mercoledì 17 novembre 2010

I dolori del giovane Pd...

Le primarie che si sono svolte a Milano pochi giorni fa hanno evidenziato ancora una volta l'incapacità dei vertici del Pd di scegliere candidati che sappiano coagulare attorno a sè il consenso smarrito da parte del popolo della cosiddetta sinistra, a sua volta smarrito da anni e alla ricerca di un approdo "sicuro".

Un'incapacità evidente anche nell'assoluta mancanza di strategia del partito sulla prossima crisi di governo e le conseguenze che essa comporterà.

La sindrome di Tafazzi continua a espandersi nel Pd. Inesorabilmente.


Dalla Puglia a Milano, al Pd piace perdere facile
di Luca Telese - www.ilfattoquotidiano.it - 16 Novembre 2010

Le sconfitte dei candidati democratici travolti dall'effetto Vendola. Scelgono per esigenze d'apparato ed equilibri interni. Nessun orecchio per l'opinione pubblica

Effetto-Vendola”, scrivono tutti i giornali, a partire dal Corriere della Sera. E l’effetto Vendola ci deve sicuramente essere, se è vero che ancora una volta il leader di Sinistra e libertà è riuscito a partecipare a una vittoria considerata impossibile, quella di Giuliano Pisapia (“Effetto Pisapia”) alle primarie di Milano.

Ma questo ennesimo tracollo ripropone anche un altro problema: quello del Pd come un Re Mida al contrario, che tutto quello che tocca trasforma in metallo povero e trascina alla sconfitta.

Dopo la disfatta del suo ultimo candidato, il professor Stefano Boeri, battuto di ben cinque punti nel capoluogo meneghino, il Partito democratico si interroga sullo strano paradosso che lo vuole spesso promotore delle primarie, ma quasi sempre incapace di vincerle.

E dire che i segnali – a Milano come a Bari ieri, a Bologna come a Torino domani – ci sono sempre. Quasi sempre il Pd sceglie i suoi uomini “a prescindere”: li sceglie per esigenze di apparato, per contrappesi di equilibrio interni, egemonici, correntizi, o burocratici.

Che garanzie di discontinuità poteva dare “l’archistar” Boeri, l’uomo degli appalti al G8 e il grande mattatore dell’Expò? Poche, almeno sul piano simbolico.

Eppure fino a ieri, nessuno nel Pd sembrava ascoltare queste argomentazioni. “Abbiamo sbagliato a sottovalutare questo aspetto – dice oggi il segretario regionale Pierfrancesco Majorino – ma da stasera siamo già ventre a terra per Pisapia”.

Altro paradosso: ieri Claudio Fava numero due di Sel e lo stesso Pisapia erano impegnati a ripetere “Senza il Pd non si vince”, per rassicurare il gruppo dirigente. E così, per ricostruire le ragioni di questa crisi bisogna partire da quello che accadde a Roma.

Walter Veltroni e il gruppo di comando del Pd nel 2008 scelsero Francesco Rutelli come possibile primo cittadino della Capitale, per risolvere una grana interna, sanare il vuoto di potere lasciato dalla candidatura di Veltroni, garantire l’establishment economico della città.

Quella volta il partito riuscì a negare le primarie, ma gli elettori le celebrarono nelle urne, con due dati clamorosi: nello stesso giorno l’ex diessino Nicola Zingaretti prendeva più voti vincendo la provincia, e al ballottaggio Alemanno prendeva più voti di Rutelli, soprattutto nei quartieri popolari.

A Bari le cose andarono ancora peggio: per due mesi – con l’eccezione di Arturo Parisi – la linea del partito fu: “Niente primarie”, per impedire a Vendola di vincerle. Il principale sostenitore del “niet”, come è noto, era Massimo D’Alema, che in quella campagna mise eroicamente la faccia (e altrettanto eroicamente la perse). A imporre la consultazione non furono gli iscritti di Sinistra e libertà ma quelli dello stesso Pd.

