Si avvicina il giorno in cui si proclamerà lo sciopero generale in tutto il territorio dell'Ue?
Cittadino metalmeccanico
di Christian Elia - Peacereporter - 16 Ottobre 2010
Centinaia di migliaia in piazza con la Fiom, in difesa di tutti i diritti
Una bandiera rossa può avere tanti vantaggi. Anche degli svantaggi, ma di certo è utile per trovare la strada nella bruma che, alle cinque del mattino, avvolge Gessate. Hinterland milanese che ti entra nelle ossa, parcheggio della metropolitana.
L'appuntamento con uno dei settecento pullman organizzati dalla Fiom che, in quel momento, si preparano a partire da tutta Italia verso la capitale. C'è una manifestazione da fare.
Li individui subito, anche perchè è difficile immaginare un posto più desolato di questo, nell'ora dove la notte annuncia il giorno. Tutti indaffarati, aste e bandiere. Fotocopie per il percorso, informazioni pratiche, liste di nomi.
Quello che ti colpisce è la naturalezza con la quale la maggior parte dei membri del gruppo si muove nella bruma. Un'ora che per molti è fluida, per gli operai della Federazione Impiegati Operai Metallurgici è un momento come un altro di una vita scandita dai turni in fabbrica. Ci sono anche le mogli e i mariti, o giovani che nella vita fanno altro.
E anche loro distingui subito, tra l'assonnato e lo smarrito. "Ci siamo tutti, dai che si parte", dice Marcello, il responsabile del gruppo. L'autista accende il motore, ci si muove, ma qualcuno urla all'improvviso: "C'è Angela in macchina, con il marito! Ci sta seguendo, accosta subito".
Angela, tra risate e rimbrotti tra chi doveva ricordarsene, sale a bordo. Adesso ci siamo tutti. "Io, con tre figli, riesco a fare solo un part-time", dice una signora, a Inzago da venti anni, ma con tutta la sua Puglia ancora addosso. "Vado a Roma con mio marito, ma lo faccio per mia figlia. Da due anni in cassa integrazione. Non si può andare avanti così".
Il marito fa parte del gruppo più numeroso, quelli che si definiscono ''operai della vecchia Siemens, insomma''. Già, perché fai quasi fatica a capire per chi lavorano. "Adesso si chiama Jabil, dopo la fusione con la Nokia della Siemens. Ma abbiamo cambiato nome tante volte, magari non è finita'', dice Mauro, il maggior indiziato di aver dimenticato Angela. "Son sordo da un orecchio!", si difende, "facciamo manifestazioni da anni e ancora non avete capito che mi dovete urlare le cose???".
Finisce nel mirino di Angelo, grande e grosso come un armadio. Orgoglio Operaio, recita la sua maglietta, con il simbolo Fiom. Per tutti è Rambo. Forse è uno di quelli che il ministro degli Interni Maroni teme possano provocare disordini. Invece no, è l'anima del gruppo.
Se qualcuno voleva dormire fino a Roma se lo scorda. Rambo, a stento contenuto dal sedile e dal tetto del pullman ("Progettato da Brunetta", a suo dire), è un fiume in piena di parole, battute e canzoni. Un gruppo Fiom che marcia su Roma te lo immagini come una colonna staliniana compatta, che recita Marx e intona Figli dell'Officina come un sol uomo.
La chiacchiera, invece, è altrove. Dal gratta e vinci all'omicidio della piccola Sarah, dalla scorta di panini alla scatola magica di mp3 che Rambo ha munito di casse assordanti. Si passa dai classici rock anni Ottanta a Waka Waka di Shakira, inno tormentone degli ultimi mondiali di calcio.
Spalla ideale, un pò vittima un pò istigatore di Rambo, è Gino, un'altra macchinetta di parole. Se uno si distrae, sembrano sereni. La realtà arriva, invece, senza retorica. E fa più male. "Quando hai cassa tu?", chiede Rambo a Gino. "Lunedì e martedì...visto che mi hanno voluto far riposare per la manifestazione?".
Una normalità fatta di primo turno, secondo turno e notte, di cassa integrazione ordinaria e straordinaria. "Sai cos'è la cosa più brutta?", chiede Rambo, "che prima facevi la stessa 'fatiga dell'ostia', ma pensavi che il tuo lavoro era prezioso. Oggi ti senti uno che se svanisse nel nulla, in fabbrica, non se ne accorgerebbe nessuno. Tranne i tuoi compagni di linea".
Che sarebbe la vecchia catena di montaggio. Quella delle schiene spezzate, ma anche delle partite del Milan ascolate con le colleghe, come racconta Angela, che spera ancora che torni Kakà.
Una sosta, nei pressi di Firenze. Tanti altri pullman: Treviso, Trento, Mantova. Marcello è sempre incollato al telefonino, tiene le fila. Anche con i pullman che marciano dal sud. "Il corteo lo apriamo noi e i compagni di Pomigliano d'Arco", recita senza riuscire a celare un po' di orgoglio che gonfia il petto stretto nella felpa rossa con la scritta Fiom.
"Bella eh? L'idea è nata quando il Lapo si è inventato le felpe Fiat. Cavolo, la nostra è una storia più lunga. Se uno deve andar fiero di avere un marchio su una felpa, lo dobbiamo essere ancor più noi, eredi di più un'identità operaia vecchia di cento anni. Un'identità che a Pomigliano e a Melfi hanno tentato di uccidere. Se siamo senza diritti, siamo solo schiavi". Persone che parlano tra di loro in milanese e in pugliese, compreso la lingua africana dei nuovi operai. O schiavi?
Ormai ci siamo, il Raccordo è un incubo. Rambo tormenta Gino, rifiutando le sue brioches confezionate e chiedendo salame e vino. Angela è preoccupata. "Lunedì mi tocca stare alla linea con Gino davanti e Fabia al fianco! Mamma mia...non smettono mai di parlare!".
