mercoledì 29 dicembre 2010

Update italiota

Un aggiornamento sul panorama italiota...con un'iniezione di positività nel finale del post.


Marchionne qui in Italia è in buona compagnia
di Eugenio Orso - http://pauperclass.myblog.it - 27 Dicembre 2010

A questo punto le mezze parole, le ipocrisie, le parafrasi e tutto l’impianto letterario-sintattico-lessicale del “voglio ma non posso” dirlo con chiarezza non regge più.

Marchionne non è altro che un bieco sfruttatore globalista, uno spietato contractor ad alto livello e uno schiavista lasciato libero di agire, in questo paese e in altri, da governicchi asserviti agli agenti storici di quel capitalismo marcio che ci tiene in pugno, e che sembra destinato a dominare l’inizio del terzo millennio.

Marchionne è simile ai macellai che dirigevano i campi di concentramento novecenteschi o ai “lanisti” di età romana che trafficavano in schiavi, sempre proni dinanzi all’aristocrazia del tempo, ma forse è ancor peggiore di questi, poiché rappresenta un’ulteriore diminuzione dell’uomo che prelude ad un’altra “specie”, più feroce ed insensibile della nostra.

Marchionne è ben pagato per ristabilire l’equazione lavoro-schiavitù portandola alle estreme conseguenze, ed è incaricato della Creazione del Valore in nome e per conto degli agenti strategici di questo capitalismo, delle élite globaliste per le quali questo individuo abbietto sta pregiudicando il futuro e la dignità di migliaia di famiglie italiane.

Marchionne è disposto a tentare qualsiasi ricatto, come quello che prevede lo scambio dei diritti contro un salario che in realtà è sempre più misero, e per lui l’etica significa esclusivamente “creare valore per l’azionista”.

Se poi posiamo lo sguardo sul testo dell’accordo dello scorso 23 di dicembre, per il rilancio produttivo dello stabilimento di Mirafiori Plant, scopriamo che si tratta di una serie di clausole-capestro imposte ai lavoratori, poiché: Ai fini operativi la Joint Venture, che non aderirà al sistema confindustriale, applicherà un contratto collettivo specifico di primo livello che includerà quanto convenuto con la presente intesa.

Si specifica di seguito, essendo questo “accordo” un’imposizione, una sorta di diktat mascherato, che tutte le sue clausole sono correlate ed inscindibili tra loro, e che il mancato rispetto degli impegni da parte dei sindacati gialli firmatari e delle loro rappresentanze avrà l’effetto di liberare l’Azienda dagli obblighi derivanti dal presente accordo nonché da quelli contrattuali, lasciandola magari libera di chiudere Mirafiori e di andarsene dall’Italia.

Due sono gli elementi che balzano all’occhio, leggendo il testo di questo accordo-diktat dalle cosiddette clausole di responsabilità agli allegati, e cioè che ciò avviene al di fuori di quelli che ancora dovrebbero essere i canali ordinari – il citato sistema confindustriale, ossia il Ccnl per intenderci meglio – e la piena libertà che la Fiat di Marchionne si concede nel caso qualcuno osi “alzare la testa” non rispettando le clausole imposte.

Fatta salva la mezz’ora retribuita per la refezione collocata all’interno dei turni, iniziano le grottesche imposizioni, in una generale limitazione dei diritti non certo “compensata” da robusti elementi retributivi.

Particolarmente feroce sarà la lotta all’”assenteismo”, ad eccezione dei casi conclamati di malattie gravi, gravissime o terminali, i quali saranno valutati [forse] con benevolo dall’azienda, e le indennità concesse ai lavoratori sono particolarmente ridicole, come ad esempio le seguenti: indennità di disagio linea, euro/ora 0,0177 lordi pari a euro/mese 3,0621 lordi, oppure premio mansione euro/ora 0,0248 lordi pari a euro/mese 4,2900 lordi.

Dato che l’utilizzo degli impianti, a discrezione dell’azienda, è giudicato molto più importante della dignità delle persone e del riconoscimento dei diritti, si impongono due schemi di orario, che in sintesi sono i seguenti: 1° schema orario – 15 turni (8 ore x 3 turni x 5 giorni alla settimana) e 2° schema orario – 18 turni (8 ore x 3 turni x 6 giorni alla settimana).

Però non si rinuncia a scaricare la crisi capitalistica che investe il settore dell’auto su lavoratori e risorse pubbliche, in quanto durante il periodo che precederà l’avvio produttivo della Joint Venture le Parti convengono sulla necessità di ricorrere […] alla cassa integrazione guadagni straordinaria per crisi aziendale per evento improvviso e imprevisto, per tutto il personale a partire dal 14 febbraio 2011 per la durata di un anno.

Quelle che si fanno passare per esigenze produttive determinate dal mercato domineranno incontrastate, a Mirafiori, poiché l’azienda gestita da Marchionne per conto dei globalisti potrà imporre ai lavoratori fino a 200 ore annue pro-capite di lavoro straordinario, di cui 120 ore senza preventivo accordo sindacale.

Non solo, ma per i lavoratori addetti alle linee che saranno così “fortunati” da operare sul turno sperimentale di 10 ore, vi sarà un'indennità di prestazione collegata alla presenza di ben 0,2346 euro [neanche a dirlo] lordi orari.

Seguono poi i recuperi produttivi, i fabbisogni organici, per i quali vi sarà ampio ricorso in primo luogo al lavoro precario somministrato, al termine e all’apprendistato, le disposizioni in merito all’assenteismo, per malattia anzitutto, ma è chiaro che questo orribile accordo-diktat fra le “Parti” è stato possibile perché ci sono i sindacati gialli firmatari, disposti a vendere il vendibile, ed un governo nazionale cialtrone, socialmente criminale, il cui capo è interessato in primo luogo alla sua sopravvivenza politica per evitare le manette, fregandosene sia delle sorti del paese sia della questione sociale.

Le “Parti”, per quando riguarda l’abominevole sindacalismo giallo che oggi trionfa, sono per l’esattezza Fim, Uilm, Fismic e UGL Metalmeccanici, e queste sigle, gli stessi nomi e cognomi dei firmatari, sarà bene ricordarseli, quando e se verrà il momento del riscatto, perché sappiamo bene che d’ora in avanti si cercherà di estendere simili accordi alla generalità dei settori produttivi.

L’accordo-capestro, volto a sottomettere interamente i lavoratori e ad espellere dalla fabbrica l’unico sindacato che ancora li rappresenta – quella Fiom che è l’unica ad aver respinto l’esca avvelenata – è stato ottimamente accolto da Berlusconi, il quale lo ha definito un accordo storico e positivo …

Marchionne è quindi in buona compagnia, una compagnia degna di lui e di ciò che nella realtà rappresenta.