Come andò a finire è noto: Vendola sbaragliò il candidato paracadutato da Roma, Francesco Boccia con percentuali bulgare, arrivando a toccare il 73% e a vincere persino senza i soldi raccolti con le consultazioni che il Pd per ripicca non mise a sua disposizione. A Firenze accadde ancora di peggio.

Matteo Renzi racconta sempre che la spinta decisiva gliela diede Massimo D’Alema, con un invito sarcastico: “Se uno vuole essere eletto si candida e cerca i voti”. Detto fatto, Renzi prese la palla al balzo: e si trovò a correre contro tre candidati che erano altrettanto marziani.

Una era l’espressione dell’assessore Cioni (bloccato da una inchiesta), l’altro era l’uomo di D’Alema (Michele Ventura), e l’ultimo (il candidato ufficiale della segreteria) Lapo Pistelli, un simpaticissimo figlio d’arte, che però era espressione della corrente (allora esisteva ancora) Veltroni-Franceschini.

Anche a Taranto, il medico Ippazio Stefàno, già amatissimo parlamentare del Pci (altro pupillo di Vendola) aveva sbaragliato il concorrente designato dalla segreteria: Giovanni Florido. In tutti questi casi il paradosso più grottesco era stato che gli sconfitti avevano vaticinato una immancabile sconfitta dei vincitori, sostenendo che si trattava di leader troppo radicali.

Se scomponete e ricomponete queste storie, scoprite che ci sono delle costanti che si ripetono con allarmante regolarità.

La prima è l’illusione di quel gruppo dirigente che gli elettori, se insistono, alla fine si arrenderanno alla forza degli apparati (accade regolarmente il contrario).

La seconda è la sovrastima del peso degli apparati sugli elettori. La terza è la drastica distanza di questi apparati dagli umori reali dell’opinione pubblica.

A Bologna, se possibile, la situazione è ancora più complicata, e un sondaggio pubblicato la settimana scorsa dall’agenzia Dire ha avuto l’effetto di un detonatore. L’apparato del Pd aveva già opposto una resistenza strenua al suo uomo più popolare (che pure ha la tessera) Maurizio Cevenini.

E poi, quando i suoi improvvisi guai cardiaci hanno ridestato il desidero dei notabili, si è prodotto il patatrac. Ancora la settimana scorsa, per esempio, c’era un candidato, di area, molto popolare e stimato, il professor Andrea Segrè, preside di agraria, indicato in testa dalle rilevazioni.

Ma Segrè era un esponente della società civile, non controllabile da nessuno e gli apparati del Pd lo hanno accolto con tale freddezza che l’interessato ha gettato la spugna: “Non corro più”. Così, l‘unica alternativa ai tre uomini di area Pd, (fra cui il vero capo del partito, Andrea De Maria) resta la cattolica progressista Amelia Frascaroli, seconda nei sondaggi, sitmatissima.

E chi viene a sostenere, il 25 novembre Vendola, non appena tornato dall’America? Proprio lei. Il bello è che la strategia delle primarie Vendola l’aveva nella testa fin dal congresso delle fabbriche in Puglia, quando le sue sembravano fantasie ottimistiche: “A Milano vincerà Pisapia, a Roma vincerò io”. Intanto, lo stesso sondaggio della Dire, cita un dato sconvolgente: Sel sarebbe al 13.5% all’ombra delle due torri. Fino a ieri incredibile. Oggi, dopo Milano, possibile.


Pisapia vince. Via alla resa dei conti interna
di Davide Vecchi - www.ilfattoquotidiano.it - 16 Novembre 2010

Bersani chiede le dimissioni del gruppo dirigente: due rimettono il mandato, due si limitano ad assumersi la responsabilità

“Le dimissioni devono essere effettive e immediate, senza inutili balletti perché il nostro candidato sindaco, Giuliano Pisapia, ha bisogno dell’impegno di tutti noi”. Alessia Mosca, deputata lombarda del Partito democratico, è l’unica a tradurre in parole ciò che molti nel partito pensano.

