Valute, Pechino rifiuta l'abbraccio di Obama
di Federico Rampini - La Repubblica - 11 Ottobre 2010
"Lo yuan è già forte". E la Fed interverrà. Il vertice dell'Fmi non è riuscito a fermare la speculazione sulle monete. Il presidente Usa voleva coinvolgere i cinesi nel governo dell'economia globale
L'inutile vertice del Fondo monetario a Washington, la paralisi di ogni forma di cooperazione internazionale per uscire dalla crisi, rafforza quelli come Spike Maynard. E' il candidato repubblicano del West Virginia, il cui spot elettorale mostra il fondatore del comunismo cinese Mao Zedong, e denuncia la delocalizzazione di posti di lavoro americani oltreoceano in un settore strategico per il futuro dell'energia pulita: la produzione di turbine eoliche.Un dragone gigante appare invece nei manifesti di Zack Space, deputato democratico dell'Ohio: lui accusa l'avversario repubblicano di sostenere il liberoscambio che fa vincere la Cina.
Nello scontro elettorale della California tra la democratica Barbara Boxer e la repubblicana Carly Fiorina, ciascuna rinfaccia all'avversaria un programma economico che favorirebbe la concorrenza cinese.
Il New York Times ha censito almeno 29 battaglie per le elezioni legislative del 2 novembre, dove i candidati si accusano reciprocamente di aiutare l'ascesa economica di Pechino. In un'America logorata dalla crisi economica, polarizzata nelle sue divisioni politiche, solo sul pericolo cinese sembrano tutti d'accordo. Non su come contrastarlo, però.
Dal vertice del Fmi esce indebolita la strategia originaria di Barack Obama: puntava sull'idea che la Cina è ormai abbastanza forte, ricca e matura da poter essere coinvolta come "azionista di riferimento" nel governo dell'economia globale. E' una pura coincidenza che l'assemblea di Washington si sia aperta mentre Pechino reagiva rabbiosamente al Nobel della pace.
Ma la brutalità usata contro Liu Xiaobo e le minacce alla Norvegia sono segnali della distanza che ancora separa la logica della Repubblica Popolare da quella dell'Occidente. Due anni fa, quando la recessione stremava l'Occidente e la Cina stessa temette di vedere la fine del suo boom, ci fu un breve periodo di vero dialogo: nei summit del G20, del G8 e del Fmi si respirava un senso di urgenza, la consapevolezza di un destino comune.
"Quella cooperazione - ha osservato il banchiere George Soros - era spinta unicamente dalla paura. Ora i mercati finanziari hanno rialzato la testa, la paura non c'è più, le divergenze tra nazioni sono peggio che mai". Le potenze che hanno accumulato un forte avanzo nei conti con l'estero, dalla Cina fino alla Germania, non ritengono di avere un "dovere" di spenderlo per trainare la crescita degli altri.
I dirigenti cinesi non vedono la necessità immediata di rivalutare la loro moneta per aumentare il potere d'acquisto dei propri consumatori e le importazioni di prodotti occidentali. Il dirigente della banca centrale di Pechino Li Daokui ha respinto le richieste degli Stati Uniti e dell'Europa: "Il renminbi si è già apprezzato, movimenti del cambio più rapidi non aiutano nessuno".
Sul lungo termine i dirigenti cinesi sono più possibilisti. Si rendono conto che per una crescita equilibrata, e socialmente stabile, la Repubblica Popolare avrà interesse a consumare di più (e a costruire un Welfare State che riduca la necessità di risparmio precauzionale delle famiglie). Ma per noi occidentali il lungo termine è troppo lontano. In America si vota tra 22 giorni, in uno scrutinio dominato dall'economia: con 14,8 milioni di disoccupati, e la mini-ripresa che sembra già finita.
La delusione per la mancanza di risultati al vertice del Fmi delegittima l'approccio multilateralista di Obama. Perfino il direttore generale del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, ha fatto un bilancio impietoso: "Non c'è modo di riequilibrare la crescita mondiale senza qualche cambiamento nella parità fra le monete. Ma il linguaggio adottato qui a Washington è inefficace. Le cose non cambieranno".
La diplomazia tenta di metterci una toppa spostando la ricerca di una soluzione al prossimo appuntamento: il G20 di Seoul dove Obama incontrerà il presidente cinese Hu Jintao. Ma a Seoul l'11 novembre Obama arriverà con una Camera dei deputati probabilmente a maggioranza repubblicana, e ancora più aggressiva nel minacciare ritorsioni protezioniste contro la Cina.
Visto che la cooperazione internazionale è inesistente, dal week-end di Washington è uscita una sola conclusione possibile: la guerra delle moneta continuerà. Ciascuno per sé, alla ricerca di svlutazioni competitive per rilanciare le proprie esportazioni e spostare il peso della crisi sui vicini.
Le prossime munizioni in quella guerra le sparerà la Federal Reserve. Sembra ormai imminente una nuova tornata di acquisti di Buoni del Tesoro americani da parte della banca centrale, acquisti finanziati stampando carta moneta.
