Futuro e libertà? Mah.....
Le istituzioni da difendere
di Piero Ostellino - Il Corriere della Sera - 10 Novembre 2010
Le orchestre di bordo suonano tutte, incessantemente, le stesse canzoni: «Escort», «Noemi», «Ruby». Fra i passeggeri, c'è chi balla senza sosta, assordato dalla musica; ma il numero di quelli che restano seduti, e non desiderano altro che il viaggio finisca, aumenta.
Il comandante gira fra i tavoli, corteggiando le signore; gli altri ufficiali canticchiano le parole delle canzoni, non curandosi della rotta.
La nave procede sempre più lenta. Inesorabilmente, si avvicina all'iceberg. Fra poco ci sarà l'urto e la nave affonderà.
Si fa qualche illusione chi, nel mondo della politica e dei media, pensa che il crepuscolo di Berlusconi, le divisioni nel Popolo della libertà, le ambizioni di Fini di dar vita a una nuova rappresentanza della borghesia produttiva, la prospettiva di alternanza di governo, si concreteranno, in un modo o nell'altro, secondo le diverse aspettative; si chiuderà, con la «fase di transizione», la crisi del sistema politico e tutto si aggiusterà.
O con un governo di transizione, o con nuove elezioni, o con la prosecuzione della legislatura fino al suo termine naturale. No.
La crisi del sistema politico è la sindrome di una crisi istituzionale analoga a quella che pose termine alla Quarta repubblica francese. Manca la causa scatenante (l'Algeria), manca l'uomo che vi mise rimedio (de Gaulle).
La Lega già dice che, di fronte alla nascita di un governo di transizione, scenderebbero in piazza milioni di cittadini. Non è uno slogan. È la previsione di un accadimento possibile. L'esplosione della «questione settentrionale», la protesta dell'Italia produttiva contro il parassitismo regionale e corporativo, il concretarsi della crescente inquietudine, prodromo della secessione, del Nord.
Nuove elezioni lascerebbero le cose come stanno, perché, da colmare, è la carenza di «una certa idea dell'Italia» di tutta la classe dirigente, non il vuoto di decisione politica e la pur legittima esigenza di alternativa di governo. La prosecuzione della legislatura altro non sarebbe, per le stesse ragioni, che il protrarsi dell'agonia.
Non si tratta (solo) di chiudere la parodia di quella guerra di liberazione che è il conflitto fra «usurpatori» berlusconiani e «resistenti» antiberlusconiani; e che della crisi della politica è l'effetto, non la causa.
Ma di affrontare - da destra e da sinistra - il problema delle riforme, ancorché ciascuno con i mezzi che gli sono propri, che producano la necessaria modernizzazione dello Stato e una maggiore autonomia della società civile.
Chiedere al mondo della politica, e a quello intellettuale, di farsene carico non è né moralismo, né fuga nell'utopia. La moralizzazione della sfera pubblica non è affare dei carabinieri - che già si occupano di quella privata - ma della politica.
L'utopia di cui si sente la necessità sono l'empirismo e il pragmatismo politici. Pensare al Paese, e ai suoi problemi, non è più (e solo) un imperativo morale. È diventata una condizione di sopravvivenza civile.
La sindrome di Salò e l'ultima legione del capo
di Luca Telese - www.ilfattoquotidiano.it - 9 Novembre 2010
Ecco una notizia. A Il Fatto, in questi giorni siamo seriamente preoccupati per Silvio Berlusconi. Povero Silvio: solo, abbandonato nel momento del bisogno, non più difeso dal plotone dei fedelissimi che un tempo assaltavano lieti i canali televisivi per propagandare il Verbo.
Gli stessi che nelle fiere della libertà si commuovevano fino alle lacrime quando i giovani fanciulli azzurri recitavano il credo Berlusconiano, che oggi tirano la gamba indietro, e che ti dicono, con vincolo di riservatezza: “Non si può morire per Ruby….”.
Solo un anno fa nei salotti televisivi i lottatori del Cavaliere facevano a gara per mostrare il petto ed ergere il proprio corpo a difesa del Capo. Oggi Libero si chiede se valga ancora la pena di difendere B., i ministri (e le ministre) non vanno in televisione (“Se si parla di politica”), il soldato Sandro Bondi viene abbandonato sotto il fuoco nemico, e ogni tanto – nella sorpresa generale – un disertore si strappa le mostrine e agita bandiera bianca consegnandosi al nemico. Orrore. A Salò il vero appello non è quello di chi c’è, ma quello di chi si defila.
Mesi fa Giuliano Ferrara, per descrivere la situazione del centrodestra cesellò una provocazione metastorica: “Siamo al 24 luglio?”. Cioè alla vigilia della Riunione del Gran consiglio del fascismo che detronizzò Mussolini. La settimana scorsa, il direttore de Il Foglio ha aperto un dibattito chiedendo ai suoi opinionisti se si stia verificando un nuovo 25 luglio. Si sbaglia.
