Comunque dal vertice Nato di Lisbona è emersa la volontà dell'Alleanza di cominciare una "nuova fase di transizione", molto vaga nei contenuti, con una data - il 2014 - per consegnare all'esercito afghano il controllo dell'intero territorio.
Intanto i talebani continuano a farsi beffe della Nato non solo militarmente ma ora anche dal punto di vista politico...
Usa beffati in Afghanistan. Finto mullah al tavolo negoziale
di Daniele Mastrogiacomo - La Repubblica - 23 Novembre 2010
Durante le trattative segrete promosse dalla Nato con Karzai un misterioso e sedicente leader dei Taliban ha presenziato a tutte le riunioni. Finché un ufficiale afgano non ha scoperto che era un impostore. Sospetti sul Pakistan
Era un impostore il potente leader taliban che partecipava alle trattative di pace con il vertice del governo Karzai, assistito dagli americani e con il sostegno logistico della Nato. Durante i primi due incontri, svolti nello stesso palazzo presidenziale, nessuno aveva messo in dubbio l'identità dei partecipanti giunti in gran segreto dal Pakistan.Ma al terzo summit, fissato a Kandahar, quello che adesso appare uno spunto degno di un libro giallo si è imposto quasi come una beffa, ha messo in imbarazzo i vertici militari americani ma soprattutto ha raggelato gli entusiasmi delle prime ore.
Il New York Times, autore dello scoop sulle trattative segrete tra quattro alti comandanti taliban e il governo centrale di Kabul per cercare i termini di una possibile pace, adesso svela un retroscena che mette in dubbio l'efficacia di un negoziato tra insorti e forze Nato e Isaf e tratteggia il torbido clima di una partita dove agiscono depistatori, agenti taliban, servizi segreti pachistani e magari qualche signorotto locale che finisce per arricchirsi.
Dopo aver avviato una trattativa con quattro presunti leader del Movimento degli studenti coranici - racconta il quotidiano statunitense - gli uomini di Karzai e gli americani sono entrati nel vivo della discussione.
Le delegazioni erano raccolte attorno a un tavolo. In fondo sedeva sempre anche l'uomo più importante dei Taliban, quello che garantiva la qualità degli accordi e degli interlocutori. Si trattava del mullah Akthtar Muhammad Mansour, considerato il braccio destro del mullah Omar, padre spirituale dei Taliban.
L'uomo aveva partecipato a tutti gli incontri. Come gli altri era stato trasportato dal Pakistan a Kabul a bordo di aerei della Nato: una garanzia per evitare di essere intercettati lungo la strada e magari fatti fuori o arrestati.
Ma questa volta, a differenza delle altre, nella delegazione di Karzai c'è anche un ufficiale dell'esercito afgano che conosce tutti i comandanti taliban. L'ufficiale osserva quell'uomo, coperto dal suo turbante nero che gli nasconde parte del viso, rimasto fino all'ultimo in disparte.
La riunione si conclude. L'ufficiale resta perplesso. Chiede chi fosse l'uomo seduto in fondo al tavolo. Gli riferiscono il nome. Ha un sussulto. "Ma non è Mansour, ne sono certo. Lo conosco molto bene e non è lui. E' un impostore".
La rivelazione è come una doccia fredda. Nessuno, tra i militari americani e i funzionari governativi di Kabul si era mai preoccupato delle vera identità dei Taliban che partecipavano alle trattative. Sembra assurdo ma non è la prima volta che gli Usa si fanno beffare. Soprattutto in regioni dove bugie e verità si confondono in trattative infinite.
La Cia ha perso sette tra i suoi più efficienti agenti in un attentato messo a segno in una basa segreta a Khost, nel sud est dell'Afghanistan, da un infiltrato che per mesi si è spacciato per un terrorista di al Qaeda pentito.
Si tratta di negoziati difficili, bisogna placare dubbi e sospetti. E' già un miracolo radunare attorno a un tavolo quattro leader rappresentativi degli insorti. Le identità, in Afghanistan, sono spesso fumose. I tratti somatici possono cambiare nel corso degli anni. Ma l'ufficiale afgano è categorico e nessuno è in grado di smentirlo.