Per la verità, questo individuo tanto giustamente vituperato da chi ha ancora un po’ di senso di giustizia e qualche considerazione per la dignità dell’uomo, è niente altro che un prodotto antropologico spregevole della dominazione capitalistica incontrastata, la quale agisce sempre più in profondità attraverso manipolazioni culturali e simboliche, attraverso la flessibilizzazione del lavoro e la precarizzazione degli stessi percorsi esistenziali.

Il Dopo Cristo in cui questo individuo dichiara di vivere, è il tempo della riproduzione capitalistica che non incontra più ostacoli, è il tempo discontinuo della precarietà, è il tempo della speculazione su tutto, dai prodotti energetici all’acqua, è il tempo di una nuova barbarie che lo stesso Marchionne e i suoi simili diffondono.

Per quanto riguarda l’Italia, notiamo che l’accordo separato per Mirafiori, estensibile in futuro in tutte le direzioni, ad altri settori e in molti comparti, non è altro che la riproposizione per nuove vie e in nuove forme, questa volta in piena Europa, di quelle “zone franche d’esportazione” diffuse nei paesi in sviluppo, in cui si possono violare tranquillamente i diritti dei lavoratori, sottopagarli ed aumentare rapidamente il valore creato.

Per poter istituire queste zone in cui il dominio del capitale tende a diventare assoluto, sono necessarie alcune sponde, come quelle rappresentate, in Italia, dai sindacati gialli, da un governo screditato, corrotto, cialtrone e compiacente, e da un’opposizione vile e inconsistente, a sua volta sottomessa al peggior capitalismo.

Ed è grazie a queste sponde che il Marchionne di turno può realizzare anche in Italia, partendo da Mirafiori e dagli stabilimenti Fiat ancora attivi, il suo allucinante Dopo Cristo, che altro non è se non il tempo dell’illimitatezza capitalistica, della ri-schiavizzazione del lavoro, delle grandi ineguaglianze, dei rischi ambientali diffusi e del degrado etico.

Marchionne qui in Italia è purtroppo in buona compagnia.


Il Bunga Bunga di Belpietro
di Peter Gomez - Il Fatto Quotidiano - 28 Dicembre 2010

Il 24 dicembre La Repubblica ha pubblicato un sondaggio sulle prospettive della varie coalizioni in caso di elezioni anticipate.

I numeri messi nero su bianco dall’istituto Demos sono utili per capire il nervosismo (non dichiarato) che serpeggia in questi giorni tra le file del centrodestra berlusconiano.

Un nervosismo che ieri ha trovato un primo parziale e irrazionale sfogo nell’ormai celebre fondo di Maurizio Belpietro in cui il direttore di Libero racconta due “strane storie” su Gianfranco Fini senza nemmeno aver prima provato, per sua stessa ammissione, a verificarle.

Dopo la fiducia strappata per un soffio da Silvio Berlusconi il 14 dicembre, le prospettive tornano, del resto, a farsi nere per il Cavaliere. Certo, Futuro e Libertà è in crisi di consensi (secondo il sondaggio è al 5,3 per cento dopo aver superato la soglia dell’8 per cento in novembre). Ma molto peggio sta il premier, visto che il nascente Terzo Polo rende sempre più probabile una sua sconfitta in caso di chiamata alle urne.

Demos, infatti, spiega che se il Pd corresse con Idv e la sinistra, otterrebbe il 41, 4 dei consensi, contro 39,7 di Pdl e Lega e il 17,8 dei terzopolisti. Se invece si arrivasse alla grande coalizione anti-berlusconiana con dentro tutti (dalla sinistra fino al centro) il risultato sarebbe addirittura dal 57,5 per cento, contro il 40,2 per cento dei fedelissimi del Cavaliere.

In un unico caso il premier avrebbe partita vinta. Se il Pd si alleasse con il Terzo Polo (totale 30,8), lasciando invece l’Idv sola al fianco della sinistra (28,8). In questo scenario i berluscones la spunterebbero con il 38,2 per cento.

La minaccia di Berlusconi di andare a elezioni anticipate, se la sua risicata maggioranza non sarà in grado di governare, è insomma assai poco credibile. Di fronte a sé il Cavaliere ha solo una strada: proseguire la campagna acquisti nella speranza di trovare alla Camera una ventina di deputati disposti a passare con lui. Ma la cosa è tutt’altro che semplice.

Gennaio si presenta come un mese gravido di incognite. C’è la Corte Costituzionale che potrebbe cancellare il legittimo impedimento. Ci sono i malumori della Lega preoccupata per le sorti della legge delega sul federalismo fiscale. E ci sono le inchieste giudiziarie aperte mesi fa e non ancora chiuse.

Prima tra tutte quella sulla minorenne Ruby e i Bunga Bunga di Arcore. Prima o poi gli atti di quella indagine verranno depositati. E già oggi è chiaro che si tratta di carte estremamente imbarazzanti per il premier.

La escort di cui ha parlato Belpietro nel suo fondo, una prostituta di Modena che ai primi di dicembre (mentre impazzava sui giornali il caso Ruby) ha video-registrato il racconto di presunti incontri con Fini e si è presentata a Libero e Il Giornale, poteva forse servire per controbilanciare l’impatto mediatico dell’epilogo delle indagini sul giro delle ragazze a pagamento ospitate ad Arcore.

Ma anche il quotidiano di via Negri pare averla trovata poco credibile. Tanto che un resoconto sommario della sua presunta testimonianza è stato pubblicato (e tra mille prudentissimi distinguo) solo dopo il pezzo uscito sul quotidiano concorrente.

Ma non basta. Perché l’articolo di Belpietro oltre che criticabile sul piano giornalistico (non si pubblicano notizie senza averle prima riscontrate), adesso si sta rivelando un boomerang politico.

L’effetto è quello di spingere i deputati finiani indecisi a stringersi ancora una volta accanto al loro leader. E di convincere Casini che con Berlusconi non è possibile fare veri accordi. Molto meglio lasciarlo cucinare a fuoco lento nel suo brodo. Perché, Bunga Bunga a parte, il peggior nemico del settantaquattrenne Berlusconi resta quello di sempre: il tempo.


Su Belpietro cominciano a circolare strane storie
di Alessandro Gilioli - gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it - 28 Dicembre 2010

Girano strane voci a proposito di Belpietro. Non so se abbiano fondamento, se si tratti di invenzioni oppure, peggio, di trappole per trarci in inganno. Se mi limito a riferirle è perché alcune persone di cui ho accertato identità e professione si sono rivolte a me assicurandomi la veridicità di quanto raccontato e, in alcuni casi, dicendosi addirittura pronte a testimoniare di fronte alle autorità competenti. Toccherà quindi ad altri accertare i fatti.