Il governo del fare è già a Salò, con le ausiliarie che sparano raffiche e i “badoglisti” infami che corrono verso Brindisi. Il primo caso sorprendente è quello del comandante Massimo Teodori, colto dal dubbio sul campo di battaglia di Linea notte.
Teodori – politologo di professione, una lunghissima biografia radicale alle spalle, editorialista de Il Giornale – è stato arrestato dai carabinieri del suo (ex?) quotidiano, dopo essersi lasciato sfuggire queste compromettenti affermazioni: “Ormai Berlusconi non risponde a nessuna logica che non sia la sua…. Non c’è razionalità in lui, se non quella dell’autocrate!”.
Mentre infuria la battaglia pensavate che queste frasi potevano essere ignorate? Macché, il giorno dopo il quotidiano di Alessandro Sallusti lo ha subito passato per le armi, ratta-ta-ta-tà: “Il Teodori tirato fuori dai cassetti e riproposto in tv con la scusa di parlare di Obama, a patto che in realtà parli (male) di Berlusconi è lo stesso Teodori che fino a poco tempo fa telefonava un giorno sì e l’altro pure a Il Giornale, più che disposto a scrivere (bene) di Berlusconi purché lo si facesse scrivere, ovviamente non gratis?”. Già. Se avanzo seguitemi, se indietreggio sparatemi!
Nel codice della guerra l’onore, la fellonìa, e il sospetto dell’essersi venduto al nemico prevale su tutto. Ai tempi della guerra di Noemi Sandro Bondi ululò contro Ezio Mauro, e Stefania Prestigiacomo si conquistò l’imitazione toreando nell’arena di Santoro.
Ora le ministre disertano gli inviti di Ballarò, e così Il Fatto non può che tessere un commosso elogio di Claretta-Petacci-in Santanchè, che difende l’hombre orizzontal con le unghie e i denti. Curioso paradosso: quelle elette da lui si scansano, mentre lei che lo combatteva adesso si è acquartierata negli studi de La7 notte e dì con la baionetta fra i denti: la sera si scalda a In Onda sparando contro Sofia Ventura, in prime time compie azioni di guerriglia sulla corazzata di Annozero per colpire Luigi De Magistris, la mattina si sveglia a Omnibus lanciando granate contro Adolfo Urso.
Maledetti Traditori Futuristi, non mi avrete viva! L’altro combattente è Sallusti, che ha dimesso giacca e cravatta per indossare la divisa tattica: maglioni a girocollo e tuta mimetica. E quando incontra Oliviero Toscani, dà fuoco alle polveri: “Probabilmente lei è un fallito che soffre per il fatto che non si parla più di lui”, Rattattatà, sistemato.
E che dire del povero Bill Emmott, milite della perfida albione? Scrive un libro contro il Cav., e si permette di girare con un fiore rosso all’occhiello? “Ora mi rendo conto che ha dei gusti bizzarri, che è molto gaio, capisco perché si è innamorato di Vendola!”. Bang, bang!, onore all’eroico combattente Sallusti (quel fiore era il simbolo del Remembrance day dei martiri di guerra ma è solo un’aggravante).
A presidiare la linea gotica nello studio amico del cinegiornale Tg4 Luce c’è il bollettino di guerra di Daniele Capezzone: “Caro direttore, accusano Berlusconi, ma non sanno che i consensi per lui stanno crescendo…”.
Bravo, bene: Vincere, e vinceremo! Giorgio Stracquadanio viene dai movimenti, è stato radicale, e ha lavorato persino a Rifondazione, non può essere che un novello Nicola Bombacci, che fondò Il Pci, e se ne andò a morire a Salò gridando: “Viva il socialismo!!”.
Anche il mitico comandante “Stracqua”, brigata Predellino, non tentenna: “Questa guerra la vinceremo noi!”. Anche Maurizio Gaspari, e soprattutto Ignazio La Russa – onore a loro – non depongono le armi e calzano il basco effigiato con il teschio e il fiore in bocca come il mitico Junio Valerio Borghese, memento audere sempre! (ricordati di osare sempre). Sallusti dirige la Stefani come già l’intrepido Pavolini (e senza i sospetti tentennamenti di Vittorio Feltri!).
Beppe Pisanu trama come Dino Grandi, Giampaolo Pansa difende la ridotta su Libero, pugnando con egual vigore contro i partigiani della Garibaldi ed Eugenio Scalfari. Per tutti gli eroici combattenti che non tradiscono un solo grido: Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio!!
Ps. Ultimora. Al vaglio del magistrato della Militar Pol alleata – Henry Woodcock – è una intercettazione (di certo in codice) tra il gauleiter Sandro Bondi e il capo di stato maggiore B.: “Presidente! È successa una cosa incredibile. I tedeschi si sono alleati con gli americani e ci sparano addosso!”.
Orchi
di Franco Berardi “Bifo” - www.facebook.com - 5 Novembre 2010
La sera del 4 novembre ho seguito la trasmissione Annozero del bravissimo Santoro con disagio, fastidio, ripugnanza. Tutto mi è sembrato orribile, perché rimestare nella merda immerda chiunque.