Anche perché il presunto mullah Mansour si è defilato. Non si è più fatto vivo. Con un bel gruzzoletto in tasca: per spingerlo a trattare e per convincere gli altri a seguirlo il Pentagono ha sborsato un bel po' di milioni di dollari.
Beffati e amareggiati, i vertici militari americani si chiedono in queste ore chi sia in realtà il misterioso mullah Mansour. C'è chi pensa a un abile truffatore, qualcuno che ha approfittato del clima favorevole a un trattativa per incassare dei soldi facili.
Ma l'ipotesi più concreta è che si tratti di un membro dell'intelligence taliban: un infiltrato nella delegazione degli insorti pronto a spifferare alla shura di Quetta, l'organo esecutivo del Movimento degli studenti coranici, i piani degli americani e di Karzai.
L'impostore, in ogni caso, non ha agito di sua iniziativa. Mentre la Cia si affanna per risalire alla vera identità del presunto leader taliban attraverso le impronte digitali, molti guardano con sospetto ad Islamabad.
All'Isi, i servizi segreti pachistani. Non erano stati coinvolti nella trattativa. L'hanno fatta fallire. Ci sono entrati nel modo più congeniale a degli spioni: con un impostore.
Via dall'Afghanistan. Ma con calma
di Marco Giorgerini - www.ilribelle.com - 22 Novembre 2010
Il vertice Nato di Lisbona proclama l’inizio di una fase di “transizione” che nel 2014 dovrebbe restituire il Paese al governo locale. Peccato che i contorni rimangano assai vaghi
Sì è concluso sabato il vertice Nato tenutosi a Lisbona. Secondo molti i due giorni di summit hanno prodotto un ottimo risultato, soprattutto per quanto riguarda il capitolo Afghanistan.
I temi trattati dall'Alleanza Atlantica sono stati molteplici, dai rapporti con la Russia ai progetti per rendere più dinamica la stessa Nato, ma il nocciolo della discussione ha inevitabilmente riguardato l'Afghanistan e la strategia per uscirne.
Il segretario generale dell'Alleanza, Anders Fogh Rasmussen, ha assicurato che «oggi inizia una nuova fase, un processo al termine del quale gli afghani torneranno padroni in casa loro».
Il disimpegno, ha aggiunto, dovrebbe iniziare nel prossimo luglio e proseguire, gradualmente, fino al 2014. Entro quella data, l'intero territorio potrà essere controllato dal presidente Karzai: «La transizione sarà efficace e irreversibile».
La prima provincia a passare sotto la sua completa amministrazione dovrebbe essere quella del Panshir, zona insolitamente tranquilla i cui abitanti sfoggiano la fierezza di chi si è liberato da solo dagli estremisti.
È lo stesso governatore a dichiarare: «La nostra provincia non ha dovuto aspettare le forze straniere per liberarsi dai Taliban, qui siamo stati capaci di non far mai attecchire l'estremismo di Al Qaeda».
Subito dopo, però, mette in guardia sulla necessità che prima del ritiro sia pacificato tutto lo Stato: il territorio da lui governato è per molti aspetti un’eccezione, e ritirare le forze occidentali quando tutto intorno è ancora caos è un buon modo per far sì che anche la sua provincia sia contagiata dall'instabilità che domina nel resto del paese.
Ma è davvero legittimo l'entusiasmo ostentato da Obama, Rasmussen e compagnia cantante? Nient'affatto. Pur affermando che si procederà al ritiro, si tace sui modi e sui tempi in cui questo dovrebbe avvenire.
Che ne sarà ad esempio dei 150 mila soldati dell’Isaf (International Security Assistance Force)? Il segretario Nato, in un impeto di chiarezza, ha fissato per il 2015 la «fine delle missioni di combattimento», salvo poi essere smentito a stretto giro di posta dalla Casa Bianca.
Dagli Usa hanno tenuto a precisare che «la decisione sul ritiro delle truppe è una scelta sovrana di ciascun paese, e il Presidente Obama non ha ancora preso una decisione». E anche per quanto riguarda, più in generale, l'intera exit strategy, il tono enfatico delle dichiarazioni cela la vaghezza del loro contenuto.
Quel che sembra certo è che col tempo il numero dei soldati si ridurrà. Ma in che misura, e quanto passerà prima che abbandonino definitivamente l'aerea, non è dato sapere.
