiese una previsione. E lui: “Berlusconi, se vince, governerà senza quadrate legioni, ma con molta corruzione (il direttore di Rai1, Maurizio Beretta, censurò la frase e fece subito carriera in Confindustria).

Ecco, quel che è accaduto ieri nel regno dei morti – Montecitorio, l’unico posto al mondo dove B. ha ancora la maggioranza – è una mirabile sintesi del regime Tv & Corruzione denunciato fin dall’inizio da Montanelli.

Anche ieri era scontato il risultato: e non perché si prevedesse che le signore Siliquini e Polidori sarebbero state colte da crisi di coscienza last minute alla toilette o dalla manicure, in perfetta simbiosi con i Calearo, i Cesario, gli Scilipoti e i Razzi; ma perché chi si proponeva di abbattere il regime non l’ha mai, in cuor suo, considerato un regime e dunque s’è comportato come se dovesse rovesciare un normale governo. Come se bastasse chiudere una parentesi aperta nel ‘94 per riportare il paese alla normalità.

L’Italia, specie ai piani alti, non è più un paese: 16 anni di berlusconismo l’hanno trasformata in quella “telenovela di borgatari” avvolta in un “sudario di conformismo e di menzogne senza bisogno di leggi speciali” profetizzata dal vecchio Indro. Non c’è più arbitro, a regolare la contesa.

La Corte costituzionale se la dà a gambe perché “il clima politico è surriscaldato” (dice il neo-presidente De Siervo, noto cuor di leone, che l’altra notte era da Marzullo). Il Tribunale dei ministri e la Procura di Roma si palleggiano l’indagine su B. per il complotto anti-Annozero e, nel tragitto, spariscono le intercettazioni.

Il capo dello Stato, noto anestesista, somministra cloroformio e bromuro, intanto mentre tutti dormono la Banda B svaligia il paese. Un mese fa B. era politicamente morto: bastava votare subito la mozione di sfiducia dei finiani ed era fatta. Invece la cosiddetta “moral suasion” del Colle ha regalato al grande corruttore un mese di tempo per comprarsi quei pochi che ancora non teneva sul libro paga.

Fini
poi ha sottovalutato l’avversario e selezionato male le truppe d’assalto. Errore tanto più imperdonabile in quanto lui il nemico lo conosce meglio degli altri: avendoci convissuto per tanti anni, avrebbe dovuto reclutare uomini di provata fede e incorruttibilità, col coltello fra i denti, non le Moffe e le Sdilinquini. Ha preferito la quantità alla qualità, mettendosi in casa infiltrati che, al segnale convenuto del mandante, sono usciti allo scoperto.

Stesso errore dall’altra parte ha commesso Di Pietro: non contento dei Carrara e dei De Gregorio, ha imbarcato i Razzi, gli Scilipoti e i Porfidia, gente che non occorre il curriculum per tenerla a debita distanza: basta la faccia.

Del Pd, che è riuscito a perdere per strada 18 deputati e un terzo dei voti in due anni e mezzo, inutile parlare. Fini almeno ha ammesso la sconfitta. Invece dai perditori piddini, che han collezionato più fiaschi di una cantina sociale, mai un cenno di autocritica.

Come disse Violante nel 2002 alla Camera, “Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena nel 1994 che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa Letta. Non abbiamo fatto la legge sul conflitto d’interessi, abbiamo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni e durante i governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte!”. Gli hanno venduto l’Italia e se ne vantano pure.


Il Pd e le alleanze, palla al centro
di Marco Palombi - Il Fatto Quotidiano - 17 Dicembre 2010

Di Pietro propone il "matrimonio", mezzo Pd dice no. Obiettivo: Terzo Polo. D'Alema punta a Draghi o Monti premier, senza Idv e Sel, ma Bersani è contrario alla separazione

Addio a Di Pietro, addio a Vendola e un’alleanza col Terzo Polo in una coalizione dal sapore vagamente emergenziale, soprattutto se impreziosita da un candidato premier di nome Mario, Draghi (meglio) o Monti (se proprio l’altro non vuole).

Questo è l’orizzonte strategico che accomuna buona parte del gruppo dirigente del Partito democratico – fatta una grossa eccezione per il segretario Pierluigi Bersani – all’indomani della delusione rimediata sulla sfiducia a Silvio Berlusconi.

Non è il “Tutto Tranne Berlusconi” che indigna Giuliano Ferrara, ma una scelta strategica che punta ad offrire al moderatismo congenito del nostro ceto medio una soluzione chiavi in mano per uscire senza traumi dal ventennio del Cavaliere.