Ma la palma di uomo più ripugnante dell’anno, che ho deciso di attribuire personalmente, tocca a Paolo Mieli.
Il direttore del Corriere della sera, untuosamente gareggiando con Emilio Fede e Lele Mora (ma forse battendoli di qualche lunghezza) si è rivolto al presidente del Consiglio per invitarlo a fare più attenzione alle sue frequentazioni.
Ma come, diceva Mieli, non si rende conto signor presidente del Consiglio, di frequentare persone indegne, corrotte, volgari, insomma puttane? Non infanghi, signor Presidente la Sua carica con quelle compagnie di bassa lega.
Vorrei, se mi è concesso, rimettere le cose al loro posto.
Nella storia dei festini a casa Berlusconi non c’è un problema di moralità o di rispetto delle istituzioni. C’è soltanto la solita storia dello sfruttamento dei corpi da parte di uno sfruttatore, con la solita mediazione di ruffiani, lenoni, prosseneti, o caporali.
Ci sono ragazze povere, proletarie e precarie alla ricerca di un ingaggio per una serata o per una mesata che accettano di essere assunte da caporali ruffiani che si chiamano Emilio Fede, Lele Mora, Angeletti o Bonanni o Sacconi, per potersi offrire sessualmente a un individuo che le paga somme più o meno consistenti, se accettano di accoppiarsi con lui e con i suoi sodali.
La morale non c’entra niente, la famiglia la sacralità e tutte queste stronzate non c’entrano niente. C’entra solo la miseria sociale che spinge milioni di persone a vendersi a chi detiene il potere e il danaro. Punto e basta.
C’entra la miseria intellettuale prodotta da trent’anni di veleno mediatico, che ha tolto ai corpi e alle menti giovani la capacità di ribellarsi, di prendere a calci i padroni che li sfruttano, o li violentano per pochi euro (molti euro talvolta, quando al puttaniere schiavista di turno vien voglia di essere generoso).
C’entra la miseria psichica di una generazione incapace di solidarietà, di auto comprensione, di organizzazione politica, di ribellione, di autonomia etica, politica e sociale.
Nell’agghiacciante spettacolo di Annozero questo emergeva con forza impressionante: il disprezzo che ogni giovane intervistato (gli amici di Karima o il suo fidanzato, per esempio) manifestavano nei confronti della loro coetanea e in conclusione il disprezzo di sé, che il cinismo produce.
Da trent’anni i ruffiani che procurano carne al dittatore si sono impadroniti dell’intero sistema di comunicazione. Fede e Mora si occupano di procurare carne sessuata per le voglie dell’orco di Palazzo Chigi, ma Paolo Mieli procura carne lavoratrice per le voglie dell’orco Marchionne. Non c’è differenza tra l’orrore dei festini e l’orrore di Pomigliano, sia ben chiaro. La storia è la stessa.
Una generazione distrutta psichicamente, intellettualmente, moralmente e sessualmente da una classe dirigente la cui bassezza ha ormai superato ogni possibile giudicabilità.
Della generazione precaria fanno parte allo stesso titolo milioni di lavoratori costretti ad ammazzarsi per un salario infame, e milioni di giovani donne e uomini costretti a vendere pezzi del loro corpo per i succhiamenti di vecchi bavosi, sfruttate poi gettate in pasto a una stampa pruriginosa e ipocrita che usa i prezzolati accoppiamenti come merce di scambio per operazioni politiche di guerra fra porci.
Negli ultimi giorni la guerra fra porci ha raggiunto forse un punto di svolta, chi può mai dirlo.
Finora abbiamo subito il dominio dei ladri, ora tocca prepararsi al dominio degli assassini. I salvatori della patria che si delineano all’orizzonte, i Fini e i D’Alema non sono meglio dell’orco obnubilato dal delirio pornografico-senile. Sono peggio.
Quando a Genova fu necessario torturare e uccidere, nel luglio 2001 Berlusconi incaricò della bisogna il suo Ministro degli interni, che si chiamava Fini. E il primo a violare l’articolo 11 della Costituzione non è stato Berlusconi, ma D’Alema che ha sulla coscienza i bombardamenti criminali sulla fabbrica Zastava di Belgrado e centinaia di militari italiani morti per gli effetti dell’uranio impoverito.
Un articolo di Alberto Asor Rosa uscito sul Manifesto del 4 novembre col titolo Uscire dall’era berlusconiana ( qui ) rischia di alimentare illusioni pericolose, tipo: si può ancora salvare la democrazia italiana se qualcuno caccia l’orco da Palazzo Chigi.
Attenzione, non è così. Non c’è più nulla che possa salvare questo paese il cui futuro è scritto nella devastazione che trent’anni di avvelenamento hanno prodotto.
Il regime di Mussolini aveva distrutto la coscienza dell’intero popolo e questo poté risvegliarsi soltanto quando la guerra distrusse il paese. Ma il fascismo di Berlusconi ha distrutto qualcosa di ancor più profondo: non solo la coscienza, ma il rispetto di sé, fondamento di ogni ribellione, di ogni solidarietà e di ogni autonomia.
