venerdì 5 novembre 2010

Il troiaio italiota

Continuiamo con un'altra puntata della telenovela "Il troiaio italiota"...


"Ad Arcore le ragazze scattavano foto e dicevano: un giorno saranno utili"

di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella - Il Corriere della Sera - 5 Novembre 2010

Nell'agosto scorso c'è stato un tentativo di forzare la porta e un armadio dell'ufficio del capo dei gip

Perché la Roma politica ha così paura che nell'inchiesta milanese sul favoreggiamento della prostituzione dietro le feste di Arcore esistano fotografie o filmati, se anche ieri il procuratore della Repubblica Edmondo Bruti Liberati ha ribadito che agli atti non ve ne sono?

E quante sono le giovani donne che possono imbarazzare o mettere nei guai il presidente del Consiglio con immagini e video? E quanto sono permeabili i controlli di sicurezza alle residenze del premier?

Sono gli interrogativi suggeriti da un passaggio delle deposizioni rese come testimone al procuratore aggiunto Pietro Forno e al pm Antonio Sangermano dalla 17enne marocchina accompagnata il 27 maggio in Questura dopo essere scappata dalla comunità per minorenni nella quale era stata collocata dal Tribunale dei Minorenni di Messina, aver trovato asilo a Milano nella cerchia dell'impresario tv Lele Mora, ed essere stata fermata per un sospetto furto di 3 mila euro.

Gli autoscatti
È infatti proprio la ragazza nordafricana, che dice di non aver avuto incontri sessuali a pagamento con il premier ma afferma di aver assistito ad ardite performance sessuali nelle occasioni in cui fu ospite di feste a casa Berlusconi ad Arcore, a fare presente nei suoi verbali che alcune altre ragazze, partecipanti con lei a quelle occasioni mondane nel 2010, avrebbero praticato la tendenza all'autoscatto già inaugurata a Palazzo Grazioli (ad onta dei dispositivi di sicurezza del premier) da Patrizia D'Addario, Barbara Montereale e Lucia Rossini la notte dell'elezione di Obama nel 2008.

Ora la ragazza marocchina, che solo da pochi giorni ha compiuto 18 anni e i cui interrogatori sono al vaglio dei pm che ne soppesano sia talune conferme sia molte incongruenze, giura di non aver effettuato né conservato foto o filmati: ma racconta che alle feste a casa di Berlusconi circolavano ragazze che invece fotografavano, eccome.

Anzi, quel che più conta, se si presta credito al racconto della giovane, è che a suo dire le altre scattavano foto o giravano video con i telefoni cellulari avendo già in mente un utilizzo futuro di quelle immagini (non è chiaro se ritraenti solo gli interni di Arcore o anche eventuali scene hard) nel caso in cui - dicevano - non avessero ottenuto ciò che si proponevano di ricavare da queste feste.

Se ciò fosse vero, suonerebbe cupi rintocchi per l'entourage del premier, esposto alla circolazione (se non commercializzazione) di numerose immagini in mano ad ancor più numerose ragazze.

Allarme-scasso a metà.
Rassicurante non è stato anche un episodio accaduto in agosto nell'Ufficio dei gip di Milano: un fatto vero, ma che, in un primo tempo collegato ad un altro evento apparso sospetto nello stesso ufficio giudiziario prima che fosse ridimensionato, ieri a scoppio ritardato ha destato un allarme che al momento non pare invece poter essere giustificato in rapporto all'indagine sulle feste di Arcore.

Il primo fatto, vero e a tutt'oggi non chiarito, è che un giorno d'agosto il presidente dei giudici delle indagini preliminari milanesi Gabriella Manfrin (quelli che nella fase iniziale delle indagini valutano le richieste dei pm di prorogare le intercettazioni) dopo colazione fece fatica ad aprire la porta della propria stanza, apparsa fuori asse, e si accorse che qualcuno aveva cercato in maniera rudimentale di aprire anche un armadio della vicina stanza della segreteria.

Nell'armadio di questa segreteria c'erano solo libri e circolari del Csm, nella stanza del capo dei gip non c'era alcun atto dell'inchiesta sulle feste di Arcore; del resto, l'ultimo posto dove si può trovare qualche incartamento di indagine è proprio la stanza del capo dei gip, peraltro abitualmente aperta dai lavoratori precari delle cooperative di pulizia che ogni sera girano per il Tribunale armati di un mazzo di chiavi di tutti gli uffici.

