Ma la situazione potrebbe anche evolvere in maniera drammatica...e per fortuna che c'è sempre il cosiddetto premier a rallegrare l'ambiente con le sue solite dichiarazioni deliranti del tipo,"Il presidente del Consiglio ha raggiunto un risultato epocale al vertice Nato di venerdì e sabato", oppure "Parlare è facile, fare i fatti è difficile. E noi stiamo facendo i fatti". Più che altro siete fatti...
Questa poi è stupenda "Avremo una maggioranza, una buona maggioranza sia al Senato sia alla Camera". Quando si dice avere il senso della realtà...
Ma la battuta migliore è venuta invece da Bonaiuti che, nell'ennesimo disperato tentativo di smentire una precedente dichiarazione di Berlusconi, ha detto "non ha chiesto le dimissioni di Fini ma che faccia un passo indietro". Bella, anche se di difficile comprensione....
P.S. Buon divertimento con un'altra puntata de "Il troiaio italiota"...
Un tramonto pericoloso
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli - 24 Novembre 2010
Il decennio segnato in Italia dall'egemonia politica di Berlusconi sta per concludersi con il tramonto del grottesco cesarismo berlusconiano. Eventuali successi di qualche iniziativa dello stesso Berlusconi volta a ricostituire la sua maggioranza di governo non potranno impedire il suo tramonto, di cui, al massimo, saranno rallentati i tempi.
Una forza politica antisistemica come Alternativa deve ovviamente interrogarsi sulle prospettive che così si aprono. Questa riflessione è iniziata con gli interventi di Giulietto Chiesa e Fabrizio Tringali, che questo nostro intervento intende proseguire ed approfondire.Se vogliamo capire in quale situazione ci farà trovare la fine dell'egemonia politica di Berlusconi, dobbiamo capire il suo inizio, cioè le ragioni che l'hanno prodotta. Un uomo politico riesce a segnare la storia di un paese quando le sue aspirazioni personali entrano in sintonia con le tendenze di strati sociali significativi, per cui capire le ragioni che hanno fatto dell'ultimo decennio un decennio berlusconiano, equivale a capire le dinamiche sociali allora operanti in Italia.
La sostanza del “fenomeno Berlusconi” ci sembra la seguente: Berlusconi è riuscito a scalare tutti i gradini del potere economico e politico perché ha saputo trarre decisivi vantaggi competitivi da una sistematica e sfacciata violazione di ogni regola esistente.
Negli anni Sessanta era soltanto un palazzinaro di modeste risorse, a cui spesso difettavano i denari da investire in nuove costruzioni. Benché partito da questa modesta base economica, negli anni Settanta è diventato il più grande imprenditore edile milanese, perché non ha rispettato quasi nessuna regola dell'attività edilizia legale, e perché i suoi cantieri hanno veicolato capitali della mafia siciliana.
Berlusconi non era un mafioso, ed all'inizio è stato piuttosto ricattato dalla mafia palermitana dei Bontade, ma questo rende ancora più significativo il fatto che egli si sia affermato violando le regole, perché lo ha fatto sfruttando una situazione esistente che gli consentiva di farlo.
Negli anni Ottanta è diventato il più grande imprenditore televisivo italiano perché ha violato le regole allora esistenti sull'emittenza televisiva, sancite addirittura da una sentenza della Corte Costituzionale del 1976.
Anche in questo caso, lo ha fatto perché poteva farlo, in quanto era protetto dal governo sfacciatamente corrotto di Bettino Craxi, al quale in cambio offriva il sostegno delle sue televisioni.
Negli anni Novanta, prima ancora di presentarsi alle elezioni con un suo partito, ha manovrato sempre più enormi risorse finanziarie (senza le quali non avrebbe potuto primeggiare anche in politica) grazie a molteplici illeciti finanziari e a massicce evasioni fiscali, sfruttando la nota tolleranza dello Stato italiano verso gli evasori.
L'intera vicenda mostra che Berlusconi non è l'uomo che ha inventato i mali italiani, ma è quello che ha saputo trarne il massimo vantaggio, e che, di conseguenza, ha contribuito ad aggravarli e diffonderli.
Berlusconi, in altre parole, è emerso ai vertici del potere italiano sull'onda di un preesistente e contestuale sviluppo, nel nostro paese, di un capitalismo mafioso associato ad uno Stato debole.
Parliamo di capitalismo mafioso non nel senso stretto della parola, cioè di un capitalismo i cui capitali provengano dai guadagni delle attività della criminalità organizzata, ma in un senso più lato e significativo.
Può considerarsi mafioso un capitalismo predatorio di risorse pubbliche, di cui si appropri al di fuori di ogni regola attraverso gli esiti dei suoi conflitti interni e che può divorare i beni pubblici in quanto non siano operanti regole che li proteggano dai commerci illeciti, dalle speculazioni finanziarie, e dal consumo del territorio.
Al capitalismo mafioso così inteso è coessenziale un controllo sulla politica, per controllare la concessione degli appalti e l'erogazione della spesa pubblica. Ciò presuppone, a sua volta, uno Stato debole, dove per “debole” si intende qui politicamente incapace di dettare e far rispettare regole generali che disciplinino il perseguimento degli interessi economici particolari.
L'egemonia politica di Berlusconi è quindi stata espressione dell'ascesa al potere di una serie di potentati affaristici interni al capitalismo mafioso nell'accezione suddetta.
Alla luce di questo contesto dell'egemonia politica di Berlusconi, appare chiaro il motivo profondo del suo attuale tramonto. Nessun regime istituzionale, infatti, può reggersi di fronte alla violazione totale e sistematica delle sue stesse regole.
Ogni regime conosce fenomeni più o meno estesi di illegalismo rispetto ai suoi propri principi di legalità. Se però l'arbitrio dei suoi poteri diventa l'unico principio regolatore dei rapporti economici e sociali, l'organizzazione sociale e politica si sfalda alla fine, necessariamente, in una arena di feudi affaristico-criminali in lotta tra loro.