La prima storia è ambientata a Milano, anzi, per la precisione nella zona di porta Venezia. Qui qualcuno avrebbe progettato un brutto scherzo contro il direttore di Libero.

Non so se sia giusto parlare di attentato, sta di fatto che c’è chi vorrebbe colpirlo e per questo si sarebbe rivolto a un manovale della criminalità locale, promettendogli 200 mila euro. Secondo la persona che mi ha fatto la soffiata, nel prezzo sarebbe compreso il silenzio sui mandanti, ma anche l’impegno di attribuire l’organizzazione dell’agguato ad ambienti vicini ai centri sociali, così da far ricadere la colpa sulla sinistra.

Per quel che ne ho capito, l’operazione punterebbe al ferimento di Belpietro e dovrebbe scattare in primavera, in prossimità delle elezioni, così da condizionarne l’esito. Vero, falso? Non lo so. Chi mi ha spifferato il piano non pareva matto. Anzi, apparentemente sembrava un tizio con tutti i venerdì a posto: buona famiglia, discreta situazione economica, sufficiente proprietà di linguaggio. In cambio dell’informazione non mi ha chiesto nulla, se non di liberarsi la coscienza e poi tornare da dov’era venuto.

Perché si è rivolto a me e non è andato dai carabinieri? Gliel’ho chiesto e mi ha risposto che era in imbarazzo a giustificare come fosse venuto in possesso della notizia e temeva che la spiegazione potesse arrivare alle orecchie dei suoi familiari. Per cui ha voluto vuotare il sacco con me facendosi assicurare che non avrei svelato il suo nome, ma mi sarei limitato a riferire le sue parole. È quel che faccio, pronto ad aggiungere qualche altro particolare, se qualcuno me lo chiederà.

La seconda storia invece è ambientata a Bangkok.

Qui lo scorso anno, un tizio uguale in tutto e per tutto a Maurizio Belpietro si sarebbe presentato a un ragazzino che esercita il mestiere più vecchio del mondo. Il suo nome, il numero di telefono al quale contattarlo e le sue fotografie compaiono su un sito in cui decine di gigolò di tutto il Sudest asiatico offrono i loro servigi.

Il ragazzo, che giura di essere nipote di un vecchio abbonato a Libero, in cambio delle prestazioni avrebbe ricevuto mille euro in contanti. Tutto ciò lo ha raccontato a me condendo la storia con una serie di altri particolari piccanti e acconsentendo alla videoregistrazione della sua testimonianza. Mitomane? Ricattatore? Altro? Boh!

Perché mi sono deciso a scrivere delle due vicende? Perché se sono vere c’è di che preoccuparsi: non solo qualcuno minaccerebbe l’incolumità del direttore di Libero al fine di alimentare un clima di tensione nel Paese, ma il noto giornalista dopo aver fatto tanto il macho sarebbe inciampato in una vicenda a sfondo erotico peggiore di quelle rimproverate a Marrazzo.

Che un femminiello giri le redazioni distribuendo aneddoti a luci rosse sull’ex caporedattore bresciano di Capital non è bello. Se invece è tutto falso, attentato e gigolò, c’è da domandarsi perché le due storie spuntino pochi giorni dopo il nuovo assetto proprietario della testata di Belpietro.

C’è qualcuno che ha interesse a intorbidire le acque, diffamando il direttore di Libero? Oppure si tratta di polpette avvelenate che hanno come obiettivo quello di intaccare la credibilità di Facebook? La risposta non ce l’ho.

Quel che sapevo ve l’ho raccontato e, se richiesto, lo riferirò al magistrato, poi chi avrà titolo giudicherà.


Droga:"Ganzer si accordò con narcotrafficanti"
di www.antimafiaduemila.com - 28 Dicembre 2010

Nelle motivazioni della sentenza di primo grado emerge la ''preoccupante'' personalità del comandante del Ros


Il generale Giampaolo Ganzer “non si è fatto scrupolo di accordarsi” con “pericolosissimi trafficanti”.

E’ quanto si legge nelle oltre mille pagine della motivazione della sentenza in cui i giudici di Milano hanno spiegato perché il 12 luglio scorso il generale è stato condannato a 14 anni nel processo sulle presunte irregolarità nelle operazioni antidroga sotto copertura condotte tra il '91 e il '97 da un gruppo di militari del reparto speciale dell'Arma.

Ganzer era stato condannato assieme ad altri 13 imputati, a 14 anni dopo che l'accusa ne aveva chiesti 27. Al termine della Camera di consiglio, durata sette giorni, il tribunale ha inflitto la pena più alta, 18 anni, ad un trafficante libanese, ex confidente del Ros.

Secondo i giudici dell'ottava sezione penale di Milano, presieduta da Luigi Caiazzo, il generale “ha tradito, per interesse personale, tutti i suoi doveri, e fra gli altri quello di rispettare e far rispettare le leggi dello Stato”. Inoltre “non ha minimamente esitato a dar corso ad operazioni antidroga basate su un metodo di lavoro assolutamente contrario alla legge”.

L'imputato, hanno scritto ancora i giudici, “ha evitato, per quanto gli è stato possibile, di esporsi, facendo figurare altri come responsabili di iniziative che invece erano sue”. Colpisce, si legge ancora nelle motivazioni, “nel comportamento processuale di Ganzer, non tanto il fatto che non abbia avuto alcun momento di resipiscenza (...) ma che abbia preso le distanze da tutte le persone che, con il suo incoraggiamento, avevano commesso i fatti in contestazione”.

Il generale, secondo i giudici, si è trincerato “sempre dietro la non conoscenza e la mancata (e sleale) informazione da parte dei suoi sottoposti”. Così, si legge ancora, per “sfuggire alle gravissime responsabilità” ha “preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti”.

Nel motivare la mancata concessione a Ganzer delle attenuanti generiche, il collegio ha scritto che le stesse attenuanti non possono essere riconosciute “non solo per l'estrema gravità dei fatti, avendo consentito che numerosi trafficanti (...) fossero messi in condizioni di vendere la droga in Italia con la collaborazione dei militari e intascarne i proventi, con la garanzia dell'assoluta impunità, ma anche per la preoccupante personalità dell'imputato, capace di commettere anche “gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione”.


Ganzer e narcotraffico. Quelle dimissioni necessarie
di Marco Lillo - Il Fatto Quotidiano - 29 Dicembre 2010

Sul generale condannato per aver favorito i criminali il silenzio imbarazzante di Pd e Pdl
Il generale Giampaolo Ganzer non può restare al suo posto. Le dimissioni sarebbero una conseguenza naturale dopo le motivazioni della sentenza di condanna contro il comandante del Ros, il Reparto operativo speciale dei carabinieri.