Il secondo fatto è che, sempre in agosto, un giorno la cancelliera del giudice Cristina Di Censo, gip dell'inchiesta sulle dichiarazioni della minorenne marocchina, trovò a terra un faldone di atti (non di questa indagine): l'iniziale preoccupante pensiero di un duplice assalto ai segreti dell'indagine sulle feste di Arcore, svelato ieri dall'Espresso, si ridimensionò però dopo che i dirigenti dell'ufficio rilevarono che il faldone stava sulla mensola di un armadio in posizione instabile dalla quale poteva essere caduto da solo.

Peraltro, il giudice era in ferie, dunque non attivo sull'indagine, e comunque il lavoro di un gip nella fase di proroga delle intercettazioni si esaurisce quasi sempre nella giornata stessa della richiesta da parte del pm: con la conseguenza che le carte dei pm (quarto piano) salgono ai gip (settimo piano) per ridiscendere subito dopo la decisione del giudice, senza dunque che in questa fase sia pensabile trovare chissà quali carte giacenti nella stanza del gip.

Gli atti non sono stati trasmessi alla Procura di Brescia, che sarebbe competente per ipotesi di reato ai danni di magistrati milanesi.


Lele Mora e il boss calabrese
di Davide Milosa - www.ilfattoquotidiano.it - 4 Novembre 2010

Rapporti, affari, serate e inchieste. Al centro di un intreccio pericoloso, il manager dei vip: da un lato le indagini sui festini ad Arcore, dall'altro il business con personaggi legati alla 'ndrangheta

Sul caso Ruby si profila l’ombra della ‘ndrangheta. Le relazioni pericolose con la criminalità organizzata calabrese ora rischiano di incrociare l’inchiesta sulle ragazze e sulle escort che hanno frequentato la villa di Berlusconi ad Arcore.

Al centro dell’intreccio c’è Lele Mora, indagato per favoreggiamento alla prostituzione assieme al consigliere regionale del Pdl Nicole Minetti e al direttore del Tg4 Emilio Fede, ma anche più volte citato in una serie d’informative sull’attività dei clan campani e calabresi nel nord Italia.

Per capire la figura di Mora, amico di Berlusconi da più di vent’anni, e ora sospettato di essere stato il regista del via vai di ragazze a pagamento che varcavano i cancelli di villa San Martino , bisogna però riavvolgere il nastro fino al 19 febbraio 2009.

A Milano, quel giorno, si inaugura la Borsa internazionale del turismo. Davanti agli stand delle varie regioni italiane si accalca la folla. Due persone, tra le tante, stanno parlando. Uno di loro è un politico della giunta comunale di Reggio Calabria, allora capitanata da Peppe Scopelliti. Discutono di eventi. Parlano di Mora e della sua scuderia.

Si pensa agli artisti che lui gestisce. In fondo, già in passato il Comune della città calabrese ha speso 120 mila euro per avere in passarella Valeria Marini e altri vip della squadra dell’ex parrucchiere di Bagnolo di Po (Rovigo).

Questa volta, però, qualcosa non torna. Perché l’interlocutore del politico si chiama Paolo Martino, ed è cugino del superboss della ‘ndrangheta Paolino De Stefano, ucciso nel 1985. Alle spalle, Martino ha precedenti per mafia e traffico di droga.

Sul tavolo può mettere rapporti con la massoneria e l’estrema destra. Non a caso, fu lui, assieme ai potenti clan reggini, a dare appoggio alla latitanza di Franco Freda, il terrorista nero processato per la strage di piazza Fontana.

Anche a Mora piace Benito Mussolini. In casa, Lele, tiene un busto del Duce e con Marcello Dell’Utri, come racconta lui stesso, si vede spesso per leggere i (falsi) diari dell’ex dittatore. Ma in quel febbraio la sua principale preoccupazione non è la politica. Sono i debiti.

Dalle inchieste su Vallettopoli, Mora è uscito con un’archiviazione, ma con le ossa rotte. Deve vendere la sua villa in Sardegna. La Lm Management segna il rosso fisso e il crac finanziario è dietro l’angolo.

Il fallimento verrà certificato dal tribunale di Milano l’estate scorsa. C’è un buco da quasi 20 milioni di euro. Eppure nonostante in debiti Mora non finisce sul lastrico. Tanto che oggi spiega nelle sue interviste di essere proprietario di 40 appartamenti dove ospita le ragazze della sua scuderia.