Massimo D’Alema
– che ha preventivamente dato del “mentecatto” a mezzo stampa a chi non fosse d’accordo (Repubblica di mercoledì) – si sta dando da fare sulle due sponde del problema: ha avviato un giro di telefonate con tutti i capibastone democratici e, già che c’è, chiacchiera (e non è il solo) pure col neonato Polo della Nazione.

L’addio a Idv e SeL – altrimenti definibile “diversa politica delle alleanze” – è implicito nella scelta del rapporto strategico col Terzo Polo: Casini e Fini, infatti, non faranno mai nessun accordo elettorale con Di Pietro e Vendola.

L’area che fa capo a D’Alema, peraltro, se lascerebbe con grande tranquillità l’ex pm al suo destino, pensa di poter recuperare il governatore della Puglia portandoselo dentro al Partito democratico. Ieri lo ha detto per la seconda volta il senatore Nicola Latorre: l’idea è avere, a sinistra, una copertura, anziché un pericoloso concorrente.

Cooptazione di Vendola a parte, completamente d’accordo è Enrico Letta, che coi suoi ha già iniziato a fare pressione su Bersani: il vicesegretario del Pd pensa che la scelta vada fatta pubblicamente entro venti giorni, più o meno al ritorno dalle vacanze di Natale, anche per non far consolidare il rapporto di collaborazione parlamentare tra Terzo Polo e PdL inaugurato ieri a Montecitorio sul decreto rifiuti.

“Se noi non ci muoviamo verso Casini – spiega un deputato – rischiamo che Casini e gli altri tornino nell’orbita del centrodestra e allora noi finiremmo a fare la minoranza in una coalizione di sinistra”.

Anche Dario Franceschini – il primo a proporre “l’alleanza da emergenza democratica” con Fini – condivide l’orizzonte teorico portato avanti da D’Alema, così come Beppe Fioroni e il suo inquieto gruppo di circa 35 parlamentari (molti dei quali spingono addirittura per uscire dal partito).

Contrari all’opzione D’Alema, dunque, rimangono solo Veltroni, ovviamente, quelli che furono i “prodiani” e il gruppo dei Rottamatori di Renzi e Civati, tutti nostalgici di quella “vocazione maggioritaria” che doveva portare il Pd all’autosufficienza elettorale e tutti in disaccordo tra loro. In mezzo a questo fuoco di fila di iniziative sta Bersani, che non può e non vuole dire addio agli attuali alleati.

La strategia del segretario è nota e la ribadirà nella direzione nazionale del 23 dicembre: unione di tutte le opposizioni, che adesso si sono allargate, per andare oltre Berlusconi. In questo agitarsi di addii immaginari, è arrivata ieri l’iniziativa di Antonio Di Pietro, a cui mancano molte cose ma non il fiuto.

Il leader di Idv ha telefonato a Bersani e Vendola per dire questo: “Stabiliamo una proposta programmatica e presentiamola al Paese. Il matrimonio è pronto, sposiamoci”. Chiare le risposte. Enrico Letta: “Non c’è nessun matrimonio in vista”. Paolo Gentiloni: “La nostra bussola non sono certo le nozze con Di Pietro”. E siamo già agli addii a voce alta.


Cronache del nulla. Berlusconi resta lì
di Valerio Lo Monaco - www.ilribelle.com - 16 Dicembre 2010

Riflettori puntati sulla telenovela di Palazzo: per distrarre tutti, ancora una volta, dai problemi reali. Dalla cinesizzazione del lavoro al debito pubblico ormai prossimo al default.

L'agenda setting del nostro ridicolo Paese vorrebbe che si parlasse diffusamente, con articoli, controarticoli, editoriali e retroscena, di quanto accaduto ieri al Senato e alla Camera. Trovate puntualmente di tutto, di più e di inutile su tutti i media.

Nei telegiornali, sui giornali, e nei talk show da ora sino almeno a Natale. Tranne che qui, dove ce la caviamo, per preservare la nostra sanità mentale, con un paio di commenti.

Il tutto si risolve in pochissime righe, così possiamo passare altrove il più rapidamente possibile, ovvero a ciò che è veramente importante.

Berlusconi ha superato la prova e il Governo va avanti. Governo si fa per dire, naturalmente. E non solo per la risicata maggioranza che si ritrova, ma proprio per la capacità di governare, resa manifesta già prima di ieri, dove la maggioranza, dalle ultime tornate elettorali, era "forte" di percentuali bulgare per via della porca legge elettorale che ci troviamo.

Staccando assegni e promesse, come si mormora (e come si sa da almeno cinque lustri) come sta indagando la Magistratura e come è facile evincere per chiunque abbia un minimo di capacità di lettura delle cose, ha convinto i soli che gli bastavano all'impresa.