E ti colpisce pensare, per una volta nella vita, le relazioni sociali in forma di posizioni alla catena. Ma non c'è tempo di riflettere: tutti per terra, bandiere e caschetti rossi al vento. "Occhio ai provocatori compagni", recita Marcello, facendosi serio. "La pressione che c'è la conoscete tutti: il primo che nota un pirla si rivolge ai compagni del servizio d'ordine, che hanno la pettorina rossa, e li segnalano". Perché la realtà è anche questa.
I pullman sono tanti, altri arrivano in auto (come quelle incrociate lungo l'autostrada e salutate da colpi di clacson e bandiere al vento) e in treno.
"Trenitalia ci ha negato tanti pullman, ma oggi si veniva pure a piedi", bofonchia Rambo. "Lavoro da quando ho quindici anni, ma questo è uno dei momenti più difficili. E non ti parlo della vita con mille euro al mese o della pensione, ti parlo della dignità stessa di un operaio. Divisi, non siamo niente".
I due cortei confluiscono su Piazza San Giovanni. Sono in tanti, "centinaia di migliaia", urlano dal palco. Difficile non pensare a un altro momento duro, la battaglia per l'articolo 18, ai tre milioni di manifestanti quel 23 marzo 2002 a Roma, per sentire l'allora segretario generale Cgil, Sergio Cofferati, urlare il suo no. Oggi son di meno, oggi son divisi. La Uil e la Cisl vanno per i fatti loro, anche gli stedenti paiono meno compatti.
C'è Vendola, c'è Di Pietro, ma il Partito Democratico manda sagome per non decidere e la Federazione dei Comunisti Italiani non trova più la strada del parlamento, anche perché di partiti e movimenti comunisti ne conti troppi. Le faccie, quelle, son sempre le stesse. Sorridenti e preoccupate, in un solo sguardo.
Sul palco si alternano gli ospiti. Ai politici e agli studenti seguono le associazioni della società civile: Anpi, Associazione Articolo 21, Popolo Viola, Micromega ed Emergency.
Un legame forte, quando ti dicono che non ci sono i soldi per i lavoratori, ma Cecilia Strada presidente di Emergency ricorda a tutti che "Nel secondo semestre di quest'anno il governo ha stanziato 65 milioni di euro al mese, mentre nei primi sei mesi dell'anno erano 51 milioni di euro al mese, per la guerra in Afghanistan".
Prende la parola Maurizio Landini, segretario Fiom, che chiede il ritiro delle truppe italiane, perché è di diritti che si parla oggi. Tutti i diritti, vittima di un processo di erosione.
Quello alla vita s'intreccia con quello alle cure mediche e alla tutela dei lavoratori. Questo il messaggio di Landini: "A Melfi e a Pomigliano, in dieci righe, hanno fatto un ricatto: lavoro se rinunciate ai diritti. Non possiamo accettarlo, lotteremo fino allo sciopero generale".
La parola magica, che scatena la piazza. Di tanta energia ne fa le spese Guglielmo Epifani. Parla, ma il pubblico lo pressa, vuole l'impegno concreto. Lui risponde, in difficoltà, emozionato (oggi ha chiuso il suo mandato Cgil, lasciando il posto a Susanna Camusso). "Arriveremo allo sciopero generale se sarà necessario, ma in modo intelligente", riuscendo a soffocare i contestatori. "E non lasceremo sola la Fiom". Alle parole, il popolo della piazza, attende di vedere se seguiranno i fatti.
La piazza si svuota, lenta. Rambo, Gino, Angela e gli altri arrolotolano le loro bandiere, lanciandosi alla ricerca di un panino. Vuoi vedere che alla fine torna buoan la brioche di Gino? La strada per Gessate è lunga, celata dalla bruma. Sul palco Landini, Epifani e gli altri lasciano il posto a Bianca Giovannini, che ''canta per chi non ha fortuna''.
Una giovane coppia si avvinghia in un lento struggente, occhi negli occhi, persi in un altrove lontano. Dietro di loro, con passo stanco, uno con la faccia 'da bravo ragazzo', in camice bianco. Precario della sanità, recita il cartello che porta al collo. Come a ricordare a tutti che questo è il tempo di difendere i diritti, anche quello di sognare.
L'esempio francese: la dittatura finanziaria si può battere
Franco Berardi "Bifo" - www.ilmanifesto.it - 16 Ottobre 2010
Quel che sta succedendo in Francia è estremamente importante, per tutti. Dal movimento ampio, radicale e determinato che si è sviluppato dal giugno scorso (e che ha portato in piazza milioni di persone per quattro volte in pochi mesi) potrebbe venire la prima risposta vincente contro la dittatura finanziaria nata in Europa dalla crisi greca e dal diktat del direttorio Trichet-Merkel-Sarkozy che punta a imporre misure unificate di attacco contro il salario e la società, in nome della competitività.
Il movimento francese contro il prolungamento del lavoro e il rinvio delle pensioni, giunto alla quarta giornata di mobilitazione generale, si rafforza e va allo scontro con il governo Sarkozy. È la prima volta, in Europa, che un movimento ampio prende come bersaglio il dogma centrale del prolungamento del tempo di vita-lavoro, sancta sanctorum del conformismo economico dell'epoca tardo-liberale.
Un dogma che suona così: a causa del prolungamento del tempo di vita e della riduzione di natalità, i paesi europei vanno verso una tragica situazione in cui pochi giovani dovranno sorreggere molti vecchi pensionati.
Per evitarlo dobbiamo prolungare il tempo di lavoro degli anziani. Questa puttanata la chiamano «patto tra le generazioni», e pretendono che tutti crediamo nella necessità di lavorare più a lungo per aiutare la nuova generazione.