La ragioni del tramonto del grottesco cesarismo berlusconiano stanno quindi niente affatto dall'urto esercitato si di esso da qualche forza di opposizione, ma nella disgregazione interna delle medesime forze sociali che lo avevano a suo tempo sostenuto.
Da questa analisi, se è corretta, si possono trarre precise indicazioni per il futuro, che sono le seguenti.
In primo luogo, la fine dell'egemonia politica di Berlusconi non rappresenterà alcun indebolimento di quel capitalismo mafioso su cui la sua egemonia è stata costruita. Le forze sociali costitutive del berlusconismo rimarranno forti ed operanti come prima.
In secondo luogo, le tensioni interne al capitalismo mafioso che sono all'origine del tramonto di Berlusconi non verranno attenuate, ma si riproporranno addirittura accentuate, sia per il crescente morso della crisi economica, sia per l'uscita di scena di Berlusconi.
Fino ad ora, infatti, tali tensioni sono state attenuate proprio perché si sono trasferite sul personaggio Berlusconi, creando l'illusione prima che potessero essere regolate in maniera soddisfacente dal suo potere arbitrale, poi, che, rimosso Berlusconi, sparirebbero diversi problemi creati soltanto dai suoi interessi personali.
Naturalmente non sarà così.
Dopo Berlusconi continueranno come prima, ed anzi più di prima gli scontri fra cordate affaristico-mafiose prive delle risorse con cui soddisfare la famelicità di tutte, e tra gruppi sociali sempre più estesi investiti dal malessere sociale.
Assisteremo ad uno sgranarsi di episodi di guerra civile strisciante, non tra partiti o ideologie, ma tra gruppi sociali e territoriali.
In terzo luogo, i governi che succederanno a quelli di Berlusconi potranno essere molto più decenti e presentabili sul piano interno e internazionale.
Il loro modo di operare all'interno dei palazzi del potere sarà certamente meno scorretto, sguaiato e indecente di quello dei ministri dell'epoca berlusconiana. Tuttavia non saranno assolutamente in grado, per ragioni che qui sotto molto succintamente esponiamo, di contrastare la virulenza e la proliferazione del capitalismo mafioso che sta divorando l'Italia, e quindi di arrestare i processi di decadenza civile e sociale dl paese.
L'errore più grave che si possa commettere in questa situazione è infatti quello di considerare ragionevole puntare anche su forze interne all'attuale ceto politico per scalzare definitivamente Berlusconi.
Si tratta di un'illusione ottica creata da una forte e naturale pressione emotiva: cosa può esserci di peggio di un Berlusconi che capovolge la situazione e riconquista governo e maggioranza? Cosa ci può essere di più orrendo di una maggioranza parlamentare che elegga Berlusconi presidente della Repubblica, e quindi “custode e garante” della Costituzione?
Cosa ci può essere di più pericoloso di una dittatura berlusconiana sulla vita politica del paese? Questi esiti appaiono così ripugnanti ad ogni persona sensata da far pensare che valga la pena, pur di evitarli, di promuovere alla guida del governo persino capi politici come Bersani, Rutelli e Casini.
Chiunque, insomma, andrebbe bene purché Berlusconi uscisse dalla scena.
Se ci si affida alla razionalità si può capire quanto questa impostazione sia sbagliata. Per comprenderlo facciamo un passo indietro nella storia di questo paese.
Berlusconi ha conquistato la guida del governo una prima volta con le elezioni del marzo 1994, sull'onda di un sostegno popolare assai vasto, che aveva però il suo asse portante nelle forze e nelle capacità di influenza del capitalismo mafioso.
Ciò nonostante il suo governo è durato soltanto dieci mesi, e nel 1995 l'evoluzione della vita politica italiana sembrava averlo messo definitivamente da parte.
Il suo ritorno alla guida del governo nel 2001, con maggiore stabilità e più penetranti poteri, è avvenuto perché negli anni Novanta il capitalismo mafioso si è rafforzato e maggiormente diramato nel paese.
In quegli anni, però, non ha governato la destra, ma il centro-sinistra, con maggioranze estese fino a Rifondazione comunista. La logica implicazione di ciò è che i governi di centro-sinistra non hanno contrastato, ma anzi favorito, lo sviluppo di forze sociali a cui Berlusconi apparteneva e da cui traeva sostegno.
Sei anni di governi con maggioranze di centro-sinistra, dunque, hanno concimato il terreno per i successivi trionfi berlusconiani.
Né è difficile trovare fatti che costituiscano prove decisive di ciò che abbiamo visto implicato dalla stessa logica dell'intera vicenda. Secondo il senso comune di sinistra, uno dei migliori governi dell'epoca è stato quello diretto da Carlo Azeglio Ciampi.
Non c'è dubbio che Ciampi sia una persona sobria ed individualmente per bene (lontanissimo dall'indecenza dei “berluscones”), e tuttavia è stata la sua legge bancaria, emanata con decreto legislativo del 1° settembre 1993, ad aprire alle banche le praterie delle acquisizioni azionarie di società industriali e delle speculazioni finanziarie, fornendo così un alimento decisivo allo sviluppo del capitalismo mafioso.
Ed è stato il decreto-legge di Ciampi del 24 settembre 1993 a sancire che per le privatizzazioni che stavano per essere avviate non dovessero valere le regole della contabilità generale dello Stato, aprendo la strada alle svendite sottocosto e corruttive dei beni pubblici.
Grazie a questa legge l'IRI di Romano Prodi ha potuto consegnare a prezzi irrisori, alla fine del 1993, una delle maggiori banche pubbliche italiane, il Credito Italiano, a una cordata di finanzieri italiani e stranieri (che l'hanno pagata in parte con danaro prelevato dalla banca stessa), dando così una spinta decisiva ad un finanziarizzazione dell'economia funzionale allo sviluppo del capitalismo mafioso.
Il primo governo Prodi, uscito dalle elezioni del 1996, che nel senso comune della sinistra passa come uno dei migliori governi dell'ultimo ventennio, ha dato il massimo impulso alla finanziarizzazione dell'economia e al capitalismo mafioso con la sciagurata privatizzazione della STET nel 1997, senza la quale non avrebbe potuto verificarsi, anni dopo, il saccheggio della Telecom da parte di Tronchetti Provera, e l'uso della Telecom stessa per finalità illecite.
