Fiducia: peggio di Tangentopoli
di Giorgio Vecchiato - Famiglia Cristiana - 9 Dicembre 2010
Cittadini sgomenti davanti a cifre di mazzette e consulenze per un voto in più il 14 dicembre. E cresce il disprezzo della norma secondo cui il parlamentare "non ha vincolo di mandato”.
Chi scrive libri o, più modestamente, articoli di giornale sa che è buona regola astenersi dai luoghi comuni. Ma di fronte a certe notizie, primo esempio la compravendita dei parlamentari, davvero uno si mette le mani nei capelli. Sarà, anzi è, una frase fatta, emblema di incultura o almeno di scarsa inventiva.Ma è proprio questa la sgomenta reazione di quei cittadini che aspettano di sapere quanto costa, in pronta cassa o tramite favori assortiti, un voto in più o in meno per la fiducia del 14 dicembre.
I quotidiani sono pieni di dettagli su questo tariffario, rispetto al quale le mazzette di Tangentopoli sono acqua fresca (altro luogo comune, non se ne sfugge). Rompendo le regole talvolta omertose della corporazione giornalistica, verrebbe da sperare che si tiri solo a indovinare, tanto per far crescere le tirature.
Però si fanno nomi e cognomi, si ricostruiscono vita e miracoli dei prossimi Giuda, si indica l’importo delle consulenze fasulle, ci si sbizzarrisce sugli altri – non pochi... – mezzi di corruzione. Gli stessi “traditori”, nelle interviste, ammettono tranquillamente di essere parte attiva nel mercato.
La sensazione cioè è che, se non tutto, quasi tutto sia vero. E che i trenta denari abbiamo assunto forme più moderne, ma senza cambiare significato.
Si diceva di Tangentopoli. Doveva essere un momento di rinascita civile, di giustizia contro corrotti e corruttori. Ma si sa come è finita. Una volta assodato che volavano soltanto quattro stracci, troppo carcere preventivo con le tragedie che conosciamo ma sentenze definitive del tutto marginali, il mondo politico si è sentito libero di reiterare. Peggio ancora, di fare apertamente ciò che allora si faceva di nascosto. I risultati li vediamo ogni giorno.
Altra e basilare questione, il disprezzo della norma secondo cui il parlamentare non ha “vincolo di mandato”. Il concetto è stato capovolto. Ammesso che in passato si rispettassero almeno le forme, il vincolo non esiste più rispetto agli elettori.
E’ invece ferreo rispetto ai capibranco, specie i berlusconiani che hanno più soldi da spendere e più prebende da elargire. Insomma, fra maggioranza e opposizione, tutto è in mano a quei quattro o cinque potenti che da anni decidono su nomine e candidature.
Di qua nel partito-azienda, di là nel coacervo avversario, chi non sta agli ordini viene posto alla gorna e comunque torna a casa, spesso senza un mestiere alternativo. A chi obbedisce, le ricompense d’uso.
In una seria analisi politica, il primo rimedio dovrebbe consistere in una riforma della legge elettorale, tale da consentire ai cittadini un diritto di scelta. Ma visto il punto cui si è giunti, c’è da chiedersi se basterebbe.
Se si accetta di essere comperati e venduti, se le reazioni sono soltanto di carattere giornalistico, se la stessa Giustizia si mostra impotente, vuol dire – ultima frase fatta – che si sta toccando il fondo. Mettersi le mani nei capelli, cos’altro sennò?
Corrotti e corruttori
di Michele Ainis - La Stampa - 12 Dicembre 2010
Il voto di fiducia è come una messa solenne nel tempio delle istituzioni. Celebra la sacralità del Parlamento, che attraverso questo rito sceglie un nuovo papa, o riconsegna al vecchio le chiavi pontificie.
Ma al contempo celebra i governi, innalzandoli alla gloria dell’altare. Invece la politica italiana ha trasformato la messa in messinscena, la liturgia in commedia. Se i santini sono questi, per noi fedeli sarà dura raccoglierci in preghiera.
È il caso, innanzitutto, del governo Berlusconi. Davvero c’è da attendere il 14 dicembre per decretarne i funerali? Davvero lo stesso giorno potremmo viceversa assistere al miracolo della sua resurrezione? È insomma un voto in meno o in più che può restituirci un esecutivo autorevole e longevo?
Evidentemente no, non è così. Se anche Berlusconi la spuntasse per il rotto della cuffia, il giorno dopo si ritroverebbe come Prodi, appeso agli umori del trotzkista Turigliatto o della moglie di Mastella.
L’Italia ha urgenza d’una stagione di riforme, ma nessuna compagine ministeriale potrà mai inaugurarla senza una forte base in Parlamento.
