mercoledì 13 ottobre 2010

Update italiota

Il consueto aggiornamento sugli ultimi avvenimenti in terra italiota, ma non solo...


La crisi del regime
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 12 Ottobre 2010

Sostiene Bersani che il PD è pronto ad allearsi con l’UDC per governare. Della dichiarazione, la parte che stupisce è dove si dice che il PD é “pronto” a fare qualcosa. Intendiamoci: nel contenuto non è certo una notizia positiva, dal momento che unire le forze con l’UDC per mandare a casa il governo è un conto, costruirci un progetto di governo è un altro.

Ma ci sarà modo più avanti di verificare se questo sarà l’unico epilogo possibile per un partito nato in laboratorio; per ora è più utile tentare di dare una lettura alla cosiddetta “fase di transizione” del berlusconismo e ai pericoli che porta con sé, vagamente evocati da Bersani stesso.

Che cacciare Berlusconi sia un’urgenza democratica e persino una necessità per il sistema paese, non vi sono dubbi. Il fallimento clamoroso del quindicennio del regno di Arcore è sotto gli occhi di tutti.

Ed é giusto - come fa Bersani - porsi il problema di una crisi di regime che, nella sua fase finale, può produrre una coda velenosa dall’impatto estremamente pericoloso per una democrazia già oggi ridotta ai minimi termini.

Oltretutto, la sentenza della Consulta, che il prossimo 14 Dicembre definirà la legittimità del legittimo impedimento, rischia di produrre un effetto devastante e definitivo nella stessa compagine governativa.

D’altro canto, le crescenti difficoltà del Presidente del Consiglio sia nel suo schieramento che, più in generale, nel consenso del paese, sono il retroterra ideale per una resistenza sulle barricate di un uomo che teme che perdere questo scontro politico, per il livello al quale lui stesso lo ha portato, significherebbe molto di più che una crisi parlamentare e una successiva campagna elettorale.

“E’ un osso duro Berlusconi”, ha detto Bersani. Ha ragione: spesso è accaduto che lo si dava per battuto, ma la sua indubbia capacità propagandistica, le risorse a disposizione e l’insipienza assoluta dell’opposizione lo hanno risollevato.

Oggi, però, il Premier sembra avvilupparsi in una crisi dagli esiti incerti; una volta tanto non pare che abbia la capacità di vincere contro tutti e tutto. Cosa dobbiamo aspettarci, dunque, in un contesto così complesso, in quella cioè che si può definire una vera e propria crisi di regime?

Berlusconi ha già dato innumerevoli prove di come intenda la battaglia politica: a tutto campo e senza esclusione di colpi, con ogni mezzo a disposizione (lecito o illecito che sia) indifferente alle regole e pronto al “tanto peggio tanto meglio”. E’ con questa concezione che si è fatto strada nel mondo degli affari e nell’agone politico.

Berlusconi non persegue il potere come legittima ambizione per veicolare un progetto politico e di sistema, cosciente che però il suo utilizzo non può e non deve elevarsi al di sopra di quanto la Carta e il sistema di regole istituzionali, scritte e no, consentono.

Non ha nessun interesse per la vita del Paese se non per i vantaggi che possono derivarne per lui e per le sue aziende. Per questo è “sceso in campo” e per questo non mollerà facilmente il campo.

Berlusconi ritiene che il suo disegno sia già, di per sé, più importante del Paese stesso al quale dovrebbe essere indirizzato. Difendere il suo disegno diventa quindi prioritario. E in una distorta concezione machiavellica, non solo i fini giustificano i mezzi, ma spesso i mezzi indicano con chiarezza i fini.

La sua potenza di fuoco - derivatagli da un potere immenso e sproporzionato per qualunque democrazia occidentale - abbraccia la finanza, la comunicazione e il sistema radiotelevisivo pubblico e privato, il sistema bancario e il commercio con l’estero ed è ben rappresentato nelle strutture palesi e occulte che governano l’Italia.

Nella concezione berlusconiana del potere, del resto, le norme e le leggi su cui si edificano le comunità, sono solo lacci che impediscono a chi comanda nella sostanza di comandare anche nella forma.

Per questo vanno rimossi, invocandone ora una presunta inutilità, ora una sospetta inapplicabilità, fino a mettere sullo stesso piano una Costituzione vera e vigente con una “di fatto” inventata dai suoi legulei.

In questo senso, sarebbe quindi perfettamente inutile auspicare una fine di regime politicamente guidata, una transizione dal berlusconismo dalle grandi mascelle verso un riassesto degli equilibri politici ed economici del Paese.