E invece da due giorni, con l’eccezione dell’Italia dei valori, zero richieste di dimissioni dal centrodestra e – fatto ancora più sorprendente – dal resto del centrosinistra.

Eppure Ganzer, secondo i giudici di Milano che lo hanno condannato a 14 anni, era “in scandaloso accordo con i trafficanti ai quali è stato consentito vendere la loro droga in Italia e arricchirsi con i proventi delle vendite con la protezione dei carabinieri del Ros”. La condanna è del luglio scorso ma le motivazioni sono state rese note solo lunedì.

Per i giudici, da Ganzer “il traffico di droga non solo non è stato combattuto, ma addirittura incoraggiato e favorito”. La sentenza potrebbe essere ribaltata in appello e la presunzione di innocenza deve essere riconosciuta, ma si è creata una gigantesca anomalia con il comandante del Ros condannato per narcotraffico.

Dopo la condanna di luglio il coordinatore del Pdl Sandro Bondi trattò i magistrati come se fossero le Brigate rosse: “Non possiamo accettare senza reagire il rischio di una vera e propria disarticolazione dello Stato”.

Ma in fondo è il solito Bondi. Dopo la pubblicazione delle motivazioni Iole Santelli, vice-capogruppo del Pdl alla Camera, ha detto: “È incredibile la motivazione con cui hanno condannato Ganzer”.

Per una volta compatto, il Pd ha ignorato i giudizi terribili del Tribunale sul comandante Ganzer, nominato nel 2002 durante il governo Berlusconi ma lasciato al suo posto dal governo Prodi dopo l’avvio del processo nel 2005.

Anche la stampa, con la lodevole eccezione del Corriere della Sera, ha evitato di mettere il dito nella piaga del Ros. Solo Antonio Macaluso sul quotidiano diretto da Ferruccio De Bortoli ha posto con garbo “il terribile dubbio sull’opportunità che il generale resti al suo posto”.

Il comandante del Ros ha evitato commenti dimostrando di volersi difendere solo nel processo di appello. Decisione opportuna che però dovrebbe essere seguita da dimissioni che non rappresentano un’ammissione di colpevolezza, ma una scelta obbligata.

I casi che hanno coinvolto Ganzer e il precedente comandante Mario Mori, sotto processo con accuse gravissime a Palermo per il mancato arresto di Provenzano, sono un fardello troppo pesante anche per il Ros.

Ganzer facendosi da parte tutelerebbe gli uomini che sotto la sua guida hanno collezionato decine di successi nella lotta alla criminalità. Certo anche il Ros non è immune da errori. E non sono mancati scivoloni come l’inchiesta fuori misura del 2007 contro una presunta cellula di anarchici a Perugia o quella che ha cercato di fare le pulci, con un eccesso di foga, alle indagini calabresi di Gioacchino Genchi e Luigi De Magistris.

Eppure la serietà del Ros, nonostante i guai dei suoi vertici, non è in discussione ed è testimoniata dall’elenco delle inchieste nell’ultimo anno. Sono del Ros le intercettazioni che hanno messo nei guai Guido Bertolaso, il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, Fastweb e Finmeccanica, il senatore del Pdl Nicola Di Girolamo e il faccendiere fascista Gennaro Mockbel.

Sono del Ros le indagini che hanno portato al sequestro dei beni del segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, del tesoriere della Fondazione del ministro, ex An, Altero Matteoli e dell’ex segretario del ministro Franco Frattini.

Sono del Ros le informative contro l’assessore alla sanità della giunta Vendola in Puglia: il senatore Alberto Tedesco del Pd.

Sono del Ros anche le indagini sui carabinieri ricattatori nella vicenda costata la presidenza del Lazio a Piero Marrazzo. E sono del Ros le inchieste sui legami tra ‘ndrangheta e economia del Nord raccontate da Roberto Saviano in tv, come anche le informative recenti che hanno portato all’arresto di un assessore della Giunta regionale di centrodestra in Calabria.

Eppure questo elenco di politici indagati, arrestati, intercettati e condannati che in altri tempi avrebbe potuto rappresentare una medaglia al petto del comandante, oggi rappresenta la principale ragione che dovrebbe consigliare le dimissioni.

Al di là della volontà di Ganzer, le inchieste aperte e quelle ancora segrete, come le portentose banche dati del reparto e la capacità dei suoi uomini, somigliano a tante pistole puntate sul malandato corpo politico di questo Paese.

Il silenzio unanime del Pd e del Pdl su Ganzer è la migliore prova della necessità di un cambio. Anche perché quel silenzio potrebbe essere dettato dalla fiducia nell’operato passato del Ros, ma anche dalla paura per le sue indagini future.


I debiti degli italiani e le cause della crisi economica
di Francesco Bevilacqua - www.ilcambiamento.it - 28 Dicembre 2010

Leggiamo sempre più studi e previsioni, spesso di segno opposto, riguardanti la situazione economica italiana e l’uscita da una recessione che non accenna ad arrestarsi.

La soluzione tuttavia non va rintracciata nei dati in crescita o in calo, ma nell’analisi di un meccanismo che rende questa crisi strutturale e quindi infinita.

Le notizie circa la situazione economica italiana e l’uscita da una recessione che sembra non finire mai sono contrastanti

Stiamo attraversando in questi mesi un periodo di grande incertezza che alcuni considerano di riflusso, di transizione, addirittura di ripresa dopo la crisi che sta affliggendo le economie occidentali dal 2008.

Purtroppo, com’è ormai costume in casi come questo, è molto difficile farsi un’idea precisa della situazione poiché i mezzi di informazione riportano notizie frammentarie, manipolate, quando non palesemente false a seconda delle direttive che vengono loro dettate dai meccanismi di controllo.

Un paio di articoli usciti recentemente però sfiorano il grottesco, poiché non solo leggendoli è impossibile capire l’effettiva condizione economica di noi italiani, ma perché dicono l’esatto opposto, ponendo due punti di vista differenti che in teoria dovrebbero essere basati su dati concreti. Insomma, per le famiglie italiane la crisi si sta risolvendo o si sta aggravando?

Della prima idea è Il Giornale, che il 21 dicembre è uscito con un articolo titolato Sorpresa, siamo più ricchi di quanto immaginiamo . L’autore Marcello Foa pone in primo piano il confronto fra lo stato dell’economia italiana e quello degli altri paesi mondiali ed europei.

La fonte dei dati che vengono analizzati è il bollettino della Banca d’Italia, una pubblicazione che da decine di anni rappresenta una delle fonti più autorevoli per monitorare l’andamento degli indicatori economici dell’Italia e dell’Europa.

