domenica 10 ottobre 2010

Afghanistan: altri 4 morti italiani nella guerra infinita

Ieri sono morti altri 4 soldati italiani in Afghanistan, durante un'imboscata nella valle del Gulistan, provincia di Farah. E il totale dei caduti arriva così a 34.

Nessun ulteriore commento se non quello di sottoscrivere in toto ciò che ha scritto una settimana fa sulla sua pagina di Facebook Luca Cornacchia, uno dei due soldati rimasti feriti nello stesso frangente, "Mi sono rotto di stare qui in Afghanistan, non si capisce nulla".


Uccisi quattro militari italiani
di Maso Notarianni - Peacereporter - 9 Ottobre 2010

Erano impegnati in una operazione nel distretto del Gulistan, nella provincia di Farah

L'attentato che ha causato la morte dei 4 militari italiani in Afghanistan si è verificato nel distretto del Gulistan, nell'area di competenza italiana del Prt (Provincial Reconstruction Team) di Herat.

Un'area, quella del Gulistan che nel settembre del 2005 era stata conquistata dai combattenti talebani e successivamente riconquistata dall'esercito afgano.

Sarebbe stato uno 'Ied', un ordigno esplosivo improvvisato, a provocare la morte dei quattro militari italiani. L'ordigno, rudimentale ma potentissimo, avrebbe investito in pieno un blindato Lince che non ha retto all'urto.

Il mezzo, sul quale sembra viaggiassero tutti e quattro i militari uccisi e il ferito, è andato distrutto. All'esplosione sarebbe seguita una imboscata compiuta dai combattenti talebani che secondo le prime ricostruzioni sarebbero stati respinti dagli altri militari della colonna coinvolta nello scontro a fuoco.

Sarebbero gravi le condizioni del quinto militare italiano ferito. Il militare avrebbe riportato numerosi traumi di vario genere.

I militari italiani colpiti erano tutti alpini. Si trovavano a bordo di un mezzo che faceva parte di una colonna logistica di circa 70 unità.

Con le quattro vittime di oggi, sale a 34 il numero dei militari italiani morti in Afghanistan dall'inizio della missione Isaf, nel 2004. Di questi, la maggioranza è rimasta vittima di attentati e scontri a fuoco, altri invece sono morti in incidenti, alcuni anche per malore e uno si è suicidato. Già dodici le vittime in questo 2010.

Su Facebook, i commenti nelle pagine vicine all'ambiente militare sono diversi e di segno opposto. C'è chi suggerisce di bombardare l'Afghanistan con il napalm (senza forse sapere che si sta già facendo questo tipo di operazione) e chi invece si dispera perché "Si contnua a morire in nome di una pace che non ci sarà mai", e chi chiede "Ma quando la finiscono? Portiamo a casa alle loro famiglie questi ragazzi vivi e non dentro a una bara!".

Sempre su Facebook, il commento di Fiorella Mannoia: "Quattro nostri connazionali perdono la vita in attentato in Afghanistan, e Bersani che cosa dice? Dobbiamo rivedere la strategia! Sono 34 i soldati uccisi in questa guerra inutile a noi e utile ai petrolieri e ai produttori di armi, di quale strategia parla? Sapete quanto ci costa anche in termine di denaro nostro? 306 MILIONI DI EURO SOLO IL PRIMO SEMESTRE 2010. Non dico più niente - conclude la cantante - fate le vostre valutazioni".

I militari facevano parte della la Task Force South-East, formata dal 7° reggimento alpini di Belluno, schierata nelle basi operative avanzate di Gulistan e Bakwa. L’unità è destinata a operare nei distretti di Gulistan, Bakwa e Por Chaman nel settore sud-orientale dell’area di responsabilità del Regional Command West a guida italiana.

Zone desertiche e scarsamente abitate, i disrtretti di Gulistan, Bakwa e Por Chaman, sono la via di fuga dei guerriglieri talebani in fuga dall'Helmand, dove è in corso la più pesante offensiva militare che si ricordi da dopo la seconda guerra mondiale.

Non a caso la Task Force South East comandata dal colonnello Paolo Sfarra si chiama in realtà "Task Force South East - Battle group 4". Perché è il quarto gruppo costituito per combattere una guerra che nulla ha a che fare con la missione di pace che continuano a propagandare i governi che si sono susseguiti dall'inizio della guerra afgana e gli stati maggiori della difesa.