E ovviamente non si è trattato di folgorazioni sulla via di Damasco, di sentimenti di responsabilità o altro – figuriamoci: responsabilità da parte di una classe politica che più irresponsabile è difficile trovare – ma di mero opportunismo, come è costume in Parlamento e come sanno anche i sassi.

Del resto, cooptati ed eletti su chiamata, era facile che molti cedessero al richiamo del dio denaro. O potere, che è la stessa cosa.

Il punto è che Gianfranco Fini ha incassato una sonora batosta e ora dovrà riciclarsi in qualche modo, ancora una volta, con buona pace degli ex Msi, poi An, poi Popolo della Libertà, quindi Fli e ora vedremo.

Il centrosinistra si è evitato, per ora, una campagna elettorale per la quale (da decenni) non è preparato, e ci si è scrollati di dosso il bluff dell'Italia dei Valori, prima fucina di ammutinati, altro che "valori".

E Berlusconi, alla fine, ha intascato un paio di voti per tirare a campare, ovvero per rimanere nel posto dove può evitare di essere processato, e soprattutto per riprendere a fare, oltre che gli affari suoi, la riforma della quale alla grande maggioranza degli italiani non importa proprio nulla: quella della giustizia.

Dall'Estate a oggi, dopo Fini, Tulliani, Montecarlo, Antigua, nipoti di Mubarak e Bocchino in ogni anfratto mediatico, il risultato è chiaro: il nulla.

Certo, un governo così potrebbe non durare molto, il che significa interminabili momenti "di nulla" a ogni respiro. Così come il nulla avremo se, allo stesso identico modo, il governo andrà avanti ancora per molto.

Tra le due opzioni, il risultato non cambia, con buona pace di quanti ancora credono che scegliere l'uno o l'altro, o l'altro ancora - tra chi è possibile scegliere - possa cambiare le cose.

Tutto questo mentre il Paese (e l'Europa, e il mondo) è allo sbando, la cassa integrazione aumenta, Fiat & co. proseguono la cinesizzazione del lavoro e il nostro debito pubblico, notizia di ieri, è arrivato a quasi 1900 miliardi di Euro. Le agenzie di rating e gli speculatori si iniziano a leccare i baffi e siamo a un passo dal default.

Bankitalia scopre che le entrate fiscali sono in calo e che il debito pubblico aumenta: parrebbe che dalle parti di via Nazionale studino scienziati di grosso calibro, data la portata della scoperta. Succede infatti ciò che anche un ragazzino avrebbe capito. Il lavoro cala, la gente consuma meno, le entrate scendono, e il debito aumenta.

I classici effetti che accadono quando questo sistema di sviluppo entra in crisi. Ovvero ciò che accade in Grecia e in altri Paesi dell'area Ue (e non). Inutile insistere sui tanti problemi del nostro paese. E sul fatto, che tutti sanno ma che i politici, per terrore elettorale, tacciono: non c'è un euro da spendere in nessun campo.

Di più: ogni minuto che passa spendiamo più di ciò che incassiamo e andiamo ad alimentare il debito pubblico, ultima bolla da gonfiare fino allo scoppio finale. Questi i problemi, queste le cose che il nostro governo non risolve. Questo ciò che dovrebbe interessare gli italiani.

Ma oggi, domani e dopodomani, e poi ancora dopo, si continuerà a parlare di Berlusconi. A parlare del nulla.


Cosa c'è dietro l'assordante silenzio della Lega e di Bossi?
di Antonio Fanna - Il Sussidiario.net - 17 Dicembre 2010

Per il secondo giorno consecutivo le agenzie di stampa registrano il silenzio assordante «post fiducia» della Lega Nord.

Stando ai soli dispacci dell’Ansa, mercoledì abbiamo avuto il bene di conoscere il pensiero dell’onorevole Paolo Grimoldi contro la Formula 1 a Roma, del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni (con una non indimenticabile battuta sul «terzo pollo») e del viceministro Roberto Castelli sulla lotta alla mafia.

Ieri si sono levate le voci isolate dei deputati Polledri e Volpi e del capo dei senatori Bricolo, tutti e tre critici verso la nuova «alleanza artificiale» tra Fini, Casini, Rutelli, Lombardo.

Dopo la giornata campale del 14, il Carroccio tace e attende. Un po’ in via Bellerio devono mettere a punto alcuni farraginosi meccanismi interni, visto che è proprio un ex leghista il parlamentare che detiene il record dei cambi di casacca: si tratta di Maurizio Grassano, capitato a Montecitorio la primavera scorsa in sostituzione del nuovo governatore piemontese Roberto Cota, che in pochi mesi è transitato al gruppo misto, poi alla componente dei liberaldemocratici e quindi all'Alleanza di centro di Pionati.