Naturalmente ognuno di questi punti, e diversi altri ancora, andrebbero spiegati per esteso e nel dettaglio, cosa che qui non è sensato fare.
Quel che vogliamo dire è che l'epoca dei governi del centro-sinistra degli anni Novanta non ha favorito la rinascita di Berlusconi soltanto in quelli che sono considerati dall'opinione pubblica di sinistra i suoi “errori” (il non aver affrontato la questione del conflitto d'interessi di Berlusconi ed averlo legittimato come padre costituente nella Bicamerale di D'Alema), ma l'ha favorita anche e soprattutto con tante scelte di promozione del capitalismo mafioso che quell'opinione pubblica di centrosinistra ha voluto dimenticare.
Berlusconi, sconfitto alle elezioni del 2006, è tornato al governo più prepotente di prima dopo altri due anni di governo Prodi.
Insomma, ogni volta che ha governato il centro-sinistra, non ha fatto che preparare la strada al ritorno di una destra ancora più incarognita.
Tutto ciò dipende dal fatto che il ceto politico di centro-sinistra non ha, per ragioni che tra poco diciamo, mezzi culturali, le competenze, e le intenzioni concrete, di modificare le linee di tendenza dello sviluppo socio-economico.
Ma se queste tendenze non vengono modificate, l'Italia non può che precipitare sempre più nel baratro. In maniera del tutto indipendente dal fatto che chi la dirige sia una personalità indecente come Berlusconi, o una personalità più o meno presentabile o addirittura soggettivamente in buona fede.
Questa sostanziale contiguità del ceto politico di centrosinistra col berlusconismo è chiaramente percepibile da una stridente contraddizione fra le parole e i fatti: da una parte Berlusconi viene denunciato a sinistra come un pericolo per la democrazia e le istituzioni, dall’altra non si traggono le conseguenze di queste denunce, che dovrebbero necessariamente essere l’isolamento politico di Berlusconi, il rifiuto di qualsiasi forma di dialogo e di collaborazione, il boicottaggio e l’ostruzionismo rispetto a ogni sua azione e proposta.
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Torniamo alla situazione del nostro paese. L'Italia sta precipitando in un baratro spaventoso perché disfatta da un triplice collasso: della sua coesione sociale (crescenti ineguaglianze di reddito, devastante precarizzazione del lavoro e della vita, assenza di tutele sociali), del suo territorio (inquinamento dell'aria dei suoli e delle acque, dissesto idrogeologico, invasione dei rifiuti), e della sua vita civile (corruzione generalizzata e capillare, giustizia lenta e costosa, mancanza di senso morale nelle relazioni sociali, inversione tra meriti e demeriti).
Ad evitare l'ulteriore caduta del paese in questo spaventoso precipizio, non servono a nulla (ma proprio a nulla, se si vuol pensare secondo razionalità, e quindi secondo moralità) uomini di governo più seri e misurati dell'indecente classe politica berlusconiana e dei barbarici leghisti.
Servono soltanto personalità di governo capaci di invertire le tendenze al baratro di cui si è detto, ricostituendo ed ampliando i diritti sociali degli individui, bloccando ogni nuova opera sul territorio e curandone invece una capillare manutenzione, facendo subito diminuire la produzione di rifiuti e di agenti inquinanti, accettando e potenziando il controllo giudiziario sulla criminalità, colpendo duramente ogni infiltrazione della malavita nella politica.
Se queste cose non vengono fatte, e fatte rapidamente, ogni altra forma di differenza tra i politici sul piano dell'estetica e della decenza personali, e persino delle intenzioni soggettive, è del tutto irrilevante.
Il capitano di una nave, su cui si sono aperte falle che certamente la faranno affondare, se non si impegna a chiudere quella falle, non è in niente più utile di un capitano precedente, anche se non è rozzo e prepotente come quello, e se tiene più pulita la nave.
Il ceto politico di sinistra non è in grado di tamponare le falle che portano alla rovina l'Italia. Esso infatti è stato selezionato, al pari dell'intero ceto politico italiano, entro istituzioni pubbliche e private costitutive dell'autoreferenzialità di una politica incapace di incidere sulle dinamiche economiche, e quindi inevitabilmente orientata ad un rapporto affaristico con l'economia.
La differenza rispetto ad una parte almeno del ceto politico del primo centro-sinistra dei primi anni Sessanta è enorme. Si pensi a ministri democristiani come Sullo, ad economisti cattolici come Saraceno, a socialisti come Lombardi e Giolitti, e a diversi altri esponenti della politica e della cultura politica: essi miravano ad incidere sull'economia e avevano le capacità per farlo.
Nessun politico di oggi ha simili capacità, e quando parlano dell'evoluzione sociale, non vanno al di là di parole e declamazioni a cui non è connesso alcun fatto concreto.
Non sono in grado di risolvere alcun problema della collettività, e per loro la politica si esaurisce nei rapporti di potere tra le loro formazioni.
Poiché ciò dipende da ragioni strutturali che qui non esaminiamo, questo ceto politico deve essere combattuto nel suo insieme.
Lo capì a suo tempo, prima di altri, un geniale vignettista, Massimo Bucchi, quando, ai tempi di Prodi, fece una vignetta la cui didascalia diceva: «È la destra che traccia il solco, è la sinistra che lo difende».
L'esito più probabile di futuri governi non berlusconiani sarà, quindi, un caos sempre più accentuato e la deriva del paese, magari più lenta, verso la condizione di una specie di Somalia più sviluppata e meno insanguinata.
Sicuramente non è questo l'esito gradito ai poteri che si sono ora orientati a scalzare Berlusconi ed a favorirne la successione. Per tali poteri, però, l'unica opzione confacente ai propri interessi, e praticabile di fronte all’attuale crisi economica, è quella di salvare se stessi e abbandonare i ceti medi e bassi alla devastazione sociale.