In questi ultimi anni abbiamo avuto prove in abbondanza: i dossieraggi mediatici, l’uso dei Servizi segreti e del potere economico sfrenato, senza pudori, nella battaglia politica, hanno inquinato a fondo un paese già piegato su se stesso e in deficit di democrazia. In questo senso, dunque, la difesa degli ultimi spazi di agibilità democratica e di dialettica politica ha una sua funzione determinante, non lo si può negare.

Si può discettare a lungo di transizione incompiuta dalla prima alla seconda Repubblica, ma seppure, storicamente, la sovranità limitata del Paese é sempre stata la ragione fondativa della sua mancata crescita democratica, da quindici anni in qua il buco nero di questa democrazia sospesa si chiama Berlusconi.

Il suo dominio politico si poggia (anche) sul conflitto d’interessi che permette ai suoi tentacoli di strangolare la dialettica politica. Inutile qui ripetere ancora una volta quali e quante siano le responsabilità del centrosinistra italiano nel non volerlo affrontare in maniera decisa.

Per alcuni c’era la convinzione che sarebbe apparso un provvedimento illiberale, per altri, autonominatisi volpi della politica, c’era l’idea che non risolverlo una volta per tutte avrebbe tenuto Berlusconi sotto scacco.

Fatto sta che non è stato né risolto né affrontato e si è lasciato che questo cancro corrodesse dall’interno il già fragile equilibrio tra i poteri. Sistema che non solo andrebbe salvaguardato per rispetto all’ordinamento Costituzionale, ma che deve essere assicurato se si vuole che la dialettica democratica sopravviva alle ansie di dominio di una persona o di una cricca.

Sul conflitto d’interessi non c’era bisogno di promulgare una legge liberticida, giacché tanto esteso era (e ora lo è diventato molto di più) che sarebbe stata sufficiente una legge semplicemente copiata ed incollata da quelle statunitensi o da qualunque altra esistente nel quadro giuridico europeo.

Si poteva legiferare quindi senza timori per la campagna mediatica che il cavaliere nero avrebbe intrapreso. L’ha fatto comunque, per sedici anni, contro tutto e tutti, aggredendo in tutti i modi gli ostacoli che si sovrapponevano tra la sua ansia narcisistica di dominio assoluto e il mandato - limitato, seppur ampio - che le urne gli hanno concesso.

Mandare a casa il governo, senza però sapere come andare a votare successivamente, non sarebbe sufficiente. Una nuova legge elettorale, quindi, se si vuole porre fine alla stortura evidente di un sistema che assegna il 60% dei seggi a chi abbia almeno il 30% dei consensi, ha una sua urgenza intrinseca e non discutibile.

L’organizzazione dei collegi e delle circoscrizioni, così come disegnata, e con le norme del porcellum, darà in partenza la vittoria al cavaliere in almeno una delle due Camere, purché egli mantenga saldo il rapporto con la Lega di Bossi.

Ma serve un profondo riesame anche delle norme che disciplinano l’utilizzo dei mezzi di comunicazione in campagna elettorale, ad evitare che la già ultra evidente sproporzione di mezzi finanziari e di bocche da cannone mediatiche in campo, non renda semplicemente ridicola una competizione già decisa prima ancora di cominciare.

Una legge elettorale, di norma, dovrebbe garantire due esigenze: rappresentatività e governabilità. E dovrebbe anche essere concepita sulla scorta della tradizione culturale e politica del Paese dove si vota. Proprio in ragione di queste considerazioni, una legge elettorale su base proporzionale, con una soglia di sbarramento al 4 o al 5%, risulterebbe la più idonea a tenere insieme gli elementi di cui sopra.

Impedirebbe ammucchiate, ridurrebbe immediatamente il numero di partiti e partitini - favorendo quindi la governabilità - e semplificherebbe le procedure di voto; ridarebbe la parola agli elettori nella scelta dei candidati e garantirebbe il rispetto delle diverse identità politiche del Paese (favorendo quindi la rappresentatività).

A maggior ragione una legge elettorale equa si rende necessaria per contrastare il profondo squilibrio mediatico garantito dai funzionari del padrone, che occupano ignobilmente le poltrone di direttori dei Tg e dei Gr Rai. Il servizio pubblico non dovrebbe vedere rappresentato nei suoi vertici apicali la quinta colonna dell’azienda concorrente.

Un’azienda - Mediaset - che con buona pace di D’Alema, molto prima che essere una risorsa del Paese è un’arma politico-elettorale del Presidente del Consiglio e del suo partito, così come lo sono i giornali famigli e i magazine che pompano fuffa agiografica per la famiglia, progressivamente trasformati in house organ del padrone.

Questo è il quadro dell’informazione in Italia, questo lo scenario su cui si organizza il mercato della circolazione delle idee e si prefigura il consenso. Questo quindi il punto nevralgico dove l’iniziativa parlamentare deve divenire un imperativo categorico. Se non si vuole veder finire una stagione drammatica con una campagna elettorale farsesca che offra un risultato scontato.