Servirebbe dunque guadagnare nuovi soci, allargare la coalizione di governo con un programma condiviso.
Servirebbe, in breve, la politica; invece a Montecitorio va in onda il calciomercato. Signori di mezza età corteggiati come fanciulle in fiore, adescati uno per uno. Oppure comprati con qualche lingotto d’oro, se è autentico il sospetto della procura di Roma.
Ecco, il sospetto. Sta corrodendo la residua credibilità del Parlamento, proprio nel giorno che avrebbe dovuto sancirne il primato.
In Italia nessun governo è mai caduto in seguito a una mozione di sfiducia (Prodi si dimise dopo una «questione» di sfiducia, che è cosa diversa): sempre crisi extraparlamentari, consumate scavalcando le assemblee legislative. Adesso no, le Camere sono tornate al centro della scena.
Ma la crisi in Parlamento via via si è tramutata in una crisi del Parlamento, e quest’ultima ha infine messo in crisi le garanzie costituzionali che proteggono la dignità delle due Camere.
Qual è infatti la trincea giuridica su cui si è asserragliato il centrodestra? L’art. 67 della Costituzione, che pone il divieto di mandato imperativo.
Se ogni deputato è libero di votare un po’ come gli pare, sarà anche libero d’accettare incenso e mirra per ogni voto espresso. Ma libero rispetto a chi? Rispetto alla mamma, alla sorella, al Popolo della libertà? No, libero rispetto ai suoi elettori.
Peccato tuttavia che i nostri parlamentari, grazie al porcellum, siano stati scelti dai partiti, non dagli elettori. Peccato quindi che la garanzia del libero mandato si sia svuotata come un uovo per assenza del mandato.
C’è però un’altra garanzia costituzionale, sta appena un rigo sotto. Si conserva nell’art. 68, che proclama i membri del Parlamento insindacabili per le opinioni e i voti in aula. Da qui un’irresponsabilità giuridica, che a sua volta è di tre tipi.
Civile (se rivelo un segreto industriale, nessuno potrà chiedermi i danni). Penale (se ti diffamo durante un discorso in Parlamento, non hai il diritto di sporgere querela). Disciplinare (se critico il ministro di cui sono dipendente, lui non potrà applicarmi una sanzione).
E se invece voto la fiducia in cambio della cassaforte di Zio Paperone? Alla lettera, l’art. 68 vale pure in questo caso. Ma fu concepito per proteggere la libertà intellettuale dei parlamentari, non la libertà di mettersi all’asta. La loro indipendenza, non la dipendenza dal denaro.
C’è allora una lezione che ci impartisce questo tempo di briganti. La malattia etica che ha fiaccato la politica reclama una nuova etica politica, non le medicine del diritto, non il soccorso della Costituzione.
Anche perché la nostra Carta è la prima vittima di questa malattia. Ma riesce ancora a vendicarsi, sia pure mentre esala l’ultimo respiro.
Se infatti il voto del parlamentare corrotto è insindacabile, l’offerta del parlamentare corruttore no: quell’offerta non è un voto, non è un’opinione, non è protetta dal divieto di mandato imperativo.
Sicché alla fine della giostra la procura di Roma potrebbe fare un’esperienza inversa rispetto alla procura di Milano. Nel caso Mills c’era un corrotto senza corruttore (improcessabile); qui avremmo un corruttore senza corrotti (improcessabili). Mezzo reato per un Parlamento dimezzato.
La leggenda del santo compratore
di Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano - 11 Dicembre 2010
A furia di parlare di deputati venduti, si rischia di trascurare l’altrettanto nobile categoria dei compratori. Mestiere usurante quant’altri mai, vista la qualità della merce. Perché il deputato, diversamente dal provolone e dalla salama da sugo, non puoi comprarlo e poi lasciarlo nel frigo per consumarlo a piacere.
Una volta acquistato, lo devi poi accudire, nutrire, coccolare, adottare. Ti distrai un attimo e quello s’è già rivenduto a un altro, magari in comproprietà come i calciatori, in multiproprietà come i camper, in franchising come i negozi di abbigliamento, poi c’è l’usucapione, lo ius primae fiduciae, insomma un casino.
Il primo acquirente della campagna acquisti autunno-inverno era tal Ciccio Nucara, segretario del Partito repubblicano all’insaputa dei più (lui compreso): doveva pescare nella palude di diniani, centristi, Mpa, Union Valdotaine, Sudtiroler.