Anzi, a breve termine – almeno per quanto riguarda l'Italia – gli uomini inviati a Kabul aumenteranno. Lo ha dichiarato il nostro premier, raggiante per gli elogi ricevuti dal presidente Usa: «Con i duecento formatori in più che saranno inviati arriveremo a essere il terzo paese presente in Afghanistan, con 4230 militari».
Durante l'incontro di Lisbona, comunque, si sono anche firmati documenti e trattati ufficiali, prendendo decisioni concrete che vanno al di là delle numerose promesse di disimpegno che tanta eco stanno suscitando presso i giornali europei.
L'accordo di partnership tra Rasmussen e Karzai, ad esempio. Accordo che mette nero su bianco le relazioni future tra Afghanistan e forze dell'Alleanza Atlantica, ribadendo che gli aiuti di tipo economico militare e politico continueranno ad esser garantiti anche negli anni a venire. Strano modo di lasciare l'Afghanistan agli afghani.
E infatti i Taliban, che hanno capito l'antifona, hanno prontamente diffuso via web un comunicato per frenare gli entusiasmi: «L'aumento delle loro truppe, le loro nuove strategie, i loro nuovi generali, le loro nuove trattative e la loro propaganda non sortiscono nessun effetto».
Ma voi ve lo immaginate un qualunque combattente, di qualunque esercito, ufficiale e riconosciuto o meno, in divisa oppure no, che sente le dichiarazioni del Presidente dello Stato a capo della coalizione di aggressione enorme al proprio paese, che a guerra ancora in corso, e tutt'altro che vinta, dichiara una data di scadenza per la missione militare in atto?
Se voi foste quel combattente, e aveste di fronte un esercito di aggressione al vostro Paese, e sentiste pronunciare le stesse parole, cosa fareste?
Combattereste con tutto voi stessi, no?
Ebbene, i capi di Stato e di governo della Nato, e i rappresentanti della missione Isaf, hanno non solo dato il via libera al sedicente processo di transizione in Afghanistan, ma hanno addirittura indicato una data.
Ora, qualunque strategia di guerra che voglia avere una qualche possibilità di riuscita evita nel modo più assoluto di dare indicazioni al nemico. Indicazioni di ogni tipo. Nel momento in cui tale indicazione precisa addirittura il ritiro, come in questo caso, la conseguenza è chiara: la Nato ha perso la guerra, non ha ottenuto ciò che voleva, e con la coda tra le gambe se ne torna a casa.
Inutile sottolineare i risultati raggiunti: ne parliamo spesso sul giornale e Massimo Fini in particolare, visto che lì, dal punto di vista proprio ideologico e filosofico, si combatte una guerra paradigmatica per molti aspetti.
Uomini contro robot, interferenze ingiustificate nella politica interna di paesi sovrani, tentativo di esportare il (terribile) sistema di sviluppo occidentale in un luogo che ha le proprie sacrosante (anche se non condivisibili) tradizioni e usanze e ha l'assoluto diritto di farsi la propria storia come meglio crede, tanto per citarne solo alcuni.
In questo senso, la resistenza afghana - che di questo si tratta, visto che hanno subito una aggressione nel proprio paese - ha vinto.
Fossimo in Karzai scapperemmo da qualche parte. Una volta che le truppe Nato avranno lasciato l'Afghanistan, il fantoccio americano, e il suo governo, dureranno ventiquattro ore. E nella migliore delle ipotesi gli faranno la pelle.
Naturalmente, ma questo è discorso ampio che lasciamo ad altro momento (e che abbiamo già affrontato in passato), l'Afghanistan verrà lasciato pieno di macerie, con una guerra civile in atto, e in una condizione sociale ed economica che riporterà quel Paese a dieci anni addietro. Ovvero il disastro.
Ma gli afghani, in ogni caso, avranno salvato l'onore, con il sangue. Per il resto, sarà affare loro. Si chiuderà questa delirante esperienza occidentale, statunitense, in quel luogo, e tutto il denaro e il sangue versato (dei civili e dei combattenti afghani così come di tutti i militari, italiani inclusi) non sarà servito assolutamente a nulla.
Come era normale che fosse e come era facile da capire, se non ci si è lasciati convincere dalla propaganda Usa e di quella degli Stati vassalli a essa inginocchiati. Italia inclusa.