Secondo alcune fonti i privati cittadini italiani sono mediamente fra i più ricchi al mondo

La prima confortante notizia ci dice che la ricchezza netta delle famiglie italiane costituisce il 5,7% di quella mondiale, a fronte di un contributo al PIL che non supera il 3%. Questo vorrebbe dire che i privati cittadini italiani sono mediamente fra i più ricchi al mondo.

Il dato riguardante l’indebitamento privato sembra rilevare che oltre che ricchi siamo anche responsabili: il debito privato è pari al 78% del reddito disponibile e costituisce un virtuoso primato nei confronti dei tedeschi (100%), degli americani (130%) e degli inglesi, che sono gravati da debiti che ammontano a quasi il doppio della loro disponibilità economica.

Fra l’altro sembra che i nostri investimenti siano orientati verso beni sicuri, come immobili (il 40% dell’indebitamento è rappresentato da mutui) e denaro liquido.

Infine, l’Italia è anche uno dei paesi caratterizzati dalla maggiore equità, dal momento che il 10% delle famiglie, la parte più ricca, possiede 'solo' il 45% della ricchezza complessiva, mentre negli Stati Uniti la stessa porzione di popolazione possiede il 70% della ricchezza.

Di tutt’altro tenore è il comunicato stampa che ha diffuso solo tre giorni prima la CGIA di Mestre, un’associazione di artigiani e piccole imprese. Il dato principale è l’indebitamento medio nazionale, che negli ultimi due anni (settembre 2008 - settembre 2010) è cresciuto del 28,7%.

L’analisi che fornisce il segretario della CGIA Giuseppe Bortolussi rileva che, dal punto di vista territoriale, le zone più indebitate sono anche quelle più ricche, segno che induce a pensare che la tendenza al consumo eccessivo non è stata intaccata dalla crisi economica.

Le zone più arretrate, in particolare il mezzogiorno, sono tuttavia gravate dal primato delle erogazioni da parte degli istituti di credito, che vuol dire che le fasce più deboli della popolazione non hanno liquidità neanche per reperire i beni primari.

L'Associazione Contribuenti considera la crisi solamente un’aggravante di una serie di tendenze e cattive pratiche economiche

Questa preoccupazione è rafforzata dal dato sulle insolvenze, che vede ai primi i primi posti occupati da comuni meridionali: Crotone, dove il 5,9% dell’erogato non viene restituito, Caltanisetta col 5,7% e Benevento ed Enna a pari merito col 5,5%.

Da questa seconda analisi si può dedurre che la crisi economica ha colpito forte e in maniera differenziata: nelle aree più ricche provocando un aumento dell’indebitamento, nelle aree più povere aggravando una situazione già critica.

Un ulteriore arricchimento del quadro viene da una nota dell’ Associazione Contribuenti, che considera la crisi solamente un’aggravante di una serie di tendenze e cattive pratiche economiche che costituiscono la solida base dell’indebitamento degli italiani.

In particolare si fa riferimento all’usura, purtroppo ancora ampiamente praticata (una stima la dà in aumento del 109% nell’ultimo anno, con circa tre milioni e mezzo di soggetti a rischio fra famiglie e piccoli imprenditori), la politica aggressiva delle esattorie, l’eccessiva rateizzazione – che porta a un accesso al consumo apparentemente agevole ma che poi si rivela insostenibile –, il boom delle carte revolving e addirittura un aumento preoccupante del gioco d’azzardo. Il tutto a fronte di un deciso giro di vite da parte delle banche per quanto riguarda la concessione di crediti e prestiti.

Cosa possiamo dedurre da questa situazione, apparentemente intricata e difficile da spiegare?

Certamente l’uscita dalla crisi non è dietro l’angolo e le previsioni e le interpretazioni ottimistiche assumono la fattezza di miraggi che dovrebbero incoraggiare un’economia che continua ad arrancare.

Finché la nostra economia e il nostro modo di gestire i risparmi sarà basato sull’indebitamento, la crisi non finirà mai

Andando oltre le analisi ufficiali e il mero monitoraggio delle variabili economiche tuttavia, possiamo affermare che non si tratta semplicemente di una fase di uscita dalla recessione particolarmente difficoltosa, bensì dell’affermarsi di un sistema socio-economico che mantiene le stesse gravissime criticità di quello che è appena entrato in crisi, ovvero la necessità fisiologica di aumentare in maniera illimitata i consumi.

Spesso però questo non è possibile, almeno non nelle quantità e con i ritmi che vengono imposti, così entra in gioco il meccanismo dell’indebitamento, che costituisce da un lato l’opportunità di spendere denaro anche quando non ve ne sarebbe la possibilità, dall’altro un legaccio che viene stretto al collo dei risparmiatori e può essere tirato all’occorrenza, una catena che ci lega in eterno ai nostri creditori e ci pone completamente in loro potere.

Ecco quindi qual è la situazione: ciò che conta davvero non sono dati confortanti che ci dicono che stiamo uscendo dalla crisi – cosa peraltro tutta da verificare –, né preoccupanti statistiche che ci avvisano che siamo sempre più insolventi.

Il nodo da sciogliere è il meccanismo del debito, poiché finché la nostra economia e il nostro modo di gestire i risparmi sarà basato sull’indebitamento, al di là di quello che ci dicono i tassi di crescita e l’andamento del PIL, la crisi non finirà mai.


La decrescita e il cambiamento
di Daniel Tarozzi - www.ilcambiamento.it - 28 Dicembre 2010

Vi riproponiamo l'intervista a Pallante realizzata dal direttore del Cambiamento, Daniel Tarozzi, nel 2008 per Terranauta. Il primo di una serie di articoli nati da una conversazione con Maurizio Pallante, 'padre' della decrescita felice in Italia. In questa prima puntata Pallante ci spiega il concetto di Decrescita Felice e le origini del movimento.

Il 15 dicembre 2010 l’Associazione Movimento per la Decrescita Felice ha compiuto 3 anni. Il 12 gennaio 2011 si celebreranno quattro anni da quando Maurizio Pallante ha proposto ad un primo gruppo di persone la formazione del Movimento.

A pochi anni dal suo concepimento, questo Movimento e questa corrente culturale si stanno diffondendo a macchia d’olio in tutta Italia, ricevendo consensi sempre crescenti e presenziando a tutti i più importanti eventi legati all’ecologia, all’ambiente, alle energie, ai rifiuti, ai nuovi stili di vita.

Sempre più persone, quindi, avranno sentito parlare di 'decrescita', ma in pochi, forse, sanno esattamente di che cosa si tratti. Abbiamo quindi intervistato Maurizio Pallante - fondatore e presidente del movimento, nonché autore del libro La Decrescita Felice e di molti altri testi che vertono su queste tematiche – per capire e raccontarvi che cosa sia questo Movimento e quali siano i suoi obiettivi.