Chi ritiene di dover fare politica, è da qui che deve muovere. Se ci si crogiola aspettando di proporre uno scacco al re, si finisce per subire uno scacco matto.


Slot in nero, sconto di governo
di Marco Lillo e Ferruccio Sansa - www.ilfattoquotidiano.it - 12 Ottobre 2010

Ottantotto miliardi di euro o appena 30 milioni? Il grande scandalo slot machine è arrivato al capitolo finale: tra sessanta giorni sapremo quanto le società concessionarie dovranno versare allo Stato. L’accusa ieri ha ribadito la sua richiesta: quasi novanta miliardi, la somma più alta mai pretesa dalla procura contabile nella storia d’Italia.

Ma la Commissione incaricata dal ministero dell’Economia ha indicato una somma cento volte più bassa. Insomma, i tecnici designati dal governo hanno previsto un mega-sconto per le concessionarie. E non basta: il Consiglio di Stato ha suggerito criteri di calcolo per poche decine di milioni, un tremillesimo della somma chiesta dall’accusa.

Ieri si è svolta l’udienza conclusiva alla Corte dei Conti. Con un primo colpo di scena: respinte le istanze di rinvio e di annullamento presentate dalle concessionarie. Quindi la parola è passata alla Procura. Che non ha abbassato di una virgola la cifra stabilita nel 2007: 88 miliardi. Una richiesta basata sull’applicazione delle penali previste tra Stato e concessionari nel 2004. Insomma, semplicemente chiedendo che sia applicata la convenzione, come si pretenderebbe da un cittadino qualsiasi.

I colossi dei giochi si troverebbero a pagare somme che quasi risanerebbero i conti pubblici italiani: 31 miliardi e 390 milioni soltanto per il concessionario Atlantis World. Un tesoro, ma bisogna tenere presente che soltanto nei primi sei mesi del 2010 gli operatori del settore hanno incassato 15 miliardi.

Le richieste minime

La Procura però ha avanzato due ipotesi subordinate: la prima prevede che la somma sia equivalente all’80% dell’aggio percepito dai concessionari nel periodo da settembre 2004 a gennaio 2007. Certo, sarebbe già un bel taglio: si passerebbe a 2,7 miliardi. Il Pm specifica nell’atto la somma pretesa da ogni concessionario: 845 milioni per Atlantis, il colosso delle slot. Ma se anche questa richiesta non fosse accolta, il pm Marco Smiroldo propone che i concessionari “siano condannati al risarcimento del danno che il collegio stimerà equo”.

E qui ecco spuntare un’altra stima e una storia passata praticamente sotto silenzio: il ministero dell’Economia negli anni scorsi ha dato incarico a una commissione di indicare i criteri per il calcolo delle somme da pagare. I tre esperti, guidati dall’ex ragioniere dello Stato Andrea Monorchio, hanno proposto una “rimodulazione” delle penali che porterebbe – secondo i Monopoli – a circa 800 milioni di euro. E siamo già scesi a meno di un centesimo dei famosi 88 miliardi (98 secondo le primissime stime).

Basta? Nemmeno per sogno. Nella corsa al ribasso il Consiglio di Stato ha indicato un criterio ancora più favorevole: “Il limite massimo delle penali irrevocabili… non dovrebbe essere comunque superiore all’11% del valore medio del compenso per la gestione telematica degli apparecchi da gioco spettante al concessionario nello stesso anno, secondo i dati dei cespiti della gestione riferita a quell’anno in possesso dei Monopoli”. Sembra cinese per i non addetti ai lavori: significa che nelle casse dello Stato andrebbero una trentina di milioni. Un tremillesimo di quello che ha calcolato la Procura della Corte dei Conti.

Un “giovane” tenace

Ma il vero protagonista dell’udienza e di questo procedimento interminabile è senza dubbio Marco Smiroldo, il pubblico ministero. Chissà, forse quando l’inchiesta è partita le società si erano rallegrate che il fascicolo fosse finito sulla scrivania di questo magistrato, uno dei più giovani della Procura della Corte dei Conti. Un pm ragazzino – eravamo nel 2006 – di appena trentacinque anni per affrontare società che maneggiano miliardi di euro, che hanno agganci ai livelli più elevati della politica. E non solo.

Quanto quell’impressione fosse sbagliata lo hanno dimostrato gli eventi successivi. Smiroldo non è certo un magistrato che ami i riflettori, ma è un uomo di legge fino al midollo, che chiede soltanto l’applicazione delle regole. Ha condotto l’inchiesta fino alla fine, senza modificare la sua linea contro cui si sono scatenati tanti poteri forti.