Una piazza Loreto si sta preparando per il cavalier Berlusconi. Sarà una piazza mediatica, naturalmente, e come accadde nel 1945, a gridare contro il tiranno saranno soprattutto coloro che fino a ieri lo hanno sostenuto. Piazza Loreto fu un episodio di barbarie, culmine e frutto di un ventennio di barbarie. Ma non si esce dalla barbarie senza passare per la Resistenza.
A Roma il 16 ottobre abbiamo visto insorgere quella minoranza che non ha perduto la dignità e la consapevolezza, quella minoranza che ha resistito e che resiste. Non disarmiamola promettendogli la facile soluzione di un governo nel quale accanto ai Fini e ai D’Alema siederanno Marcegaglia e Montezemolo e Marchionne.
Quello non sarebbe il governo di liberazione, ma il governo dello schiavismo normalizzato, il governo degli orchi senza feste.
Fini scarica Berlusconi chiedendone le dimissioni e lo mette spalle al muro: o continua la legislatura ma con la spada di Damocle di un’An de-berlusconizzata, Futuro e Libertà (Fli), su ogni singolo provvedimento, almeno in teoria; oppure deve decidersi ad andare a elezioni anticipate, con un Pdl in piena crisi politica e in caduta libera nei sondaggi.
Un abile bluff. Con un corollario, seppur non decisivo, di valore positivo per ciò che eravamo abituati a considerare con il termine “destra”.
Che sia una manovra di potere, lo rivelano anzitutto le motivazioni reali della rottura di Fini e l’origine di Fli. Dietro il divorzio fra Gianfranco e Silvio non c’è una spaccatura ideologica profonda, ma solo la messa all’angolo dell’ex leader di An nella cabina di comando del partito unico di centrodestra.
Il giorno dopo la fondazione del Pdl sul famoso predellino, Fini liquidò l’ennesima trovata pubblicitaria del Cavaliere con la battuta «siamo alle comiche finali». Poi, come sempre aveva fatto fino ad allora, si è adeguato.
Ma il ruolo di azionista forte assunto dalla Lega nel governo, il passaggio di fedeltà dei colonnelli aennisti che sono diventati più berlusconiani di Berlusconi, il suo isolamento nel partito e la deriva psichiatrica del premier hanno portato Fini a staccarsi dal suo alleato-padrone. Solo dopo sono stati improvvisamente scoperti tutti i motivi di distanza quasi antropologica fra lui e Berlusconi.
Dall’oggi al domani i finiani hanno riscoperto il valore della legalità, il rispetto delle istituzioni, le esigenze del Mezzogiorno, la socialità come bussola in economia e anche l’arrogante volgarità di Silvio il megalomane.
Eppure siamo di fronte ad una schermaglia, per quanto ben congegnata per suscitare clamore e rifarsi una verginità politica. Perché, al dunque, come hanno votato i “futuristi” sull’immunità giudiziaria del primo ministro? Favorevolmente, anche se, per salvare un minimo la faccia, con la clausola della non-reiterabilità.
E ora, perché non far dimettere seduta stante i quattro componenti di Fli nella compagine di governo, invece di annunciarla soltanto?
E che senso ha agitare la bandiera delle dimissioni quando Fini sa per primo che Berlusconi, a cui riesce inconcepibile ammettere una sconfitta, non le darebbe e non le darà mai?
È evidente che se non è proprio un gioco delle parti preventivamente concordato, trattasi comunque del solito teatro dei pupi. Con Fini a recitare il ruolo di rinsavito ribelle che punta una pistola scarica.
Tuttavia, noi che pure ci siamo lasciati alle spalle le inservibili categorie destra-sinistra buone per il secolo scorso, una conseguenza di segno positivo sentiamo di registrarla per il buon nome di ciò che un tempo era chiamata “destra”.
La rivendicazione della diversità etica e umana, ancora prima che politica, di Fini e dei suoi rispetto al mondo berlusconiano di affaristi, arrivisti, lacchè e mignotte rappresenta una piccola luce nel buio di questa Repubblica. Dall’altroieri esiste una destra che si dichiara anti-berlusconiana.
Questo fatto, preso in sé e per sé, dal nostro punto di vista anti-sistema non dà garanzie. Il Fini-pensiero non è altro che la destra liberale europea asservita al pensiero unico della finanza padrona, dell’individualismo a scopo di lucro (lavora, consuma, crepa) e della difesa dell’ordine costituito. I “valori” rimangono questi. Però adesso purgati e liberati dal conflitto d’interessi del Cavaliere e dal suo cesarismo da avanspettacolo.
È già qualcosa, affinchè i poveri corpi di Prezzolini e Montanelli si riposino dopo essersi girati e rigirati nella tomba per anni. Ma non è il film giusto che vorremmo vedere per un’Italia destinata a passare dalla padella berlusconiana alla brace Fini-Casini-Bersani-Montezemolo.