Ma oltre alle regole di selezione interna, i padani devono registrare le strategie politiche. Martedì, giorno della fiducia, hanno espresso i seguenti concetti uno dopo l’altro: soddisfazione per la tenuta del governo, sì al dialogo sulle riforme con l’Udc, no all’allargamento all’Udc, non c’è il veto all’alleanza con l’Udc, il voto anticipato è «l’unica igiene», Fini si deve dimettere se fa il leader politico, con tre voti si mangia il panettone ma non la colomba.

Molte idee e confuse, urge un tagliando per mettere ordine. Le elezioni anticipate restano la prima opzione della Lega soprattutto perché sono un argomento di facile presa nel suo elettorato. Bisogna votare contro "Roma ladrona", i giochini di palazzo, i partiti virtuali come quello neonato della Nazione. Se si votasse in primavera, Bossi e i suoi sarebbero l’unica forza politica certa di moltiplicare i consensi.

Tuttavia il Senatùr sa anche che Napolitano non scioglierà le Camere tanto facilmente nemmeno se il governo dovesse cadere per qualche agguato parlamentare nei prossimi mesi. Dunque l’appello al voto serve soprattutto per tenere desta la base e non appiattirsi sulla strategia berlusconiana dell’allargamento ai moderati. Il Carroccio abbaia ma non morde.

I prossimi mesi saranno comunque cruciali per la Lega. Il federalismo fiscale si avvicina, ed esso rappresenta il banco di prova più attendibile per misurare la capacità riformatrice dei padani, finora trincerati dietro i temi della sicurezza e dell’ordine pubblico. Del federalismo ancora non si conoscono bene i costi reali, i tempi, le modalità.

Si sa, viceversa, che il coagularsi dei centristi (un vero partito del Sud e della spesa pubblica) potrebbe rappresentare un ostacolo serio contro le riforme. Ma toccherà alla Lega scoprire per prima le proprie carte: e allora si vedrà davvero se il federalismo è un asso nella manica oppure un bluff impopolare. Che però verrebbe mascherato da una provvidenziale - quanto al momento imprevedibile - tornata elettorale anticipata.



Il paese “malato” che non cresce più
di Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano - 17 Dicembre 2010

Confindustria vede il declino: 1% la crescita del Pil nel 2010, -540mila i posti persi dal primo trimestre del 2008, 600mila i lavoratori in cassa integrazione, 43,5% la pressione fiscale nel 2009 con l'Italia terzo paese Ocse dietro a Danimarca e Svezia

Due giudizi in due giorni, due sentenze in apparenza capitali sulla paralisi dell’Italia che non riesce a sconfiggere “la malattia della lenta crescita”. Così descrive il Paese il centro studi di Confindustria in un rapporto presentato ieri dove si spiega che l’Italia sta anche peggio di come pensavamo: la crescita nel 2010 sarà soltanto dell’uno per cento, prevedono gli economisti confindustriali.

Anche gli zero-virgola contano in questo momento, con i mercati finanziari e la Commissione europea sempre molto attenti alla capacità di un Paese di sostenere il proprio debito (quello dell’Italia continua a crescere e si avvia a toccare il 120 per cento del Pil). “L’Italia, ancora una volta, rimane indietro, replicando la cattiva performance che ha manifestato dal 1997 in avanti. Aumenta il conto delle riforme mancate o incomplete o inadeguate rispetto a quanto realizzato dai partner concorrenti.

Il confronto con la Germania è impietoso”, sil egge nel documento di Confindustria. Certo, a queste osservazioni si può sempre replicare che gli imprenditori tendono sempre a denunciare i problemi del sistema come se le aziende non ne facessero parte e non avessero responsabilità alcuna nelle scarse prestazioni dell’economia.

Ma non elimina il problema. Specie se lo si misura con un indicatore a cui gli imprenditori, e non solo, sono particolarmente sensibili.

Due giorni fa l’Ocse, il centro studi dei Paesi più ricchi, ha comunicato che l’Italia è al terzo posto nella classifica della pressione fiscale: 43,5 per cento nel 2009. Nel 2008, quando il centrodestra che promette la riforma fiscale dal 1994, era il 43,3 per cento.

La pressione fiscale si misura come rapporto tra le entrate tributarie e il Pil. É una misura di quanta parte della ricchezza prodotta in un anno viene presa dallo Stato e dagli enti locali.