Al di là delle loro intenzioni, quindi, essi produrranno tale esito.
Su un periodo più lungo, questa opzione non potrà essere gestita all'interno delle forme istituzionali, anche soltanto esteriori, che hanno contrassegnato l'Italia del secondo dopoguerra.
Lo sbocco finale di questa strada, se fosse percorsa per intero, sarebbe quindi uno stravolgimento autoritario che farebbe passare l'Italia da una specie di Somalia ad una specie di Cina, dove un potere forte verso i deboli e gerarchicamente coeso al suo interno, impone regole limitatrici degli scontri di potere ai vertici, e promotrici di uno sfruttamento feroce delle classi lavoratrici.
L'unica condizione perché questa via non sia percorsa fino in fondo, e magari neppure fino alla metà, o sperabilmente non sia neppure imboccata, è che questo ceto politico sia spazzato via nella sua interezza.
Ogni forma di contiguità anche verso i settori più di sinistra di esso, o verso un sindacalismo confederale come quello della CGIL, sarebbe politicamente esiziale per una forza antagonista, perché la dislocherebbe in circuiti ormai sterili e le farebbe contribuire alla confusione attualmente esistente nelle masse popolari.
Poiché non è pensabile che Alternativa, o qualcosa di simile ad essa, possa, a breve, non soltanto aspirare a gestire il paese, ma neanche essere la testa d'ariete del crollo di questo ceto politico (ormai questo ruolo se l'è conquistato sul campo, muovendosi in anticipo, il movimento di Grillo) l'unica azione realisticamente pensabile che consenta ad Alternativa di svolgere in un futuro non lontano il ruolo che non può svolgere nel presente, è quella di un'azione dal basso a fianco di determinate lotte sociali, cercando di dar loro più incisività e più consapevolezza.
Le lotte sociali a cui accompagnarsi, alle quali cercare di dare maturità politica, maturando assieme ad esse, non possono essere che quelle che specificamente sono di contrasto o di inciampo alle tendenze che stanno portando alla totale rovina il paese: le lotte, quindi, contro le opere che sfigurano e devastano il territorio, le lotte contro il rilascio delle immondizie nell'ambiente, le lotte contro l'inquinamento dei suoli, le lotte per la difesa dei diritti sociali, le lotte contro l’illegalismo del potere.
Occorre, infine, che sia chiaro che il passaggio dalle azioni di contrasto alle tendenze che ci stanno portando alla rovina totale, a una loro inversione in nuove linee di tendenza del paese, richiederà niente meno che un'economia ridefinita nella sua finalità e nella sua configurazione.
Si tratta di un compito gigantesco, che l'intero ceto politico attuale, in tutti i suoi settori, è incapace perfino di concepire, se non, qualche volta, a parole vuote, e che una formazione come Alternativa dovrebbe intanto cominciare ad esplorare teoricamente, per contribuire nell'immediato all'autocomprensione delle lotte sociali e per prepararsi in futuro a favorire soluzioni politiche che sottraggano l'Italia allo sfacelo.Aspettiamoci una nuova stagione di bombe. Intervista a Luigi De Magistris
di Giorgio Bongiovanni -Megachip - 23 Novembre 2010
La questione sollevata con coraggio e onestà dall'onorevole Luigi de Magistris, nell'intervista che segue e che invito a leggere, è di importanza cruciale nel delicato periodo storico e politico che il nostro Paese sta attraversando. In tutto simile a quello degli anni '92 e '93, protagonisti del violento passaggio tra la prima e la seconda Repubblica.
Condividiamo appieno la lettura dell'europarlamentare, unico tra i politici, per il momento, ad avere lanciato un allarme più volte sollevato dai magistrati in prima linea che indagano sulle stragi dei primi anni Novanta e sui successivi depistaggi istituzionali: il procuratore aggiunto a Palermo Antonio Ingroia, il collega Antonino Di Matteo, sostituto procuratore e presidente dell'Anm Palermo, il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari ed altri.
Convinti che il pericolo del ritorno ad una deriva stragista in questo momento sia più che concreto e che per questo sia necessaria una presa di coscienza collettiva che possa ostacolare l'azione eversiva dei poteri forti, ci rivolgiamo a quei politici che negli anni hanno dimostrato sensibilità nei confronti di queste scottanti tematiche.
Da Claudio Fava a Nichi Vendola, dall'avvocato Luigi Li Gotti a Giuseppe Lumia, entrambi componenti della Commissione parlamentare antimafia, fino ad arrivare allo stesso Antonio Di Pietro o a Beppe Grillo.
E' giunto il momento di sostenere quei magistrati che a proprio rischio e pericolo sono usciti allo scoperto per denunciare la grave situazione nella quale versa il nostro Paese?
E' giunto il momento di affrontare la paura e denunciare il possibile e concreto ritorno ad una nuova stagione di bombe?
Se non ora, quando?
Intervista di Monica Centofante - www.antimafiaduemila.com - 23 Novembre 2010
Nel corso di una recente intervista, così come riportato da alcune agenzie, Luigi de Magistris, europarlamentare dell'Idv, ha accennato a un Berlusconi ormai alla fine sel suo percorso politico e potenzialmente pericoloso. Non escludendo, in un prossimo futuro, anche a una possibile stagione di bombe e proiettili.
Dottor de Magistris, sono affermazioni molto forti, le può approfondire?
Io ho fatto un ragionamento molto più ampio anche se le agenzie hanno estrapolato esclusivamente questo passaggio. Il discorso è il seguente: negli ultimi vent'anni circa, quelli seguiti alle bombe di Capaci e Via D'Amelio, abbiamo assistitito a una progressiva penetrazione delle mafie all'interno delle istituzioni, oltre che dell'economia e della finanza.
Per istituzioni non mi riferisco soltanto alla politica - anche se il rapporto mafia-politica è quello più evidente – ma ad uffici istituzionali di prim'ordine, a servizi segreti e anche alle forze dell'ordine e alla stessa magistratura.