Fine di un'epoca?
di Giuliano Santoro - www.facebook.com - 9 Novembre 2010
E’ finita veramente l’epoca di Silvio Berlusconi? Parto da una sgrammaticatura, cioè da una licenza autobiografica. Quando il serial leader salì al potere avevo diciott’anni. Il presidente cinese non era ancora l’uomo più potente del mondo, l’America latina era ancora governata dalle destre e le Torri gemelle erano ancora al loro posto.
Qualche anno prima, dopo che il telegiornale della sera aveva dato l’annuncio dell’avviso di garanzia a Bettino Craxi, i miei genitori avevano stappato una bottiglia di spumante tenuta in fresco per le grandi occasioni.
La piazzale Loreto tutta mediatica di Mani Pulite, le monetine all’uscita del Rafael su un uomo già morto politicamente [«Vuoi pure queste, Bettino vuoi pure queste…»], l’assedio al parlamento dei giovani fascisti e le tele-piazze di Mediaset a favore dei magistrati avrebbero dovuto insospettirci.
Ma due anni dopo, tutti pensammo che l’anomalia del Cavaliere alleato al nord con la Lega e al sud con i non-ancora-post fascisti non poteva durare.
Mentre ero in una montagna sperduta, in campeggio coi miei amici del liceo nell’ultima estate dell’adolescenza, discesi un sentiero per raggiungere una cabina telefonica. Telefonai a casa e venni a sapere che Roberto Baggio aveva sbagliato il rigore decisivo a Usa ’94 contro il Brasile e che Umberto Bossi aveva scaricato il Berlusca, colpevole di voler tagliare le pensioni e sostenere il famigerato «colpo di spugna» per i «ladri» di Tangentopoli.
Allora risalii il sentiero di corsa a informare i miei compagni di accampamento: avevamo una scusa ulteriore per festeggiare la nostra spensieratezza. Bevemmo vino rosso alla luce del fuoco del bivacco prendendoci gioco di Arrigo Sacchi e di Silvio Berlusconi. Ci immaginammo le nostre vite da studenti universitari nella nuova epoca.
Chiunque a diciott’anni pensa di essere al centro di eventi storici irripetibili. Quella volta spiegai ai miei amici che ci trovavamo al centro della storia. Il quadro era semplice: arrivavamo freschi freschi e allegramente spettinati dopo la fine della prima repubblica e in men che non si dica ci trovavamo al riparo dalla calata di Berluskane.
I partiti erano al collasso e quella strana forma di militanza, all’incrocio tra i movimenti degli anni precedenti, le controculture e l’auto-organizzazione sociale e persino economica, avrebbe fatto grandi cose.
Mi sbagliavo, come molte altre volte è accaduto. Dopo cinque anni di governi di centrosinistra l’uomo di Arcore tornò a palazzo Chigi e le strade di Genova diventarono il teatro di una feroce resa dei conti verso una generazione intera.
La vittoria del centrodestra nel 2001 servì a consolidare un’egemonia che fino a quel momento avevamo percepito come strisciante. Nel luglio del 2002, la legge sull’immigrazione che ancora oggi porta il nome dei due eterni nemici-amici Bossi-Fini sancì una volta per tutte che le regole della produzione valevano molto di più di qualsiasi diritto umano.
Ci trovavamo oltre qualsiasi simulazione liberale o liberista. Non si affidava alla fantomatica «mano invisibile» del mercato il compito di fare incontrare le due curve della domanda e dell’offerta di forza-lavoro.
Semplicemente, si stabiliva che chiunque volesse godere del diritto a esistere come persona in Italia dovesse accettare le condizioni di lavoro che gli venivano proposte unilateralmente. Ci saremmo accorti che tutto ciò non riguardava solo i migranti.
«Non accade solo in Italia» ci dicevamo, ascoltando le tesi di chi descriveva la fine dell’egemonia della grande fabbrica, disegnava le sofisticate forme di controllo e costruiva mappe nel labirinto dei lavori disegnato dal pacchetto Treu.
La puzza di muffa dell’iper-sfruttamento si accompagnava a cose nuove, come nel resto dell’Occidente che ballava sulla bolla telematica senza accorgersi di essere sull’orlo della crisi. Ma solo in Italia accadeva che la figura totalizzante di Berlusconi dilagasse. Ogni reazione per essere davvero efficace deve sapersi muovere nel campo della rivoluzione.
La regoletta marxiana del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte e le analisi di Antonio Gramsci sulla «rivoluzione passiva» hanno trovato conferma nell’epoca berlusconiana, che si è mossa con disinvoltura sui terreni aperti dalle insorgenze del Novecento: la fine del lavoro salariato, la liberazione sessuale, la fine del monopolio dei mass media.
Nei giorni scorsi Bifo ha scritto, in una delle sue note acute che leggi tutte d’un fiato, che «i salvatori della patria che si delineano all’orizzonte, i Fini e i D’Alema non sono meglio dell’orco obnubilato dal delirio pornografico-senile. Sono peggio».