Ma, appena si mise all’opera, quell’incontinente di B. lo bruciò: “È fatta, abbiamo 20 deputati estranei al Pdl pronti alla fiducia”. E quelli, salvo due o tre, caddero dalle nuvole: alcuni avevano respinto le avances, altri stavano ancora trattando sul prezzo, qualcuno manco sapeva chi fosse Nucara. Il quale abbandonò allegramente il campo: “È stato bello lo stesso, prima non mi si filava nessuno, ora mi chiamano tutti. Chi l’avrebbe detto che sarei diventato famoso a 70 anni?”.
Lo riposero in ripostiglio e partì la fase 3 di Mediashopping, affidata ad acquirenti ignoti (forse latitanti): comprare l’Udc siciliana, piena di condannati, inquisiti ed ex imputati. Tipo Cuffaro e Mannino che però, purtroppo, stanno in Senato.
Ora, ecco la fase 3: acquisti a tutto campo a qualunque prezzo, una baraonda in cui non si capisce più chi compra e chi viene comprato, anzi c’è pure chi compra un deputato ma poi si vende a sua volta, somma zero.
Si fanno avanti compratori volontari come Pionati, ex mezzobusto del Tg1 oggi statista irpino, e di seconda mano come Nucara, riesumato dalle soffitte. I due, con l’aiuto della Santanchè, han conquistato Maurizio Grassano, ex leghista ed ex liberal-democratico (nel senso della Melchiorre).
Intanto l’acquirente last minute Americo Porfidia, l’ex Idv che ora dirige Noi Sud, inglobava Antonio Razzi, eletto con (anzi da) Di Pietro nel collegio Europa col problema del mutuo da pagare e della moglie malata (“sta male per colpa di Di Pietro che non mi chiama mai”): decisivo un vertice a Pescara fra le rispettive consorti.
Ora anche Razzi sta con Noi Sud, ma non sa ancora come voterà il 14: “Non conosco la posizione di Noi Sud”. Nella fretta del trasloco s’è dimenticato di chiedere.
Poi abbiamo i santi compratori, i cardinali Bertone e Ruini, impegnatissimi ad allestire le nozze tra Silvio e Piercasinando, previo divorzio di quest’ultimo da quel demonio di Fini. I due pretoni lo fanno per nobili motivi spirituali: qualche milione alle scuole private e qualcun altro per restaurare chiese e conventi.
Resta da capire chi sia l’acquirente che voleva cedere un terzo dello Stelvio all’Alto Adige in cambio dell’astensione della Sudtiroler: chiunque sia è un genio assoluto. Ricorda il Tremonti di Corrado Guzzanti che, per far quadrare la Finanziaria, annunciava: “Diamo via la Savdegna: se lo dico, è pevché ho il compvatove”.
Non c’è bisogno di compratori, invece, per acquistare gli ex Pd: vengono via da soli. Villari, quello che si asserragliò in Vigilanza in attesa di offerte, è già di là da parecchio. Cesario e Calearo sono appena passati al “Movimento di responsabilità nazionale”, neopartito uno e trino: il terzo è l’ex Idv Scilipoti (“non posso restare in un partito che ha quella posizione sull’agopuntura”).
Calearo è una delle figurine, anzi figuracce di Veltroni: capolista in Veneto nel 2008, nel 2009 scoprì di colpo di non essere “mai stato di sinistra né antiberlusconiano”. Infatti nel 2006 fu sorpreso a Vicenza a inveire contro B: “Vergogna” (otto volte), “stronzo di merda”, “vaffanculo”.
Veltroniano perfetto, è del Pd ma anche del Pdl. Non è un venduto: è un diversamente coerente.
Se il potere conta più della militanza: i frutti avvelenati dell’Idv
di Marco Zerbino - Il Fatto Quotidiano - 11 Dicembre 2010
Un "partito in franchising" impegnato nel riciclaggio di personaggi politici piuttosto che nella formazione di propri quadri dirigenti. Dal caso De Gregorio in poi troppi cambi di casacca. Molti prevedibili per il curriculum degli interessati.
“Chiunque tradisca i propri elettori e si venda per 30 denari merita, metaforicamente parlando, l’albero di Giuda”. Con queste parole Antonio Di Pietro ha commentato il passaggio del Rubicone di Antonio Razzi e Domenico Scilipoti, i due deputati che pochi giorni fa hanno ufficializzato il proprio abbandono del gruppo parlamentare dell’Italia dei Valori.
Parole, spiace dirlo, all’apparenza nette e inequivocabili, ma in tutto simili a quelle che l’ex Pm si è trovato costretto a pronunciare in altre occasioni.