Questa filosofia, imposta dovunque con la collaborazione attiva delle sinistre e dei sindacati, è basata su una falsa premessa. Tanto per cominciare la produttività media è cresciuta di cinque volte negli ultimi 50 anni. Dunque la riduzione delle unità di lavoro non è un problema. Molto meno giovani possono produrre il necessario per molti più vecchi, se la questione fosse solo questa.
Ma dietro il gioco delle tre carte si cela un progetto ben diverso, che è quello d'imporre un aumento del tempo di lavoro (più ore di straordinario, pieno utilizzo degli impianti, sabato lavorativo, rinvio indefinito dell'età pensionabile), e conseguentemente una riduzione dell'occupazione.
Con la favoletta demografica si punta a mantenere i giovani in condizioni di sottoimpiego, costringendoli ad accettare qualsiasi lavoro precario e sottopagato, mentre gli anziani sono costretti a lavorare ben oltre la data stabilita dal loro contratto.
La finalità del prolungamento del tempo di lavoro non ha nulla a che fare con un'esigenza produttiva, ma è la conseguenza di regole finanziarie che agiscono come una gabbia, trasformando in Europa la ricchezza in miseria e la potenza in paura.
La deregulation vale solo quando serve ad attaccare il salario, ma quando servono per aumentare lo sfruttamento, le regole ci sono, strettissime e indiscutibili.
I lavoratori e gli studenti francesi hanno capito che prolungare il tempo di lavoro degli anziani, in un periodo di riduzione dell'occupazione, significa dare ai giovani disoccupazione e precariato. Se la società francese riesce a rompere questo dogma, in Europa si apre una fase nuova.
Dovunque, a cominciare dall'Italia, potrà nascere un movimento per la riduzione del tempo di vita-lavoro, per un abbassamento dell'età di pensionamento, per una riduzione dell'orario settimanale di lavoro.
Nella manifestazione di oggi,(ieri,ndr) e soprattutto nelle settimane che seguiranno, dobbiamo aver chiaro che la questione posta dalla Fiom (diritti del lavoro e difesa del salario) e quella del movimento degli studenti e dei ricercatori (risorse per la scuola pubblica, blocco della riforma devastatrice della Gelmini) non sono affatto questioni italiane, e non si possono vincere come battaglie nazionali.
Solo un movimento europeo fermerà l'offensiva finanziaria contro la società. Solo un movimento europeo ci libererà dei tirannelli locali si chiamino Tremonti o Berlusconi.
La Spagna è sulle spine
di Ignacio Ramonet - www.globalresearch.ca - 14 Ottobre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Stefania Micucci
I giorni di tranquillità sociale sono solo un ricordo. Lo sciopero generale del 29 settembre, contro la riforma del lavoro del governo Zapatero, segna l'inizio di quello che si preannuncia essere un periodo di scompiglio sociale.
Il governo ha deciso di presentare al Congresso, entro la fine dell'anno, un disegno legge che alzerebbe l'età minima pensionabile da 65 a 67 anni, e porterebbe gli anni di contributi minimi da 15 a 20.
Insieme alla riforma del lavoro, e al decreto dello scorso maggio, che ha abbassato le retribuzioni degli impiegati statali, congelato le pensioni, e tagliato la spesa pubblica, questo disegno legge ha suscitato la reazione delle organizzazioni dei lavoratori e di una consistente percentuale di lavoratori salariati.
Zapatero ha affermato che la sua decisione è irrevocabile: "Il giorno successivo allo sciopero generale, continueremo a muoverci verso le stessa direzione", ha affermato il 1 settembre a Tokyo. Ciò ha spinto le unioni a programmare nuove proteste.
Con la sua intransigenza, il leader spagnolo sta seguendo la scia degli altri governi europei: in Francia, malgrado le recenti proteste di massa contro la riforma pensionistica, il presidente Sarkozy ha ribadito che non modificherà la legge; in Grecia, sei scioperi generali contro le misure austere non hanno avuto alcun effetto sul primo ministro Yorgos Papandreu.
Basandosi sul principio che in democrazia la politica si fa in parlamento, e non per strada, questi leader hanno ignorato il malcontento di una grossa fetta della popolazione, obbligata a prender parte a scioperi e proteste in strada per far sentire la loro voce. [i]
Ma la reazione dei leader è un errore: loro pensano che la legittimità elettorale batta le altre forme di legittimità, soprattutto la democrazia sociale [ii]. In realtà, la loro inflessibilità potrebbe solo alimentare il malcontento, incoraggiando la gente a rifiutare un'eventuale fase di dialogo e a ricorrere allo scontro frontale.
Sin dallo scorso maggio e dall'annuncio di uno spietato piano di riforma, è in continuo aumento il disgusto di una grande percentuale della popolazione spagnola [iii].
I quasi 5 milioni di disoccupati, precari, giovani senza lavoro, donne lavoratrici, dipendenti statali di basso livello, e tutte le loro famiglie sono d'accordo sul fatto che il governo li stia sacrificando. Allo stesso tempo, attraverso il fondo per il salvataggio delle banche, il governo ha trasferito 90 miliardi di euro alle banche e alle istituzioni di risparmio (responsabili della bolla immobiliare).
Non ha pensato di aumentare le imposte alle fasce di reddito più alte, a imporre delle tasse sulle grandi vincite, a tagliare i costi per la difesa (che ammontano a 8 miliardi di euro all'anno), la chiesa cattolica (6 miliardi di euro) e persino la famiglia reale (almeno 9 milioni di euro).
La cosa ripugnante per i cittadini è la certezza che il governo abbia adottato tali misure repressive contro i lavoratori salariati, non tanto per decisione propria, quanto per andare incontro agli ordini dell'Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale, e alle pressioni dei mercati finanziari, che, minacciando di non investire in Spagna, hanno richiesto salari più bassi e riduzione del tenore di vita.