Dentro questa storia, pensano allora gli investigatori, qualcosa continua a non tornare. Per esempio: dopo il fallimento, Mora dove prende il denaro? E ancora perché un personaggio come Martino nel 2009 discute di eventi da realizzare in Calabria proprio con le starlette da lui gestite.

Due domande importanti visto che Martino, sostengono i detective, continua a essere un uomo di peso. A Milano ci è arrivato (anzi tornato), nel 2006 con un compito preciso: gestire gli affari della criminalità organizzata calabrese in Lombardia.

Non per niente il suo nome compare nell’ultima inchiesta di mafia al nord del 13 luglio, in cui i pm scoprono i rapporti strettissimi tra Martino e il clan dei Valle, a loro volta legati alla famiglia Lampada, definita dal Ros carabinieri di Reggio Calabria il braccio finanziario della cosca Condello. In Lombardia l’affare si chiama casinò e videopoker.

Martino di gioco se ne intende. Fino al 2007 è stato socio della Lucky World, una srl attualmente inattiva, con sede in viale Piave e specializzata in compravendita di videopoker. Al suo fianco sedeva Francesco Lampada, arrestato il primo luglio per mafia, mentre amministratore della Lucky era un collaboratore di Mora, Stefano Trabucco (non indagato), un ragazzo molto noto nelle discoteche milanesi.

E soprattutto socio della Stella srl, assieme a altre persone poi convolte nell’indagine sulla cocaina all’ Hollywood: la discoteca in Lele ha officiato le serate seduto su un trono dorato.

Adesso però l’affare non sono più i locali notturni. I soldi si fanno con l’azzardo. Il gioco è una torta prelibata. Che piace, e molto, anche a Mora. Lo dicono le carte di un’altra indagine, quella sulla nuova P2, nelle quali emergono i rapporti di Lele con un imprenditore campano, Pasquale Di Martino, considerato vicino al clan camorristico Sarno.

In quelle relazioni si legge: “Pasquale Di Martino ha instaurato rapporti con Lele Mora e Flavio Carboni e, dal tenore di molte conversazioni intercettate, tali contatti sembrano essere finalizzati a realizzare, tramite tali personaggi, importanti iniziative imprenditoriali verosimilmente nel settore dei casinò”.

Così nel coktail esplosivo, fatto di belle ragazze, feste, e movida fanno capolino anche gli interessi degli amici calabresi dei collaboratori di Mora. E a Arcore qualcuno si preoccupa.

Tanto che Berlusconi, riferendosi al caso Ruby, dice durante il direttivo nazionale del Pdl: “Nessuno può oggi con certezza escludere che alcune cose che accadono siano frutto della vendetta della malavita”. Sorvolando però sul fatto che Mora e le sue ragazze arrivavano ad Arcore perchè da lui invitate.


La vendetta della mafia ultima bugia del Cavaliere
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 5 Novembre 2010

La vita disordinata rende vulnerabile il capo del governo. Lo spinge in uno stato di minorità. Lo rivela debole, ricattabile, facilmente prigioniero. Nelle parole di Ruby e Nadia un uomo inaffidabile

Dunque, sostiene Berlusconi, può essere addirittura la mafia a manovrare le ragazze, minorenni e no, prostitute o no, che vanno svelando con documentati ricordi le "serate del presidente". Dice il premier: "Visti i colpi che stiamo infierendo alla mafia, nessuno oggi può con certezza escludere che alcune cose che accadono siano frutto della vendetta della malavita".

Il mentitore è sempre solitario e superficiale. È la ragione per cui la menzogna, per se stessa abuso di potere se chi mente è un leader politico chiamato a dar conto in pubblico delle sue condotte, non ha mai una gittata troppo grande né un'ampiezza veramente razionale. È un logos con la vista corta. Ne fa le spese anche un bugiardo compulsivo come Berlusconi.

È in un angolo. Ci si è cacciato da solo. Vuole uscirne in fretta e con danni lievi. Evocare un'aggressione mafiosa, come ritorsione e vendetta per le iniziative del governo, gli appare una buona idea per liberarsi di una pressione che può piegarlo.

Il vittimismo - chi meglio del Cavaliere può saperlo? - è sempre una medicina efficace nella terra dei piagnoni. In questo caso, l'idea è pessima.

Lasciar credere che ci siano i mafiosi dietro le Ruby, le Nadie è autodistruttivo. L'accostamento conferma quel che, con la visione delle foto di Antonello Zappadu, i racconti di Noemi Letizia, le registrazioni di Patrizia D'Addario, già appare chiaro: la vita disordinata, che conduce, rende vulnerabile il capo del governo. Lo spinge in uno stato di minorità.