Qualcuno si ricorda, tanto per fare un esempio, di quanto accadde poco dopo le elezioni politiche del 2001, quando il neoeletto senatore dell’Idv, Valerio Carrara annunciò, fresco di nomina, che di lì a poco sarebbe passato con Forza Italia? Oggi Carrara, che all’epoca era stato candidato da Tonino pressoché a scatola chiusa, milita da ben due legislature nelle file berlusconiane…
Decisamente più eco ebbe invece, nel 2006 – durante i mesi convulsi della nascita del secondo governo Prodi – il caso di Sergio De Gregorio, il giornalista partenopeo che, dopo essersi fatto eleggere a Palazzo Madama grazie a un accordo fra i suoi Italiani nel mondo e l’Idv, riuscì a divenire presidente della commissione Difesa del Senato con i voti del centrodestra, per poi rendere noto nei mesi successivi il proprio abbandono della compagine dipietrista.
Se poi qualcuno fosse dotato di zelo e di interesse per il nostrano “teatrino della politica” (anche e soprattutto locale) in misura tale da mettersi a frugare fra i tanti casi minori (quelli che la pubblica opinione non ricorda o che, nella maggior parte dei casi, ha sempre ignorato) la lista, non c’è dubbio, finirebbe per allungarsi, e ci sarebbe di che stupirsi e passare il tempo.
“Io che sono un povero cristo non è che posso sapere prima, dentro la testa, che cosa hanno queste persone”, si schermisce Di Pietro. E da un certo punto di vista ha senz’altro ragione. Il processo alle intenzioni, quello no, non lo si può fare.
Un’occhiatina al curriculum politico e “professionale” di chi viene messo in lista, però, di tanto in tanto non guasterebbe.
Se è vero che De Gregorio ha pugnalato alle spalle Tonino solo nel 2006, va anche detto che il suo passaggio prima nel Psi craxiano (è stato anche direttore dell’Avanti!) e poi, per diversi anni, in Forza Italia (ancora nel 2005 doveva essere candidato dal partito azzurro alle regionali campane) forse qualche dubbio in termini di affidabilità, all’ex magistrato, avrebbe dovuto farlo venire. Per carità, nella vita si può anche cambiare idea (e per fortuna).
Eppure, non può non stupire come l’Italia dei Valori dia, a più di un osservatore, l’impressione di essere impegnata non tanto nella formazione di propri quadri e dirigenti, quanto nel riciclaggio di personale politico di lungo corso dalle provenienze più disparate.
Sono un fatto, ad esempio, le fitte schiere di ex Dc, ex Forza Italia, ex Udeur, ex Margherita (per rimanere solo alle sigle maggiori) che affollano il partito delle mani pulite, e la rapidità della loro ascesa appare spesso direttamente proporzionale a quella con cui militanti di lungo corso, in molti casi intelligenti e appassionati, ricevono il ben servito senza tanti complimenti o decidono di propria volontà di allontanarsi dall’organizzazione.
Oramai più di un anno fa, MicroMega ebbe il merito di aprire un dibattito su questa questione, parlando apertamente di un “partito in franchising”. Gli avvenimenti di questi giorni, che a molti elettori del partito di Di Pietro appariranno del tutto comprensibilmente, un po’ repentini e inaspettati, sembrano dare ragione a quell’analisi che indicava nel metodo di reclutamento del proprio personale politico adottato dall’ex Pm, il principale problema con il quale l’Idv avrebbe dovuto fare i conti nel prossimo futuro.
La tendenza a privilegiare gli accordi di vertice con il ceto politico locale rispetto alla lenta e paziente opera di costruzione – a partire dal livello più basso ma fondamentale, quello della semplice militanza – di un partito “vero”, sta in queste ore dando i suoi frutti avvelenati.
Intere sezioni regionali e provinciali del partito sono state costituite – o ricostituite, soprattutto dopo il buon risultato elettorale ottenuto dall’Idv nel 2008 – attorno a figure, spesso localmente molto “pesanti”, provenienti da altri partiti.
Cosa in sé legittima, se non avesse significato in molti casi l’estromissione o l’allontanamento volontario della parte migliore e più motivata degli iscritti.
Quanto è prudente, per un partito che si proclama e aspira a essere diverso dagli altri, cedere in maniera così massiccia al pragmatismo che utilizza i cosiddetti “professionisti della politica”, la loro capacità di controllare apparati, pezzi di istituzioni locali e pacchetti di voti, come scorciatoia fondamentale sulla via del successo elettorale e organizzativo?
Non si rischia, in tal modo, di creare sì un apparato, di reclutare sì del personale politico, ma con un livello di radicamento sociale e di solidità ideale decisamente fragile?
Speriamo di sbagliarci, ma leggendo le notizie di questi giorni ci torna in mente una frase (non ce ne vogliano gli studenti del Maggio): ce n’est qu’un début…
Romanzo di un giovane vecchio
di Marco Travaglio - Il Fatto Quotidiano - 9 Dicembre 2010
Il libro d’oro dei pellegrini in processione alla villa di Arcore si arricchisce di un nuovo, bizzarro visitatore: Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze che voleva rottamare la vecchia dirigenza del Pd.