Questo ha provocato una progressiva istituzionalizzazione delle mafie che oggi - grazie anche ai rapporti con i poteri occulti che molto spesso fanno da collante tra tutti questi ambienti (basti vedere l'inchiesta sulla cosiddetta P3) – hanno raggiunto un livello tale da essere in grado di far approvare leggi ad personam e ad personas. Per questo, ad esempio, assistiamo all'approvazione di provvedimenti amministrativi a loro favorevoli o ad anomali aggiustamenti dei processi.
Tutto questo ha fatto sì che negli ultimi anni, coloro che dall'interno delle istituzioni hanno combattuto la criminalità organizzata, le mafie, le corruzioni, il sistema criminale, la borghesia mafiosa, sono stati sempre ostacolati con mezzi diversi o in parte diversi da quelli che venivano utilizzati un tempo.
Mi riferisco alla delegittimazione a mezzo stampa, alla violenza morale, ai proiettili istituzionali, al cosiddetto uso illegittimo del diritto. Si è in sostanza abusato delle norme del diritto e delle istituzioni per fermare chi, dall'interno di quelle stesse istituzioni, cercava di fare luce su questi fatti così inquietanti. Questo è quello che è accaduto sinora, nell'attuale condizione politica.
E allora io mi chiedo: cosa accadrebbe se dovesse avanzare nel Paese - come io mi auguro che accada e come di fatto sta accadendo – un'alternativa forte a Berlusconi e al berlusconismo? Non parlo certo del riposizionamento dei poteri forti al centro, ma di un'operazione di grande cambiamento che alcuni politici stanno portando avanti, la società civile, i movimenti, le associazioni e che potrebbe consolidare l'alternativa morale, culturale, politica, economica, sociale allo stesso berlusconismo.
A quel punto saremo chiamati ad alzare ancora di più la vigilanza democratica, perché la storia del nostro Paese insegna che i poteri occulti, mafiosi e piduisti, che stanno nei gangli vitali delle istituzioni tanto da formare un governo occulto della cosa pubblica, sono più che capaci di utilizzare gli strumenti della violenza fisica.
Contro servitori dello stato, giornalisti scomodi, pensatori liberi e con il chiaro intento di cambiare gli equilibri politici e istituzionali dell'Italia in un momento in cui è in corso una fase di destrutturazione del quadro politico e mancano forti personaggi di riferimento. Questa è l'analisi. Qualcuno mi ha accusato di procurato allarme, ma io sono convinto che un politico, un ex magistrato, una persona che guarda in profondità abbia il dovere di fare una valutazione di questo tipo e sfido chiunque a contraddirmi.
In un articolo pubblicato su l'Unità lei ha ricordato, e lo ha ribadito anche adesso, come dopo la stagione stragista del '92-'93 le mafie si sono ancor più istituzionalizzate penetrando maggiormente nell'economia e nelle articolazioni dello stato. Un processo che è avvenuto anche attraverso l'azione dei poteri occulti a cui abbiamo accennato prima.
Le farei dunque due domande: lei che di questi temi si è largamente occupato a che punto pensa sia arrivata questa penetrazione istituzionale? E in una situazione di tensione come quella attuale, che per certi versi ricorda quel delicato passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, quali rischi reali corrono i magistrati che stanno svolgendo delicate indagini su quelle stragi, sui rapporti tra mafia e istituzioni, e che sono palesemente attaccati?
Le penetrazioni sono arrivate, secondo me, a livelli altissimi. Mi è facile citare, visto che siamo proprio nell'attualità, il caso Dell'Utri. In un Paese normale un Presidente del Consiglio – che si sarebbe dovuto già dimettere prima per i tanti motivi che sappiamo – di fronte a una sentenza di questo tipo avrebbe dovuto lasciare l'incarico.
Una sentenza che non è definitiva, ma chiude la fase di merito, e che dice che Marcello Dell'Utri ha mediato tra Cosa Nostra e Berlusconi grazie ai suoi rapporti con Mangano, Cinà e altri! Questo significa che la mafia è arrivata alla Presidenza del Consiglio. Senza contare le varie cricche. Pensiamo all'inchiesta sulla P3 della quale, e me ne meraviglio, si è persa traccia.
Non capisco perché i giornali non abbiano più approfondito questa vicenda, che è inquietante soprattutto perché vede coinvolti un numero enorme di magistrati che rivestono ruoli apicali. Ricordiamoci che la criminalità organizzata non è solo quella di tipo mafioso, è anche quella delle cricche che poi è legata alla stessa mafia.
Nella P3, per esempio, c'è Flavio Carboni, personaggio legato a Cosa Nostra. Proseguendo nel ragionamento non possiamo non citare le indagini in Campania su Cosentino, quelle in Sicilia su Lombardo o quelle calabresi. Si tratta di penetrazioni che avvengono con il sorriso, con la cravatta, con la carta di credito, con i professionisti e con la borghesia mafiosa.
Penetrazioni invisibili e per questo difficili da quantificare, ma sicuramente enormi. E a fare da collante sono i poteri deviati, le massonerie deviate e i poteri occulti. Da questo punto di vista siamo già al cancro della Repubblica, che però non è una metastasi perché secondo me all'interno delle istituzioni e della società civile c'è ancora l'antidoto della resistenza a tutto questo.
E quindi, mi aggancio alla seconda domanda, c'è anche il rischio. I magistrati in prima linea, oggi, rischiano soprattutto l'effetto intimidatorio di tipo autoritario, per certi aspetti post-fascista, provocato da alcuni provvedimenti.
La vicenda devastante che ha riguardato me, e in modo ancora più netto i magistrati di Salerno, è un esempio. Oggi certi giudici rischiano ad apporre o a non apporre determinate firme e sono esposti a procedimenti disciplinari assolutamente strumentali, a denunce, esposti, a ispezioni continue. Io ne ho subite molte, per quattro lunghi anni, da parte di Arcibaldo Miller, che si è poi scoperto essere uno dei frequentatori della cricca della P3.