Si può discutere se il 43,5 per cento sia troppo o troppo poco (in Danimarca e Svezia è più alta), ma se la pressione fiscale peggiora mentre al governo c’è una maggioranza che vorrebbe ridurla, significa che qualcosa non va. “Ma ora è il momento di tagliare le tasse” titolava ieri in prima pagina Il Giornale, come fa circa ogni sei mesi (idem Libero), richiamando il governo alla sua (presuenta) matrice liberista.

Ma la pressione fiscale dipende, oltre che dalla quantità di tasse, dall’ammontare del Pil. E se questo crolla, come è successo nel 2009 (-5 per cento), o continua ad arrancare, la pressione fiscale non può certo calare. A meno di ridurre le entrate (cosa che purtroppo, secondo la Banca d’Italia, sta succedendo sia per la crisi che per l’evasione) a parità di Pil. Cose che un Paese con il debito come il nostro non può permettersi.

“Il guaio vero è che no c’è niente che faccia crescere l’Italia dalla mattina alla sera. Temo purtroppo che stiamo grattando il fondo del barile. Il mercato del lavoro andrebbe stravolto, l’età pensionabile drasticamente aumentata per ridurre i contributi che pesano sul costo del lavoro, sostituire la cassa integrazione con assicurazioni normali. Ma ormai qualsiasi evoluzione in Italia sembra rivoluzionaria”, commenta Michele Boldrin, economista che insegna negli Stati Uniti, alla Washington University in St Louis.

Come per certe dipendenze patologiche tipo l’alcolismo, il primo passaggio dovrebbe essere la presa di consapevolezza del problema. Confindustria, o almeno il suo centro studi, è cosciente del guaio: “La frenata estiva e autunnale è stata decisamente più netta dell’atteso e il 2010 si chiude con produzione industriale e Pil quasi stagnanti”.

Il governo, però, che adesso avrebbe la possibilità (forse) di intervenire, la pensa molto diversamente: “Non vedo elementi così negativi. C’è la lentezza del sistema italiano a rimettersi in moto”, è la diagnosi di Paolo Romani, che da ministro dello Sviluppo è quello che più dovrebbe occuparsi di far crescere uno dei due parametri della pressione fiscale (il Pil, l’altro, le tasse, sono di competenza di Giulio Tremonti al Tesoro).

Il ministro del Welfare Maurizio Sacconi si rifiuta perfino di commentare. Finora l’esecutivo traduce questo ottimismo facendo stime sempre al rialzo nei documenti ufficiali di politica economica, l’ultimo caso nella Decisione di Finanza Pubblica. Quando poi le deve adeguare alla realtà, arrivano i tagli.


Riforme a costo zero, cosa fare per ripartire

di Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano - 17 Dicembre 2010

I pareri di Tito Boeri, Alessandro Penati, Salvatore bragantini e Ugo Arrigo

Nuove regole per il mercato del lavoro
(Tito Boeri docente di Economia alla Bocconi e animatore del sito lavoce.info)

“La prima cosa da fare sarebbe una riforma fiscale che, senza ridurre il gettito, sposti la tassazione dai fattori produttivi alle rendite, a partire da quelle finanziarie, e agli immobili. Alleggerendo il carico fiscale sul lavoro si creerebbe più occupaziuone e si farebbero arrivare più soldi a chi consuma di più.

Poi bisognerebbe riformare l’ingresso nel mercato del lavoro, con l’introduzione di un Contratto unico, con tutele crescenti nel tempo per il lavoratore. E’ una riforma a costo zero che servirebbe a far entrare più giovani nel mercato del lavoro dalla porta principale facendo sì che le imprese investano nella loro formazione. E’ un capitale umano fondamentale per la crescita economica del Paese.

Una legge sulle rappresentanze accompagnata alla riforma della contrattazione sarebbe un modo per attirare investimenti esteri, non soltanto quelli della Fiat. Le imprese devono sapere che gli impegni presi dalle rappresentanze dei lavoratori sono vincolanti. La sequenza dovrebbe essere questa: i lavoratori scelgono rappresentanti, che poi vanno a trattare con le organizzazioni di categoria.

Se poi i lavoratori non gradiscono l’accordo, alla successiva tornata elettorale sceglieranno altri rappresentanti. E anche questa è una riforma a costo zero. Poi c’è la riforma dell’Università: qui gli effetti si fanno sentire più a lunga scadenza, ma serve riportare qui persone brave fin da subito.

La quota di bilancio per scuola e università deve tornare almeno ai livelli pre-crisi. I fondi recuperati per la scuola andrebbero dati nell immediato a un piano per l edilizia scolastica. Il primissimo passo dovrebbe essere la nomina dei vertici dell’Agenzia di valutazione della dell’Università, l’Anvur.