Lo rivela debole, ricattabile, facilmente prigioniero di uno stato di costrizione che si può creare con un comodo sforzo mandandogli in casa una ragazzina per poi manipolarlo.

È quello che la mafia, secondo Berlusconi, può fare o sta addirittura facendo nei suoi confronti. Prendiamolo sul serio. Forse il presidente del Consiglio (il mentitore è sempre superficiale) non si rende conto di convalidare le ragioni di chi - nell'opinione pubblica, in parlamento - gli chiede conto da un anno delle sue deliranti routine private che, indebolendone la funzione e minacciandone le responsabilità, diventano affare pubblico.

Più di un anno fa, quando diventa noto che il fotoreporter Antonello Zappadu ha in archivio 5.000 foto "rubate" nella villa di Porto Rotondo, i tre membri di destra del Copasir (Fabrizio Cicchitto, Gaetano Quagliariello, Giuseppe Esposito) chiedono l'avvio di un'indagine per verificare "quale protezione hanno dato e danno al presidente del Consiglio le strutture dello Stato a ciò preposte, in primo luogo uno dei servizi segreti?".

Al fondo di quella iniziativa c'è una ragionevolissima convinzione: i luoghi abitati dal presidente del consiglio sono di interesse nazionale; custodiscono gli affari di Stato; meritano l'attenzione che si riserva alla sicurezza della Repubblica.

È stravagante che dinanzi alle cronache quotidiane - minorenni nelle ville del Cavaliere assistono a cerimonie erotiche; prostitute che vanno e vengono e sono in possesso del numero personale del capo del governo e non esitano a ingaggiarlo quando si trovano nei guai - quegli stessi uomini si oppongano a che il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (Copasir) chieda a Berlusconi come l'intelligence lo protegga.

O meglio quali sono gli incarichi che egli ha voluto affidare ai cinquanta uomini che, in assoluta autonomia dalle gerarchie, lo tutelano.

Chiarimenti che sembrano del tutto necessari soprattutto se si ricorda che ad alcuni di quegli uomini dello Stato è stato assegnato, a quanto pare, il compito di coordinare gli accessi delle ragazze in villa o al palazzo; di controllarne i comportamenti e le relazioni; di levarle dai guai quando vi si cacciano; di espellerle dalla vita del Cavaliere quando mostrano una pericolosa aggressività.

Sono spiegazioni del tutto urgenti ora che lo stesso premier ipotizza che ci possa essere la mafia dietro le rivelazioni di Ruby e Nadia.

Il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti è soltanto uno dei luoghi dove Berlusconi potrebbe (dovrebbe) far luce e dar conto di una irresponsabilità politica che lo spinge a confessare esplicitamente di non essere in grado di escludere che la sua condotta abbia messo a rischio la sicurezza del nostro Paese. È una questione che già è stata posta in parlamento da trentacinque senatori del Partito democratico.

Con un'interpellanza interrogano Berlusconi sulla "potenziale ricattabilità del Primo Ministro italiano e dei rischi a cui potrebbero essere state esposte tutte quelle informazioni, anche segretissime, contenute nei dossier che Berlusconi è tenuto ad esaminare e che riguardano la difesa del nostro Paese e gli impegni cui siamo tenuti per l'appartenenza alla Nato".

"La questione - spiega Luigi Zanda a Palazzo Madama - riguarda anche la sicurezza economica dell'Italia. Ad esempio, la delicatezza e la vulnerabilità della nostra posizione (ricordata anche dall'Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia), per i rifornimenti energetici e i nostri rapporti con mercati delicati come quelli della Russia e della Libia. Non è difficile comprendere come a un uomo di governo che tratta in prima persona affari di questa natura e di tale consistenza economica e geopolitica, venga richiesto di non ricevere a casa sua decine di donne sconosciute con tanto di registratori e di macchine fotografiche".

C'è una contraddizione che oggi Berlusconi è chiamato a risolvere. Perché egli non può, da un lato, temere di essere ricattato dalla mafia per la sua disordinata vita privata e, dall'altro, rivendicare con orgoglio quel disordine come quando dice: "Sono orgoglioso del mio stile di vita. Se ogni tanto sento il bisogno di una serata distensiva come terapia mentale per pulire il cervello da tutte le preoccupazioni, nessuno alla mia età mi farà cambiare stile di vita del quale vado orgoglioso".