Bifo dice: D’Alema è quello dei bombardamenti in Serbia e Fini quello della macelleria messicana del luglio 2001. Soprattutto, osserva che «non si esce dalla barbarie senza passare per la Resistenza». La storia di Tangentopoli dovrebbe insegnarci che le rivoluzioni «dall’alto» sono foriere di disastri peggio di quelle che hanno combattuto.
E dovrebbero farci preoccupare di quanto avverrà nei prossimi mesi. Come è stato detto nella grande assemblea «Uniti contro la crisi» che si è tenuta alla Sapienza all’indomani del grande corteo della Fiom del 16 ottobre scorso, non basta far fuori il tiranno per risolvere i problemi.
Il dibattito di scuola sull’efficacia del tirannicidio serve a inquadrare la situazione attuale. Dobbiamo chiederci anche se l’inutilità del tirannicidio, ovviamente mediatico e simbolico, conosca qualche eccezione.
Ma ci siamo accorti negli anni di come la capacità di Berlusconi fosse quella di utilizzare le stesse modalità di successo dei tormentoni di «Striscia la notizia» [il programma più visto della televisione italiana, negli anni zero], i codici linguistici dei cinepanettoni di De Sica e Boldi [i film più visti nelle sale italiane, negli anni zero] e l’ammiccante sciovinismo delle canzoni di Gigi D’Alessio [il cantante neomelodico ma di massa cioè la voce più ascoltata nelle banlieues d’Italia, negli anni zero].
Ci sono volte, casi rari, in cui una persona riesce davvero a catalizzare nella sua figura l’attenzione del popolo e in cui l’attenzione sulla struttura sociale e collettiva del potere deve tener presente anche la natura umana e individuale del potente.
L’anomalia berlusconiana ha prodotto in questi lunghi sedici anni un’altra anomalia, per certi versi più inquietante e più duratura. Molte persone hanno conosciuto la loro formazione e si sono affacciate verso lo spazio pubblico in questi anni di trasmissioni a reti unificate.
Tanti e tante hanno costruito la loro soggettività politica nell’opposizione a una persona fisica, ai suoi eccessi e alle sue mostruose gaffe istituzionali, tralasciando il fatto che Berlusconi è [stato?] effetto di qualcosa.
Come ha scritto in questi giorni giorni Wu Ming 1 , «’Berlusconi’ è una metonimia, l’effetto-per-la-causa», leggerlo per «indicare l’Italia attuale, il Paese che ha prodotto il personaggio».
Uno dei motivi per cui avremmo dovuto combattere da subito la banalità antiberlusconista, è che il fenomeno Berlusconi e le forze sociali da esso innescate sono una meravigliosa risorsa analitica, un libro aperto da analizzare per interpretare le trasformazioni degli ultimi anni.
Ecco perché, insieme ai rischi che Fini – quello della legge sull’immigrazione e di Genova – venga accolto come un liberatore, dobbiamo approfittare del momento che si apre.
Forse, adesso invece di frignare di fronte a YouTube quando il premier rompe il protocollo reale di fronte alla regina Elisabetta [non Tulliani, quell’altra], qualcuno potrà occuparsi di cose più serie.
Se non fosse che rischieremmo di sporcarci le labbra di cerone, dovremmo dare un bacio sulla fronte a quest’uomo che ci ha dato l’occasione di comprendere cosa è diventato il potere. Bisogna quindi guardare negli occhi il nostro nemico e riconoscervi i tratti salienti della contemporaneità.
Sempre che qualcuno non ritenga sia ancora il caso di sciorinare l’elenco dei fallimenti di Berlusconi, magari almanaccando processi e gaffes presidenziali o diffondendo su Facebook il monologo di un comico divenuto capopopolo, illudendosi che serva ancora a qualcosa.
La rovina del Partito Comunista Italiano ebbe inizio con l’ossessione per la “questione morale” di cui Enrico Berlinguer fu patrono ed untore. Fino alla fine degli anni ‘70, il PCI era rimasto, nonostante gli scossoni internazionali che avevano profondamente appannato il mito dell’URSS come “terra promessa” del proletariato, un partito di sana e discretamente robusta costituzione, felicemente assestato sui solidi parametri di una questione politica.
Il suo obiettivo ultimo – così almeno lo interpretavano i suoi numerosi elettori - era un obiettivo politico: trasformare radicalmente i rapporti di forza sociali, scardinando alla base le istituzioni della società borghese per sostituirle con un nuovo schema in cui i rapporti di forza tra dominanti e dominati fossero completamente ridefiniti e parzialmente sovvertiti. Il politically correct e il ciarpame “non violento” erano ircocervi ancora sconosciuti.
Imperava invece il realismo e tutti – dai dirigenti del partito fino all’ultimo dei simpatizzanti – erano perfettamente consapevoli di quanto fosse semplicemente ridicolo anche soltanto immaginare un’opzione del genere senza contestualmente progettare un’azione armata di qualche tipo.
Le amanti e le “favorite” dei parlamentari non avevano alcuno spazio sulla stampa, non perché ne girassero meno di oggi, ma perché la stampa si occupava di politica, che era ciò che alla gente interessava.