La valutazione degli atenei servirà a ripartire i fondi aggiuntivi.
Servirebbe anche una riforma degli ammortizzatori: stiamo assistendo a una distorsione nell’uso della cassa integrazione. Le imprese che usano la cassa in deroga non pagano nulla. E’ un modo per abbassare i salari scaricando il costo sul contribuente.

Alla luce anche degli episodi di malcostume politico di questi giorni, sarebbe poi di grande utilità per il Paese ridurre il numero dei parlamentari, cosa che, oltre a permetterci di meglio selezionare la classe politica, farebbe anche risparmiare risorse”.

Via l’Irap abolendo le mille detrazioni
(Alessandro Penati, economista, docente alla Cattolica di Milano)

“Da quando siamo entrati nell’euro, si è avverato quello che sperava Carlo Azeglio Ciampi nel 1993: il costo del debito è sceso. Ma quello che abbiamo risparmiato lo abbiamo speso malissimo, con sprechi di spesa. Anche le altre due cose che io consideravo prioritarie, cioè l’apertura ai capitali esteri e il ricorso al credito non bancario, non hanno dato i risultati sperati.
Per questo credo che adesso la priorità su cui intervenire è il fisco.

Mi sembra ovvio che si dovrebbe mettere un’imposta sugli immobili per finanziare gli enti locali. Poi si dovrebbero abbattere le aliquote delle imposte sulle imprese e anche sulle persone. In cambio bisognerebbe eliminare la lunga lista di deduzioni, detrazioni e sussidi per i privati. Per quanto riguarda le società, toglierei tutti i vantaggi fiscali, per esempio quelli sugli ammortamenti. Poi c’è la questione dell’Irap: anche questa imposta andrebbe tolta, trovando un altro modo per finanziare la sanità regionale senza gravare sul costo del lavoro.

Il primo passaggio dovrebbe essere l’abolizione di trasferimenti a fondo perduto o altri interventi come in contributi in conto capitale. Così si dovrebbero reperire abbastanza risorse da cancellare l’Irap, cancellando fondi per il Sud, incentivi per pannelli solari e i mille altri piccoli contributi che sostengono le imprese. Ma mi rendo conto che sembrano proposte utili solo per un dibattito in un caffè letterario, perché c’è una marea di imprese che vive di questi contributi.

Quando si fanno le riforme vere, che incidono profondamente sull’economia, è difficile prevedere l’impatto sulla finanza pubblica. Perché lo scopo è cambiare gli incentivi a disposizione degli attori economici così da cambiare i loro comportamenti.

Ma anche se ci fosse un aumento del deficit dovuto a una riforma fiscale che ha un impatto positivo sulla competitività del Paese, i mercati sono ben contenti di finanziare lo Stato che si impegna in un progetto di questo tipo. Se il deficit fosse chiaramente temporaneo, il caso di Ronald Reagan nel 1896 è un caso classico, ci sarebbe la corsa a comprare i titoli di Stato italiani”.

Colpire i patti di sindacato
(Salvatore Bragantini, esperto nel settore finanziario, ex-commissario della Consob)

“Gli strumenti preferiti dai gruppi di controllo nelle aziende per appropriarsi, alle spalle degli azionisti ‘semplici’, dei cosiddetti benefici privati del controllo, sono le operazioni con le ‘parti correlate’.

Operazioni nelle quali chi ha il potere di influenzare la società detiene un interesse proprio, che può essere ben in contrasto con quello della società, alla quale partecipa il ‘parco buoi’ dei risparmiatori.

Il nuovo regolamento della Consob, la Commissione che vigila sulle società quotate, in materia di parti correlate stabilisce nuove regole molto serie.

Ma – a mio avviso – lo si dovrebbe migliorare, con una riforma che sarebbe a costo zero e che il mercato apprezzerebbe molto. Perchè porrebbe fine alle ruberie suddette.
Ad oggi invece tra le ‘parti correlate’ la Consob non considera, ipso facto, i partecipanti ai patti di sindacato tra azionisti.

Essi sono considerati ‘parti correlate’, e quindi in conflitto di interessi, soltanto in alcuni e ben delimitati casi (per semplificare, quando sono determinanti per la decisione del patto).

Basterebbe quindi stabilire che tutti i partecipanti ai patti di sindacato vengono considerati ‘parti correlate’ e quindi sottoposti alla nuova disciplina della Consob. Sulle loro operazioni con la società, quindi, sarebbe determinante il parere degli amministratori indipendenti.

In caso di parere contrario di questi, la parola passerebbe all’assemblea dei soci, nella quale però possono votare solamente gli azionisti che non sono ‘parte correlata’”.