E' questa strategia, già annunciata e ben presto applicata, che i mercati interpretano correttamente come una deliberata svalutazione del dollaro. Almeno un aspetto virtuoso ce l'ha: se l'America deve imparare a vivere finalmente in modo più frugale, e smettere di spendere al di sopra dei suoi mezzi, il dollaro debole la "impoverisce" verso il resto del mondo e ridimensiona il suo tenore di vita in termini di beni che può importare.
La svalutazione selvaggia ha però molte conseguenze negative. Avvicina il momento di una perdita fiducia nel debitore sovrano più grosso del mondo, che è appunto l'America: e quello sarà un momento drammatico. A più breve scadenza, come ha ricordato Mario Draghi, la marea di liquidità che le banche centrali stanno creando si riversa sui nuovi mercati "caldi".
Sono i paesi emergenti le cui monete vengono sospinte verso la stratosfera dalla speculazione: come il Brasile, il Sudafrica e l'Indonesia. Più qualche paese che emergente non è, come Giappone e Corea del Sud, ma sta ugualmente dalla parte sbagliata e vede la sua moneta salire in modo eccessivo. Anche il rafforzamento dell'euro rischia di proseguire: è la cinghia di trasmissione attraverso la quale le difficoltà dell'economia americana si riversano sull'Eurozona.
Il ritorno di una speculazione scatenata, che le nuove regole della finanza non riescono a disciplinare, può significare che presto rivedremo un vecchio film: l'esplosione di una bolla. Che la prossima sia una bolla dei paesi emergenti non ne riduce la pericolosità, vista l'integrazione tra noi e loro.
Il comunicato del Fmi si è chiuso con la promessa di "lavorare a una crescita globale più equilibrata". Quello che accade è l'esatto contrario.
Chi è ostaggio dell'euro forte
di Francesco Giavazzi - Il Corriere della Sera - 11 Ottobre 2010
Da qualche giorno il problema più grave non sembra essere la disoccupazione, o un'economia americana sull'orlo di una nuova recessione, ma i tassi di cambio fra le monete. I ministri finanziari del G7 hanno dedicato gran parte della giornata di venerdì al problema di che fare per «stabilizzare» i cambi, senza concludere alcunché.
Qual è il tasso di cambio «giusto» fra l'euro e il dollaro? La parità cui le due monete si stavano avvicinando prima dell'estate, o 1,4 dollari per un euro, il cambio della scorsa settimana? Nessuno lo sa.
I tassi di cambio non sono il toccasana che può sostituirsi alla politica economica: sono prezzi che riflettono le scelte dei governi e i loro limiti. Ogni giorno sui mercati si scambiano valute per 4 mila miliardi di dollari, un quarto di quanto produce l'America in un anno.
La debolezza del dollaro è il riflesso dell'impotenza di Obama che non riesce a convincere le famiglie americane a spendere. Se i consumi interni non riprendono, l'unico modo per evitare una nuova recessione è aumentare le esportazioni: il dollaro debole serve proprio a questo. Cercare di arrestarne la caduta sarebbe una sciocchezza.
L'euro forte è il riflesso del dilemma in cui si dibatte la Banca centrale europea (Bce). La ripresa dell'economia tedesca consiglierebbe di aumentare i tassi. Ma la debolezza di molte banche non consente di farlo.
L'euro forte risolve il dilemma della Bce: rallenta la Germania e non obbliga Trichet a tagliare i finanziamenti alle banche. Anche in questo caso intervenire sarebbe, oltre che inutile, sciocco.
Il guaio è che l'euro forte risolve il dilemma tedesco ma condanna la periferia dell'Europa. I sub-fornitori della Germania oggi si trovano a Est e sempre meno in Italia. A Varsavia la qualità del lavoro è simile a quella di Modena, ma il costo è una frazione di quello italiano. Sempre meno la crescita tedesca si tramuta in ordini per le nostre aziende.
Per recuperare i livelli di produzione pre-crisi (siamo ancora 15% sotto) possiamo contare solo su noi stessi. Poiché da anni i consumi ristagnano, avremmo bisogno, come l'America, di un euro debole. Ma siamo troppo piccoli ed è la Germania a determinare il valore della moneta comune.
Come risolvere il nostro dilemma? Riducendo le tasse sul lavoro per far crescere il potere d'acquisto delle famiglie; tagliando le rendite con una «botta di concorrenza» per ridurre i prezzi; aumentando la produttività per ridurre il costo del lavoro senza tagliare i salari. Servirebbe un governo pienamente impegnato sullo sviluppo e l'occupazione ma questi punti non appaiono al centro del programma di Berlusconi.
Dopo il fallimento dei vertici G7 e Fmi la guerra delle valute rischia l'escalation
di Elysa Fazzino - Il Sole 24 Ore - 11 Ottobre 2010
Il Financial Times vede arrivare nuove battaglie nella guerra delle valute, il Wall Street Journal anticipa che gli Stati Uniti intensificheranno le pressioni sulla Cina. Dopo il fallimento delle riunioni del week-end di G7 e Fmi, finite senza un accordo sulla cooperazione economica globale e sui movimenti valutari, le tensioni rischiano l'escalation.