Delle due, l'una. O Berlusconi si protegge dalle sue debolezze cambiando vita anche "alla sua età" in nome della responsabilità pubblica che liberamente ha voluto assumere. O le sue ossessioni compulsive glielo impediscono e forse deve ripensare al suo ruolo pubblico. E' un fatto certo che non può fare l'uno e l'altro.

A meno che consumi un altro abuso di potere. A meno che non ci abbia raccontato un'altra menzogna e quella storia della mafia che lo minaccia con le parole di Ruby e Nadia sia la favola di un uomo in fuga da se stesso, disertore dagli impegni e oneri, uomo di Stato palesemente inaffidabile. Per quel che dice. Per quel che fa.


In fondo al pozzo
di Massimo Giannini - La Repubblica - 5 Novembre 2010

Uu uomo esausto, che annaspa in fondo al pozzo. Sommerso dagli scandali sessuali, che lo inseguono dovunque, e dai guai processuali, che lo tormentano comunque. Sfibrato dalla sindrome dell'inazione che uccide il suo governo, e dalla guerra di fazione che dilania la sua maggioranza.

A dispetto del solito marketing politico, Silvio Berlusconi appare così alla Direzione del suo partito, che cerca di salutare l'improbabile rinascita del leader, mentre in realtà celebra l'inevitabile autunno del patriarca.

Quella di ieri, per il presidente del Consiglio, non è stata una fragorosa "chiamata alle armi", secondo il collaudato rito berlusconiano degli anni roventi. È stato l'esatto contrario: un sommesso "inno alla debolezza". Nella forma psicologica: il premier è apparso provato, a tratti dimesso, e alla fine addirittura commosso. Nella sostanza politica: il premier ha poco da dire, e nulla da dare.

La risposta alle domande inquietanti del "Ruby-gate" è fiacca e del tutto implausibile (stavolta non solo il trito "complotto delle toghe rosse e dei comunisti", ma niente meno che "una vendetta della malavita").

Soprattutto, la replica alle questioni dirimenti poste da Gianfranco Fini è modesta e tutta difensiva (al punto da riproporgli persino l'ennesimo, a questo punto davvero impensabile "nuovo patto di legislatura" insieme alla Lega).

Dal fondo del pozzo, dunque, il Cavaliere chiede aiuto, e tende le mani. È il punto più basso, mai toccato finora, della curva del potere berlusconiano. Che implicitamente si offre all'ordalia dell'ex alleato e co-fondatore del Pdl, chiamato domenica prossima a Perugia ad una scelta difficile e forse esiziale.

Mai come oggi, il futuro della legislatura è in mano ai futuristi di Fini. "Non romperà, perché ha paura delle elezioni", sostiene con la consueta sicumera padana Umberto Bossi. Ha totalmente ragione sulla paura delle elezioni, che nessuno vuole a parte il Carroccio.

Ma ha parzialmente torto sull'impossibilità della "rottura" finiana. Di fronte a un esecutivo che non risolve i problemi del Paese, e a un presidente del Consiglio che affoga nei suoi problemi personali, il leader di Fli ha di fronte a sé tre opzioni: tendergli una mano, lasciare che anneghi da solo, o assestargli l'affondo definitivo.

La prima opzione è ormai esclusa, perché tardiva e impercorribile: poteva forse funzionare qualche settimana fa, se il Cavaliere avesse avuto la voglia di fermare i sicari dei suoi giornali lanciati nel massacro mediatico del presidente della Camera, e la forza di rilanciare un Progetto-Paese ben più concreto e ambizioso dei risibili "cinque punti" del programma, utili solo a lui medesimo (per la parte relativa alla giustizia) e al Senatur (per il capitolo legato al federalismo). Oggi non ha più senso, perché non c'è più tempo.

La terza ipotesi è la più ardita, perché "costosa" e imprevedibile: Fini dovrebbe dichiarare chiusi i giochi, e chiedere formalmente la crisi di governo, assumendosi tutta intera la responsabilità della rottura.

Il co-fondatore dovrebbe certificare in esplicito la morte del berlusconismo, sciogliere per sempre il centrodestra nato con la rivoluzione del Predellino, candidarsi come leader alternativo del centrodestra che verrà, e nel frattempo negoziare con tutti gli oppositori del Cavaliere (dal Pd all'Udc, dall'Idv a Sinistra e Libertà).

Per formare una nuova maggioranza, nell'ipotesi di prosecuzione della legislatura. O per sottoscrivere un nuovo patto elettorale, nell'ipotesi di scioglimento anticipato delle Camere.