Liberalizzare e privatizzare subito
(Ugo Arrigo, docente di Scienza delle finanze all’Università Bicocca di Milano)

“Una svolta drastica è necessaria per far ripartire la crescita: bisognerebbe vietare agli imprenditori di andare a farsi ricevere dai politici. E spiegare loro che i profitti bisogna cercarli sul mercato invece che nei Palazzi del potere romano. Perché oggi in Italia “concorrenza” significa essenzialmente questo: “Competizione tra imprenditori per ottenere profitti dal governo”.

Questo discorso vale per tutti, Fiat inclusa. Per questo servirebbero liberalizzazioni vere, dalle Ferrovie alle Poste. Per cominciare a dare un segnale bisogna intervenire sulle professioni: non è possibile che il governo tuteli i redditi dei professionisti autorizzando tariffe minime. Nella legge che istituiva l’Authority dell’Energia, nel 1995, si definivano le tariffe come il prezzo massimo applicabile. Non certo come un minimo che mette al riparo dalla concorrenza.

L’altro strumento necessario per rompere il legame tra imprenditori e politica sono le privatizzazioni. Da dieci anni che non facciamo più nulla da questo punto di vista. Le uniche cose che Tremonti vende, le passa alla Cassa depositi e prestiti, in una partita di giro.

Prendiamo Poste e Ferrovie: lo Stato si tenga le reti e venda il resto, mettendo in competizione chi offre i servizi. Svedesi e olandesi hanno liberalizzato poste e trasporti da molti anni e nessuno si lamenta.

Poi ci sono le aziende municipalizzate: che bisogno c’è che i sindaci rischino i soldi dei contribuenti facendo impresa? Ma questi erano discorsi che quindici anni fa si potevano fare e venivano capiti.

Ora non è più così, il governo riconsegna il Mediocredito Centrale alle Poste in una nuova nazionalizzazione, mentre le Ferrovie dello Stato vanno a comprare i concorrenti in Germania. Purtroppo la sinistra non ha capito l’uso corretto del mercato. La destra sa a cosa serve e infatti non lo usa”.


Cattivi pensieri
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 17 Dicembre 2010

Il presidente della commissione Difesa: "Perché a Roma il finanziere con la pistola non ha sparato?" Un carabiniere: "Parole infelici e preoccupanti. Non serve usare le armi, ma una gestione più professionale dell'ordine pubblico"

Perché il finanziere aggredito durante gli scontri di Roma, quello fotografato con la pistola in mano, non ha sparato ai manifestanti?

E' l'inquietante domanda che il presidente della commissione Difesa della Camera dei Deputati, Edmondo Cirielli, ha posto in un interrogazione al ministro dell'Interno.

Una provocazione che ha destato allarme negli stessi ambienti delle forze dell'ordine.
PeaceReporter ha raccolto le inquietudini di un carabiniere in servizio, che per ovvi motivi ha chiesto di rimanere anonimo.

Quelle di Cirielli sono dichiarazioni infelici - afferma il carabiniere - tanto più perché fatte nella veste di presidente della commissione Difesa. Invocare l'uso delle armi da parte delle forze dell'ordine è preoccupante perché getta benzina sul fuoco, perché affronta in maniera sbagliata il problema e, non ultimo, perché lo fa un ufficiale dei carabinieri che, finito il suo mandato parlamentare, potrebbe tornare in servizio e combinare guai seri.

Nella sua interrogazione, il presidente della commissione Difesa invita il governo a ''meglio disciplinare'' l'uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell'ordine per consentirne un uso più disinvolto. Cosa ne pensa?
La legge è chiara nello stabilire che le forze dell'ordine possono usare le armi da fuoco per legittima difesa solo in presenza di una offesa di almeno pari entità, quindi si presume che un agente tiri fuori l'arma quando si trova davanti gente armata allo stesso modo.

L'uso di armi è consentito in circostanze estremamente gravi, ma qui si entra nel campo dell'interpretazione. Un'efficace gestione dell'ordine pubblico non dipende dall'uso delle armi, ma dall'adeguatezza numerica e professionale del personale.

A Roma non è stato solo il finanziere aggredito a tirare fuori la pistola: anche suoi colleghi carabinieri hanno estratto l'arma, come dimostra la foto pubblicata giovedì sulla prima pagina del Manifesto.
Quel finanziere e quei carabinieri sono stati lasciati soli. Come dicevo, se gli agenti messi in campo sono pochi e male addestrati, succede quello che non dovrebbe succedere, perché si creano facilmente situazioni in cui alcuni uomini rimangono isolati, cosa che non dovrebbe mai accadere, finendo in condizioni personali di pericolo che possono far perdere la testa.