Abbiamo incontrato Maurizio Pallante nella sua nuova casa piemontese. L’accoglienza è stata molto calorosa e informale. Ci siamo seduti nel suo giardino, vicino all’orto che cura con la compagna, e tra una carezza e l’altra a Sofia, il suo cane, abbiamo intavolato una lunga conversazione.

Ne riportiamo qui una fedele trascrizione, anche se ci è difficile trasmettere sulla 'carta' le emozioni suscitate dal carisma e dalla parlata di Maurizio Pallante.

Cosa è la Decrescita e quali sono le sue origini?

Fino a poco tempo fa, la parola decrescita era stata abolita dal vocabolario. Anche oggi, sui giornali, quando l’economia non cresce si dice che sta attraversando una fase di crescita negativa. Che è una specie di ossimoro, come dire che un vecchio ha una gioventù negativa.

Però, nell’ambito dell’economia, pare che questo tipo di ossimoro abbia credibilità...

Tra i padri nobili della decrescita troviamo il Pasolini polemista degli anni '70 contro il progresso e l’omologazione delle culture, la perdita delle specificità e così via. Già a quel tempo, quindi, si parlava dei temi cari alla decrescita, anche se ancora non la si chiamava in questo modo.

È però ultimamente che questo discorso della decrescita ha cominciato a prendere piede grazie alla lezione di Latouche (anni ’90) che ha avuto notevole successo prima in Francia e poi in Italia.

Il suo legame con l’Italia è talmente forte che alcuni suoi libri sono stati pubblicati prima nella versione italiana che in quella originale francese.

Questa riflessione si è poi intrecciata con alcune frange del movimento ecologista- ambientalista. Non con la frangia riformista, secondo la quale se vogliamo poter continuare a far sì che l’economia cresca lo sviluppo deve essere sostenibile, cioè deve avvenire con tecnologie meno impattanti sull’ambiente e quindi sostituendo le fonti rinnovabili a quelle fossili. Questa corrente di pensiero, infatti, non contesta il paradigma dello sviluppo, della crescita, ma ricerca modalità 'sostenibili' alla crescita stessa.

Il concetto di decrescita, invece, si è ben miscelato con la corrente ambientalista che vedeva l’ecologia come un paradigma culturale, un nuovo modo di concepire i propri stili di vita.

Ancora oggi il dibattito sulla decrescita è molto diffuso e al suo interno ci sono posizioni non del tutto omogenee. Questo è inevitabile nella fase emergente di una nuova teoria. Ognuno porta un po’ del suo retroterra, delle sue caratteristiche. Queste diverse visioni, comunque, non mi sembrano un limite, ma una ricchezza, proprio come la biodiversità”.

In che modo il movimento da te fondato si inserisce in questo contesto?

Noi del Movimento per la Decrescita Felice abbiamo inteso la decrescita come un discorso che nasce in ambito economico, ma travalica subito in ambito filosofico, in una concezione di vita, in un paradigma culturale. Per noi, la decrescita non coincide semplicemente con la sobrietà, con un minore livello di consumi, con una maggiore giustizia sociale.

A nostro modo di vedere, infatti, questi discorsi rimangono all’interno di un ambito redistributivo delle risorse tutto interno al modello vigente. Invece, noi cerchiamo di andare un po’ più a fondo su questo ragionamento e definiamo la decrescita come la diminuzione della produzione e del consumo delle merci che non sono beni e l’aumento della produzione e del consumo dei beni che non sono merci. Questa distinzione tra beni e merci è per noi fondamentale.

Qual è la differenza tra bene e merce?

Una merce è un oggetto o un servizio che può essere acquistato o scambiato con denaro. Un bene è ciò di cui un cittadino ha realmente bisogno, ma che non necessariamente deve essere acquistato o scambiato con denaro.

Il PIL (Prodotto Interno Lordo), su cui è fondata l’intera economia mondiale, non misura i beni, ma le merci. Se non c’è scambio di denaro, se non c’è transazione economica, un bene, anche primario, che viene scambiato e consumato dai cittadini, non può contribuire alla crescita del Pil.

Siccome noi, da alcune generazioni, siamo abituati a comprare tutto ciò di cui abbiamo bisogno, tendiamo a identificare il concetto di bene con il concetto di merce, perché tutto quello che ci serve lo acquistiamo. Invece, la distinzione va fatta perché non solo sono due concetti diversi, ma spesso sono due concetti che confliggono tra di loro.

Esistono delle merci che non sono beni e esistono dei beni che non sono merci.

Ad esempio?

Faccio l’esempio di una merce che non è un bene. Per riscaldare i nostri edifici in Italia consumiamo mediamente 20 litri di gasolio al metro quadrato all’anno (la definizione più rigorosa è 200 kilovattora al metro quadrato all’anno, però corrisponde grosso modo a queste grandezze).

In alcuni comuni italiani ed esteri non è consentita la costruzione di edifici che consumino più di 7 litri al metro quadrato all’anno. In queste realtà questi edifici sono i peggiori, i migliori ne consumano solo 1,5.

Un edificio mal costruito, che disperde gran parte del calore, fa però crescere il Pil di più degli edifici ben costruiti che non disperdono il calore.

I 13 litri in più, che in media si consumano in una casa mal costruita, sono una merce che si paga e che viene sprecata, ma non sono un bene perché non serve a riscaldare. Se ci fosse un governo che predisponesse come punto centrale della sua politica economica la ristrutturazione degli edifici che consumano 20 litri si andrebbe verso una decrescita felice del Pil.

Quindi esistono merci che non sono beni. E per quando riguarda i beni che non sono merci?

Esistono anche dei beni che non sono merci. Se raccolgo dei pomodori dal mio orto, non vado a comprarli al supermercato, per cui faccio diminuire la domanda della merce frutta e verdura, perché la produco per me stesso. Paradossalmente vengo percepito come un asociale perché faccio decrescere il Pil.

Ogni anno c’è un ingegnere bravissimo, pugliese, che nel mese di settembre mi manda un sms e mi dice “se domani vedi che il Pil è diminuito sappi che è colpa nostra perché ci siamo fatti la passata di pomodoro!”

Un bene che una persona si autoproduce per se stesso o scambia per amore e non per denaro (può essere anche un bene immateriale, un servizio, un figlio che guarda i genitori anziani anziché darli alla badante o un genitore che guarda il bambino piccolo anziché darlo alla babysitter), fa decrescere il Pil. Chi invece lascia i figli alle babysitter e i vecchi alle badanti fa crescere il Pil perché mercifica questo servizio.