Detto altrimenti: Fini dovrebbe profilarsi come "candidato killer" di un governo di destra berlusconiana, non potendo ancora spendersi come "candidato premier" di un governo di destra europea.

Il "costo" politico dell'operazione sarebbe per lui molto alto: l'ex delfino di Almirante, ed ex leader di An, si troverebbe a sostenere un governo tecnico, o un cartello elettorale, non solo e non tanto insieme ai Bersani e i Franceschini, ma insieme ai Vendola e ai Bonelli.

Tanto, per un leader che è nato e cresciuto nella destra missina, e che comunque sempre nella destra (sia pure costituzionale, repubblicana e post-berlusconiana) vuole e deve cercare i suoi consensi.

Ma anche l'esito dell'operazione, al momento, sembra incerto: questa maggioranza alternativa, dal vago sapore di Cln, non pare ancora matura, proprio per oggettive difficoltà di osmosi identitaria.

E dunque, nel momento in cui aprisse la crisi, Fini non sembra avere la certezza assoluta che una "alleanza repubblicana" possa presentarsi compatta al Quirinale, offrendo una solida alternativa al Capo dello Stato chiamato a decidere se sciogliere le Camere o dare il via libera ad un altro governo.

Resta la seconda ipotesi, al momento più pratica e quindi probabile. Fini lascerà che sia il Cavaliere ad annegarsi da solo, nel pozzo delle sue contraddizioni. A Perugia il leader futurista tirerà ancora la corda, senza ancora romperla del tutto. Dirà che così non si può più andare avanti, e che la vera destra italiana sarà quella finiana, e mai più quella berlusconiana.

Lascerà intendere che sono maturi i tempi di un "appoggio esterno". Ma questa sarà solo la tappa intermedia, verso una "rupture" finale che il presidente della Camera vorrà a tutti i costi decretata sul campo dal presidente del Consiglio.

Quando e su che cosa, si vedrà. C'è l'imbarazzo della scelta. La giustizia è il terreno più doloroso, almeno per il Cavaliere. Ma ora si aggiunge anche la manovra economica, che è il terreno più scivoloso per l'esecutivo. Le prime avvisaglie si vedono già.

La Pdl alla Camera va sotto su un emendamento dell'Udc sui fondi Fas. Giulio Tremonti propone addirittura una pausa di riflessione per inserire nella Finanziaria un corpo di emendamenti che ricalchino e anticipino il decreto sullo sviluppo. Sono segnali inequivoci: prove di cedimento della maggioranza nel primo caso, tentativi di accomodamento del governo nel secondo.

È la strategia del logoramento. Quasi un "classico" della storia repubblicana di questo Paese. Ma anche questa può avere i suoi costi. Sicuramente li ha per l'Italia, che rischia di continuare ad essere sgovernata ancora per mesi, tra l'accidia rancorosa del premier e l'inedia disastrosa del Consiglio dei Ministri.

Ma può averli anche per lo stesso Fini, che rischia di logorarsi insieme al Cavaliere, e di non approfittare neanche questa volta del suo momento di estrema, quasi irreversibile disperazione. Per questo, nel "sommario di decomposizione" della destra berlusconiana, il leader futurista non può non interrogarsi su un "titolo" di Primo Levi, antico ma attualissimo: se non ora, quando?


L'Italia vista da Orwell
di Massimo Ragnedda - www.area89.it - 4 Novembre 2010

Mi chiedo cosa avrebbe pensato Orwell dell’italietta berlusconiana. Chissà se, come ha già fatto Licio Gelli, avrebbe intentato una causa per diritti d’autore. Come ampiamente noto, infatti, il grande (si fa per dire) maestro (anche questo si fa per dire) Licio (a proposito mi sono sempre chiesto che razza di nome sia Licio?) ha chiesto a Berlusconi, tra il serio e il faceto, di pagargli i diritti d’autore perché il programma di governo è del tutto simile a quello della P2. In questo caso l’appartenenza di Silvio alla P2 ne giustifica, in parte, il copia e incolla.

Ma Orwell che c’entra? Ah ecco, siamo partiti da Orwell. Spazziamo via ogni equivoco: non credo affatto che Berlusconi abbia letto il libro. Anzi non credo affatto che Berlusconi legga.

E allora cosa c’entra? Calma, ora provo a spiegarmi. Allora, non mi dilungo in recensioni o analisi filologiche, ma su delle analogie tra la distopia orwelliana e l’italietta berlusconiana.