Zapatero stesso l'ha dichiarato, rivolgendosi a un gruppo di investitori giapponesi: "Stiamo lavorando sulle riforme che interessano gli investitori internazionali [iv]," ha ammesso, e ha ripetuto ai manager delle maggiori banche commerciali e dei fondi di investimento statunitensi che le riforme mirano a "far apprezzare agli investitori e ai mercati la mia determinazione nel rendere la Spagna competitiva a livello economico [v].
" La riforma del lavoro non ha niente a che vedere col taglio del deficit pubblico o la riduzione delle spese di bilancio, che sono i requisiti base per i mercati finanziari. Ma poiché il governo non può svalutare la moneta per stimolare le esportazioni, ha deciso di abbassare i salari per dare una spinta alla competitività.
La cosa peggiore è che queste misure non hanno alcuna garanzia di successo. I dati sull'impiego da agosto mostrano che il 93,4% dei nuovi contratti sono a tempo determinato. In altre parole, il mercato del lavoro resta altamente precario. L'unica differenza è che alle imprese costerà meno mandar via i dipendenti.
Dopo la crisi degli anni '90, ci sono voluti tre anni prima che la disoccupazione ritornasse ai livelli europei, e questo in un periodo di crescita, quando la Spagna riceveva l'aiuto dell'UE. Oggi, con questa riforma e con la debole crescita che ci sarà ancora per molto tempo, l'occupazione in Spagna, secondo l'economista statunitense Carmen Reinhart, non raggiungerà i livelli del 2007 prima del 2017 [vi].
Quindi, perso l'appoggio degli elettori, questo governo probabilmente perderà potere e passerà la guida del paese all'opposizione conservatrice e populista. In generale, è quello che succede quando i partiti di sinistra dimenticano i loro valori, optando per politiche vergognosamente di destra, come è accaduto in Germania, in Regno Unito e, di recente, in Svezia.
Note
[i] In democrazia, a causa della generalità e universalità, non sempre è possibile esprimere particolare sensibilità.
[ii] vedere Pierre Rosenvallon, "Le pouvoir contre l'interet general", Le Monde, Paris, 21 September 2010.
[iii] Secondo un recente sondaggio condotto dal Centro de Investigaciones Sociologicas (CIS), il partito al potere, il PSOE, ha perso il 3,1% dei supporti. Solo il 2,5% degli intervistati ha dichiarato che la situazione economica è positiva, in opposizione al 22,6% che la definisce normale e al 74,4% che la considera negativa o molto negativa.
[iv] El Pais, Madrid, September 1, 2010
[v] Ibid, September 21, 2010
[vi] Ibid, September 12, 2010.
Un punto archimedeo
di Giovanni Perazzoli - http://temi.repubblica.it/micromega-onlin - 16 Ottobre 2010
La catastrofe italiana non è un futuro possibile, ma una realtà che ha un prezzo altissimo. E le domande sono sempre lì: ma a che cosa può servire una manifestazione? A che cosa possono servire i discorsi e le analisi? Non ne se ne sono già prodotti abbastanza? E che cosa è cambiato? In realtà, questo scoramento è ingiustificato.
Molte cose stanno cambiando e sono cambiate. Non solo. Nelle grandi linee, il problema deve essere rovesciato. Non soffriamo di un’impotenza politica che si traduce in un eccesso di analisi, ma di un’arretratezza dell’analisi che si traduce in un’impotenza politica.
Ma il berlusconismo ha realizzato uno dei più grandi processi di autoconsapevolezza politica che l’Italia abbia mai sperimentato dopo il fascismo. Ha portato molti a scoprire che nel nostro Paese manca un punto archimedeo su cui fare leva per cambiarlo. Non serve solo un leader: serve la capacità di stare insieme con un obiettivo politico.Per arrivare a questo bisogna compiere però il passo in avanti più difficile: quello di uscire dalla bolla autoreferenziale che trattiene da anni tutte le migliori energie italiane.
La sinistra italiana ha coltivato per decenni l’illusione di essere all’avanguardia in Occidente, perché il suo punto di riferimento era il comunismo. Il Paese del più grande Partito comunista d’Occidente ha creduto di poter guardare dall’alto in basso le democrazie socialdemocratiche europee.
Oggi si scopre che siamo, invece, il fanalino di coda dell’Europa, non solo per quanto riguarda la legislazione sociale e del Welfare State, ma anche per la cultura politica media della sinistra.
Per questo quando la sinistra italiana guarda all’Europa accetta come verità colata i resoconti che gli propina il Corriere della sera. Crede effettivamente che all’Italia possa appartenere il destino del riformismo europeo, perché ignora del tutto quali sono i problemi sul tappeto oltre le Alpi.
Chi parla di riforma europea del Welfare spesso neanche immagina che il problema centrale in Europa è quello di trovare un equilibrio che faccia sì che i sussidi di disoccupazione, da strumento di difesa dalla disoccupazione, non finiscano per alimentarla. Il problema non è cancellarli, ma ridurre l’incidenza che hanno sulla crescita di una disoccupazione di ritorno.
Per fare un esempio recente: in un suo discorso il nuovo leader del Labour inglese, Miliband, ha detto che il partito difenderà il Welfare, ma non permetterà che la disoccupazione diventi uno “stile di vita”. Mi sono chiesto quanti in Italia capirebbero questo riferimento. In che senso l’essere disoccupati può diventare uno “stile di vita”? Non è un paradosso?
Prendiamo adesso l’intervento di Formigoni da Santoro. Ha ripetuto che l’Italia starebbe meglio degli altri paesi europei anche grazie alla Cassa integrazione, che solo in Italia esiste, e che è merito del governo Berlusconi aver (ri)apparecchiato in un battibaleno. Presenti in studio Bersani ed Epifani.