E ascoltare la sua requisitoria ieri ha riservato ulteriori clamorose sorprese sullo scandalo: si scopre così che lo Stato ha pagato per la pubblicità dei giochi d’azzardo “legali” oltre 13,7 milioni tra il 2004 e il 2007. Una fortuna, a tutto vantaggio degli affari delle concessionarie.

Smiroldo ha chiesto la restituzione della somma: “Il mancato collegamento degli apparecchi ha impedito il controllo telematico sul gioco, che soltanto se controllato è lecito, quindi non poteva pubblicizzarsi come lecito un gioco che in realtà non lo era: si è pagata, pertanto, una sorta di pubblicità ingannevole”. Quindi, sostiene la Procura, agli altri danni deve aggiungersi quello per la campagna pubblicitaria sul cosiddetto ‘gioco lecito’, pari a 13.773.360 euro”.

L’ultima beffa

Non basta. C’è un ulteriore danno pubblico: si scopre che la Sogei (Società Generale di Informatica, soggetto controllato dallo Stato) ha speso inutilmente 26,9 milioni: “Ad aumentare la dimensione del danno erariale – ha detto Smiroldo – contribuiscono anche le spese sostenute per il servizio di gestione operativa del sistema di controllo degli apparecchi messo a disposizione da Sogei, ma rimasto sostanzialmente inutilizzato almeno fino al gennaio 2007, per un danno pari a circa euro 26.982.000”. Adesso la parola spetta al giudice.


E il sindaco risponde ai cittadini: "I simboli non si toccano. Padania Libera"
da www.ilfattoquotidiano.it - 12 Ottobre 2010

Il sole delle Alpi dalla scuola di Adro “non si tocca” perché “non c’è la volontà di togliere” quei simboli “altro che mancano i soldi”. A scriverlo è Oscar Lancini, ormai noto sindaco del paese in provincia di Brescia, rispondendo alle mail di diversi cittadini che gli chiedevano di rimuovere i 700 soli delle Alpi, simbolo registrato della Lega Nord. Lancini risponde a tutti e in modo chiaro.

A Daniele P., che si presenta come un cittadino di “Roma ladrona” e gli chiede chi pagherà la rimozione dalla scuola del simbolo leghista, Lancini risponde: “Non c’è la volontà di toglierli, altro che mancano i soldi. Non ho commesso nessun reato quindi rimangano. Piaccia o no”.

A Nicola P. che gli ricorda come nelle scuole deve essere esposta solo la bandiera italiana, come previsto dalla Costituzione, il sindaco invia un messaggio che chiude con un l’inno del Carroccio: “Forse non ha capito che quel simbolo non si tocca, piaccia o no a lei e a quelli che la pensano come lei! Padania libera”.

Queste sono due mail dell’otto e del nove ottobre. Quindi tre giorni fa. Quando era ormai certo che i simboli dovessero essere rimossi, così come invocato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dal ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini e, infine, dal provveditore agli studi della Lombardia, Giuseppe Colosio.

Eppure il sindaco di Adro non ne vuole sapere. Come dire: se ne frega. E ieri, a un avvocato che, sempre via mail, offriva una donazione di cento rotoli di carta igienica con stampato il simbolo leghista, il sindaco ha gentilmente risposto: “E’ troppo ruvida avvocato, può andare bene per il culo di qualche terrone. Padania libera”.

La mail era sarcastica ma gentile. “La presente per comunicarvi che poiché sono rimasto colpito dalla Vostra iniziativa di porre il Sole delle Alpi, simbolo apolitico, sulle suppellettili della Vostra scuola, sono pronto a donare 100 rotoli di carta igienica sulla quale sia stampata la relativa effige, poiché o il lavoro si fa bene o non lo si fa così che ogni momento della vita degli alunni sia accompagnato da questo prezioso simbolo socio-culturale che li preservi da contaminazioni straniere. Attendo Vostra cortese conferma per spedizione. Cordiali Saluti”.

Ricevuta la risposta del sindaco l’avvocato non demorde. E replica: “Non avevo dubbi sulla Sua sensibilità, comunque mi riservo di donare ugualmente questo simpatico gadget di carta igienica padana ai suoi concittadini. Se decidesse di tornare in Scozia dai suoi avi celti me lo faccia sapere che le offro il biglietto, di tasca mia”.

C’è anche chi, come Davide, chiede lumi al sindaco. “Leggo ancora polemiche sulla scuola di Adro e pure altre sul fatto che alla mensa scolastica non sarebbe più possibile scegliere l’alternativa alla carne di maiale per i bambini musulmani. Ma è obbligatorio? E sui simboli, come è finita? E’ costretto a toglierli? Pagano da Roma o dovete trovarli voi? Non ci si capisce molto. Con cordialità, buon lavoro”. Alla mail, più che cordiale e conciliante, Lancini lapidario risponde: “Tutte balle”.