A dire il vero ci sono molte differenze: in Oceania è proibito il sesso, ad Arcore e Villa Certosa sono obbligatori; in Oceania il grande fratello non si vede mai, nell’italietta il capo è sempre in TV; in Oceania la TV ti guarda, nel bel Paese i sudditi passano la giornata a guardare la TV. Ok, ok sono differenze non da poco (soprattutto sul sesso…), ma ora non voglio soffermarmi sulle differenze: la prossima volta lo farò. Giuro.

Ora mi concentro sulle analogie.

Iniziamo dalle più evidenti: Winston Smith il protagonista del romanzo, sembra Minzolin o Fede o Mimum o Vespa o fate voi (la lista di giornalisti subalterni al premier è lunga quanto l’agonia di questo Paese).

Smith era membro inferiore del partito (anche loro), con il compito di aggiornare libri (questo non lo fanno perché i libri non muovono le masse), articoli di giornale (in questo il duo Feltri-Belpietro è imbattibile) e riscrivere la storia con l’obiettivo di rendere riscontrabili e veritiere le previsioni fatte dal partito, contribuendo così a far credere nella sua infallibilità.

Insomma, controllare l’informazione per distorcere la realtà: in questo l’italietta berlusconiana batte l’Oceania orwelliana 2 a 1.

Nell’Oceania orwelliana le città erano tappezzate di slogan quali: «la guerra è pace», «la libertà è schiavitù», «l’ignoranza è forza».

Nell’italietta berlusconiana si fa di meglio. Giusto un paio di esempi per capirci: con una Napoli piena di rifiuti il Capo dice: il problema è risolto; con un paese in guerra in Afganistan dice: siamo in missione di pace; facendo pressione sulla questura per far rilasciare una minorenne accusata di furto e invischiata in un giro di prostituzione d’alto bordo dice: sono come la Caritas, aiuto i più deboli; con un Paese che va o rotoli lui dice: siamo fuori dalla crisi; con un tasso di disoccupazione alle stelle e avendo governato 8 anni negli ultimi 10 dice: è colpa della sinistra che governa da 10 anni.

I tanti Winston Smith dell’italietta berlusconiana hanno un gran da fare ed è a loro che, il cavaliere, deve il suo successo. Ma è in particolare sulla neolingua che voglio soffermarmi.

L’aspetto forse più interessante della distopia orwelliana sta nella relazione tra linguaggio e capacità critica, ma non vado oltre. Anzi torniamo alla domanda iniziale, ovvero cosa avrebbe pensato Orwell dell’italietta berlusconiana.

Nel regno di Arcore la realtà ha ampiamente superato la fantasia: anche qui la realtà berlusconiana batte la finzione orwelliana 2 a 1. Voglio soffermarmi - solo un attimo (ri)giuro - sulla crudeltà del linguaggio, sulla semplificazione imposta dal capo che tutto riduce e niente spiega, sul continuo capovolgimento del linguaggio e del senso che tronca ogni possibilità di discussione.

La neolingua orwelliana, e ripresa da Berlusconi, semplifica ogni concetto dandogli solo un significato e, per lo più, diverso dall’originale (pensate al concetto di riforma o processo breve). Così quel concetto, imposto a reti unificate, impedisce l’elaborazione di idee non conformi alla visione del partito e funzionali alla formazione del Bipensiero.

Ora qui sta la genialità immaginativa di Orwell e la (pseudo)genialità attuativa di Berlusconi: l’aver previsto una forma di dittatura che esige dai sudditi che la loro mente si adatti alla nuova “realtà” imposta dal partito e funzionale ad esso.

La prevenzione dell’opposizione, dunque, passa attraverso la limitazione della capacità di giudizio critico ottenuta tramite la neolingua in cui non è possibile più esprimere il proprio pensiero.

Insomma, non avendo parole per riflettere e per esprimere la propria sofferenza, i cittadini non hanno la capacità di identificare la loro sofferenza in maniera razionale. La frustrazione e la rabbia vengono così strumentalizzate e indirizzate verso un nemico immaginario, ma maledettamente reale, durante le sedute dell’“odio collettivo”.

Nel romanzo di Orwell era Emmanuel Goldstein il Nemico del Popolo; nell’italietta berlusconiana è l’immigrato, l’extracomunitario (tranne l’eccezione di Ruby), tant’è che chi ne ammazza qualcuno sorride alle telecamere e viene applaudito dagli amici. Ma avevo promesso di non dilungarmi troppo e qui mi fermo.