Nessuno ha pensato di rispondere a Formigoni che effettivamente solo in Italia esiste una porcata come la Cassa integrazione, perché in tutti gli altri paesi europei qualsiasi disoccupato (senza mediazioni di sindacati e di politici, e dunque senza le conseguenti clientele) può disporre di un sussidio di disoccupazione per tutto il tempo in cui resterà senza lavoro, fosse anche tutta la vita.
Mi pare che di fronte alle persone che hanno figli da mantenere sarebbe importante, almeno qualche volta, raccontare queste cose.
Del resto, non è un caso se il “Manifesto degli espatriati” che è stato sottoscritto da una valanga di giovani autoesiliatisi (molti dei quali ora sono professori universitari, professionisti etc.) mette al punto 8 il ruolo che ha all’estero il sussidio di disoccupazione.
Chi viva fuori dall’Italia ha un punto di vista di cui si fatica a capire l’importanza. Santoro benemerito continua a parlare di cassaintegrati, ma non ci pensa un momento a raccontare come stanno le cose negli altri paesi.
Naturalmente, lo so, non si risolve la crisi solo con i sussidi. Ma se non siamo neanche in grado di dire a Formigoni - nello studio di Annozero - che la Cassa integrazione non dà alcun primato all’Italia, perché al contrario ne rappresenta l’abisso, come possiamo sperare che ci si possa opporre poi ai processi epocali legati alla globalizzazione?
La disoccupazione risulta più alta in alcuni paesi europei rispetto all’Italia (di uno zero virgola) non perché questi paesi stanno peggio di noi, ma perché la disoccupazione stessa è del tutto diversa in questi paesi.
Nell’autoreferenzialità generale – che non è solo quella (comoda) prodotta della disinformazione berlusconiana, ma anche quella che viene dall’incapacità della cultura di sinistra di elaborare una visione europea – la crisi è diventata da noi un’ottima scusa per azzerare decenni di lotte.
Questo all’estero non succede. Come si fa a chiedere di rinunciare ai giorni di malattia o al diritto di sciopero? Può essere questa la soluzione alla crisi? Era questa miseria la ricetta economica che mancava? Naturalmente no. La crisi che viviamo non è solo mondiale, come si ostinano a farci credere: è soprattutto una crisi italiana.
Ho abitato per due anni in Germania, nella Ruhr, zona industriale, dove si trova la Opel, dove c’erano le miniere di carbone, dove ci sono le acciaierie. Noi stiamo meglio degli altri paesi?
Ma scherziamo? Lì per la crisi gli operai lavoravano meno, ma quasi con lo stesso salario. Lì il diritto alla casa è una realtà. Gli asili funzionano, le scuole funzionano, i servizi funzionano.
E lo stesso vale per gli altri paesi europei, che però molti in Italia conoscono solo attraverso il film Riff-Raff , che il Bertinotti qualche volta citava. Vi ricordate quante garanzie hanno preteso i tedeschi quando la Fiat voleva comprare la Opel?
Vi immaginate le risate se Marchionne avesse proposto ai sindacati tedeschi e al governo tedesco il “modello Pomigliano”? E immaginate le risate in Francia, in Inghilterra, in Svezia? L’avrebbero preso per matto.
Si conosce la realtà attraverso il confronto. Non è banale? Ma è proprio questo confronto che manca, a volte per una forma di un’auto-accecamento.
L’autoreferenzialità di destra e di sinistra è una barriera più impenetrabile di qualsiasi muro, di qualsiasi censura. Eppure i fatti ogni tanto superano quella cortina fumogena che falsifica ad arte la percezione che in Italia abbiamo dell’Europa e vengono proposti all’opinione pubblica.
Per dire, “Il Giornale” (dico “Il Giornale”) scriveva il 24 settembre del 2008 che un operaio tedesco guadagna quasi il doppio di un operaio italiano (2.400 euro al mese contro i 2.200 di un francese e i 1.200 di un italiano).
E si noti che, per quanto possa sembrare incredibile, la vita in Germania costa meno che in Italia (almeno rispetto alle grandi città). Nonostante questo, nel 2008 gli operai tedeschi chiedevano un aumento dell’otto per cento, visto il grande successo delle esportazioni.
La Germania è in rovina? L’industria tedesca è alla frutta? Non solo non lo è ma, nonostante il costo del lavoro non proprio da villaggio cinese o da periferia casertana, la Germania contende alla Cina il primato nelle esportazioni.
E allora? Dobbiamo tornare alla domanda di partenza. Naturalmente è inutile guardare a quel simulacro di partito che è il Partito democratico, che riesce a non scendere in piazza in modo netto e chiaro persino per la manifestazione del 16 ottobre 2010 - persino quando si difende l’ABC dei diritti del lavoro.
L’unico punto a cui si può guardare con qualche speranza è alla società civile. Ma alla società civile non solo manca un rilievo politico, perché non è opposizione, essa resta anche preda di un settarismo che è l’eredità diretta del passato di una certa cultura politica. Resta divisa.
Ci si libererà della bolla autoreferenziale in cui continuano a sguazzare, contenti ed ignari, tanti dirigenti politici e sindacali, intellettuali, giornalisti?
Non bisogna essere pessimisti. La manifestazione del 16 ottobre 2010 segna quella che è ormai una tendenza storica indiscutibile: i movimenti, che da diversi anni hanno costituito in Italia l’unica voce critica, pur essendo tra loro divisi, sono sempre più protagonisti di un cambiamento culturale politicamente incisivo.
Ed è solo la grande forza di fidelizzazione che il Pd ha avuto in eredità dal defunto PCI, che mantiene in vita uno pseudo partito di oligarchi, asserragliati nella Rai, nelle università, nelle Provincie e Regioni, nei giornali e dovunque si può, sempre in nome di un “realismo” che di “italiano” non ha il pensiero di Machiavelli, ma il vecchio intramontabile familismo amorale.