La rabbia del militare ferito. "Che ci stiamo a fare qui?"

di Giampaolo Cadalanu - La Repubblica - 10 Ottobre 2010

Le testimonianze dei soldati e l'angoscia al fronte: "È un inferno, siamo in guerra". Le paure di Cornacchia su Facebook. "In quella zona si combatte sempre"

Lo sapevano bene, che sarebbero finiti nel girone più caldo dell'inferno afgano. "Li guardavamo nelle loro tende a Herat. Giravano in accappatoio, passavano il tempo ad aspettare l'ordine di partire per il Gulistan. E pensavamo: poverini, vanno nel posto più brutto. Se per noi è dura, per loro è dura il doppio", racconta un veterano dell'Afghanistan.

Il settimo reggimento della brigata Julia doveva partire già a luglio, per dare una mano agli americani in una delle zone più roventi. Ma l'ordine tardava. Il motivo: "Gli americani non avevano tempo da perdere con problemi logistici. Lì si combatte di continuo".

La zona del Gulistan, Tripoli box nel gergo dei soldati, è un'area cuscinetto, che nelle intenzioni di Isaf dovrebbe essere gestita in futuro autonomamente dal comando di Herat: qui passano i miliziani in arrivo dall'Helmand e da Kandahar, qui italiani e americani stanno allestendo una base avanzata per fare argine e impedire l'accesso al vivo della zona Ovest.

E la valle del Gulistan è quella che i militari chiamano senza mezzi termini killing zone, una "zona di mattanza": un percorso obbligato che si restringe gradualmente come un imbuto, portando in trappola chiunque cerchi di andare verso nord.

"La prova che Tripoli box è una zona ad altissimo rischio è nell'organizzazione dell'attentato: prima la bomba, con comando a distanza, poi la sparatoria", dice un ufficiale appena rientrato dal teatro afgano: "Questa è la tecnica che i Taliban hanno imparato da Al Qaeda, non è certo una scaramuccia con banditi o contrabbandieri".

Con quattro caduti, un ferito grave, e soprattutto un incremento continuo degli scontri, è cambiato qualcosa fra i soldati italiani. Un ufficiale sintetizza: "Che cosa è cambiato? Stiamo combattendo. Adesso nessuno parla più di missione di pace, si parla di missione e basta".

E porta ad esempio la dinamica degli ultimi scontri: "In passato se un aereo senza pilota Predator scopriva qualcuno intento a preparare una bomba stradale, noi andavamo semplicemente a disinnescarla. Nei giorni scorsi, dopo la segnalazione del drone una squadra di truppe speciali è partita per acchiappare chi aveva messo lo Ied. E c'è stato uno scontro violentissimo, in cui abbiamo perso Alessandro Romani".

Insomma, finalmente la guerra si chiama guerra. E anche fra i soldati qualcuno ammette apertamente un po' di disagio, magari scegliendo di sfogarsi sullo schermo di Facebook. "Mi sono rotto di stare qui in Afghanistan, non si capisce nulla", scriveva il 3 ottobre Luca Cornacchia, il militare abruzzese rimasto ferito nell'attentato.

Francesco Vannozzi, che nell'esplosione ha perso la vita, aveva scelto per la sua bacheca elettronica una frase del film di John Moore "Max Payne": "Io non credo nel paradiso, credo nel dolore, credo nella paura, credo nella morte". E per spiegare come la pensasse sulla guerra, usava una citazione di Albert Einstein: "Non so con quali armi combatteremo la terza guerra mondiale, ma nella quarta useremo sassi e bastoni".

C'è chi si sente tradito anche dal mezzo blindato Vtlm, quello che veniva chiamato "San" Lince perché negli anni scorsi aveva salvato decine di militari. Adesso la guerriglia adopera bombe molto più potenti, e le corazze del Lince non bastano più.

La Difesa ha promesso l'arrivo degli ancora più robusti "Freccia", ma nel frattempo qualcuno ipotizza che negli ultimi attentati ci sia lo zampino di istruttori stranieri, ex militari, capaci di sfruttare ogni possibile debolezza nelle macchine.

Da Belluno Stefano Fregona, vicecomandante del Settimo alpini, difende il blindato, "un mezzo eccezionale, che ha salvato molte vite", ma ammette: "Il clima è drammatico. La notizia ha raggiunto l'anima dei miei ragazzi, che sono soldati preparati a tutto ma certamente non si è mai preparati abbastanza per queste tragedie".