La guerra in Afghanistan si sta avvitando sempre di più verso una situazione di tipo vietnamita, per cui è chiaro che gli Stati Uniti saranno costretti a trattare con gli insorti, abbandonando l'illusione di una vittoria militare con relativa sottomissione del mosaico di etnie che compongono il Paese.
I Taliban di oggi
Ma chi sono oggi i Taliban e come la pensano? In realtà non ne sappiamo ufficialmente quasi nulla; i pochi capi Taliban che si sono "riconciliati"con il governo Karzai sono, in realtà, quasi tutti ex prigionieri di Guantanamo, catturati dagli americani nel 2001 ed assoggettati ad ogni tipo di umiliazione e tortura, prima di essere rimessi in libertà con il giuramento di non compiere mai più azioni ostili contro gli americani ed i loro alleati.
Vi è poi stato, nel corso dell'ultimo decennio, un ricambio generazionale nelle leaderships regionali dei Taliban (non si può infatti parlare di un fronte monolitico nazionale) dovuto in parte ai continui attacchi aerei che hanno provocato la morte di molti vecchi capi storici ed in parte ad una naturale evoluzione alla quale non è stato estraneo proprio il contatto con la mentalità e la civiltà occidentali.
Una serie di ricerche della London School of Economics indica come possibile una profonda mutazione di mentalità dei nuovi capi Taliban, rispetto a quanto conoscevamo della storia della seconda metà degli anni Novanta; ecco di seguito alcuni risultati di queste ricerche.
Essi si sono resi conto, ad esempio, della profonda impopolarità delle rigidissime norme applicate dai loro predecessori verso le donne, per cui oggi non sarebbero più contrari ad un modello di donna istruita e (parzialmente) emancipata, come avviene attualmente in Iran, Paese che è una repubblica islamica.
Le nuove tecnologie (TV, Internet) non sono più demonizzate, anzi pesantemente utilizzate per la propaganda; così anche la musica in pubblico, prima proibita.
I nuovi capi Taliban, inoltre, rivendicano il loro nazionalismo: non sono cioè una propaggine di Al Qaeda, che vuol portare ovunque la guerra santa contro l'Occidente e che ambisce al primato islamico planetario; piuttosto si considerano semplicemente degli uomini valorosi che lottano per affrancarsi dagli eserciti invasori.
D'altra parte lo stesso Mullah Omar, capo indiscusso dei Taliban all'epoca, subito dopo l'undici settembre 2001 fece convocare dal suo portavoce una conferenza stampa in cui si stigmatizzava l'attentato e si auspicava la cattura dei responsabili, invitando inoltre l'America ad essere "paziente e cauta nel reagire".
Prima opzione: resa ed amnistia
L'odierna strategia politica di Petraeus consiste, come tentato con parziale successo in Iraq, nel giungere ad una sorta di "riconciliazione e integrazione" dei Taliban nella Costituzione vigente in Afghanistan attraverso colloqui con il governo Karzai in cambio della rinuncia all'uso delle armi; ma è difficile che funzioni: già nel 2005 era stata offerta l'amnistia ai capi Taliban, ma nessun capo si arrese.
Il fatto è che i Taliban non riconoscono il governo Karzai per due motivi: il primo perché lo considerano un emanazione diretta dell'invasore americano, il secondo perché, comunque, questo governo è, al suo interno, una riproposizione di quella Alleanza del Nord, composta da turkmeni, uzbeki e tagiki, che essi stessi avevano sconfitto negli anni Novanta, alleanza fortemente supportata dagli USA e comandata dal tagiko Massoud (il "leone del Panshir"), ucciso dai Taliban due giorni prima dell'attentato alle Torri gemelle di New York.
I Taliban hanno rilanciato proponendo come irrinunciabile una trattativa diretta con gli USA, che preveda comunque il loro ritiro totale dal territorio afghano, e la convocazione di una nuova Assemblea Costituente, che ridiscuta la quota di influenza delle numerose etnie che compongono il mosaico afghano.
Insomma, Petraeus dovrà mettersi l'anima in pace: la resa "soft", che accetti lo statu quo creatosi dopo l'invasione americana, non verrà accettata dai Taliban..