Frantumate le speranze di un'intesa, invece di cooperazione c'è "scompiglio" e sono probabili ulteriori battaglie, scrive il Financial Times. "Le più grandi economie mondiali sono più lontane che mai sulle valute", spiega il quotidiano britannico.
"La Cina accusa gli Usa di destabilizzare le economie emergenti lasciando che una politica monetaria ultra allentata inondi di soldi i paesi emergenti, mentre gli Stati Uniti insistono nel dire che il Fondo monetario internazionale dovrebbe concentrarsi di più sui tassi di cambio e sull'accumulazione di riserve della Cina".
La mancanza di accordi molto probabilmente "esacerberà la volatilità valutaria" di qui al vertice del G20 a Seul, prevede il Ft.
Il quotidiano cita Mohamed El-Erian, Ceo di Pimco, il maggiore investitore mondiale di bond, che punta il dito sull'inadeguatezza del coordinamento delle politiche nazionali e sulle crescenti frizioni tra paesi.
Il comunicato del Fmi – osserva il Ft – dice sì che i paesi devono lavorare in modo cooperativo, ma "non contiene nessuna prova che le grandi economie possano trovare un accordo sulle questioni che le dividono". Tanto che Dominique Strauss Kahn, il direttore generale dell'Fmi, ha esortato i paesi a non limitarsi a sottoscrivere "parole calorose", ma a fare "passi concreti".
"Ci sono pochi segnali che la Cina lascerà che il renminbi si apprezzi più velocemente, con crescente frustrazione degli Usa", continua il Ft. E le pressioni sulla Cina incontrano maggiore resistenza da parte cinese: il governatore della banca centrale cinese ha detto che il "focus" sulle valute è unilaterale.
Altri ministri delle Finanze hanno espresso al Financial Times la loro "disperazione" per l'intransigenza di entrambe le parti.
"L'ostilità tra Washington e Pechino si è intensificata fino ad assomigliare a una guerra di trincea", scrive ancora il Financial Times in uno degli articoli da Washington. Gli Usa avvertono con più vigore che i tassi di cambio manipolati ostacolano la ripresa globale, la Cina ribatte che la politica monetaria super-lassista del mondo avanzato sta creando flussi di capitale destabilizzanti.
Paul Martin, l'ex ministro delle Finanze canadese che ha contribuito a creare il G20, dice al Ft che la disputa sta eclissando questioni di cooperazione finanziaria internazionale come gli accordi di Basilea III e l'espansione del Financial Stability Board. "Sarebbe una tragedia se il G20 di Seul fosse dirottato dalle valute come sono state queste riunioni".
Washington per ora mantiene la questione valutaria al centro dell'attenzione. "Gli Usa rafforzeranno la pressione sulla Cina", titola il Wall Street Journal, nel raccontare la vicenda soprattutto dal punto di vista americano.
Secondo un esponente Usa – si legge sul Wsj - l'amministrazione Obama era contenta di essere riuscita a porre la questione della valuta cinese al centro della riunione annuale dell'Fmi e aveva l'impressione che Pechino avesse risposto agli sforzi Usa alzando il valore dello yuan a un ritmo accelerato nell'ultimo mese. Ma ha aggiunto che è necessaria "una pressione continua per evitare che la Cina ricada nell'errore".
Nella cronaca del Wsj, gli Stati Uniti non appaiono soli: oltre agli Usa, "nazioni europee e diversi mercati emergenti" si lamentano della sottovalutazione dello yuan, nota il quotidiano.
Per competere, Giappone, Corea del Sud e Brasile hanno preso misure per abbassare il valore delle loro valute, sollevando il timore che si arrivi a una guerra commerciale.
Alle riunioni Fmi, gli esponenti cinesi "hanno avuto un ruolo più visibile del solito", osserva il Wsj.
L'amministrazione Obama – continua - si aspetta che la Cina faccia ulteriori passi sul fronte della sua valuta prima del vertice di Seul, in modo da evitare che la questione dei tassi di cambio domini il G20. "I negoziatori sudcoreani si danno da fare per convincere Pechino a fare proprio così".
Oltre alle esortazioni del segretario al Tesoro Timothy Geithner, gli Usa hanno anche "altre leve" per fare pressione sulla Cina, ma - secondo il Wsj - esitano a usarne alcune.
In particolare, venerdì uscirà un rapporto del Tesoro Usa che esamina se i tassi di cambio, compresi quelli cinesi, sono manipolati. Geithner ritiene che se risultasse che c'è manipolazione sullo yuan ciò potrebbe essere controproducente, poiché aprirebbe la strada a misure di ritorsione da parte delle aziende Usa.
La Cina è diventata una questione politica importante nella campagna elettorale di quest'autunno e – nota il Wsj – questa potrebbe essere una ragione per indurre il Tesoro Usa a rinviare il rapporto, come ha già fatto in passato.
Quanto agli europei, "mentre hanno espresso preoccupazione per il valore dello yuan, sono stati meno conflittuali con Pechino". Alcuni – spiega il Wsj - hanno argomentato che tocca agli Usa e alla Cina affrontare le cause alla radice della disputa sulle valute.