Ma se oggi il rischio è questo non escludo che in futuro, e torniamo alla prima parte di questa intervista, i magistrati possano rischiare anche la pelle. Come è accaduto negli anni passati e come dimostrano anche le recenti intimidazioni ai magistrati calabresi e allo stesso Procuratore della Repubblica. Non possiamo quindi escludere, anzi possiamo ritenere possibile, questo cambio di strategia.
Il suo articolo si conclude con un appello alla magistratura e alle forze dell'ordine, a cui chiede di non avere paura: chi sa parli prima che sia troppo tardi. Questa paura si avverte, è evidente, quanto è importante secondo lei l'appoggio della società civile in questa fase?
La ringazio di avermi ricordato queste parole che reputo molto importanti. La mia è un'esortazione ai magistrati per bene a capire da un lato che la parte migliore del Paese è al loro fianco, e questa parte deve farsi sentire evitando ogni sorta di strumentalizzazione perché la magistratura deve sempre agire in autonomia e indipendenza. Dall'altra è un invito a non avere paura. Io sono stato per quindici anni in magistratura, ho molti amici magistrati e continuo a seguire con attenzione le vicende della Giustizia.
Per questo posso dire con certezza che questa paura la vedo e per questo voglio lanciare un appello: abbandonate la paura, perché il Paese ha bisogno di voi e chi sa deve parlare. Io sono stato accusato di avere raccontato troppe cose, ma credo che denunciare sia un diritto-dovere di ogni cittadino e in particolare di chi, dall'interno delle istituzioni, questi poteri li ha visti alla distanza di un palmo di mano.
Se chi ha visto questi intrecci, ha percepito questi legami, ha capito come opera la borghesia mafiosa decide di parlare allora faranno un balzo in avanti le indagini che vanno verso la ricerca della verità e della giustizia su fatti inquietanti che ancora condizionano la vita democratica del nostro Paese.
Due Maroni
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 24 Novembre 2010
Siamo entrati in possesso della lista completa delle cose da fare per combattere le mafie, letta lunedì da un’autorità indiscussa in materia, il ministro Bobo Maroni a Vieni via con me, purtroppo tagliata in diretta per motivi di tempo.
Le mafie si combattono sequestrando ai mafiosi il frutto dei loro traffici illeciti. Grandi risultati grazie alle nuove norme del pacchetto sicurezza (infatti nella Finanziaria dello scorso anno abbiamo previsto l’asta dei beni confiscati, così i prestanome dei boss se li possono ricomprare).
La ‘ndrangheta è presente al Nord da almeno tre decenni, non è una novità (la mafia invece da quattro decenni: me l’ha spiegato Silvio che nel ’74 si prese in casa un boss travestito da stalliere e si trovò benissimo, meglio che con la polizia e i carabinieri).
Le mafie si combattono rendendo le istituzioni locali impermeabili alla lusinga degli arricchimenti facili. A questo proposito è stato affermato che la ‘ndrangheta al Nord interloquisce con la Lega.
È un’affermazione ingiusta e offensiva per i tanti che come me da sempre contrastano ogni forma di illegalità (per contrastare meglio ogni forma di illegalità e testimoniare la vicinanza alle forze dell’ordine, nel 1996 malmenai alcuni poliziotti venuti a perquisire la sede della Lega e azzannai il polpaccio di uno di essi durante la caduta, guadagnandomi una condanna definitiva per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale; per questo ora faccio il ministro dell’Interno: per competenza gastronomica in fatto di polizia).
È soprattutto smentita quest’affermazione dalle recenti operazioni in Lombardia contro la ’ndrangheta, “Cerberus”, “Parco Sud”, “Crimine”, “Infinito” che hanno portato al coinvolgimento e perfino all’arresto di esponenti politici di altri partiti, ma non della Lega.
Mi chiedo allora perché indicare proprio e solo la Lega (forse perché nell’ultima operazione, la “Crimine”, hanno fotografato il consigliere regionale leghista Angelo Ciocca pappa e ciccia con il boss Pino Neri?).
Le mafie si combattono dando la caccia ai superlatitanti. In questi due anni magistratura e forze dell’ordine, a cui va il mio plauso e il mio ringraziamento, hanno agito senza sosta e con indubitabili successi. Setola, Strangio, Pelle, Raccuglia, Iovine… (avevano provato a catturare anche il sottosegretario Cosentino, ma noi della Lega, a titolo di plauso e ringraziamento, abbiamo votato contro, così Cosentino può continuare a latitare comodamente a Montecitorio).
Questi sono solo alcuni dei 28 superboss presi e messi al carcere duro. Ne mancano solo 2: Zagaria e Messina Denaro (noi diciamo sempre così. Nel 2010, dopo l’arresto in Puglia del boss Franco Li Bergolis, dichiarai: “Un altro pericoloso latitante è stato assicurato alla giustizia. Adesso mancano solo 3 all’appello dei 30 più pericolosi”.
Poi fu arrestato Gerlandino Messina e Berlusconi dichiarò: “Messina figurava tra i 30 più pericolosi latitanti, 28 dei quali risultano così assicurati alla giustizia”.
Poi fu catturato Antonio Iovine, per cui i latitanti in manette avrebbero dovuto salire a 29 su 30. Invece, non chiedetemi perché, siamo di nuovo scesi a 28, infatti ho appena detto che ne mancano 2, Zagaria e Messina Denaro. E mi sono scordato Vito Badalamenti, che sta in cima alla lista dei latitanti storici dal 2006, quando fu preso Provenzano.
E me ne sono pure dimenticati altri 8: Domenico Condello, Attilio Cubeddu, Marco Di Lauro, Giuseppe Giorgi, Giovanni Motisi, Sebastiano Pelle, Pasquale Scotti e Antonio Michele Varano.
Cioè ne mancano ancora 9, ma sapete, sono un po’ debole in matematica e poi io qui dico quel cazzo che mi pare, tanto voi non potete controllare e nessuno mi può controbattere).
Il cerchio si stringe anche intorno a Zagaria e Messina Denaro (per sicurezza, li abbiamo affidati a Dell’Utri).