Quattro alpini morti, fatalità?
di Antonio Camuso ( Osservatorio sui Balcani di Brindisi) - www.pugliantagonista.it - 9 Ottobre 2010

Quanto è avvenuto, oggi mettendo da parte sentimentalismi patriottici e dolorose constatazioni che si tratta di giovanissimi provenienti dal SUD, che continua a fornire carne da cannone, possiamo dire che si tratta di un normalissimo episodio militare, da manuale e che statisticamente , è possibile calcolare con largo anticipo la probabilità che esso succeda per numero di operazioni simili, la quantità di perdite umane e di materiale previste.

In Afghanistan operazioni di allargamento del controllo del territorio tramite FOB ( Basi Avanzate) sono normalissime, e americani ed inglesi sono degli specialisti in questo e calcolano anticipatamente quante perdite sono accettabili nel rifornire , mantenere una FOB e tenerla operativa attraverso operazioni di controllo di territorio remoto.

In poche parole, in nove anni di guerra afgana, è possibile ormai conoscere matematicamente lo scotto che c’è a pagare per ogni centimetro di territorio che si vuol strappare agli insorti e quanto in più c’è da versare, in sangue e denaro per mantenere nel tempo il controllo di quel centimetro conquistato. Quello che in Italia i giornalisti non chiedono e che invece in America è anticipato dagli staff del public-relation del Pentagono.

Se ci fate caso, ad ogni conferenza stampa che segue l’inizio di una nuova operazione militare delle Forze armate USA, i portavoce del Pentagono rispondono con matematica precisione alle domande dei giornalisti sulle perdite che prevedono di avere, dei costi dell’operazione e dei risultati che si vuol conseguire.

Ebbene da quando gli USA hanno chiesto al nostro contingente di cambiare strategia nel territorio di competenza, tirare fuori il naso dai caposaldi e andare a contendere passo passo il terreno agli insorti, installando nuove basi sempre più remote e bisognose di rifornimenti continui in uomini e materiali, ebbene nessun giornalista italiano si è permesso di chiedere ai nostri generali quanto ci sarebbe costato tutto ciò.

Quelle cifre previsionali, morti, mezzi distrutti, ecc sono da tempo sui tavoli degli analisti del nostro Stato Maggiore Difesa, come anche su quelle del ministro della Difesa on La russa, ma nessuno si permette di chiederlo, poiché sarebbe una bomba politico-militare,

Invece si preferisce contrabbandare il mito del buon italiano protetto dallo stellone e dall’amuleto che ci si è portati da casa e dal materiale di produzione nazionale che è sempre meglio di quello degli altri contingenti, per poter fare marketing alle imprese armiere nazionali.

Né troveremmo un giornalista deciso di esser messo alla porta , a vita, dagli ambienti ministeriali e dal suo giornale a causa di una domanda vietata in Italia.

Si preferisce invece lanciarsi nelle interviste falsamente pietistiche ai familiari e agli amici delle vittime, alle inquadrature di bare avvolte nel tricolore e nel riportare i bollettini di vittoria dal fronte afgano e pieni di indici di gradimento rilevati tra la popolazione locale verso i nostri militari.

Io speriamo me la cavo, l’importante è arrivare a questo benedetto fine 2011...

Chissà se un giorno un nuovo filone di cinema neorealista italiano potrà sceneggiare un film con questo titolo sulla guerra afgana vista dai soldati italiani, quelli veri, come il caporalmaggiore che scriveva su facebook,”- Io mi son rotto dell’Afghanistan e voglio ritornare a casa”- o come il pugliese che diceva: “-Qui fa un freddo cane e rimpiango il mare del Salento?”-


Tagli alla sicurezza ma la Difesa tace
di Andrea Fabozzi - Il Manifesto - 10 Ottobre 2010

È di circa 850 euro al mese lo stipendio di un caporale degli alpini, uno qualsiasi dei quattro uccisi ieri in Afghanistan. La missione garantisce invece tra i 25 e i 30mila euro di guadagno supplementare, in sei mesi.

Soldi indispensabili per convincere un soldato in ferma prolungata - che non ha alcuna garanzia di mantenere il lavoro alla scadenza dei quattro anni e che anche in caso venisse confermato si troverebbe per i prossimi tre anni con lo stipendio bloccato - a rischiare la vita.