Un’altra Italia sta nascendo, con fatica, dal berlusconismo. Forse è il vaccino di cui parlava Montanelli. Nell’oscurità una cosa è certa: il rinnovamento culturale del nostro Paese, il punto archimedeo per farlo rinascere, non potrà che passare attraverso questi movimenti.
L'esperimento neoliberista e gli scioperi in Europa
di Michael Hudson - www.globalresearch.ca - 30 Settembre 2010
Traduzione a cura di Jjules per www.comedonchisciotte.org
Mentre le organizzazioni sindacali festeggiano la Giornata Anti-Austerità in Europa, i neoliberisti europei alzano la posta: La maggior parte della stampa ha descritto le dimostrazioni e gli scioperi dei lavoratori in tutta Europa di mercoledì in termini del solito esercizio da parte dei lavoratori del settore dei trasporti di irritare i viaggiatori rallentando i convogli e con grandi moltitudini di persone a sfogare la propria rabbia appiccando incendi.
Ma la vicenda non è solo una reazione contro la situazione di disoccupazione e recessione economica. In gioco ci sono le proposte di modificare radicalmente le leggi e le strutture del funzionamento della società europea nella prossima generazione.
Se le forze anti-lavoratori avranno successo, manderanno in rovina l’Europa, distruggeranno il mercato interno e renderanno il continente una mera zona depressa. Questa la gravità che ha raggiunto il coup d’état finanziario. E le cose peggioreranno soltanto – rapidamente. Come ha detto John Monks, responsabile della Confederazione Europea dei Sindacati: “Questo è l’inizio della battaglia, e non la fine”.
La Spagna ha ricevuto la maggiore attenzione forte della sua partecipazione di dieci milioni di lavoratori (a quanto pare, metà dell’intera forza lavoro). Tenendo il primo sciopero generale dal 2002, i lavoratori spagnoli hanno protestato contro il governo socialista che sta utilizzando la crisi bancaria (derivata da prestiti immobiliari negativi ed equity negativi sui mutui, e non dall’alto costo del lavoro) come un’opportunità per cambiare le leggi per consentire alle aziende e agli enti governativi di licenziare i lavoratori a piacimento, e di ridurre gradualmente le spese per le pensioni e le attività sociali per pagare di più le banche.
Il Portogallo sta facendo lo stesso, e sembra che l’Irlanda farà altrettanto – tutto questo nei paesi le cui banche sono state prestatrici irresponsabili di denaro. I banchieri stanno chiedendo di ricostruire le loro riserve di prestito a spese dei lavoratori, come nel programma del Presidente Obama qui negli Stati Uniti, ma senza tante scuse ipocrite.
Il problema è esteso a tutta l’Europa e ha sicuramente il suo nucleo nella capitale dell’Unione Europea, Bruxelles. Questo è il motivo per cui le maggiori proteste hanno avuto luogo qui. Nello stessa giornata in cui gli scioperanti hanno manifestato, la Commissione Europea neoliberista ha delineato una guerra a tutto campo contro i lavoratori.
Dai cinquanta ai centomila lavoratori si sono radunati per protestare contro la proposta di trasformazione delle norme sociali della più grande campagna anti-lavoratori dagli anni Trenta – ancora più estrema dei piani di austerità imposti in passato al Terzo Mondo dal FMI e dalla Banca Mondiale. I neoliberisti controllano in toto la burocrazia e stanno rivisitando lo slogan di Margaret Thatcher: NCA (Non C’è Alternativa).
Ma, naturalmente, un’altra alternativa esiste. Nelle piccole economie baltiche, i partiti che sostengono i lavoratori hanno detto chiaramente che l’alternativa ai tagli di governo è semplicemente quella di annullare il debito, ritirarsi dall’Euro e far saltare le banche.
O le banche o i lavoratori – e l’Europa si è appena resa conto si tratta davvero uno scontro alla morte (economica). E la prima prova arriverà il prossimo sabato, quando si terranno le elezioni parlamentari in Lettonia.
La Commissione Europea sta utilizzando la crisi bancaria dei mutui – e l’inutile divieto alle banche centrali di monetizzare i deficit di bilancio dei governi – come un’opportunità per sanzionare i governi e addirittura spingerli al fallimento se non sono d’accordo nel ridurre i salari del settore pubblico. Ai governi è stato detto di prendere soldi a prestito ad interesse dalle banche anziché incamerare introiti tassandole come hanno fatto per cinquant’anni dopo la Seconda Guerra Mondiale.
E se i governi non sono in grado di incamerare i soldi per pagare gli interessi, devono chiudere i loro programmi sociali. E se queste chiusure contraggono ancor di più l’economia – e pertanto, le entrate fiscali del governo – allora il governo deve tagliare ancora di più la spesa sociale.
Da Bruxelles alla Lettonia, i pianificatori neoliberisti hanno espresso la speranza che i salari pubblici più bassi si diffondano anche al settore privato. L’obiettivo è quello di contrarre le loro economie decurtando i livelli dei salari del 30 per cento o anche più – a livelli in stile depressione – nella convinzione che questo lascerà un “avanzo maggiore” a disposizione per pagare i servizi di debito.
I governi tasseranno i lavoratori – non la finanza, le assicurazioni o l’immobiliare – imponendo nuove tasse sulla nuova occupazione e sulle vendite tagliando nel contempo le pensioni e la spesa pubblica. L’Europa sarà trasformata in una repubblica delle banane.
Questo richiede una dittatura e la Banca Centrale Europea ha assunto questo potere dal governo eletto. Essa è “indipendente” dal controllo politico – celebrata come il “marchio della democrazia” dalla nuova oligarchia finanziaria. Ma come spiega Platone nei suoi dialoghi, che cos’è l’oligarchia se non la fase politica che segue la democrazia?