Giovane si fa per dire: per esserlo, non basta essere nati da poco. In un sol giorno, nel viaggio da casello a casello Firenze-Arcore-Firenze (680 km), è riuscito a invecchiare di 50 anni.
E, quando ha cominciato a esternare sul perché e il percome della visita, ne ha presi altri 50. Ora è ultracentenario. “Solo in un paese malato – dice – si può pensare che ci sia qualcosa sotto”.
Già. In un paese sano un sindaco del Pd va a baciare la pantofola al nemico pubblico numero uno del suo partito (o almeno dei suoi elettori). Per giunta a pranzo. Per giunta nella sua residenza privata.
Per giunta mentre si scopre che quel luogo – oltre a Mangano, Previti, Dell’Utri, Mora, Fede – ha ospitato anche decine di signorine addette al bunga-bunga. Per giunta di nascosto (la notizia è trapelata dall’entourage di B. e solo un furbo molto ingenuo poteva pensare che la notizia restasse top secret, visto il proverbiale riserbo del padrone di casa).
Non è dato sapere se ci sia stato il tempo per una fugace visita al mausoleo di Arcore, ma presto il settimanale Chi di Alfonso Signorini pubblicherà il book dell’incontro (ha presente, Renzi, quel vaso di petunie sul comò del Cavaliere? Ecco, era Signorini in uno dei suoi più riusciti travestimenti).
Beccato col sorcio, anzi col nano in bocca, il giovane vecchio fa il ganassa e dice che lo rifarebbe “per il bene di Firenze”. Perché – spiega – “mi interessa portare a casa una legge speciale per Firenze da 15 milioni. B. me l’aveva promessa”.
L’altro giorno a tavola gliel’ha ripromessa. Ora firmerà pure un Contratto con i Fiorentini, alla presenza di Vespa con tanto di scrivania in ciliegio. Poi dirà che, per colpa di Bin Laden e dell’11 settembre, non se ne fa nulla. Su Facebook, i poveri elettori del Pd che – disperati – speravano in Renzi, lo prendono a male parole.
Lui assicura che “mi sto divertendo come un matto a leggere i commenti”. Non lo insospettisce neppure il vedersi difendere dal Giornale, da Libero e financo da Daniele Capezzone, uno che quando ti difende sporgi querela a prescindere perché vuol dire che hai torto marcio (il famoso Capezzone fumante).
Un barlume di dubbio, in verità, lo sfiora: “Mi colpiscono certe reazioni avvelenate della gente comune: danno il senso del clima che si respira nel Paese”. Ma è un attimo. Anziché domandarsi il perché di quelle reazioni e di quel clima (magari lo sdegno per un premier che da 16 anni distrugge l’Italia facendosi gli affari suoi e per un’opposizione che non si oppone), il Renzi si risponde: “Viviamo da tre lustri in un derby continuo, ci vorranno anni per ripulire le menti”.
E chissà quanto ci vorrà per ripulire la sua da quello che Gaber chiamava “il Berlusconi in me” giudicandolo peggiore del “Berlusconi in sé”: cioè dall’insensibilità ai conflitti d’interessi, al galateo istituzionale, a valori antichi e ormai desueti come la dignità, la sobrietà, la reputazione, il senso dell’opportunità e del limite.
Persino il rottamato Bersani, dopo aver detto sciaguratamente “andrei ad Arcore anche a piedi pur di avere una riforma del mercato del lavoro”, fa notare in un lampo di lucidità che un sindaco incontra il premier a Palazzo Chigi, non a villa Bungabunga.
Renzi gli risponde con una toppa che è peggio del buco: “Se B. mi invita ad Arcore che devo dirgli: ci vediamo allo svincolo autostradale di Monza?”. Poi peggiora ulteriormente la situazione: “Bastonano me perché parlo con B. e vogliono fare un governo o un’alleanza con Fini”.
Dal che si deduce che il presunto avversario delle “ideologie” preferisce la destraccia affaristica del Cainano a quella più presentabile (o meno impresentabile) di Fini.
Così chi voleva rottamare il politburo piddino ha regalato ai vecchi marpioni del partito un’arma formidabile per rottamare lui. Il giovane vecchio è anche un furbo fesso.
“Quando voi entrate nell'aula dei rappresentanti a Washington, restate colpiti dall'aspetto volgare di questa assemblea. Invano vi cerchereste un uomo celebre, quasi tutti i suoi membri sono oscuri personaggi il cui nome non vi dice nulla. Si tratta generalmente di avvocati di provincia, di commercianti o anche di uomini appartenenti alle infime classi”.