Servirebbero soldi anche per garantire la sicurezza dei soldati in Afghanistan ma le ultime due manovre economiche hanno tagliato un miliardo l'anno alla difesa. Non agli investimenti per l'acquisto di sofisticati sistemi d'arma, ma alle spese generali e al reclutamento.

Ragione per cui il ministro La Russa ha cominciato ad annunciare l'invio in Afghanistan dei veicoli blindati Freccia due anni fa - il 28 ottobre 2008, hanno ricostruito il deputato radicale Maurizio Turco e il segretario del partito per i diritti dei militari Luca Comellini - ed è effettivamente riuscito a spostarne 17 nella zona di Shindand solo a luglio scorso.

Non i 250 previsti dal programma di acquisto, non i 54 effettivamente ordinati, ma solo i 17 realmente pagati.

Risultato: ieri gli alpini italiani erano ancora a bordo del veicolo tattico leggero Lince che non ha resistito all'esplosione.

La Russa ha persino cominciato a mettere in dubbio il programma di sostituzione dei Lince. «Dobbiamo valutare - ha detto -, il Freccia ha meno mobilità e velocità». Raggiunge i 105 Km/h com'è stato spiegato alla parata delle forze armate a Roma, dove il Freccia era in bella mostra. Più che sufficienti per un'operazione come quella che ieri è costata la vita ai soldati italiani, la scorta a una colonna di settanta camion.

Il governo ha trovato i fondi per la mini naja che stava a cuore a La Russa e alla ministra Meloni (20 milioni di euro in tre anni), e ha trovato i fondi per mandare i militari a fare lezione nelle scuole lombarde per «avvicinare gli studenti alle forze armate» (parte delle spese a carico degli studenti). Ma a marzo per risparmiare ha dimezzato la durata dei corsi di indottrinamento propedeutici alle missioni all'estero. Da due settimane a una.

Racconta un sottufficiale dell'aeronautica che ha frequentato uno di questi corsi nella sede del Terzo Stormo, l'aeroporto di Villafranca a Verona (dobbiamo concedergli l'anonimato): «In una settimana ci hanno "insegnato" di tutto, dal diritto umanitario alle regole d'ingaggio a nozioni sull'Islam. Alla sicurezza sono stati dedicati due giorni».

E in uno di questi giorni, uno soltanto, si è parlato proprio degli ordigni improvvisati: i micidiali Ied che hanno colpito ancora ieri.

«Il corso - racconta il sottufficiale - si basa su una simulazione estrema. Si tratta di trovare uno di questi ordigni lungo un percorso di 2,5 chilometri, sapendo in partenza che effettivamente c'è, è lì nascosto. Nella pratica in Afghanistan si affrontano spostamenti di 300 Km senza nessuna certezza. In più, non avendo mezzi Lince né tanto meno Freccia, il nostro finto convoglio procedeva a bordo di semplici veicoli militari che permettono una perfetta visibilità del suolo. Ovviamente uscendo da quel corso nessuno di noi si sentiva più sicuro - continua il sottufficiale - e in effetti i colleghi che sono già in Afghanistan mi hanno raccontato che in pratica si comportano diversamente. Se si avverte un pericolo la prassi non è più quella di fermarsi e recintare l'area ma semplicemente si torna indietro».

Così ai militari in partenza per Herat, Kabul e Shindand è capitato di ricevere consigli molto banali: «Se durante uno spostamento vi accorgete che una strada in genere affollata, magari dove si tiene un mercato, resta invece deserta, state allerta perché potrebbe trattarsi di un agguato».

La situazione è questa, dunque non c'è da stupirsi che per la difesa sia diventato difficile riuscire a coprire i turni della missione in Afghanistan. La disoccupazione resta il miglior alleato dei reclutatori che ultimamente sono stati costretti a spedire in guerra anche i volontari senza esperienza, quelli arruolati per solo due o tre anni.

Ma il sistema più sicuro per coprire i buchi è quello di considerare disponibili per le missione in Afghanistan tutti quelli che in passato si erano offerti per una missione all'estero, magari molto meno pericolosa come in Kosovo o in Bosnia. Una volta data la disponibilità a partire non si può più recedere, a meno di non voler rischiare un procedimento disciplinare.

E visto che non ci sono i soldi per garantire la sicurezza e la paura aumenta, il governo si è preoccupato di impedire ogni possibile manifestazione di dissenso, vietando ai soldati qualsiasi dichiarazione pubblica su qualsiasi argomento «collegato al servizio», praticamente su tutto.