Monete, la legge del più forte
di Michele Paris - Altrenotizie - 10 ottobre 2010
Il summit dei membri del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale in corso nel fine settimana a Washington è giunto nel bel mezzo del conflitto tra le maggiori potenze economiche del pianeta e quelle emergenti sul valore delle rispettive monete.
Con il persistere della crisi economica e delle turbolenze sui mercati finanziari, sono infatti sempre più numerosi i paesi che ricorrono alla manipolazione della propria valuta e all’imposizione di misure daziarie sulle merci estere per stimolare la crescita interna, con il rischio concreto di far sfociare le tensioni diffuse in scontri che potrebbero andare al di là dell’ambito commerciale.
I provvedimenti, adottati un po’ ovunque all’indomani del tracollo finanziario inaugurato da Lehman Brothers nell’autunno del 2008, se pure hanno alleviato gli effetti della crisi, non hanno sostanzialmente corretto le contraddizioni del sistema capitalistico mondiale.
Al contrario, gli sforzi messi in atto dai governi per salvare gli istituti bancari sull’orlo del baratro stanno imponendo politiche di rigore che peggiorano la situazione economica e aggravano il disagio sociale per milioni di cittadini.
Di conseguenza, per continuare ad assicurare un mercato alle proprie grandi aziende, i governi e le banche centrali di molti paesi cercano di sfruttare a loro favore gli strumenti monetari di cui dispongono per tenere artificialmente basso il livello della valuta e favorire le esportazioni.
Iniziative di questo genere da parte di un determinato paese causano necessariamente la rivalutazione della moneta di un’economia concorrente, provocando gli scontri e le tensioni attualmente in atto.
Tra i paesi che cercano di utilizzare la crisi economica per favorire i propri interessi e quelli delle proprie corporation spiccano naturalmente gli Stati Uniti. Primi finanziatori del FMI, sul quale detengono anche un vero e proprio potere di veto, gli USA hanno da tempo orchestrato una campagna per cercare di limitare gli spazi di manovra in ambito monetario dei rivali, in primo luogo la Cina.
A questo scopo, l’appuntamento di Washington è servito a raccogliere il consenso degli alleati europei e asiatici per puntare il dito contro Pechino, da dove si vorrebbe arrivassero provvedimenti più incisivi per far lievitare il valore del renminbi (o yuan).
Oltre alla Cina, le minacce statunitensi sono rivolte a tutti quei paesi che possono vantare un segno positivo nella loro bilancia commerciale, come gli alleati Giappone e Germania, contro i quali però i toni risultano decisamente più attenuati.
Così, il più recente rapporto sull’economia mondiale e sulla stabilità finanziaria globale, condotto dal Fondo Monetario e reso pubblico la settimana scorsa, segue il dettato di Washington chiedendo un maggiore bilanciamento dell’economia mondiale.
In poche parole, l’aumento delle esportazioni per quei paesi in deficit - come appunto gli USA - ed una riduzione per quelli che hanno un’economia fondata precisamente sull’export.
Nonostante gli avvertimenti, in ogni caso, a prevalere continua ad essere il disaccordo e ogni paese cerca di dare uno stimolo alla propria economia stagnante sostenendo le proprie esportazioni. Così facendo, invece di diminuire, aumentano sia gli squilibri sia il rischio di una deriva protezionistica, come accadde durante la Grande Depressione degli anni Trenta.
Solo nelle ultime settimane, ad esempio, paesi come il Brasile, che hanno visto rinforzarsi la propria moneta in seguito ad un afflusso di capitali speculativi, si sono mossi per prendere contromisure adeguate.
Se il governo di Brasilia ha raddoppiato il carico fiscale per gli investitori stranieri che acquistano i bond brasiliani, il Giappone ha a sua volta da poco annunciato la vendita di due mila miliardi di yen per svalutare la moneta nazionale e promuovere l’export.
Anche Washington, d’altra parte, non disdegna manovre manipolative allo stesso scopo, tanto che nonostante le proteste nei confronti degli altri paesi, il dollaro prosegue la sua picchiata nei confronti di quasi tutte le principali altre monete.
Lo scorso mese di settembre, inoltre, la Camera dei Rappresentanti americana ha approvato una legge esplicitamente rivolta verso Pechino, grazie alla quale il Ministero del Commercio avrebbe facoltà di imporre nuovi dazi sui prodotti di importazione provenienti da paesi definiti manipolatori di valuta.
Alla polemica nei confronti della Cina promossa in primo luogo dal Segretario al Tesoro USA, Tim Geithner, si è unita anche l’Unione Europea, i cui vertici durante un recente meeting con i paesi asiatici a Bruxelles hanno chiesto ufficialmente al primo ministro cinese Wen Jiabao un netto apprezzamento del renminbi nel confronto con l’euro.
L’obiettivo propagandato dal FMI, dietro richiesta degli Stati Uniti, per un riequilibrio dei rapporti tra le valute delle principali potenze mondiali appare peraltro difficilmente raggiungibile in un contesto di persistente precarietà economica.