Visto si scherzi
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 12 Ottobre 2010

L’altra sera, su La7, è apparso Nicola Porro in stato di evidente alterazione. A un certo punto, riuscendo a stupire persino il conduttore, peraltro aduso a maneggiare casi umani, il Porro lamentava la mancata solidarietà di Napolitano.

A che titolo il capo dello Stato dovrebbe tributare solidarietà al Porro, sfugge ai più, compreso probabilmente il Porro medesimo. A meno che il Porro non invochi solidarietà per esser costretto a lavorare con un direttore come Sallusti.

Nel qual caso la merita tutta, come del resto Sallusti per essersi ritrovato un vicedirettore come Porro. Uno che, quand’è in vena di scherzi, telefona al portavoce della Marcegaglia per minacciare di “romperle il cazzo per venti giorni”. Che burlone.

Feltri, al quale va la nostra solidarietà per avere un direttore e un vicedirettore così, definisce Porro “un pirla”. Ma Porro, a La7, assicura che scherza anche Feltri. Sono tutti dei gran buontemponi.

Forse scherza anche una delle penne di punta del Giornale, Antonio Signorini, che dedica un articolo al Pm Woodcock e alle critiche che in passato gli mosse Fini per la sua “fantasia investigativa”. Signorini cita, fra gli insuccessi di Woodcock, le inchieste su Vallettopoli e sull’ex portavoce finiano Salvo Sottile.

Forse non sa che Vallettopoli ha portato alla condanna di Corona & C. per estorsione e altro; e che Sottile è stato condannato a 8 mesi in primo grado per peculato, avendo usato l’autoblu per scarrozzare la signorina Gregoraci. O forse anche Signorini, secondo le usanze della casa, è in vena di burle. Solidarietà anche a lui.

E pure a Ferruccio de Bortoli, per essere costretto (ma da chi?) a pubblicare le lenzuolate di Piero Ostellino. L’altro giorno il piccolo Ostello ha riempito mezza pagina di Corriere con un articolo in linguaggio ottocentesco: “Degli ultimi casi d’Italia qui descritti da Piero Ostellino attraverso la libera trasposizione ‘Degli ultimi casi di Romagna’, 1846, di Massimo d’Azeglio”.

Ogni tanto Ostellino sprofonda in crisi di identità e si crede Massimo d’Azeglio (ma anche Costantino Nigra, il conte Solaro della Margarita, Quintino Sella, Giovanni Lanza e così via): abbandona il computer, impugna la piuma d’oca, la intinge nel calamaio e verga sapide articolesse a base di lemmi ottocenteschi: “L’arte di murar la casa ad un mattone per volta”, “de’ governi”, “sudditi pontificj”, “a’ sudditi”, “bastante cagione”, “apransi agli Italiani modi liberi e virtuosi”, “vilmente servi all’oro straniero”, “ajutarla”…

È la sindrome d’amnesia che coglie il personaggio interpretato da Sordi nel film Troppo forte di Verdone: l’avvocato Gian Giacomo Pignacorelli in Selci che, di punto in bianco, dimentica l’arte forense e diventa un ballerino abbandonando gli attoniti clienti. Ieri, tornato in sé ma non troppo, Ostellino ha ripreso a scrivere in italiano contemporaneo per lanciarsi al salvamento del Giornale perseguitato dai Pm napoletani.

Ce l’aveva con gli italiani, che “non si indignano” per l’inchiesta di Napoli, “come se perquisire un giornale fosse la cosa più normale del mondo” (lo è, se ne faccia una ragione). E, non contenti, rispondono a un sondaggio di Sky che era giusto perquisire il Giornale. Ergo siamo “un paese anormale, incivile, ancora fermo al ‘22”. Cioè al fascismo.

L’anomalia, a suo dire, non è la telefonata minatoria di Porro al portavoce della Marcegaglia: anzi, di “conversazioni come quella… ne corrono a centinaia tutti i giorni” (anche lui evidentemente è solito chiamare i portavoce di questo o quello minacciando di “rompere il cazzo per 20 giorni” a questo o quello).

E nemmeno il fatto che “il padrone del Giornale” – come dice Feltri – sia Confalonieri, presidente di Mediaset, in barba alla legge Gasparri che vieta a Mediaset di controllare giornali.

No, l’anomalia è che la magistratura intercetti Porro. Il poveretto non sa che l’intercettato non era Porro, ma il portavoce della Marcegaglia. Poi però, a sorpresa, Ostellino butta lì che “la madre dei cretini è sempre incinta”. Un’autocritica ferocissima, forse immeritata. Piena solidarietà anche a lui.