Seconda opzione: spartizione dell'Afghanistan
L'edizione on-line del 21 novembre del' "Economist" riporta un'opzione nuova (partorita, sembra, dalla fervida mente di Hillary Clinton), discussa molto riservatamente a margine del vertice NATO di Lisbona, la quale prevederebbe la proposta, da presentare ai capi dei Taliban, di una divisione del Paese, su base etnica, in due parti.
La prima parte occuperebbe i territori centro-meridionali, compresa la regione del Balucistan afghano, con capitale Kandahar ed a maggioranza Pashtun; tale parte verrebbe sgombrata completamente dagli eserciti occidentali e godrebbe di una sostanziale indipendenza, compresa la politica internazionale, con il solo impegno, da parte dei Taliban, a rinunciare a qualsiasi atto ostile verso gli occidentali.
La seconda parte, con capitale Kabul, occuperebbe i territori settentrionali a maggioranza turkmena, uzbeka e tagika, e resterebbe fedele agli USA, consentendo a questi ultimi di conservare le basi militari con cui controllare (ed, eventualmente, destabilizzare) tutta l'Asia Centrale, con una particolare attenzione verso l'Iran.
Sembra già che l'Alleanza del Nord e Karzai (informati riservatamente), pur non entusiasti, non si opporrebbero più di tanto ad una simile opzione.
Le relazioni tra queste due parti, che diverrebbero a tutti gli effetti due Stati, dovrebbero limitarsi ad una blanda federazione.
Ed i Taliban cosa ne penserebbero? E' ovviamente troppo presto per dirlo, ma, posto che prendesse corpo, bisogna ammettere che per loro questa opzione è intrigante, poiché terrebbe conto della frammentazione a livello etnico (se non addirittura tribale) che affligge endemicamente i Paesi islamici ex colonie britanniche, i cui confini furono tracciati dalla Potenza coloniale senza star tanto a pensare all'omogeneità delle popolazioni che contenevano.
Ad esempio gli afghani di etnia pashtun non hanno mai riconosciuto la linea di confine tracciata dagli inglesi nel 1893 tra Afghanistan e Pakistan, vantando pretese su vasti territori nel nord-ovest del Pakistan (tra cui la città di Quetta) abitati dalla loro etnia, mentre non hanno particolari entusiasmi verso i territori del Nord, abitati dalle etnie dei Paesi ivi confinanti.
Potrebbe questa opzione, sempre se prendesse corpo, oltre a risolvere il conflitto afghano, pacificare la regione? Anche a questa domanda è prematuro rispondere e, comunque, si tratterebbe di una soluzione che andrebbe a regime solo nel lungo periodo.
Il summit della NATO andato in scena nel fine settimana a Lisbona ha decretato ufficialmente la presenza illimitata delle truppe occidentali in Afghanistan. Oltre a cancellare la scadenza del luglio 2011 fissata da Obama lo scorso anno per l’inizio del ritiro delle forze alleate da Kabul, i 28 membri del Patto Atlantico e i loro ospiti hanno provveduto a delineare il ruolo futuro dell’Alleanza per il ventunesimo secolo, le cui minacce - più o meno reali - verranno fronteggiate anche grazie ad un nuovo costosissimo sistema di difesa missilistico in Europa e ad una partnership con la Russia ancora tutta da costruire.
Accolti dalle consuete manifestazioni di protesta, i leader riuniti nella capitale portoghese hanno cercato di partorire una strategia presentabile per giustificare il prolungamento indefinito dell’occupazione afgana.
Di fronte ad un’opinione pubblica da entrambe le sponde dell’Atlantico sempre più contraria ad un conflitto ormai quasi decennale, i vertici NATO, sotto la guida del presidente Obama, hanno fissato ora l’anno 2014 come il termine ultimo per le operazioni di combattimento.
Entro quella data dovrebbe terminare una fase di transizione durante la quale il controllo delle operazioni sul campo passeranno progressivamente al governo afgano.
Se le forze di sicurezza di Kabul, come ampiamente prevedibile, non saranno però in grado di cavarsela da sole, Washington e i suoi alleati continueranno a stazionare in Afghanistan con svariate decine di migliaia di uomini.
L’accordo per la permanenza dei militari occidentali nel paese centro-asiatico è stato siglato dal segretario generale della NATO, l’ex primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen, e dal presidente Hamid Karzai.