Le stesse stime di crescita del Fondo Monetario per i paesi sviluppati sono infatti tutt’altro che confortanti, con un tasso che nel 2011 sarà praticamente per tutti inferiore rispetto a quello dell’anno in corso.
Se il consiglio per le economie cosiddette avanzate è sempre quello del “consolidamento fiscale” e il conseguente abbattimento della spesa pubblica per sostenere la competitività, per i paesi emergenti la ricetta prevede dunque il rafforzamento delle rispettive valute e l’inevitabile riduzione delle esportazioni.
Una prescrizione che favorirebbe unicamente i grandi interessi economici e finanziari dei paesi più ricchi, producendo al contrario, in un paese come la Cina, licenziamenti di massa e l’impoverimento di ampi strati della popolazione.
Un doppio pericolo incombe sull'Italia
di Carlo Pelanda - www.ilsussidiario.net - 11 Ottobre 2010
Sta aumentando la divergenza tra nazioni in materia di cambi e politiche monetarie. Tale tendenza comporta un pericolo grave di instabilità complessiva e gravissimo per l’eurozona e, in particolare, per l’Italia. Nei vertici multipli - G7 e Fmi - tenutisi a Washington nello scorso fine settimana la divergenza non è stata ricomposta e il prossimo appuntamento per farlo sarà il summit G20 di novembre. Ma questo organismo dimostra interessi troppi diversi per essere composti. Pertanto il problema resterà irrisolto nel prossimo futuro. Si riuscirà a evitare il disastro? Tutte le monete, con l’eccezione dell’euro, sono da mesi pilotate al ribasso l’una contro l’altra. La Cina non vuole rivalutare la yuan per non penalizzare le esportazioni che ne trainano la crescita. Il Giappone non vuole che lo yen si rivaluti per lo stesso motivo. La Riserva federale statunitense sta stampando dollari per comprare titoli di debito americano allo scopo di stimolare la ripresa troppo lenta, più con manovra monetaria (bolla di liquidità) che di bilancio e fiscale, e ciò fa perdere valore al dollaro. L’Amministrazione Obama favorisce la svalutazione competitiva per aumentare l’export e ridurre le importazioni dall’Asia che riducono le produzioni americane e i posti di lavoro. Lo yuan cinese resta di fatto agganciato al dollaro e se questo va giù l’altro lo segue lasciando inalterato il problema. Per questo Obama ha scatenato una pressione come mai si è visto contro la Cina, anche ripescando quel G7, cioè l’alleanza con gli europei, che nell’estate del 2009 aveva derubricato a favore di un accordo G2 con la Cina. Ma Pechino resta ferma sulla sua posizione e ciò amplifica la svalutazione competitiva degli altri. Appunto, con l’eccezione dell’euro perché la Bce tiene una politica monetaria non inflazionistica. Con il paradosso che l’euro fragilissimo per i noti problemi di insolvenza di alcune nazioni sta diventando la moneta con cambio. Tale situazione, se non corretta, renderà meno competitive le esportazioni di beni eurodenominati penalizzando, in particolare, Germania e Italia. Ma non è solo questo il pericolo. Quando il cambio del dollaro scende le materie prime prezzate in dollari tendono a salire di prezzo. Quindi nel gioco svalutativo c’è un pericolo crescente di inflazione combinato con una ripresa stagnante. Inoltre il rischio di inflazione è anche aumentato dal fatto che l’abbondanza di liquidità in dollari si trasferisca nelle economie emergenti “sovraccaricandole” e mandandole in inflazione, così globalizzandola. In generale, stampare moneta per finanziare un debito crescente (la sterlina, per inciso, sta seguendo il dollaro su questa brutta strada) o svalutare in modo artificiale sono cause di inflazione. Quindi l’Eurozona rischia sia la stagnazione per minore export sia più inflazione importata dal globo, il secondo rischio meno evidente ora, ma più pericoloso tra poco. La Bce, infatti, è più infuriata con l’America, perché esporta inflazione, che non con la Cina poco collaborativa. E manca un soggetto o luogo di governo che eviti il disastro. Ci sarà? Non credo, pur non potendolo escludere. Da un lato le nazioni non sono disposte a un accordo monetario vero, dall’altro nessuna vuole il disastro. Pertanto la Riserva federale stamperà meno dollari di quanti ora si pensa, la Cina non rivaluterà, ma farà concessioni stabilizzanti in altri settori, la Bce interverrà riservatamente per limitare il rialzo dell’euro. Ritengo che si eviterà il disastro globale, ma l’Italia resterà comunque sfavorita nel suo export. Quindi stimolare la nostra crescita interna è più urgente che mai.
Il trucchetto di Tremonti mette a rischio l'Italia
di Ugo Bertone - www.ilsussidiario.net - 8 Ottobre 2010
Nei primi sei mesi del 2010 le uscite in conto capitale del Tesoro si sono ridotte del 20,2% in termini tendenziali. In particolare, gli investimenti fissi lordi sono calate del 18,3%. Insomma, Giulio Tremonti ha realizzato il miracolo di far calare, seppur di poco, il rapporto tra deficit e Pil (dal 6,3% al 6,1%) nonostante il calo delle entrate fiscali.