Quindi tutte le volte che si autoproduce un bene o si scambia un servizio per amore si fa decrescere il Pil.

Perché parli di decrescita 'felice'? In che senso?

Qui l’aggettivo felice non viene usato in senso soggettivo per dire che la persona che fa la decrescita è felice, ma in senso oggettivo. Se la decrescita è intesa come diminuzione della produzione e del consumo di una merce che non è un bene, infatti, questo processo è intrinsecamente apportatore di felicità e benessere.

Torniamo all’esempio delle case. Il metabolismo del nostro corpo è fatto in maniera tale che noi scambiamo il 70% del calore che produciamo per irraggiamento con le pareti di una stanza e il 30% con l’aria di una stanza, per cui se una persona si trova in una stanza con la temperatura più bassa e le pareti calde ha una sensazione di comfort termico superiore di quella che si avrebbe in una stanza con la temperatura più alta e le pareti fredde.

A me è capitato di andare a visitare lo studio di Renzo Piano, bellissimo, sul mare, tutte pareti di cristallo, una temperatura di 22 gradi, però bisognava stare con il cappotto.

Una casa che disperde 13 litri su 20 ha sempre le pareti fredde. Una casa che ne consuma 7, e non li disperde, ha le pareti più calde. Quindi, in una casa che richiede un minore consumo di riscaldamento si sta meglio, e la decrescita è intrinsecamente felice - e apportatrice di benessere - non solo per le persone che abitano in quella casa, ma per tutta la collettività.

Infatti, una casa che consuma 7 litri di gasolio manda in atmosfera i 2/3 in meno di CO2 rispetto ad una casa che ne consuma 20, riducendo quindi l’effetto serra.

C’è poi il fattore qualità della vita. Io mi coltivo le verdure nell’orto. Vi assicuro che quei pomodori che mangio non hanno paragoni con i pomodori che si comprano. Li faccio per me stesso, quindi non uso concimi.

In questo modo, nel mio piccolissimo, diminuisco il contributo complessivo al danno che l’agricoltura industriale comporta alla superficie terrestre . L’ultima volta che ho mangiato un pomodoro “da supermercato” ero in aeroporto. Era un panino mozzarella e pomodoro. Ancora adesso non so cosa ho mangiato. Aveva la forma del pomodoro senza averne il sapore. Ecco, per tutti questi motivi, la decrescita è intrinsecamente felice.

Finisce qui la prima parte della chiacchierata con Maurizio Pallante. Nelle prossime puntate vi proporremo il resto. Scopriremo il ruolo delle tecnologie nella decrescita, approfondiremo le modalità di azione e le finalità del movimento, indagheremo sul suo rapporto con la politica, sul ruolo della donna, sul tempo libero.


Conversazione con Maurizio Pallante. Seconda parte

di Daniel Tarozzi - www.ilcambiamento.it - 29 Dicembre 2010

Dopo avervi introdotto nel mondo della decrescita felice, ripercorriamo ora insieme a Maurizio Pallante la storia e lo sviluppo del movimento soffermandoci sul ruolo della tecnologia e della politica.

Maurizio Pallante, come è nato il vostro movimento e come pensi possa svilupparsi?

Tutto è cominciato da un’esigenza diffusa tra i fondatori del movimento: quella di confrontarsi in maniera più sistematica con persone che stavano ragionando su questa idea e la stavano di fatto già praticando.

Abbiamo quindi organizzato degli incontri tra di noi ma anche con gli imprenditori perché riteniamo fondamentale, per gli obiettivi del nostro movimento, la nascita di aziende che sviluppino tecnologie che riducano il consumo di risorse a parità di servizi.

Dopo un anno di riflessioni, abbiamo deciso di fondare un movimento. Siamo gli unici finora ad averlo fatto. Non esistono all’estero movimenti per la decrescita. Esistono in Francia delle persone che si occupano di decrescita e che pubblicano una rivista bimestrale. Probabilmente evolveranno verso la costituzione di un partito, mentre noi abbiamo deciso che non ci candideremo alle elezioni. Abbiamo quindi fatto una scelta molto precisa decidendo di lavorare in tre direzioni:

- stili di vita: analizzare quali scelte compiere nella propria vita in direzione della decrescita e contribuire alla loro diffusione (autoproduzione, gas-gruppi di acquisto solidale, forme di solidarietà di vicinato, banche del tempo).

- tecnologie della decrescita: per fare una casa che consuma 7 litri ci vuole più tecnologia che fare una casa che consuma 20! È una tecnologia diversa dalla tecnologia della crescita. Quest’ultima ha lo scopo di aumentare la produttività, cioè di fare in modo che nell’unità di tempo ogni persona faccia più cose possibili; le tecnologie della decrescita hanno lo scopo di ridurre per ogni unità di prodotto l’energia e la materia prima necessaria, la quantità di rifiuti che si produce al momento della produzione, i rifiuti industriali che si creano dopo, quando l’oggetto viene dimesso. Quindi si può dire che tutte le tecnologie del riciclaggio sono tecnologie della decrescita.

- politica: si possono fare, soprattutto a livello locale, delle scelte politiche indirizzate alla decrescita. Un comune che ottimizza i consumi energetici dei suoi edifici ed evita gli sprechi fa una scelta in direzione della decrescita; un comune che emana un regolamento edilizio sulle nuove costruzioni che preveda che all’interno delle stesse non si possano consumare più di 7 litri di gasolio per il riscaldamento, fa una scelta in direzione della decrescita; e così via.

Il nostro obiettivo, quindi, è quello di avere dei gruppi locali che si confrontino e si direzionino verso queste tre direzioni.

Approfondiamo meglio l’aspetto tecnologico e in particolare le sue ripercussioni sul piano energetico.

In molti credono che applicare la decrescita significhi rifiutare la tecnologia. Invece è proprio il contrario! Significa sviluppare al massimo determinate tecnologie. Ma le scelte vanno fatte con cognizione di causa.

Ad esempio: ha senso affermare che la priorità per realizzare una politica energetica rispettosa dell’ambiente sia sviluppare le fonti rinnovabili? No. Finché noi continueremo a sprecare il 70% dell’energia che si consuma nelle abitazioni, nell’autotrasporto, nelle centrali termoelettriche, il sistema energetico sarà simile ad un secchio bucato.

E normalmente, se ho un secchio bucato e devo riempirlo d’acqua, prima di decidere quale sia la fonte migliore con cui riempirlo, cerco di chiudere i buchi. Facendo ciò, elimino le dispersioni e pratico la decrescita.

Solo una volta eliminati gli sprechi, quindi, posso studiare fruttuosamente il miglior modo per sostituire il residuo di fabbisogno di fonti fossili con energia generata da fonti rinnovabili.