C’era meno televisione e dunque meno citrulleria. Anche un bambino capiva che ad un politico non bisogna chiedere di essere un anacoreta, ma di essere un buon politico.
Così come nessuna persona sana di mente si sognerebbe mai di chiedere conto ad un bravo medico o ad un bravo ingegnere della sua vita sessuale e privata, contentandosi di godere della sua specifica professionalità, che è già rara ed è merce preziosa per qualunque collettività nazionale.
Poi nel PCI qualcosa si spezzò. Il terrorismo e il miraggio di riuscire a sfruttarne la parabola per ritagliarsi un ruolo di governo, portarono mestamente i dirigenti del più grande partito comunista d’occidente verso un manicheismo di raffazzonata fattura.
Lo sgretolamento inarrestabile dell’URSS fece temere – forse a ragione, ma questo non toglie un’oncia d’ignominia al tradimento che fu perpetrato – che le antiche parole d’ordine e il vecchio afflato rivoluzionario non fossero più credibili né proponibili e che si dovesse fondare la propria sopravvivenza politica su nuove elaborazioni ideologiche.
All’improvviso esistevano rivoluzionari “cattivi” (quelli che impugnano, ma pensa un po’, le armi per raggiungere i propri scopi) e rivoluzionari “buoni” (quelli che sovvertono il sistema cospargendo i cannoni di margherite e cantando a braccetto “We shall overcome”).
Era l’inizio della fine. Da quel momento in poi la putrefazione della concretezza politica in astrazione morale avrebbe infettato ogni cellula dell’organismo comunista e si sarebbe poi estesa ad ogni vaso linfatico della vita nazionale.
L’etica e la moralità uscivano per sempre – anche in Italia – dal contesto della vita privata e personale, dove esercitavano la propria indispensabile ma circoscritta autorità, per ergersi a divinità oscure, cui sacrificare ogni scintilla d’azione politica ed ogni speranza di rinnovamento.
Nietsche, inascoltato, lo aveva gridato tanti anni prima nel suo profetico “L’Anticristo”: “Un popolo va in rovina quando confonde il suo dovere con il concetto del dovere in generale. Non v’è nulla che crolli più profondamente, più intimamente, di ogni dovere “impersonale”, di ogni sacrificio dinanzi al Moloch dell’astrazione”.
Nell’arco di una decina d’anni, il moralismo patogeno di Berlinguer trasformò l’Italia in una repubblica dottrinale, di cui i magistrati divennero inquisitori e sommi sacerdoti. Ciò che dell’indipendenza e della sovranità nazionale era sopravvissuto alle ceneri della sconfitta per mano americana, venne spazzato via dai vincitori con la complicità dei giudici della pubblica verecondia nel colossale autodafè passato alla storia con il nome di “mani pulite”. Non bastò, ovviamente.
Il virus della morale, una volta scatenato su una nazione, non conosce soggetti immuni e miete costantemente nuove vittime, configurandosi come poderosa arma biologica di rimodellamento sociale nelle mani dei suoi progettisti.
Nessuno può dirsi al sicuro, nessuno è così irreprensibilmente immacolato da sottrarsi al ricatto perbenista; e se per caso lo fosse, è sufficiente spostare i parametri del “moralmente accettabile” qualche millimetro più in là.
Ciò che stiamo vivendo in questi giorni, con la fine politica di Berlusconi ormai alle porte, è un preludio all’ennesimo sacrificio della politica nazionale, perpetrato dai sacerdoti della pubblica decenza, agli dèi d’oltreoceano sull’altare dell’astrazione etica.
Nel mio piccolo e per ciò che conta, considero i sedici anni della parabola berlusconiana di gran lunga i più vuoti e squallidi della storia del nostro paese. La mia antipatia per il soggetto Berlusconi è databile a molti anni prima del suo trionfale ingresso in politica.
Risale alla metà degli anni ’80, quando la nascita del suo network televisivo generalista uccise la fantasia e il pluralismo delle televisioni private per sostituirli con la maleodorante melassa di becerume mediatico che promana oggi da ogni schermo e riempie di nulla sottovuoto i cervelli della nazione.
Berlusconi ha colpe infinite, prima fra tutte quella di essere stato un politico inadeguato, di infimo livello, incapace di coniugare i propri legittimi interessi personali con un progetto di rinascita nazionale di ampio respiro.
Lo si paragona spesso a un dittatore, ad un Duce in doppiopetto votato alla devastazione dei sacri dettami della dottrina democratica. Magari lo fosse. Purtroppo il suo e nostro male è, al contrario, la sua assoluta irrilevanza, l’indecisione, la riluttanza ad utilizzare la dovuta durezza contro gli avversari anche dinanzi alla loro manifesta debolezza.