Ma l’arcano si spiega con il taglio agli investimenti, scelta che mette un’inquietante ipoteca sulle possibilità di ripresa dell’economia italiana, Paese in cui circa la metà del Pil dipende dalla mano pubblica.
Anche per questo è difficile non condividere il pessimismo di Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia, che ha sottolineato “i segni di debolezza della ripresa”: sulla base delle proiezioni più recenti, ha detto nel corso dell’audizione parlamentare sulla Dfp (la Decisione di Finanza Pubblica), le proiezioni di crescite previste dal documento (l’1,2% per il 2011) “appaiono leggermente ottimistiche”.
I motivi per esser cauti non mancano di sicuro: la guerra tra le valute che, per ora, segnala un’innaturale forza dell’euro su dollaro, yen e yuan che non potrà non incidere sui flussi dell’export, a partire alla locomotiva tedesca che, al contrario dell’Italia, ha aumentato gli investimenti nel 2010; la situazione critica dei confini fragili dell’eurozona, Irlanda e Portogallo, che potrebbero non reggere alla pressione della speculazione, oggi troppo impegnata a far soldi sul carry trade consentito dalla Fed (mi indebito sul dollaro a tasso poco sopra lo zero e compro reals brasiliani con un rendimento reale superiore al 6-7%) per occuparsi delle miserie di Dublino o Lisbona; la riforma del patto di stabilità, che impone nuove misure di austerità, l’opposto dei sospirati sostegni invocati da imprese e sindacati.
A tutto questo va aggiunto l’effetto, difficile da misurare ma comunque devastante, della paralisi dell’attività politica negli ultimi mesi, più concentrata sul mercato immobiliare di Montecarlo che sulle scelte per affrontare i mercati in maniera adeguata.
A complicare il quadro c’è il comportamento, obbligato, delle maggiori imprese. Basti, al proposito, l’esempio di Fiat. Lo scorso gennaio l’azienda aveva annunciato che, dopo la gelata del 2009 quando erano scesi del 32% a quota 3,38 miliardi, gli investimenti sarebbero risaliti a 4,5 miliardi: sempre meno dei 4,97 miliardi del 2008, ma comunque sufficienti a metter l’azienda in condizioni di sfruttare la possibile ripresa del 2011.
Ma le cose sono andate in maniera diversa: il calo delle vendite è proseguito in maniera massiccia dopo l’estate e promette di proseguire fino alla metà dell’anno prossimo. “In queste condizioni - ha detto Sergio Marchionne al salone di Parigi - abbiamo deciso di conservare le munizioni”.
Scelta giudiziosa, anzi obbligata. Ma i principali concorrenti, almeno quelli che possono contare su ben altre “munizioni” finanziarie, stanno operando in maniera ben diversa, moltiplicando tra l’altro gli sforzi per entrare nel segmento delle utilitarie, il terreno in cui Fiat vanta una leadership storica: perfino la Opel, grande malata dell’auto europea, ha annunciato il decollo del progetto di un’utilitaria che, dal 2013, sfiderà la 500. Per carità, il Lingotto ha altre carte da giocare, soprattutto sull’altra riva dell’Atlantico. Ma è difficile che il contributo Fiat al Pil possa riservare gradite sorprese.
Insomma, il dibattito sulla produttività non parte sotto auspici favorevoli: meno si investe, meno si produce, più cala la produttività (-2,7% tra il 2007 e il 2009, addirittura -3,9% per l’industria). E più, potremmo aggiungere, rischia di salire il costo del lavoro per unità di prodotto, già aumentato del 20% negli ultimi dieci anni, mentre la Germania lo ha ridotto di dieci e la Francia di otto. È questo il sintomo più grave della malattia che ha colpito l’economia del Belpaese dall’introduzione dell’euro in poi. Venuta meno la valvola di sfogo della svalutazione, la società italiana non è stata in grado di correggere gli handicap che ne determinano l’inferiorità rispetto ai partners concorrenti: burocrazia, fisco pesante, carenza di infrastrutture, costo dell’energia più elevato, minori investimenti in R&S. In particolare, rileva il professor Fulvio Coltorti, da sempre a capo dell’ufficio studi di Mediobanca, a danno delle imprese tricolori gioca un distacco abissale della pressione fiscale: il 48,3% contro una media effettiva del 25,3% a carico delle imprese tedesche. Certo, a questi ostacoli “fuori” dalla fabbrica, vanno aggiunti la scarsa flessibilità e i contratti ingessati che pesano “dentro”. Anzi, di qui si deve partire per un possibile recupero. Ma, nota ancora l’ufficio studi di Mediobanca, il valore aggiunto per dipendente in Italia non è poi così lontano da quello tedesco: 52,3 contro 59,6. Addirittura il margine operativo netto per dipendente (che segnala il profitto industriale) è superiore in Italia: 23,3 contro 19,6. Per giunta, l’industria italiana viaggia a una doppia velocità: dal 1999 al 2008 il contributo al reddito nazionale della Piccola e media impresa è stato di 29,6 miliardi contro i 12 della grande impresa. Il risultato? Il calo degli investimenti non promette nulla di buono. In particolare, per le grandi imprese attive sul fronte dei beni di investimento emerge un nuovo eccesso di lavoratori rispetto al fatturato. Salvo correzioni di rotta “politiche” risultano inevitabili nuovi tagli per recuperare la soglia di produttività precedente alla crisi. Ma tutto questo rischia di servire a poco o a nulla (così come la battaglia per contrastare l’aumento del rapporto deficit/Pil) senza un intervento strutturale sul circolo vizioso tra fisco e lavoro. E una politica, finalmente virtuosa, sul fronte dell’energia e delle infrastrutture. Al lavoro: la vacanza politica è durata troppo. Crisi? La pagano i lavoratori di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 7 Ottobre 2010
I nodi stanno arrivando al pettine. Le conseguenze della crisi finanziaria scoppiata negli USA nel 2008 stanno per abbattersi sui bilanci degli Stati che, per evitare il tracollo dell’intera economia, si fecero carico, nel momento di peggiore difficoltà dei mercati, delle follie contabili artificiali create da banchieri e tecnocrati spregiudicati.