Ma non è tutto. Anche la scelta di quali energie rinnovabili utilizzare e con quali modalità è una scelta che va fatta con cognizione di causa.

Le fonti rinnovabili, infatti, per minimizzare il loro impatto sull’ambiente, non si devono sviluppare attraverso grandi impianti, ma su piccoli impianti finalizzati all’autoconsumo.

Una grande centrale eolica, ad esempio, ha una serie di controindicazioni:

- devasta le colline;

- comporta la costruzione di strade di servizio per i camion;

- necessita di grandi scavi per le fondamenta, essendo i pali alti anche 120 metri;

- danneggia notevolmente le migrazioni degli uccelli, mietendo centinaia di vittime, in quanto questi volatili utilizzano proprio le “correnti costanti” su cui si tracciano le rotte degli uccelli che vengono quindi fatti a fettine.

In Gran Bretagna, invece, vendono delle pale eoliche da un kilowatt di potenza, alte 2 m, destinate ad una diffusione capillare e prive di controindicazioni.

E per quanto riguarda il solare?

Anche in questo caso vale lo stesso discorso. Se costruisco una grande centrale fotovoltaica devo coprire ettari ed ettari di terreno con materiale inorganico, impedendo così la fotosintesi clorofilliana. Se invece ricopro di pannelli solari i tetti di tutto il paese non ho alcuna controindicazione.

Questa modalità di produzione energetica è chiamata generazione diffusa. Io produco l’energia che mi è necessaria e scambio l’eccedenza. L’energia prodotta per l’autoconsumo non è una merce, ma un bene. Torniamo quindi al discorso della decrescita felice.

In che modo il vostro movimento cerca di incoraggiare questo tipo di iniziative?

Se c’è un’azienda che produce qualcosa che permette un minor consumo di energia elettrica o di riscaldamento per le abitazioni, noi riteniamo che questa azienda stia lavorando per la decrescita e quindi vogliamo incoraggiarla e aiutarla.

Cerchiamo quindi di raggruppare delle aziende che sviluppano tecnologie in grado di ridurre il consumo delle risorse, le mettiamo in rete e realizziamo una specie di database che comprende le aziende che soddisfano determinati requisiti. Oltre alla qualità dei loro prodotti valutiamo la responsabilità sociale ed ambientale dell’impresa. Cerchiamo quindi di coinvolgere la gente comune in questo processo, invitando le persone che si rivolgono a queste ditte a dargli un voto.

Passando alla politica, prima hai detto che voi non volete partecipare alle elezioni, però hai poi aggiunto che la politica è uno dei vostri tre obiettivi primari. Puoi spiegarci meglio?

La nostra azione politica si esplicita a livello locale. Noi vogliamo influire sulle amministrazioni comunali. Questo può avvenire in due modi. O alcuni partiti accolgono le nostre proposte e se ne fanno portavoce oppure dovremo realizzare delle liste civiche sullo stile di Beppe Grillo. Mentre Grillo si pone come elemento di rottura e di critica, però, noi ci proponiamo come fornitori di contenuti, di proposte.

Vogliamo quindi rapportarci anche con i meet up. L’unica lista di Grillo che è riuscita a conquistare un consigliere comunale è quella che si è formata a Treviso ed è una lista strettamente legata a noi, con un programma e con delle proposte molto precise.

Il nostro obiettivo è mettere i contenuti nei programmi. Questo non significa necessariamente che qualcuno di noi debba entrare in una lista civica, anzi! Qualcuno forse ci entrerà, ma il contributo che diamo come movimento alle liste civiche è quello di arricchirle di contenuti.

In passato ho aderito ai Verdi. Il partito era ancora agli inizi e il loro bacino elettorale era molto ampio. Tutti coloro che erano stati trombati politicamente o stavano in qualche partitino senza speranza si sono quindi buttati dentro e ci hanno utilizzati come taxi verso i palazzi del potere. Noi Verdi (definiti da me in un saggetto le vispe terese) eravamo un po’ ingenui e ci siamo fatti sfruttare a piacimento.

Non ho quindi nessuna intenzione di ripetere quella esperienza e di perdere anche solo mezzo minuto a discutere con qualcuno che vuole utilizzare strumentalmente il movimento cogliendone una potenzialità elettorale non indifferente e distogliendomi dall’elaborazione delle mie idee.

Naturalmente ciò non toglie che se qualsiasi partito o lista civica sposasse le nostre idee saremmo ben lieti di condividere con loro il programma delle nostre scelte.

Di politica e tecnologia abbiamo parlato. Venendo agli stili di vita, da cosa bisognerebbe partire per vivere all’insegna della decrescita felice?

Bisogna ri-imparare il saper fare. Oggi non sappiamo fare più niente, perché compriamo tutto. Bastano due giorni di sciopero dei camion (ricordate gli assalti ai supermercati di qualche mese fa?) e milioni di cittadini vanno nel panico perché sanno che se non comprano non vivono; bisogna quindi riscoprire il saper fare come elemento culturale. Ecco perché a Torino (Maurizio Pallante vive in Piemonte, n.d.r) stiamo realizzando l’Università del saper fare.

Stiamo anche cercando di immaginare un futuro diverso per la città, che in questi anni è una specie di Titanic dove si passa da una festa all’altra cercando di creare occupazione effimera sfruttando le Olimpiadi, le Paraolimpiadi, il 150 Anniversario dell’Unità d’Italia e così via.

Cosa dovrebbero fare invece?

"Bisognerebbe cominciare a vedere che esiste, in una città che ha una spiccata tradizione industriale, la possibilità di sviluppare delle tecnologie che vanno in direzione della decrescita. I torinesi hanno il chiodo fisso di non essere più capitale per cui ogni volta che possono dicono Torino la capitale dello sport, degli scacchi, adesso è la volta del design.

Il design moderno dovrebbe essere finalizzato alla creazione di oggetti che, una volta diventati obsoleti, possano essere scomposti nelle loro materie prime. Eppure questo argomento non è mai stato trattato nei 150 convegni organizzati!

Una città con una tradizione tecnologica così forte non è in grado di esprimere delle persone in grado di progettare degli oggetti costruiti in quest’ottica? Io penso di si!

Per sintetizzare?

Noi non vogliamo presentarci come quelli del 'no a questo, no a quest’altro. Noi, con la nostra forza e modestia, siamo quelli delle controproposte inserite in una visione complessiva di progettazione del futuro; vogliamo entrare nell’orizzonte delle cose possibili.

Anche questa seconda parte finisce qui. Nella prossime 'puntate' vedremo come si possa applicare il modello della decrescita alle grandi città, analizzeremo il ruolo della donna in questo contesto e ci soffermeremo sul rapporto tra Decrescita Felice e 'sviluppo sostenibile'.