Quest’ultimo, invitato speciale al summit di Lisbona, ha dovuto subire i rimproveri non troppo velati dello stesso Obama e del comandante delle forze NATO nel suo paese, generale David Petraeus.
Entrambi si erano infatti risentiti per una recente intervista al Washington Post nella quale Karzai si lamentava con i propri padroni per le conseguenze devastanti sulla popolazione civile dei raid notturni che regolarmente vengono effettuati per catturare o uccidere leader ribelli.
A Karzai non solo è stato imposto di sottoporre preventivamente alla delegazione americana il suo discorso ufficiale di fronte ai membri dell’Alleanza per evitare spiacevoli sorprese, ma gli è stato in sostanza anche ricordato che è Washington a condurre i giochi in Afghanistan e che non saranno certo qualche centinaia di vittime innocenti a far cambiare la strategia di guerra, comunque la pensi il suo governo fantoccio.Con un artificio retorico si è così spostato l’accento dalle operazioni di guerra a quelle di addestramento delle inconsistenti forze di sicurezza afgane, nella speranza di placare la rabbia crescente dei cittadini europei, americani e canadesi.
Allo stesso tempo, con un tale espediente si cercherà di ottenere l’invio di una manciata di soldati/addestratori - come ha fatto il governo italiano - da aggiungere ai quasi 150 mila uomini già di stanza nel paese occupato.
Ben poco impensieriti dalle implicazioni che tale prolungata presenza avrà sulla popolazione civile in termini di morti e distruzione, i capi di stato e di governo riuniti in Portogallo hanno così fornito tutto il loro sostegno alla strategia statunitense.
Una strategia dettata essenzialmente dal Pentagono e che ha prevalso sul piano inizialmente offerto da Obama agli americani, quando sul finire del 2009 decise di aumentare sensibilmente il proprio contingente militare in Afghanistan.
Questo paese d’altra parte continua a rappresentare un punto nevralgico per gli interessi degli Stati Uniti, al di là della presunta minaccia terroristica che incombe sul territorio americano.
Washington semplicemente non può abbandonare quest’area dell’Asia centrale - come non può abbandonare i Medio Oriente lasciando l’Iraq - dove l’influenza su paesi che dispongono di vaste riserve minerarie, e da dove transitano rotte energetiche di importanza vitale, è duramente contesa con le altre potenze planetarie, Cina in primis.
A conferma di ciò, l’amministrazione Obama sta da tempo negoziando con il governo afgano un accordo bilaterale - separato da quello firmato a Lisbona - che prevede un “supporto” indefinito da parte statunitense in ambito economico, culturale e della sicurezza.
Oltre all’Afghanistan, l’altro obiettivo principale degli USA e della NATO a Lisbona era la riproposizione del sistema di difesa missilistico da installare in Europa, già voluto a suo tempo da George W. Bush e poi abbandonato in seguito all’opposizione della Russia.
Il nuovo progetto ha incassato invece ora l’ok del presidente Medvedev, anch’egli presente al summit per inaugurare un nuovo corso cooperativo con la NATO, il quale pur tra qualche dubbio ha assicurato che Mosca fornirà la propria collaborazione alla rete di difesa europea, dal momento che quest’ultima non viene più percepita come una minaccia nei confronti della Russia.
Secondo la versione ufficiale, lo scudo anti-missilistico serve a difendere i paesi europei dal lancio di ordigni balistici dall’Iran, anche se la Repubblica Islamica non è stata ufficialmente nominata come possibile minaccia in seguito alle pressioni della Turchia, che continua ad intrattenere rapporti molto cordiali con Teheran.A rompere il silenzio ci ha pensato però il presidente francese Sarkozy che ha apertamente indicato l’Iran come la minaccia, peraltro del tutto inesistente, che incomberebbe sull’intera Europa.
Il segretario Rasmussen ha infine presentato i nuovi compiti dell’Alleanza che presiede, così da giustificarne la sopravvivenza a sessantuno anni dalla sua creazione. La NATO dovrebbe cioè rappresentare un baluardo contro le minacce globali di terrorismo e guerra informatica ma anche un sistema collettivo di difesa per prevenire crisi, gestire conflitti e stabilizzare aree interessate da guerre (possibilmente innescate dalla stessa NATO).