Dopo aver deciso di evitare il fallimento di quelle banche “troppo grandi per fallire” ed essersi accollati, attraverso il varo di piani di risanamento straordinari, i debiti tossici dei maggiori istituti finanziari del continente, agli Stati membri dell’Unione Europea viene adesso chiesto di pagare il conto.
Un conto amaro, troppo amaro per essere pagato. Misure draconiane che costeranno lacrime e sangue e che saranno sopportate - che novità! - da chi è sempre stato abituato a pagare tutto, specialmente i danni provocati da altri.
Ecco dunque il senso della nuova austerità europea proposta a fine settembre a Bruxelles: nonostante l’intervento pubblico sia stato necessario per evitare un tracollo altrimenti inevitabile, i numeri parlano di debiti privati ora diventati debiti pubblici e prima o poi i debiti - si sa - vanno pagati.
Il momento è purtroppo arrivato. Quello cui si è assistito il 29 settembre potrebbe essere indicativo - se non paradigmatico - del clima che ci attende nei prossimi anni. Da un lato la Commissione Europea che presenta le sue proposte per ridurre il debito degli Stati troppo indebitati; dall'altro i sindacati di tutta Europa che si sono dati appuntamento nelle strade della capitale belga per una protesta all'insegna dello slogan "non vogliamo pagare il conto della crisi". Mentre l'Italia, un po' in sordina, rivede di nuovo al ribasso le stime di crescita per il prossimo anno.
Va precisato che la Commissione Europea non ha la competenza necessaria ad imporre le misure presentate, non ha cioè il potere di dire l'ultima parola sulle nuove punizioni previste per chi sfora i parametri del rapporto debito/PIL, previsti dal trattato di Maastricht.
Chi decide davvero è il Consiglio Europeo (che raccoglie i Capi di Stato e di Governo) e c’è da giurare che in quella sede sarà assai complicato trovare una sintesi, visto che ancora non si è riuscito a trovare un accordo generale sulla linea di intervento da adottare in caso di crisi sistemica. Ma la linea della Commissione è comunque indicativa del clima e di quello di cui si discute.
In sintesi, la ricetta dell’Esecutivo europeo per riportare sotto controllo i conti pubblici e metterli al riparo dagli attacchi speculativi dei mercati, è netta: dato che l'obiettivo è arrivare al pareggio di bilancio nel medio termine, per poterlo raggiungere gli Stati in deficit (quelli cioè che ogni anno spendono più di quanto incassano) devono ridurre il rapporto deficit/PIL dello 0,5% ogni anno.
Se questo non succede, se si continua cioè a scialare, la Commissione alzerà un cartellino giallo, dando un avvertimento. Poi passerà alle vie di fatto, pretendendo un deposito infruttifero (cioè una cauzione) pari allo 0,2% del Pil che, se le cose non cambieranno, diventerà una multa.
Per l'Italia lo 0,2% del Pil vale circa 320 milioni di Euro in un anno. Insomma non proprio bruscolini, ma le notizie peggiori purtroppo sono altre. La Commissione, infatti, propone anche che i paesi con un debito pubblico elevato, superiore cioè al 60% del Pil (il nostro è arrivato al 118%), lo riducano dello 0,05% ogni anno della quota che eccede il 60%.
Tradotto in soldoni, per l'Italia significherebbe la stratosferica cifra di 52 miliardi di Euro all’anno. Un risanamento assolutamente insostenibile.
"Un debito pubblico enorme è un qualcosa di deleterio e di antisociale, perché vuol dire che non si possono fare spese nei settori in cui c'è bisogno; d'ora in poi deficit e debiti pubblici eccessivi dovranno essere trattati alla stessa stregua", ha spiegato il presidente Barroso nel commentare la proposta della Commissione da lui presieduta.
I cittadini di tutta Europa, tuttavia, attendono ancora con impazienza che venga loro spiegato il meccanismo attraverso il quale questo debito si è andato creando nel tempo, per capire meglio cos’è veramente deleterio e antisociale e cosa invece ne è una semplice conseguenza.