Possiamo solamente aspettarci che la nuova élite al potere si renda ereditaria – abolendo le tasse sulle proprietà terriere, tanto per cominciare – e si trasformi in un’aristocrazia assoluta. “Unitevi alla lotta contro i lavoratori o vi distruggeremo”, è questo che la Commissione Europea sta dicendo ai governi.
Si possono quindi dimenticare le economie di Adam Smith, di John Stuart Mill e dell’Epoca Progressista, dimenticare Keynes e le tradizioni socialdemocratiche del ventesimo secolo. L’Europa sta entrando in un periodo di dominio neoliberista totalitario. Questo è stato inevitable dopo le prove generali compiute in Cile nel 1973.
Dopotutto, non si possono avere “liberi mercati” in stile neoliberista senza un controllo totalitario. E dopotutto, in questo consistevano gli scioperi e le dimostrazioni di mercoledì. La guerra di classe è ritornata in Europa – per vendicarsi!
Si tratta di un suicidio economico, ma l’UE si attiene alla sua richiesta che i governi dell’Eurozona debbano mantenere i propri deficit di bilancio sotto il 3% del PIL – e il loro debito complessivo sotto il 60% del PIL.
Non devono innalzare tasse sulla ricchezza ma solo sui lavoratori e sui consumi (attraverso imposte sulle vendite). E, allo stesso tempo, devono tagliare drasticamente salari e pensioni, tagliare la spesa pubblica e l’occupazione, e contrarre l’economia.
Quando un problema economico è economicamente distruttivo come in questo caso, può essere solamente imposto come ricatto economico. Mercoledì l’UE ha approvato una legge per sanzionare i governi fino allo 0,2% del PIL se non “correggono” i loro deficit di bilancio imponendo un’austerità fiscale.
Le nazioni che prendono soldi a prestito per dedicarsi ad una spesa anticiclica “in stile keynesiano” che fa aumentare il livello del debito pubblico al 60% del PIL dovranno ridurre le eccedenze del 5% ogni anno – oppure dovranno subire una dura punizione. E, a differenza delle banche centrali di tutto il mondo, alla Banca Centrale Europea è vietato monetizzare dai governi del settore pubblico.
Questi governi devono prendere denaro a prestito dalle banche, consentendo a questi istituti di creare il loro debito a interesse sulle proprie tastiere invece di farlo fare, senza alcun costo, alla loro banca centrale. La privatizzazione finanziaria e il monopolio nella creazione del credito che i governi ceduto alle banche ora vengono fatti pagare – al prezzo di spaccare l’Europa.
I membri non eletti della Banca Centrale Europa (BCE, indipendente dalla politica democratica ma non dal controllo delle sue banche commerciali membre) ha assunto i poteri di pianificazione dal governo eletto.
Grata al suo gruppo di sostenitori, ossia il settore finanziario, la BCE ha avuto ben poche difficoltà a convincere la Commissione Europea a sostenere la nuova morsa del potere oligarchico.
Minaccia di sanzionare gli stati dell’Eurozona fino allo 0,1% del loro PIL se non obbediscono ai suoi consigli neoliberisti – apparentemente per “correggere” questi squilibri. Ma la realtà, ovviamente, è che ogni “cura” neoliberista peggiora soltanto le cose.
Invece di aumentare i livelli dei salari e del tenore di vita come requisiti indispensabili per una maggiore produttività dei lavoratori, la Commissione Europea “monitorerà” i costi del lavoro sul presupposto che l’aumento dei salari possa pregiudicare la competività anziché aumentarla.
L’ampio spettro di spazzatura economica neoliberista è stato messo in azione. Se i membri dell’euro non riescono a deprezzare le loro valute, allora devono combattere i lavoratori – ma non tassare le proprietà immobiliari, la finanza e gli altri settori che vivono sulle rendite, non regolamentare i monopoli e non fornire servizi pubblici che possono poi essere privatizzati a costi molto maggiori. La privatizzazione non viene considerata un intralcio alla competititività – solo l’aumento dei salari, indipendentemente da considerazioni di produttività.
Questa politica economicamente distruttiva è stata testata soprattutto nei paesi baltici, utilizzando paesi come la Lettonia come cavie per vedere quanto possono essere schiacciati i lavoratori prima di reagire politicamente.
La Lettonia ha dato carta bianca alle politiche neoliberiste imponendo tasse con un’unica aliquota del 51% ai lavoratori, mentre le proprietà immobiliari vengono tassate solamente all’1%. Gli stipendi del settore pubblico sono stati ridotti del 30%.
I lavoratori nella fascia d’età dai 20 ai 35 anni stanno emigrando a frotte. Le aspettative di vita si stanno riducendo. I livelli di malattie sono in aumento. Il mercato interno interno si è contratto, così come la popolazione europea – come accadde negli anni Trenta quando il “problema popolazione” costituì una forte riduzione nella fertilità e nei livelli delle nascite (soprattutto in Francia). Ed è ciò che avviene nelle depressioni economiche.
Prima è arrivato il saccheggio dell’Islanda da parte dei suoi stessi banchieri, ma la grande notizia è stata la Grecia. Quando il paese è entrato nell’attuale crisi fiscale, i funzionari dell’Unione Europea avevano suggerito di emulare la Lettonia, che è come il bambino menomato dalla devastazione economica neoliberista.
La teoria alla base è che nella misura in cui i membri dell’euro non possono svalutare la propria valuta, devono affidarsi ad una “svalutazione interna”: taglio degli stipendi, delle pensioni e della spesa sociale.