Arma letale
di Massimo Gramellini - La Stampa - 12 Ottobre 2010

Ci vuole il porto d’armi per i tassisti, urla la Lega, dopo che a Milano un membro della categoria è stato pestato a sangue da un gruppo di bulli (coperti dalla scandalosa omertà del quartiere) per aver preso sotto le ruote il cockerino senza guinzaglio di una loro conoscente.

Ma immaginiamo che quel tassista fosse stato armato e avesse ucciso nella colluttazione uno dei bulli o la proprietaria del cockerino.

Adesso qualcuno direbbe che i proprietari di cani hanno diritto di girare armati per difendersi dall’arroganza dei pirati della strada. Ma immaginiamo che la proprietaria del cockerino fosse stata armata e un passante avesse pestato la cacca del suo cane, arrabbiandosi come un bufalo, e la signora in preda alla concitazione del litigio avesse fatto fuoco.

Adesso qualcuno direbbe che i passanti hanno diritto di girare armati. Ma immaginiamo che il passante fosse stato armato e avesse pestato la cacca di un alano: nel vedersi circondato dalla proprietaria del cane, dai bulli e dal tassista, avrebbe temuto che gli scatenassero contro il temibile molossoide. Preso dal panico, il passante avrebbe sparato, sbagliando completamente la mira e colpendo l’inquilino del prospiciente caseggiato, sportosi alla finestra per curiosare.

Adesso qualcuno direbbe che tutti gli inquilini di tutte le case affacciate su qualche strada hanno diritto di girare armati. Ma immaginiamo che l’unico a essere armato fosse stato il cockerino. Armato di guinzaglio, intendo, come usa nei Paesi civili.

Forse ci saremmo risparmiati questa carneficina.



Afghanistan, storia di un'invasione
di Massimo Fini - www.ilfattoquotidiano.it - 12 Ottobre 2010

Ogni volta che muore un soldato italiano in Afghanistan ci chiediamo “Che cosa ci stiamo a fare lì?”. Ma c’è un’altra domanda da farsi: cosa abbiamo fatto in Afghanistan e all’Afghanistan?

Altro che peace keeping
Dismesse le pelose giustificazioni che siamo in Afghanistan per regalare le caramelle ai bambini, per “ricostruire quel disgraziato Paese“, per imporre alle donne di liberarsi del burqa, perché, con tutta evidenza, quella in Afghanistan, dopo dieci anni di occupazione violenta, non può essere gabellata per un’operazione di “peace keeping“, ma è una guerra agli afghani, l’unica motivazione rimasta agli Stati Uniti e ai loro alleati occidentali, per legittimare il massacro agli occhi delle proprie opinioni pubbliche e anche a quelli dei propri soldati, demotivati perché a loro volta non capiscono “che cosa ci stiamo a fare qui”, è che noi in Afghanistan ci battiamo “per la nostra sicurezza” per contrastare il “terrorismo internazionale”.

È una menzogna colossale. Gli afghani e quindi anche i talebani, non sono mai stati terroristi. Non c’era un solo afghano nei commando che abbatterono le Torri gemelle. Non un solo afghano è stato trovato nelle cellule, vere o presunte, di al Qaeda. Nei dieci, durissimi, anni di conflitto contro gli invasori sovietici non c’è stato un solo atto di terrorismo, tantomeno kamikaze, né dentro né fuori il Paese.

E se dal 2006, dopo cinque anni di occupazione si sono decisi ad adottare contro gli invasori anche metodi terroristici è perché mentre i sovietici avevano almeno la decenza di stare sul campo, gli occidentali combattono quasi esclusivamente con i bombardieri, spesso Dardo e Predator senza equipaggio, ma comandati da Nellis nel Nevada. Contro un nemico invisibile che cosa resta a una resistenza?

Bin Laden non c’è più

Nel 2001 in Afghanistan c’era Bin Laden. Ma Osama costituiva un problema anche per il governo talebano, tanto è vero che quando nel 1998 Clinton propose ai talebani di farlo fuori, il Mullah Omar si disse d’accordo purché la responsabilità dell’assassinio del Califfo saudita se la prendessero gli americani. Ma Clinton all’ultimo momento si tirò indietro (documento del Dipartimento di Stato dell’agosto 2005).

Comunque sia oggi Bin Laden non c’è più e in Afghanistan non ci sono più nemmeno i suoi uomini. La Cia ha calcolato che su 50 mila guerriglieri solo 359 sono stranieri.

Ma sono ubzechi, ceceni, turchi, cioè non arabi, non waabiti, non appartenenti a quel jihad internazionale che odia gli americani, gli occidentali, gli “infedeli” e vuole vederli scomparire dalla faccia della terra.