E’ un mollaccione, altro che Duce. In sedici anni di dominio pressoché incontrastato sulla scena “politica” (chiamiamola così, anche se il termine più esatto sarebbe un altro) nazionale, non è neppure riuscito a estirpare gli ultimi mefitici rimasugli della truppaglia ex-comunista allo sbando, permettendo ad essa di riorganizzarsi quel tanto che basta da allestire, con l’appoggio di settori altrettanto fedifraghi della sua ex maggioranza, le idi di marzo che stanno per abbattersi sul nostro futuro. Quale possa essere questo futuro, non riesco per il momento a immaginarlo.
Non certo quello di un governo “tecnico”, che avrebbe comunque vita breve e porterebbe con sé la rovina definitiva tanto delle sue componenti partitiche quanto dei settori confindustriali ad esso associati (da Marchionne alla Marcegaglia, passando per Montezemolo).
Nemmeno quello di una portentosa reviviscenza elettorale del berlusconismo, che appare ormai fuori tempo massimo e verrà comunque impedita con ogni mezzo. Il futuro politico d’Italia è oggi una pagina bianca su cui ciascuno può scrivere ciò che desidera. Se non fossimo un paese di analfabeti senza speranza, sarebbe una splendida prospettiva.
Ma volevo dire questo: tra le tante colpe che pesano sulla coscienza dell’uomo di Arcore, non ritengo vi sia quella – comunemente attribuitagli – di essere lo “specchio del degrado del paese”. Il degrado in cui ci dibattiamo, che è culturale è politico, ha in Berlusconi solo uno dei suoi artefici e non certo il più rilevante.
E’ vero, sono state le sue televisioni a spacciare l’indecenza privata, la pruderie domestica, la vanvera urlata, la sconcezza ruttante di anchormen di borgata per cultura, di cui le povere masse italiche, non sapendo procurarsi altro cibo, si sono nutrite per decenni.
Ma non è stato lui a trasformare questa ammorbante immondizia in politica. Questa colpa – che è di gravità incommensurabile – pesa per intero sulla coscienza dei suoi avversari, politici e mediatici.
L’Italia oggi non è lo specchio di Berlusconi. E’ più lo specchio della mortifera psicosi moralistico-terminale di giornali come “Repubblica”, che, per ragioni di servilismo verso i dominanti USA, hanno fuso la dimensione pubblica e privata, la sfera sessuale e quella dell’azione di governo, in un minestrone immondo da cui non sarà mai più possibile estrarre elementi di senso. Nessun politico, per quanto pessimo, può togliere ad un popolo la politica.
Solo un’operazione di propaganda può farlo. Un’operazione accuratamente pianificata, che affonda le sue radici nella confusione tra sfera morale e sfera dell’agire pubblico prospettata da Berlinguer e poi estesa fino ai suoi limiti estremi dai lacchè dei media filoatlantici che sorvegliano il nostro paese. Berlusconi si è circondato di sgualdrine, sciacquette e cubiste, come fa il 99 per cento dei politici di questo mondo e l’80 per cento dei cittadini timorati di Dio.
Ma non è lui ad aver sostituito il discorso politico e istituzionale con questa fanghiglia umana. Sono stati i suoi avversari a farlo, attraverso i loro organi di stampa, nel tentativo (miseramente fallito) di prendere il suo posto e in quello (disastrosamente riuscito) di cancellare dalle menti degli italiani ogni distinzione tra gossip e lavoro istituzionale, ogni confine tra il pettegolezzo da comari e la valutazione critica, ancorché severa, dell’operato di un governo.
Se oggi le miserande masse italiane non riescono a scorgere l’attentato alla nostra sovranità che si nasconde dietro le centinaia di prime pagine con le cosce di Ruby in primo piano, la responsabilità non è di Berlusconi e nemmeno di Ruby.
E’ degli organi di stampa “antiberlusconiana” e dei loro mandanti nazionali e internazionali, che – deboli come sono in questo momento - hanno una paura folle della politica, soprattutto se si considera il fatto che gli spazi per la nascita di un vero partito di opposizione all’esistente sono oggi, in Italia, pressoché sterminati.
Ogni nozione di ciò che la politica è e potrebbe essere, ogni barlume di consapevolezza sui suoi confini epistemologici e sulle sue potenzialità va dunque soffocato senza esitazione, frastornando le masse con messaggi martellanti che impediscano di distinguere la riflessione e la progettazione politica dalla chiacchiera da mercato del pesce.
In tutti questi anni, si sarebbe potuto accusare Berlusconi – per mille ottimi motivi – di non essere stato capace di strappare il paese alla completa servitù euroatlantica che è la causa della nostra agonia. Non lo si è fatto, perché non è questa servitù che i congiurati anticesaristi vogliono eliminare.
Vogliono anzi rafforzarla, perché è da essa che dipendono i loro privati destini, costruiti sui pilastri della pubblica rovina.
Essi evitano perfino di menzionare la politica, perché si tratta di una parola pericolosa, che potrebbe risvegliare in animi non ancora del tutto spenti i ricordi di mai sopiti desideri di riscatto.
I loro pugnali sono sculettanti, forgiati in sagome mammarie e clitoridee. Dio non voglia che al pubblico a casa possa tornare alla mente com’è fatto un pugnale.