La questione non è se permettere o no un uso più disinvolto delle armi da fuoco: la questione è evitare di finire in situazioni pericolose, e ciò è possibile solo se gli uomini in campo sono in numero sufficiente, operano in maniera professionale e ben coordinata, con un buon supporto di intelligence, in maniera che la situazione sia sempre sotto controllo e nulla sia lasciato al caso.

Si profilano all'orizzonte nuove proteste contro la riforma Gelmini e, vista la situazione politica ed economica che stiamo attraversando, è facile prevedere un periodo molto 'caldo'. Pensa che la provocazione di Cirielli possa incidere negativamente su un'equilibrata gestione dell'ordine pubblico?
Confido nella tradizionale moderazione delle forze dell'ordine italiane, che solo in pochi e ben noti casi hanno perso la testa per i motivi a cui ho accennato prima. La provocatoria iniziativa del presidente della commissione Difesa non avrà ripercussioni se, come mi auguro, il ministro Maroni ignorerà le parole di Cirielli e se altrettanto faranno i mass media, soprattutto la televisione. Spero che questa interrogazione finisca dimenticata in un cassetto. Io la ricorderò con amarezza.


I "cinquanta o cento imbecilli" di Saviano
di Valerio Evangelisti - www.globalproject.info - 16 Dicembre 2010

Roberto Saviano ha scritto, nella sua unica opera narrativa, verità innegabili sulla camorra e sull'intreccio tra affari e malavita. Gliene siamo tutti grati. Ha però interpretato la gratitudine collettiva come un'autorizzazione a predicare sempre e comunque, anche su temi di cui sa poco o niente.

Ecco che, su "Repubblica" del 16 dicembre, rivolge una "Lettera ai giovani" firmata da lui e, curiosamente, dall'agenzia che tutela i suoi diritti letterari. E' un'invettiva, a tratti carica di odio, contro i "cinquanta o cento imbecilli" che martedì scorso si sono scontrati a Roma con le forze dell'ordine che bloccavano il centro cittadino.

La lettera appare il giorno stesso in cui un gruppo di manifestanti è processato per direttissima.

Preferisco pensare che sia un caso, anche se tanta tempestività potrebbe sembrare sospetta. Non dimentico che, solo pochi giorni dopo l'attacco a Gaza e il suo migliaio di morti, Saviano era in Israele a tessere l'elogio di quel paese intento a difendersi dai "terroristi", analoghi ai camorristi che minacciano lui.

Ma lasciamo correre, e lasciamo correre anche la connessione tra nazionalismo basco e traffico di droga, che lo stesso governo spagnolo dovette smentire.

Veniamo agli scontri di Roma. E' proprio sicuro, Saviano, che i dimostrati fossero cinquanta o cento? Per di più vigliacchi, piagnucolosi, descrivibili come "autonomi" o "black bloc" intenti a imporre la loro violenza - che a suo dire li diverte - alla folla passiva e terrorizzata del corteo?

Oltre a parlare in tv, dovrebbe ogni tanto guardarne le immagini. In questo caso avrebbe notato una folla ben più numerosa, e una manifestazione tutt'altro che pronta a sbandarsi in preda alla paura.

Così come avrebbe rilevato, nei giorni precedenti, episodi del tutto analoghi a Parigi, ad Atene, a Londra e un po' in tutta Europa. "Autonomi" e "black bloc" anche laggiù?

Ciò porterà, dice Saviano, a una limitazione degli spazi di libertà. Non considera che la libertà era già stata circoscritta, con cordoni tesi a proteggere i palazzi del potere da chi quel potere contesta. I dimostranti avevano annunciato che non si sarebbero lasciati imporre alcuna "zona rossa".

Così è stato, nel preciso momento in cui si veniva a sapere che un governo discreditato aveva ottenuto la fiducia per pochi voti, grazie a espedienti inconfessabili. Una presa in giro per giovani che non scorgono alcun futuro, e vivono sulla loro pelle le conseguenze umilianti di pseudo-riforme modellate sulle esigenze dei privilegiati.

La reazione è stata di rabbia. Come poteva non esserlo? Solo chi vive fuori dal mondo potrebbe attribuirla all'azione di "cinquanta o cento" imbecilli innamorati della violenza.

Saviano, è noto, deve muoversi sotto scorta. Prima di lanciarsi in ulteriori predicozzi farebbe meglio a chiedersi se non si stia amalgamando alla scorta stessa, facendone propria la visione del mondo.

Al punto da denigrare chi già subisce umiliazioni quotidiane, e di dire a chi detiene il potere ciò che ama sentir dire. Con tanto di menzione dell'agenzia letteraria, a tutela del copyright.