Così nel 1835 descriveva la democrazia rappresentativa Alexis de Tocqueville che pur di questo sistema è considerato uno dei padri.
Ma forse al nostro Parlamento si adatta di più un'altra pagina di Tocqueville, in cui parla di “un'accozzaglia di avventurieri o di speculatori” e aggiunge “si resta assai stupiti nel vedere a quali mani sia affidato il potere pubblico e ci si domanda per quale forza indipendente dalla legge e dagli uomini lo Stato possa prosperare”.
Dovrebbe leggersi un po' di Tocqueville quella massa di ignoranti e votanti, che sono diventati gli italiani, imbesuiti dalla Tv, dalle fiction e dal virtuale, invece di scandalizzarsi, o far finta, per il grottesco "mercato delle vacche" cui assistiamo in questi giorni.
Quando si dice "vacche" non si usa una metafora, si descrive la realtà della nostra classe politica democratica che nella sua maggioranza è formata da uomini e donne che si prostituiscono e prostituiscono la cosa pubblica ai propri interessi, a quelli dei propri clientes, vassalli, valvassori, valvassini, delle proprie mogli, delle proprie fidanzate, delle proprie troie e dei figli dei cognati dei nipoti che, mentre mezza Italia giovanile cerca lavoro, vengono piazzati in posti sicuri (vedi gli scandali romani di Atac e Ama, che sono solo l'ultima espressione del "sistema Mastella" che non riguarda, ovviamente, solo l'onorevole Mastella ma ogni o della classe dirigente democratica).
Certo ci furono tempi in cui in Parlamento sedeva gente diversa. Non possiamo mettere sullo stesso piano gli Einaudi, i De Gasperi, i Nenni, i Togliatti, gli Almirante con questi mascheroni televisivi che noi, supremo masochismo, paghiamo perché ci comandino.
Ma la democrazia rappresentativa non c'entra nulla con quei bei tempi andati, c'entra il fatto che allora la Storia e le ideologie agitavano grandi passioni politiche, ideali e che alla politica si avvicinava chi queste passioni le aveva.
Ma la passione politica non è una prerogativa della democrazia. Al contrario: grandi passioni politiche hanno espresso tutte le dittature del Novecento.
Ma chi oggi entra in politica, nella politica democratica, non lo fa per passione. Lo fa per coltivare i propri affari, con metodi quasi sempre mafiosi e spesso criminosi.
Quale passione politica possiamo leggere sui volti dei Berlusconi, dei Letta, dei Frattini, dei La Russa, dei Gasparri, dei Bersani e di tutti quegli altri che si dicono di sinistra...?
Ogni cinque anni andiamo a votare e legittimiamo costoro a spartirsi quel potere che, ci dicono, appartiene a noi cittadini. E vinca l'una o l'altra squadra il "popolo di sinistra" o "il popolo della destra" fan festa, ballano in piazza senza rendersi conto che a vincere sono solo i giocatori in campo (una fettona di sottopotere non si nega agli sconfitti, fa parte delle regole del gioco) mentre a perderci son solo i festanti che hanno pagato il biglietto.
La farsa delle finte contrapposizioni politiche dovrebbe essere ormai, dopo decenni di queste manfrine, chiara a tutti. Gianni De Michelis, intervistato dal Corriere per i suoi 70 anni, ha dichiarato: “Centrodestra e centrosinistra non esistono. Esistono solo due bande di potere”. E se lo dice lui, che se ne intende, possiamo credergli...
Il futuro della destra
di Ernesto Galli Della Loggia - Il Corriere della Sera - 12 Dicembre 2010
Se martedì prossimo il governo otterrà la fiducia nelle due Camere sarà difficile non riconoscere in ciò un indubbio successo di Berlusconi: un successo della leadership, della determinazione e della coriacea personalità del presidente del Consiglio.
Ma anche quel successo non potrà cancellare un dato ormai acquisito: la grande promessa/scommessa berlusconiana è fallita.
Berlusconi può durare tutto il tempo che si vuole, anche fino alla fine della legislatura, ma è impossibile non prendere atto che delle grandi novità che la sua discesa in campo sembrò annunciare quindici anni fa, oggi non rimane pressoché nulla.
Al centro di quella promessa/scommessa c'era, infatti, molto di più che il puro e semplice impegno (questo sì senz'altro mantenuto) di sbarrare il passo alla sinistra.
C'era l'idea che quello che allora nasceva, nel quadro di un bipolarismo finalmente conquistato, doveva essere, sarebbe stata, una destra liberale adeguata ai tempi (quindi liberista ma con giudizio, per esempio solidarista ma decisamente anticorporativa), pregna degli umori della società civile ma dotata di senso delle istituzioni, capace di esprimere un'adeguata cultura e capacità di governo. Non è andata così, invece.