È una disposizione entrata in vigore con il nuovo codice militare giusto ieri, mentre morivano altri quattro caporali.


La scorta armata? I taleban
di Paola Desai - Il Manifesto - 9 Ottobre 2010

Intanto si dimette il generale Jones, consigliere per la sicurezza nazionale Un rapporto del Senato Usa mette in imbarazzo il Pentagono

Due notizie diffuse ieri a Washington chiamano in causa, più o meno direttamente, la politica degli Stati uniti in Afghanistan.

La prima sono le dimissioni del generale James Jones dalla carica di Consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Barack Obama. Le dimissioni di Jones erano nell'aria da qualche tempo e lui stesso aveva detto di voler lasciare il posto alla fine dell'anno. Sono state accelerate però, e la ragione sembra stia nelle frizioni tra lui e altri dei consiglieri della Casa Bianca a proposito della strategia da seguire in Afghanistan e Pakistan.

Sembra in articolare che molti si siano risentiti delle dichiarazioni che Jones avrebbe fatto al giornalista Bob Woodward per il suo libro Le guerre di Obama, che indaga dall'interno la formazione delle decisioni su Af-Pak: da cui risulta che Jones non era così convinto della decisione di annunciare un calendario per il ritiro dall'Afghanistan (nel luglio 2011): si ricorderà che anche il generale David Petraeus, comandante delle forze Usa in Afghanistan, non ha nascosto la sua contrarietà - annunciare il ritiro tra un anno imbaldanzisce i ribelli, ha detto Petraeus in diverse occasioni, perché ora sanno che gli basta aspettare.

Sta di fatto che Jones ora è fuori: al suo posto va il suo vice, Thomas E. Donilon, un civile (al contrario di Jones), alto funzionario con una carriera politica nel partito Democratico cominciata ai tempi dell'amministrazione di Jimmy Carter poi nel dipartimento di stato con Bill Clinton - ora considerato un astro in ascesa nella Casa Bianca. Al contrario del suo boss, Donilon ha difeso con forza la decisione di Obama di annunciare l'inizio del ritiro delle truppe Usa dall'Afghanistan l'estate prossima.

In un comunicato diffuso ieri ancora prima dell'annuncio ufficiale sull'avvicentamento a Jones, il segretario alla difesa Robert Gates dichiara apprezzamento per Donilon, con cui ha «un'ottima relazione, contrariamente a quanto avrete letto». Infatti nel suo libro, Woodward scrive che Gates diceva, in privato, che la nomina di Donilon sarebbe «un disastro». Certo è che molti prevedono altri cambiamenti ad alto livello nello staff del presidente.

L'altra notizia riguarda ancor più direttamente l'Afghanistan. La Commissione Forze armate del Senato americano infatti ha diffuso il rapporto della sua indagine sul servizio di sicurezza presso le basi Usa nel paese centroasiatico: e ne conclude che attraverso contractors e sub-contractors gli americani hanno pagato come scorte armate proprio «agenzie private» di sicurezza legate ai Taleban, a reti criminali o a informatori che lavorano per interessi di altri stati.

Non è la prima volta che qualcosa di simile emerge - qualche mese fa inchieste di The Nation e poi altri media Usa, e testimonianze al Congresso, avevano descritto come le agenzie private di sicurezza (afghane) che lavorano per conto delle forze Usa pagano i ribelli per «comprarsi» il passaggio sicuro dei convogli militari che devono scortare.

L'indagine del Senato però va oltre: descrive la stretta relazione tra alcune di queste società di sicurezza private e i ribelli. Afferma che la proliferazione dei contractors (afghani) contribuisce ad alimentare la ribellione armata che le truppe Usa in teoria combattono.

In totale, ci sono ormai oltre 26mila guardie private in Afghanistan, di cui il 90% lavora per gli Stati uniti in appalto o subappalto (spesso con la mediazione di contractors americani). Quasi tutte sono di proprietà o legate alle milizie di warlord locali e/o di figure «fuori dal controllo» dell'esercito Usa o del governo di Kabul. Insomma, il Pentagono non ha alcun controllo sui miliziani afghani a cui affida la propria sicurezza.

Il rapporto del Senato contiene nomi e circostanze. Tutto questo è un imbarazzo per il Pentagono, e il segretario alla difesa Gates ieri ha ammesso il problema: «Stiamo prendendo misure significative per la sicurezza delle nostre truppe sul terreno senza fornire aiuto ai nostri nemici», afferma in un comunicato.