Agli afghani e quindi ai talebani, interessa solo il loro Paese. E sarà pur lecito a un popolo o a una parte di esso esercitare il legittimo diritto di resistere a un’occupazione straniera, comunque motivata. L’Afghanistan, nella sua storia, non ha mai aggredito nessuno e armato rudimentalmente com’è non può costituire un pericolo per nessuno.

La guerra civile

Per avere un’idea delle devastazioni di cui siamo responsabili in Afghanistan bisogna capire perché i talebani vi si sono affermati agli inizi degli anni ‘90. Sconfitti i sovietici i leggendari comandanti militari che li avevano combattuti (i “signori della guerra”), gli Ismail Khan, gli Heckmatjar, i Dostum, i Massud, diedero vita a una sanguinosa guerra civile e, per armare le loro milizie, si trasformarono con i loro uomini in bande di taglieggiatori, di borseggiatori, di assassini, di stupratori che agivano nel più pieno arbitrio e vessavano in ogni modo la popolazione.

I talebani furono la reazione a questo stato di cose. Con l’appoggio della popolazione, che non ne poteva più, sconfissero i “signori della guerra”, li cacciarono dal Paese e riportarono l’ordine e la legge. Sia pur un duro ordine e una dura legge, quella coranica, che peraltro non è estranea alla cultura di quella gente.

a) Nell’Afghanistan talebano c’era sicurezza. Vi si poteva viaggiare tranquillamente anche di notte come mi ha raccontato Gino Strada che vi ha vissuto e vi ha potuto operare con i suoi ospedali. Gli occidentali gli ospedali li chiudono come è avvenuto a Lashkar Gah.

b) In quell’Afghanistan non c’era corruzione. Per la semplice ragione che la spiccia ma efficace giustizia talebana tagliava le mani ai corrotti. Ancora oggi, nella vastissima realtà rurale dell’Afghanistan, la gente, per avere giustizia, preferisce rivolgersi ai talebani piuttosto che alla corrotta magistratura del Quisling Karzai dove basta pagare per avere una sentenza favorevole.

c) Nel 1998 e nel 1999 il Mullah Omar aveva proposto alle Nazioni Unite il blocco della coltivazione del papavero, da cui si ricava l’oppio, in cambio del riconoscimento internazionale del suo governo. Nonostante quella di boicottare la coltivazione del papavero fosse un’annosa richiesta dell’Agenzia contro il narcotraffico dell’Onu la risposta, sotto la pressione degli Stati Uniti, fu negativa.

All’inizio del 2001 il Mullah Omar prese autonomamente la decisione di bloccare la coltivazione del papavero. Decisione difficilissima non solo perché su questa coltivazione vivevano moltissimi contadini afghani, a cui andava peraltro un misero 1% del ricavato, ma perché il traffico di stupefacenti serviva anche al governo talebano per comprare grano dal Pakistan.

Ma per Omar il Corano, che vieta la produzione e il consumo di stupefacenti, era più importante dell’economia. Aveva l’autorità e il prestigio per prendere una decisione del genere che fu così efficace da far crollare la produzione dell’oppio quasi a zero (prospetto del Corriere della Sera 17/6/2006).

Insomma il talebanismo era la soluzione che gli afghani avevano trovato, almeno momentaneamente, per i propri problemi. Noi abbiamo preteso di sostituire a una storia afghana una storia occidentale. Con i seguenti risultati.

Il Paese più insicuro

Oggi l’Afghanistan è il Paese più insicuro del mondo. E, con tutta evidenza, è la presenza delle truppe straniere a renderlo tale. Incalcolabili sono le vittime civili provocate, direttamente o indirettamente dalla presenza delle truppe occidentali.

Vorrei anche rammentare, in queste ore di pianto per i nostri caduti, che anche gli afghani e persino i guerriglieri talebani hanno madri, padri, mogli e figli che non sono diversi dai nostri. Inoltre in Afghanistan sono tornati a spadroneggiare i “signori della guerra” alcuni dei quali siedono nel governo del Quisling Karzai.

La corruzione, nel governo, nell’esercito, nella polizia, nelle autorità amministrative è endemica. Ha detto Ashraf Ghani, un medico, terzo candidato alle elezioni farsa di agosto e il più filoccidentale di tutti: “Nel 2001 eravamo poveri ma avevamo una nostra moralità. Questo profluvio di dollari che si è riversato sull’Afghanistan ha distrutto la nostra integrità”.

Infine oggi l’Afghanistan “liberato” produce il 93% dell’oppio mondiale. Ma c’è di peggio. Armando e addestrando l’esercito e la polizia del governo fantoccio di Karzai, noi abbiamo posto le premesse, quando le truppe occidentali se ne saranno andate, per una nuova guerra civile. La sola speranza è il buon senso degli afghani prevalga.