E’ riducendo gli stipendi, apparentemente per “liberare” maggiori entrate per pagare i debiti enormi che gli europei si sono sobbarcati per pagare le proprie abitaziuoni, per pagare l’istruzione (fino ad ora fornita gratuitamente in molti paesi come la Stockholm School of Economics lettone), i trasporti ed altri servizi pubblici che sono stati privatizzati (ad un ritmo davvero sostenuto – che i privatizzatori giustificano sottolineando le cifre enormemente sproporzionate che hanno dovuto pagare ai banchieri e ai finanziatori per acquistare le infrastrutture svendute dai governi, e verso cui neoliberisti hanno imposto di bloccare la tassazione della ricchezza).
Il risultato è la contrazione economica. L’Europa sta compiendo un suicidio economico – oltre che un suicidio demografico e fiscale. Ogni tentativo di “risolvere” il problema di questa contrazione in stile neoliberista, peggiora soltanto le cose.
I dipendenti pubblici della Lettonia hanno visto una decurtazione del 30 per cento dei loro stipendi nell’ultimo anno, e i banchieri centrali mi hanno detto che stanno cercando di tagliare ulteriormente, nella speranza che vengano abbassati anche gli stipendi nel settore privato.
Quello che stanno provocando questi tagli, e non c’è da meravigliarsi, è uno stimolo all’emigrazione – e la distruzione del mercato immobiliare, portando ad insolvenze, pignoramenti e un flusso di debitori dal paese.
L’emigrazione è guidata da giovani lavoratori in cerca di occupazione nell’economia contratta. Si da il caso che le condizioni di lavoro in Lettonia siano le più neoliberiste d’Europa, vale a dire, pericolose, sgradevoli e quasi neofeudali.
Tanto per cominciare, nell’Action Day di ieri c’è stato il solito blocco dei trasporti e alle 13:00 un concerto di clacson di accompagnamento nella capitale della Lettonia, Riga, per 10 minuti, per fare sapere all’opinione pubblica che qualcosa stava davvero avvenendo.
La cosa più importante che è che le elezioni parlamentari si terranno questo sabato 2 ottobre (*), e alla coalizione di opposizione, Centro dell’Armonia, viene chiesto di portare avanti un un sistema fiscale e una politica economica alternativi alle politiche neoliberiste che hanno ridotto così duramente i salari dei lavoratori e le condizioni nei luoghi di lavoro – oltre alle condizioni delle infrastrutture pubbliche – negli ultimi dieci anni.
All’incirca 10.000 lettoni hanno partecipato ai comizi di protesta, dalla capitale Riga alle città più piccole come parte del “viaggio all’interno della crisi”. Sei organizzazioni sindacali indipendenti e il Centro dell’Armonia hanno organizzato un comizio al parco Esplanade di Riga che ha attirato dai 700 agli 800 dimostranti, cifra relativamente importante per una città così piccola.
Un’altra protesta sindacale ha visto all’incirca 400 dimostranti riuniti davanti al Gabinetto dei Ministri, dove il programma di austerità lettone è stato pianificato e portato avanti.
Per sottolineare il problema economico, un giro organizzato in autobus ha portato i giornalisti a vedere le vittime – scuole e ospedali chiusi, edifici governativi i cui dipendenti si erano visti decurtare gli stipendi e la forza lavoro ridimensionata.
Folle di persone si sono radunate riaccendendo la rabbia manifestata nel freddo periodo di metà gennaio dello scorso anno quando i lettoni erano scesi in strada per protestare contro l’inizio di questi tagli.
Queste dimostrazioni sembrano aver dato un maggior consenso ai sempre più presenti sindacati militanti, guidati da centinaia di sindacati individuali che appartengono all’Associazione Sindacati Indipendenti. L’altra organizzazione sindacale – la Free Trade Unions (LBAS) nel giugno 2009 ha perso la faccia avallando i tagli del 10% sulle pensioni proposti dal governo (e per la verità, anche il taglio del 70% per i pensionati lavoratori).
La corte costituzionale lettone è stata sufficientemente indipendente da annullare queste misure lo scorso dicembre. E se il governo cambierà davvero sabato, il conflitto tra la Rivoluzione Neoliberista e la riforma progressiva classica degli ultimi secoli verrebbe alla luce.
La Rivoluzione Neoliberista cerca di ottenere in Europa ciò che è stato raggiunto negli Stati Uniti fin dal 1979, quando i salari reali hanno cessato di aumentare. Lo scopo è quello di raddoppiare la quota relativa di ricchezza goduta dall’1% più ricco e questo comporta ridurre in povertà la popolazione, spaccare le forze sindacali, distruggere il mercato interno come requisito indispensabile per poi dare la colpa di tutto al “Signor Mercato”, forze inesorabili che si celano dietro la politica, puramente “obiettivo” invece che la morsa del potere politico.
In realtà, non è esattamente il “mercato” che sta favorendo questa distruttiva austerità economica. Il Centro dell’Armonia della Lettonia dimostra che esiste un modo molto più semplice per dimezzare i costi del lavoratori piuttosto che a ridurne i salari: spostare semplicemente il peso fiscale dal lavoro alle proprietà immobiliari e ai monopoli (soprattutto le infrastrutture privatizzate).
Questo lascia un minore avanzo economico da capitalizzare in prestiti bancari, abbassando di conseguenza i prezzi dell’immobiliare (l’elemento più importante delle spese dei lavoratori), e i prezzi dei servizi pubblici (con i proprietari che ottengono i propri rendimenti sotto forma di rendimenti sul patrimonio anziché fattorizzare oneri di interesse nel loro costo di attività). La deducibilità fiscale dell’interessa verrà abrogata – non c’è nulla di intrinsecamente “dettato dal mercato” con questo sussidio fiscale per la leva del debito.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che molte econonomie post-sovietiche si troveranno costrette a doversi ritirare dall’Eurozona anziché assistere ad un flusso di lavoro e di capitali. Esse rimangono l’esempio più estremo dell’Esperimento Neoliberista di vedere quanto una popolazione può sopportare la drastica riduzione del proprio tenore di vita prima di ribellarsi.