Anzi (ri)torno alla domanda iniziale, ovvero cosa avrebbe pensato Orwell dell’italietta berlusconiana. Già, chissà cosa avrebbe pensato nel vedere che la sua neolingua, solo ipotizzata nel suo romanzo, sta cominciando a fare la sua comparsa nell’italietta berlusconiana.



Al diavolo Berlusconi. Ma a favore di chi?
di Federico Zamboni - www.ilribelle.com - 4 Novembre 2010

Mai come adesso sembra che il presidente del Consiglio sia alle corde. Eppure, meglio non farsi illusioni su quelli che potrebbero prenderne il posto

Forse ci siamo: Berlusconi ha talmente tirato la corda, nei suoi comportamenti pubblici e privati e nell’arroganza con cui li difende e addirittura li rivendica, da aver rafforzato come non mai il fronte di quelli che non vedono l’ora che si levi dai piedi.

Benché lo schieramento dei suoi oppositori rimanga un guazzabuglio di posizioni eterogenee, e manchi totalmente di un leader in grado di unificarlo intorno a un programma politico nitido e compiuto, per la prima volta dal 1994 si ha la sensazione che la sua parabola abbia ormai imboccato la fase discendente.

Dalla Confindustria alla Chiesa, l’insofferenza nei suoi confronti è più esplicita; e solo gli ingenui possono pensare che entità di questa rilevanza si muovano sull’onda delle notizie di giornata, anziché sulla base di attente valutazioni strategiche sul medio e sul lungo periodo.

Ma il punto è proprio questo. Ammesso che ci si trovi davvero a un punto di svolta, e che Berlusconi sia destinato a perdere definitivamente il suo ruolo di padre-padrone del centrodestra, che tipo di futuro ci aspetta?

Si perverrà realmente a una palingenesi, di natura etica prima ancora che politica, come amano far credere i suoi molti avversari, a cominciare dal Pd?

Si potrebbe dire, prudenzialmente, che è legittimo dubitarne. Ma in realtà non sarebbe semplice prudenza. Sarebbe ipocrisia.

La risposta che si deve dare è invece molto più netta, e totalmente negativa. La risposta è no. Quand’anche Berlusconi venisse finalmente rimosso dal quadro politico, la situazione complessiva sarebbe tutt’altro che bonificata.

A differenza di quello che si sostiene di solito, dalle parti di Bersani & Co. (ma sarebbe più giusto, e più chiaro, dire “dalle parti di D’Alema & Co.”), Berlusconi non è affatto la causa del degrado generale dell’Italia, ma ne è piuttosto una conseguenza.

Che abbia contribuito all’ulteriore peggioramento degli standard di pensiero e di condotta è innegabile, ma nelle linee fondamentali non c’è una vera e sostanziale discontinuità rispetto al passato.

Il caso Berlusconi, in altre parole, si iscrive perfettamente nell’allucinazione collettiva, e nella sapiente mistificazione, del passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica. Quel passaggio non c’è mai stato.

E se anche si volesse insistere a proclamarlo, citando a comprova la dissoluzione dei grandi partiti del passato a cominciare dalla Dc e dal Psi, bisognerebbe riconoscere che si è trattato assai più di un riassetto che non di una rifondazione.

Le finalità rimangono le stesse, al di là dei cambiamenti suggeriti o imposti dai tempi e dalle mutate circostanze nazionali e, soprattutto, internazionali: asservire la nazione agli interessi dei diversi potentati economici e politici – che possono cambiare quanto si vuole ma che in ogni caso operano nell’ambito del medesimo sistema e che ne condividono la logica e gli obiettivi – occultando dietro una parvenza democratica una struttura sociale di tipo oligarchico.

La cosiddetta “anomalia Berlusconi”, quindi, deve essere letta non già come il virus che ha colpito un organismo sano, ma come una fase successiva di una malattia che è cominciata assai prima del suo avvento.

È vero: negli ultimi quindici anni quella malattia si è manifestata in maniera ancora più evidente, e ributtante, di quanto non fosse avvenuto in precedenza, ma l’estremizzarsi dei sintomi non va confuso con una nuova e differente patologia.

L’infezione ha origini lontane: e chi crede che la cura consista nel dare più potere a Confindustria e a Bankitalia, in nome di una ritrovata efficienza di taglio imprenditoriale, si sbaglia di grosso.

Così come al tempo di Tangentopoli, chiudere l’era Berlusconi servirà solo a fingere di aver avviato chissà quale miglioramento. Al contrario, si sarà soltanto voltata pagina. All’interno dello stesso libro.