Berlusconi non è stato capace di dare vita a nulla di tutto questo. Così come non è stato capace di farlo quella tradizione politica alimentata nelle file del Msi prima e di An poi, e di cui Gianfranco Fini è stato finora il massimo rappresentante.
Tradizione che messa con la vittoria di Alemanno nella condizione unica di reggere le sorti della capitale del Paese, sta dando la prova d'inettitudine e di malgoverno che è sotto gli occhi di tutti.
In questi quindici anni, dunque, la destra plasmata e guidata da Berlusconi ha dimostrato di essere in grado di vincere le elezioni, ma non di radicare nella società una stabile struttura di rappresentanza degli interessi, di darsi le sedi dove elaborare una discussione programmatica, darsi un volto e formare dei quadri propri, insomma di fondare una vera cultura politica e un vero partito.
Il che significa che anche le sue possibilità di vittoria elettorale presumibilmente diminuiranno di molto il giorno in cui il Cavaliere abbandonerà la scena.
Quando ciò accadrà, quando tramonterà la sua stella, il sistema politico italiano minaccerà di ritornare così a quello squilibrio che, a pensarci bene, dura niente di meno che dai giorni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale.
E cioè alla mancanza sulla destra di un moderno e grande partito di orientamento liberal-conservatore fedele alle istituzioni parlamentari, che raccolga i voti della vasta area d'ispirazione moderata, o come altro voglia dirsi, che comunque non si riconosce nella sinistra.
In questo vuoto s'infilò e vinse a suo tempo il fascismo. Su questo vuoto, dopo il 1945, stabilì la sua egemonia la Democrazia cristiana costruendovi gran parte delle sue fortune politiche.
Con il declino del berlusconismo quel vuoto ora si sta per manifestare nuovamente, e ne è segno inequivocabile l'infittirsi del lavorio centrista intorno al progetto di un «terzo polo» al quale sembra aderire anche Fini.
Progetto che ha come base e premessa necessaria la cancellazione di qualunque maggioritario e l'adozione di un sistema proporzionale che serva, tra l'altro, a sterilizzare la forza della Lega relegando il Carroccio isolato a destra, nello stesso ruolo marginale che nella Prima Repubblica aveva il Movimento sociale.
Un'iniziativa capace di immaginare una destra conservatrice su certi temi ma liberale su altri, anticorporativa, non bigotta ma radicata nell'ethos giudaico-cristiano, antigiustizialista ma fermissima nella legalità, plurale, e magari capace di accorpare con spregiudicatezza anche forze e tradizioni politiche come i radicali o spezzoni del mondo ecologista, oggi apparentemente incongrue ma, io credo solo apparentemente (si ricordi la definizione di Pannella data da Montanelli come «uno dei nostri»).
Un'iniziativa che almeno oggi come oggi, però, fa a pugni con la quiete cimiteriale che regna nel Pdl, con il sorprendente mutismo che distingue tutti i suoi esponenti. Se le cose continueranno così, l'autocancellazione politica del Popolo della libertà condurrà inevitabilmente, come dicevo sopra, alla vittoria del progetto centrista neo-democristiano sulle rovine del berlusconismo.
Una vittoria neo-democristiana: ma questa volta senza neppure quella grande cosa che dopotutto fu la Dc.
“Una vergogna di sindaco, un fighetto che lavora solo per la sua setta”
di Beatrice Borromeo - Il Fatto Quotidiano - 10 Dicembre 2010
Lo sfogo del destrissimo Buttafuoco: "Ormai Alemanno è spacciato". Sul suocero missino: "Chissà quanto soffre Rauti per la Parentopoli. La destra ha fatto una brutta fine". Previsioni capitoline: "Il suo successore? In città si continua a fare il nome di Guido Bertolaso"
Il più arrabbiato per la parentopoli del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è uno che nell’efficacia della destra sociale al potere ci aveva davvero creduto, prima di vedere come è stata gestita la Capitale in questi due anni e mezzo: Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e giornalista di Panorama, cresciuto da irregolare tra le file del Movimento sociale e il Secolo d’Italia. “Sono deluso come uno che scopre violenze terrificanti dentro casa sua e si chiede: e io, povero fesso?”.
Buttafuoco, i numeri sono da ufficio di collocamento: 854 assunti all’Atac e 1400 all’Ama da quando Alemanno ha vinto le elezioni.
È tipico della sua cultura che ha radici settarie. È la vergogna dell’Alemannismo, anzi la vergognissima.
Si aspettava qualcosa di diverso?