Il risultato più evidente delle primarie di coalizione a Milano è la sconfitta del Pd. Ha perso il candidato, Stefano Boeri, sostenuto anche con risorse umane e strutture del partito, che per due mesi si è privato del capo ufficio stampa regionale destinandolo alla campagna di comunicazione dell’architetto.

Ha perso il comitato organizzatore: domenica alle urne si sono presentati 67 mila cittadini, contro gli 82 mila delle primarie del 2006 e i 100 mila previsti. Pisapia vince con il 45,36%, Boeri si ferma al 40,16%.

I responsabili, secondo Mosca, Letta e buona parte del Pd locale e nazionale, hanno nome e cognome: Maurizio Martina, Roberto Cornelli, Francesco La Forgia e Pierfrancesco Majorino. Rispettivamente segretario regionale, provinciale, cittadino e capogruppo in Comune.

La vittoria di Pisapia ha scatenato un terremoto politico e, come se non bastasse, si è concretizzato un possibile terzo candidato sindaco: Gabriele Albertini, che oggi a Roma incontrerà Francesco Rutelli, Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini.

La crisi del Pd non aiuta. Ieri in mattinata si è diffusa la notizia, poi in parte smentita nel pomeriggio, che Pier Luigi Bersani avesse invocato le dimissioni dei quattro. Ma alle 11, in conferenza stampa, solo Cornelli e La Forgia si sono limitati a “rimettere il mandato” al partito. Majorino e Martina si sono “assunti la responsabilità”.

Tra lo sconcerto dei presenti. Inutile l’intervento di Filippo Penati a calmare gli animi. Mosca ha deciso di rompere il silenzio. “Ognuno accetti le conseguenze del suo operato subito”. Le fa eco un componente lombardo della segreteria nazionale: “Qualche testa deve saltare subito, per dare un segnale forte. Anche solo Laforgia, ma dobbiamo reagire ed evitare di perdere tempo regalando di nuovo la città al centrodestra”.

Il malessere, del resto, è antico: le due sconfitte consecutive di Penati in Provincia nel 2009 e in Regione nel 2010 sono state archiviate senza conseguenze. E bruciano ancora.

E’ la resa dei conti. Ieri sera, durante la segreteria provinciale, Davide Corritore, con altri, ha invocato le dimissioni immediate. Non si può lasciar correre anche il fallimento delle primarie. “E non possiamo aspettare riunioni di segreterie. Che siano tra una settimana o un giorno. Dobbiamo dare un segnale immediato”, ripeteva Alessia Mosca quasi fuori di sé arrivando alla conferenza stampa di Pisapia, indetta un’ora dopo da quella dei vertici locali del Pd. Mosca non entra.

In sala, l’avvocato, cerca di tenere insieme i pezzi. Sa che una crisi interna ora sarebbe controproducente. “È importante non disperdere le energie, dobbiamo costruire tutti insieme una grande coalizione capace di parlare a tutti i cittadini”.

Guarda avanti, Pisapia. “Dovremo parlare anche con l’Udc, ribadisco che il problema è quello di ricostruire l’unità di tutto il centrosinistra”, dice. E fa l’occhiolino al Pd: “Il calo dei votanti è dipeso anche dall’assenza di alcuni partiti e dalla chiusura anticipata dei seggi”. Martina ascolta. Seduto nelle ultime file, viene intercettato uscendo: “Sosteniamo Pisapia”.

Mentre Cornelli sembra remare contro: prima bolla Valerio Onida come “settantenne rottamatore”, poi attacca l’Idv minacciandolo di rimanere fuori dall’alleanza. Pisapia non commenta, allarga le braccia e sorride. “Insieme possiamo vincere”, ripete come un mantra.