Nella realtà dei fatti, ciò che si intravede è ancora una volta la fabbricazione di sempre nuove minacce che permettano di continuare a vendere armi e che, soprattutto, rendano possibile il dispiegamento di forze destinate a servire gli interessi strategici occidentali, in primo luogo quelli di Washington. Un espansionismo che, oltre all’Afghanistan, riguarda già anche l’Asia meridionale e il Pacifico, l’America Latina e l’Africa.
Il tutto con il “consenso” di una NATO che, per dirla con le parole di Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazione di Jimmy Carter, continuerà anche nel nuovo secolo a rappresentare un vero e proprio strumento per la “perpetuazione della strategia egemonica americana” su scala planetaria.
Questo è il piano che Barack Obama ha presentato al vertice atlantico di Lisbona: altri 48 mesi di guerra “dura”, alla Petraus, con bombardamenti aerei e raid notturni delle forze speciali, al termine dei quali dovrebbe avvenire il ritiro del grosso dei reparti combattenti, da completare (Talebani permettendo) entro la fine del 2014.
Ma sul campo resteranno migliaia di soldati Nato a fianco dell’esercito afghano, impegnato a proseguire la guerra forse per molti anni. Se anche l’Italia resterà a Kabul, si calcola che spenderà altri 3 miliardi di euro.
Enrico Piovesana su “PeaceReporter” riferisce che Mark Sedwill, il rappresentante civile della Nato in Afghanistan, parlando a Kabul ha già messo le mani avanti sulla scadenza dei quattro anni per il ritiro delle truppe combattenti: «Il termine della fine del 2014 non va considerato come una deadline, ma come un obiettivo: nelle aree del paese con maggiori problemi di sicurezza, il passaggio di consegne alle truppe afghane potrebbe protrarsi anche nel corso del 2015 e oltre».
Dopo nove anni di occupazione bellica, annota Piovesana, al popolo afghano «vengono garantiti altri anni di passione, quattro, cinque o forse più. E saranno gli anni peggiori».
Da quando, lo scorso 5 luglio, il generale David Petraues ha preso il comando delle operazioni di guerraAfghanistan, ricorda “PeaceReporter”, i bombardamenti aerei alleati sono diventati sempre più frequenti: 400 nel mese di luglio, 500 in agosto, addirittura 700 in settembre.
In ottobre è giunta al largo delle coste pachistane una seconda portaerei americana (la Uss Lincoln) e presto dovrebbe arrivarne anche una francese (la De Gaulle): tutto questo in preparazione di una ulteriore escalation della campagna aerea in Afghanistan.
A preoccupare gli afghani anche più dell’aumento dei bombardamenti aerei, continua “PeaceReporter”, è il crescente ricorso alla tattica dei “night raid”, i famigerati blitz notturni compiuti dalle forze speciali (americane e non solo) nelle abitazioni civili “sospette”. alleate in
«Azioni brutali – scrive Piovesana – che terrorizzano la popolazione e che spesso si concludono con l’uccisione a sangue freddo di donne, uomini e bambini innocenti, accompagnate da violenze gratuite e umiliazioni, furti e danneggiamenti».
Una pratica «sempre più diffusa da quando c’è Petraeus al comando», e di cui il presidente afghano Hamid Kazrai ha chiesto con forza la cessazione: richiesta seccamente bocciata sia dal generalissimo Usa, che ha espresso «stupore e disappunto» per le «pericolose» parole di Karzai, sia
dal segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, che ha difeso i raid notturni come «componente chiave» della strategia militare americana.
Pianificare altri quattro anni di guerra, osserva Piovesana, significa mettere in conto altre decine di migliaia di civili afghani uccisi, altre centinaia di migliaia di innocenti feriti, mutilati e sfollati, e almeno altri 2.500 giovani militari occidentali caduti, stando alla media dell’ultimo anno di guerra.
Per non parlare delle decine di miliardi di euro che verranno gettati al vento in un momento di grave crisi economica: «Solo l’Italia – conclude “PeaceReporter” – spenderà almeno altri 3 miliardi di euro se deciderà di rimanere in Afghanistan fino al 2014» (info: www.peacereporter.net).