Montezemolo in politica. Per fare che?
di Stefano Feltri - www.ilfattoquotidiano.it - 25 Novembre 2010
Ancora no, ma quasi: Luca Cordero di Montezemolo è praticamente sceso in campo ieri, al primo compleanno della sua associazione Italia Futura. Piazza di Spagna, in platea tutto il mondo montezemoliano, meno politici di un anno fa all’assemblea fondativa (all’epoca c’era Gianfranco Fini sul palco): “Oggi inizia una fase nuova per Italia futura e per il mio impegno personale. Una fase che chiederà di più a me e ai molti che credono in questa associazione”.
La moglie Ludovica sembra l’ultimo ostacolo all’impegno ufficiale in politica, come ha spiegato lo stesso Montezemolo in un’intervista a Diva e Donna. Sottinteso: gli altri problemi sono superati.
Il segnale del cambiamento è una pagina pubblicitaria del Corriere della Sera: un Montezemolo gigante annuncia il convegno di Italia Futura, con tanto di diretta Sky (sull’emittente ligure Primo Canale), in quella accanto due articoli per lanciare l’iniziativa. La grafica ricorda più quella di un manifesto elettorale che la promozione di un convegno quale, sulla carta, era l’appuntamento di ieri.
Oltre alle prove di comunicazione politica, c’è anche un programma pronto, che si è composto durante il primo anno di vita di Italia Futura e che ha l’ambizione di non essere né di destra né di sinistra e non ideologico.
Privo, cioè, di un’idea di fondo diversa da quella di “occuparsi del presente pensando al tempo prossimo e a dove vogliamo che sia l’Italia tra cinque, dieci anni”, recita il rapporto presentato ieri dal titolo “Giovani, al lavoro!”.
Le proposte, elaborate da economisti montezemoliani (Marco Simoni della London School of Economics, Irene Tinagli all’Università Carlos III di Madrid, Stefano Micelli della Ca’ Foscari di Venezia) sono tre: usare i soldi recuperati dall’evasione fiscale per ridurre la tassazione sul lavoro dipendente dei giovani; zero burocrazia per un imprenditore giovane che apre la sua prima azienda; aumento di un anno dell’età pensionabile per finanziare un grande piano di borse di studio universitarie legate ai risultati negli esami.
Proposte che farebbero alzare più di un sopracciglio sia al Pd che al Pdl, ma che “sono necessarie perché negli ultimi dieci anni non c’è un solo indicatore economico che sia migliorato in Italia negli ultimi dieci anni, e abbiamo cercato bene”, dice Marco Simoni.
Montezemolo, però, conserva ancora un margine di ambiguità sulla sua discesa in campo perché non è ancora chiaro che campo sia: “’Ho il dovere di fare qualcosa per il mio Paese, ma entrare in politica da soli non significa niente, ci vuole la squadra”.
E magari anche i partiti che lo sostengano, da ieri sembra chiaro che l’Udc non entrerà nella maggioranza per salvare il governo Berlusconi. Ma ancora non sono definiti gli schieramenti e quindi quale entità avrà quel terzo polo che sembra la naturale collocazione di Montezemolo.
Da ieri, però, i due ostacoli che separano Montezemolo dall’impegno politico a tempo pieno appaiono ridimensionati. Restare alla Ferrari, con il Mondiale di Formula 1 perso all’ultima corsa, non è più indispensabile e diventa complesso programmare la prossima stagione di Maranello quando la testa è a Roma.
Quanto ai treni Ntv, potenziale conflitto di interessi non da poco per un uomo politico, Montezemolo può sempre liquidare la propria quota o trovare una qualche formula di blind trust per congelarla (almeno sulla carta). Anche se la sovrapposizione tra la squadra di Italia Futura e quella dell’avventura ferroviaria è tale che scindere i due piani risulta di una qualche difficoltà.
Un esempio: Carlo Calenda, già a fianco di Montezemolo in Confindustria, è direttore dell’Interporto di Nola (base logistica campana di Ntv) e uno degli animatori dell’associazione, spesso autore di polemici editoriali. Ma questi sono dettagli e Montezemolo ha ancora qualche mese per affrontarli.
Emilio Fede picchiato in un ristorante dall’imprenditore dell’Amaro Giuliani
da www.ilfattoquotidiano.it - 25 Novembre 2010
L'aggressione è avvenuta martedì sera. Il direttore del Tg4, dimesso dal prontosoccorso con un aprognosi di 15 giorni, è stato colpito con tre pugni al volto. Alla base dello scontro dissidi personali.
Ieri sera, all’apertura del Tg4, c’era qualcosa di diverso sul volto di Emilio Fede. Un segno vicino all’occhio sinistro. Colpa di un’aggressione subita martedì sera al ristorante La Risacca di Milano. “Qualcuno la pagherà cara”, esordisce il giornalista prima di iniziare il telegiornale.Non solo: lui vuole e pretende una “valanga” di soldi di risarcimento. Staremo a vedere. Intanto, questa mattina il suo avvocato, Nadia Alecci, depositerà una querela in procura per “lesioni gravissime, minacce di morte e danni d’immagine”. Particolare confermato dallo stesso Fede questa mattina al Corriere della sera
Alla base dell’aggressione ci sarebbero motivi sentimentali. A colpire Fede è stato Gian Germano Giuliani, quello dell’Amara medicinale. Giuliani, 72 anni, in passato è stato sposato con Bedy Moratti, sorella del patron dell’Inter.
Dopodiché il matrimonio con Ilenia, 34 anni. Lei, secondo le malelingue, potrebbe essere stata la pietra dello scandalo. Ex commessa, con un matrimonio alle spalle, oggi Ilenia, raccontano i giornali, sarebbe vicina a un amico di Fede. Cosa che evidentemente non fa piacere a Giuliani.
Poco prima dell’aggressione, Fede si trovava al tavolo assieme all’ex marito di Simona Ventura, Stefano Bettarini e la showgirl Raffaella Zardo. Racconta il direttore del Tg4: “Ho visto entrare Giuliani, pensavo venisse a salutarmi, come avevano fatto altri e invece mi ha sferrato tre pugni in volto”. Da qui il ricovero in ospedale. Due ore di controli e una tac. Con prognosi di 15 giorni.