Primarie Pd, Milano-Italia
di Marco Bracconi - http://bracconi.blogautore.repubblica.it - 16 Novembre 2010

Nella scelta di Filippo Penati, capo della segreteria politica del Pd, c’è tutto intero l’equivoco primarie. Le sue dimissioni sono la dimostrazione che i democratici fanno una gran fatica a gestirle Di più. Sono la prova che in caso di vittoria di un altro candidato, è la struttura intera del partito che finisce molto facilmente in confusione.

Ieri, proprio su questo blog, si diceva che il Pd dovrebbe trarre una riflessione sui candidati che sceglie di sostenere, soprattutto a livello locale. I successi di Vendola, Renzi e Pisapia insegnano. Ma la drammatizzazione della vicenda, con le dimissioni del capo della segreteria di Bersani, appare nella attuale fase politica del tutto incomprensibile.

Fatte le dovute proporzioni, è come se i dirigenti del partito democratico americano che avevano sostenuto la Clinton si fossero dimessi in massa dopo la vittoria di Obama. Impensabile.

Pare che l’addio abbia lasciato Bersani di stucco. Effettivamente, non si vede il motivo per cui il Pd per primo – invece dei suoi avversari – sembri fare ogni sforzo per trasformare un pur serio fatto locale in un fatto nazionale che aggiunge tensioni a tensioni. Dal sasso, pure ingombrante, alla valanga. Un capolavoro di masochismo.

Se il Pd insiste sul metodo delle primarie deve imparare a vincerle, ma anche a perderle. Altrimenti ha ragione chi dice che è meglio lasciar perdere.


Domande a Bersani
di Piero Ricca - www.ilfattoquotidiano.it - 16 Novembre 2010

Post breve e forse ingenuo da parte di un elettore che vorrebbe chiarezza.

Premessa

La crisi di governo sembra imminente. Dopo anni molto duri per la nostra malandata democrazia, si apre una prospettiva di cambiamento. Non è detto che lo sbocco della crisi sia un governo di transizione.

Rimane possibile il ricorso alle elezioni anticipate, alle quale sarebbe bello prepararsi con un progetto competitivo al fine di non riconsegnare il Paese a Berlusconi e alla Lega.

In questo quadro la minoranza parlamentare sembra soltanto interessata a evitare le elezioni: comportamento bizzarro per un’opposizione politica, ma giustificato dalla necessità di cambiare una legge elettorale invero contraria allo spirito della Costituzione.

Il governo di transizione finalizzato a tale riforma, anche nelle intenzioni dei promotori, si annuncia di breve durata. Dunque le elezioni anticipate sarebbero soltanto rimandate.

Fino ad ora nulla si percepisce con chiarezza tuttavia della strategia politica del centrosinistra: punti essenziali del programma, candidato primo ministro, perimetro della coalizione, metodo di selezione dei candidati al parlamento. A cominciare dalle alleanze.

Domande

Con quali formazioni politiche il Pd intende stringere un’alleanza in vista delle prossime elezioni? Con Di Pietro e Vendola o con Fini e Casini? Oppure non ritiene incompatibili tra loro queste opzioni?

E ancora: nel primo caso, cioé nell’eventualità di un’alleanza con Di Pietro e Vendola, intende selezionare il candidato primo ministro attraverso le elezioni primarie? Se sì, quando ne prevede lo svolgimento e attraverso quali regole?

Se qualcuno lo vede prima di me, potrebbe gentilmente rivolgere a Bersani queste domande?

Devo anche aggiungere che a me non sarà facile rivolgerle direttamente a lui o a qualcuno degli altri dirigenti nazionali del Pd. Quando vengono in visita a MIlano per qualche incontro pubblico, infatti, sono talmente blindati che diventa pressochè impossibile interpellarli con serenità con domande fuori copione da parte di un notorio “provocatore” come me.