Qualche segnale c’è. Shukri Barakazai, una parlamentare che si batte per i diritti delle donne afghane, ha detto: “I talebani sono nostri connazionali. Hanno idee diverse dalle nostre, ma se siamo democratici dobbiamo accettarle”. Da un anno, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe Abdullah, sono in corso colloqui fra emissari del Mullah Omar e del governo Karzai.

Ma prima di iniziare una seria trattativa ufficiale Omar, di fatto vincitore sul campo, pretende che tutte le truppe straniere sloggino. Non ha impiegato trenta dei suoi 48 anni di vita a combattere per vedersi imporre una “pax americana“.

E allora perché rimaniamo in Afghanistan e anzi il ministro della Difesa Ignazio La Russa, un ripugnante prototipo dell’”armiamoci e partite”, vuole dotare i nostri aerei di bombe? Lo ha spiegato, senza vergognarsi, Sergio Romano sul Corriere del 10/10: perché la lealtà all’”amico americano” ci darà un prestigio che potremo in futuro sfruttare nei confronti degli altri Paesi occidentali.

Gli olandesi e i canadesi se ne sono già andati, stufi di farsi ammazzare e di ammazzare, per questioni di prestigio, gli spagnoli se ne andranno fra poco.

Rimaniamo noi, sleali, perché fino a poco tempo fa abbiamo pagato i talebani perché ci lasciassero in pace, ma fedeli come solo i cani lo sono. Gli Stati Uniti spendono 100 miliardi di dollari l’anno per questa guerra insensata, ingiusta e vigliacchissima (robot contro uomini).

L’Italia spende 68 milioni di euro al mese, circa 800 milioni l’anno. Denaro che potrebbe essere utilizzato per risolvere molte situazioni, fra cui quelle di disoccupazione o di sottoccupazione che affliggono alcune regioni da cui partono molti dei nostri ragazzi per guadagnare qualche dollaro in più e farsi ammazzare e ammazzare senza sapere nemmeno perché.


Inps, è ufficiale: i precari saranno senza pensione. Silenzio o scatta la rivolta
di Eleonora Bianchini - http://contintasca.blogosfere.it - 11 Ottobre 2010

La notizia è arrivata e conferma la peggiore delle ipotesi. Rimarrà sotto traccia per ovvi motivi, anche se in Rete possiamo farla circolare. Se siete precari sappiate che non riceverete la pensione. I contributi che state versando servono soltanto a pagare chi la pensione ce l'ha garantita.

Perché l'Inps debba nascondere questa verità è evidente: per evitare la rivolta.

Ad affermarlo non sono degli analisti rivoluzionari e di sinistra ma lo stesso presidente dell'istituto di previdenza, Antonio Mastrapasqua che, come scrive Agoravox, ha finalmente risposto a chi gli chiedeva perché l'INPS non fornisce ai precari la simulazione della loro pensione futura come fa con gli altri lavoratori: "Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale".

Intrage scrive che l'annuncio è stato dato nel corso di un convegno: la notizia principale sarebbe dovuta essere quella che l'Inps invierà, la prossima settimana, circa 4 milioni di lettere ai parasubordinati, dopo quelle spedite a luglio ai lavoratori dipendenti, per spiegare come consultare on line la posizione previdenziale personale. Per verificare, cioè, i contributi che risultano versati.

La seconda notizia è che non sarà possibile, per il lavoratore parasubordinato, simulare sullo stesso sito quella che dovrebbe essere la sua pensione, come invece possono già fare i lavoratori dipendenti.

Il motivo di questa differenza pare sia stato spiegato da Mastrapasqua proprio con quella battuta. Per dire, in altre parole, che se i vari collaboratori, consulenti, lavoratori a progetto, co.co.co., iscritti alla gestione separata Inps, cioè i parasubordinati, venissero a conoscenza della verità, potrebbero arrabbiarsi sul serio.

E la verità è che col sistema contributivo, i trattamenti maturati da collaboratori e consulenti spesso non arrivano alla pensione minima.

I precari, i lavoratori parasubordinati come si chiamano per l'INPS gli "imprenditori di loro stessi" creati dalle politiche neoliberiste, non avranno la pensione. Pagano contributi inutilmente o meglio: li pagano perché l'INPS possa pagare la pensione a chi la maturerà. Per i parasubordinati la pensione non arriverà alla minima, nemmeno se il parasubordinato riuscirà, nella sua carriera lavorativa, a non perdere neppure un anno di contribuzione.

L'unico sistema che l'INPS ha trovato per affrontare l'amara verità, è stato quello di nascondere ai lavoratori che nel loro futuro la pensione non ci sarà, sperando che se ne accorgano il più tardi possibile e che facciano meno casino possibile.

Quindi paghiamo i nostri contributi che non rivedremo sotto forma di pensione. Se reagiamo adesso, forse, abbiamo ancora la speranza di una pensione minima.