“Nessuno – racconta Fede – ha fatto nulla, né i commensali, né i titolari del ristorante”. Dopodiché attacca: “Sono pronto a portare tutti in tribunale, di sicuro qui non mi vedranno più”. Giuliani, stando al racconto dell’aggredito, lo ha minacciato di morte. Fede prova a darsi una spiegazione: “Forse un vecchio invito non onorato”.
I camerieri del locale, storico ritrovo di vip e politici milanesi, parlano di questioni personali tra i due. Subito dopo l’aggressione, Giuliani si è allontanato dal tavolo, rimanendo in una saletta assieme ai carabinieri subito intervenuti. La ricostruzione dei fatti toccherà a loro e ai legali dei due contendenti.
Io dico: Meglio la Carfagna di Guzzanti"
di Massimo Fini - www.ilfattoquotidiano.it - 24 Novembre 2010
Posso scrivere un articolo in laude di Mara Carfagna? Ha annunciato le proprie dimissioni da ministro, dal Pdl, dal Parlamento dopo il voto sulla Finanziaria. In un Paese dove non si dimette mai nessuno, a cominciare dal “lider maximo”, e dove c’è voluto del bello e del buono per schiodare persino Scajola dalla sua poltrona, non è cosa da poco.
Poi Carfagna ha fatto un po’ di marcia indietro. Possiamo immaginare le pesanti pressioni e le lusinghe del Pdl. Le auguriamo che sappia e possa resistere.
Comunque si dimetta o no alla fine, ha messo il dito su questioni serissime e fastidiosissime per il suo partito. Ha detto che in Campania “mi viene impedita la possibilità di battermi per la legalità”, ha parlato di “guerra per bande” per aggiudicarsi il termovalorizzatore di Salerno e i relativi appalti che stanno finendo nelle mani di Nicola Cosentino, indagato per collusione con i clan camorristi, ha fatto capire che il Pdl si sarebbe ridotto a un comitato d’affari.
Altro che “fatti locali”, “crisi di nervi”, “capricci” come sono stati subito battezzati dai giornali del Cavaliere e dai suoi scherani fra cui si è distinto per cinismo quel fascista travestito da fascista che è Ignazio La Russa col suo latino da avvocato fallito: “De minimis non curat praetor…”.
Ma peggio di La Russa si è portato Paolo Guzzanti nell’intervista concessa al nostro Pagani. Pieno di livore per uno scazzo che Carfagna ha avuto con sua figlia Sabina che in un comizio a Piazza Navona le aveva dato pubblicamente della puttana. Era normale che Carfagna replicasse, anche duramente.
Per Guzzanti le parole di Carfagna diventano invece “ignobili comunicati contro Sabina” (le parole della Guzzanti invece com’erano?). Guzzanti, padre, poi afferma di non voler fare il moralista ma trova il modo di ricordare che Carfagna ha fatto “lap dance” nelle discoteche e ha posato per fotografie osè. “C’è un certo stridore” dice “fra quelle istantanee e l’essere ministro”.
Ma se fare la “lap” o posare semisvestita non erano qualità per fare politica questo valeva anche prima, quando Carfagna fu eletta in Parlamento e poi fu nominata ministro, in epoche i cui Paolo Guzzanti era ben incistato nel Pdl e non proferì parola, non obiettò nulla.
In ogni caso oggi Carfagna è ministro e va giudicata come tale e non per i suoi precedenti di ragazza immagine o di valletta. E a detta anche delle opposizioni è stata un buon ministro, equilibrato.
Più avanti Guzzanti sorpassa la “questione Carfagna” e impartisce lezioni “urbi et orbi”: “Berlusconi ha disossato la dignità delle donne con lo stesso sistema con cui ha disarticolato la democrazia. I due processi sono complementari… Berlusconi è la quintessenza dell’albertosordismo nazionale. Il dramma è che la gente lo segue”.
E Guzzanti ci ha messo quindici anni per capirlo? E chi, se non Guzzanti, ha seguito Berlusconi in questi quindici anni scrivendo, sul “Giornale”, articoli di una lascivia laudatoria che non trovano uguali nemmeno durante il fascismo.
Del resto ai pezzi su commissione sembra avere una certa abitudine. Racconta lui stesso che un giorno gli telefonò il direttore di “Panorama”, Pietro Calabrese, chiedendogli un articolo elogiativo sulla povera Carfagna perseguitata a causa della sua bellezza. “Mi prestai ed eseguii il compitino”.
È giornalismo questo o è un mestiere più simile a quello di “Betulla”? Uno che in gioventù ha militato nel Psi, che in seguito è stato craxiano (il che non vuol dire essere stati socialisti, cosa che vale anche per Giuliano Ferrara), quindi berlusconian-cossighiano (un mostro bicefalo, animale quasi unico nella fauna politica), per poi lasciare il Cavaliere per motivi che hanno a che fare più che altro con la sua diletta figliolanza e scoprirsi alla fine liberale, non può dare lezioni di nessun tipo. Tantomeno di morale.
Carfagna mi sembra intellettualmente più onesta. Ha ammesso: “So benissimo che la mia carriera politica è stata calata dall’alto”. E bisogna aver capito poco dell’animo femminile per non ritenerla sincera anche quando dice: “Posai per quelle foto e ne sono contenta perché i miei nipotini potranno dire: mamma mia com’era carina nonna da giovane”.
Nella volgarità del Guzzanti invecchiato malissimo (da giovane, quando lavorava a “Repubblica”, è stato uno dei migliori inviati della sua generazione) questa frase diventa masturbatoria.
Non so se Mara Carfagna sia appartenuta alla “mignottocrazia” come l’ha bollata Guzzanti rimangiandosi poi tutto per timore di una querela e su diktat di quell’altro vecchio malvissuto che è Fabrizio Cicchitto. Ma a me, oggi, la vera “mignotta” mi pare proprio Paolo Guzzanti.