Hanno cercato di farsi democristiani a suon di clientele familistiche. Non ci sono giustificazioni, a maggior ragione per chi è cresciuto in questo mondo. Chissà come starà soffrendo Pino Rauti.
Anche quella destra, quindi, al potere si è comportata come tutti gli altri.
Eppure erano quelli che mordevano la realtà, che andavano sui marciapiedi, ma per altre storie.
Come reagisce, secondo lei, la base elettorale di Alemanno a questa politica delle clientele?
Non esiste più un’area culturale di riferimento. Gli attivisti del Movimento sociale non votano più per nessuno.
Neanche lei?
No.
Ma che destra era quella da cui viene Alemanno?
La destra sociale è solo un artificio, non c’entra col conservatorismo né col moderatismo: è una dottrina politica che nasce nel solco del Novecento e che ha avuto una sua ragione d’essere nella militanza in favore del popolo e delle sue priorità. L’idea di farne una destra arriva a posteriori, è posticcia.
Era poco destra e molto sociale.
Per dirla con Antonio Pennacchi, è stata un’esperienza politica assolutamente di sinistra. Fondata sull’emancipazione, la tutela dei lavoratori e l’idea di dare un futuro a chi aveva difficoltà a ritagliarsi uno spazio nella società italiana.
Esiste ancora questa visione ?
Solo in certe analisi di Gianni De Michelis o di Massimo Fini, nelle pagine di Pennacchi, nelle atmosfere di qualche ambiente. Ma è un mondo che è finito nel secolo scorso, che forse sopravvive da qualche parte fuori dal perimetro europeo.
Un bel cambiamento rispetto alla parentopoli di oggi?
Già. Non è certamente il Movimento sociale di Beppe Niccolai, né quello di Giorgio Almirante e tantomeno di Pino Rauti.
Hanno piazzato figli, nipoti, mogli e persino una ex cubista nelle municipalizzate.
Tipico. Si sono ritrovati fra le mani un giocattolo che è diventato l’arma con cui si stanno massacrando.
Colpa dell’influenza berlusconiana del bunga bunga?
No, assolutamente. Si fanno del male da soli.
Qual è la differenza tra Alemanno e l’altro uomo di destra che ha guidato il Lazio, Francesco Storace?
Storace non aveva la tribù, è più simpatico, più ruspante. Alemanno si è infighettito parecchio e i suoi uomini sono sempre stati settari… Chissà ora quanti anatemi mi lanceranno.
Qual è stato l’errore più grande di Alemanno?
Il sindaco di Roma deve fare il sindaco di Roma. Invece che fa? Politica: costruisce il suo gruppo, piazza i suoi uomini, coltiva il suo giardino di consensi. Avrebbe dovuto occuparsi delle strade, delle buche, del traffico.
Chiudere le buche porta più consensi di qualche centinaio di assunzioni?
Certo! Ma Gianni si ubriaca facilmente: è bastato che gli arrivasse all’orecchio che forse il Cavaliere voleva lui come erede. O che i delusi di Fini intasassero i centralini del municipio urlando “Gianni aiutaci tu”. E la fine risulta imbarazzante. È diventato un interventista politico, politichese e politicuzzo. Flavio Tosi, per dire, è un sindaco di tutt’altro livello.
Cadono già le prime teste, come quella del capo-scorta di Alemanno, Giancarlo Marinelli.
Marinelli è stato un vero signore ad andarsene. Ma sono altri che si devono dimettere.
Cioè Alemanno?
Certo. Marinelli gli ha dato una bella lezione. Ma io, che amo molto i retroscena, sono convinto che dietro questa operazione si debba temere un’aggressione più dall’interno che dall’esterno.
Complottista.
No, hanno fatto tutto da soli. Ma c’è chi è pronto ad approfittarne.
Facciamo i nomi.
L’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso. Aspetta in un angolo, con l’acquolina in bocca, immaginandosi già la campagna elettorale come prossimo sindaco di Roma. Ho notato strane mobilitazioni. È nell’aria: non può stare con le mani in mano.
E chi lo dice?
Se ne parla negli ambienti di città, dove ci si annusa, ci si cerca, ci si dà appuntamento: dove si decidono le cose più concrete.
Quindi Alemanno è considerato spacciato?
Ha preso una brutta botta. Pari all’appartamento di Montecarlo di Fini.
Qui i favori ai parenti sono molti di più.
Lo dico col cuore, è una vergogna totale. Dalla casa di Montecarlo, alle suocere in Rai, a Parentopoli sono colpi durissimi. Ti hanno levato un mondo, un partito. Con chi ne parli? Cosa fai? È fi-ni-ta!
Ma Fini potrebbe ancora intercettare i delusi?
Sì, se intende Massimo. È l’unico Fini che riconosciamo. Gianfranco no.