Ma questo è un altro discorso. Rimane il fatto che la proposta è sul tavolo e, se fosse approvata così com’è, per l’Italia sarebbe la fine. Purtroppo, nonostante l’intervento alla Camera di Silvio Berlusconi, la richiesta italiana di considerare nel calcolo anche l'indebitamento privato (cosa che ci farebbe sembrare un po' più virtuosi in quanto la vera forza del nostro paese sta proprio nella saggezza e nell’attitudine al risparmio delle famiglie) non sembra essere stata accolta.
Il Commissario agli Affari Economici, Olli Rehn, ha però voluto dare un contentino al Governo italiano dichiarando: "Terremo conto del debito privato nel caso in cui abbia un impatto significativo nel servire il debito pubblico". Tradotto: per i paesi che hanno un basso indebitamento privato come l'Italia ci sono margini di trattativa.
C'è dunque da preoccuparsi? Va detto che le sanzioni del patto di stabilità, com’erano state originariamente immaginate, non hanno mai davvero funzionato. Il motivo è che anche i paesi virtuosi come la Germania erano in deficit.
E quindi nessuno aveva davvero interesse ad applicare il rigore. I tempi, però, sono cambiati. Ora i tedeschi hanno addirittura approvato una riforma costituzionale che prevede l'obbligo di avere il bilancio in pareggio, congiuntamente alla presenza di un tetto alla pressione fiscale.
Si aggiunga che l'attenzione dei mercati finanziari sull'andamento del debito è tale che Portogallo e Irlanda - due dei “maiali europei” insieme a Grecia, Spagna e Italia - stanno già da ora pagando a caro prezzo l’instabilità dei loro conti come interessi supplementari sul debito pubblico di nuova emissione.
E noi? Il Governo in carica ha approvato a luglio una manovra da 25 miliardi che non riduce lo stock del debito, ma si limita a contenere l'aumento della spesa congelando gli stipendi dei dipendenti pubblici e riducendo i trasferimenti dallo Stato agli enti locali.
Né più né meno che uno scarica barile in perfetto stile tricolore. Con il risultato che, almeno per ora, l’Italia sembra mantenersi fuori dal cuore dell’occhio del ciclone.
A fine settembre il Governo ha poi diffuso la decisione di finanza pubblica (la nuova versione delle DPEF) per gli anni 2011-2013, che aggiorna le previsioni sull'andamento dell'economia.
Stando al documento, la manovra dovrebbe garantire la messa in sicurezza dei conti almeno per un po', con il deficit che dovrebbe scendere al 5% del Pil nel 2010 al 3,9 nel 2011 e, nel 2012, assestarsi sotto la soglia - psicologicamente fondamentale per evitare le attenzioni degli speculatori - del 3%, ossia al 2,7%.
La crescita del 2010 si prevede un po' più bassa del previsto (1,2% invece di 1,7%) e sempre un po' più bassa nel 2011, cioè 1,3% che invece di 1,5%. Per capire se il risanamento reggerà, però, bisogna aspettare di verificare se i tagli agli enti locali saranno efficaci.
Cioè se Regioni, Province e Comuni si piegheranno muti davanti alla mannaia imposta dallo Stato centrale, riducendo di conseguenza la spesa nonostante rimangano invariate le competenze loro attribuite, o se, invece, le entrate degli enti territoriali minori aumenteranno (ad esempio con il massiccio aumento delle multe e delle addizionali regionali e comunali su IRPEF e IRAP) per coprire i mancati trasferimenti dallo Stato centrale.
È qui che si gioca la vera partita. Se, infatti, gli enti locali non ci stanno a pagare, anche vista la credibilità politica e l’incapacità del governo centrale nell’immaginare una risposta concreta e credibile per uscire dalla crisi, anche il mondo del lavoro è pronto a dare battaglia.
Contestualmente alla presentazione del piano di austerità presentato dalla Commissione Barroso, per le strade di Bruxelles si è assistito a quella che si preannuncia come la rivolta dei sindacati.
"I lavoratori sono in piazza per mandare un messaggio ai leader europei", spiegava dalle strade della capitale belga John Monks, segretario generale della confederazione sindacale europea, promotrice della protesta. Il messaggio è questo: non bisogna rassegnarsi all'austerità perché questo significa far pagare ai cittadini il conto di una crisi maturata in gran parte nel settore della finanza.
"Non c'è urgenza, non c'è panico" recitavano alcuni cartelli. I mercati finanziari, però, la pensano diversamente. E purtroppo, almeno in questa fase, sanno essere più persuasivi dei sindacati. Il conflitto sociale e la lotta di classe sembrano finalmente rianimare le strade d’Europa.
Cina-Brasile, ecco l'alleanza destinata a mutare il volto dell'economia globale nei prossimi 10 anni di Sara Cristaldi - Il Sole 24 Ore - 11 Ottobre 2010 Cina e Brasile: attenti a quei due. Dall'Africa al Medio Oriente, dall'Asia al Sudamerica sono i protagonisti di un'alleanza strategica destinata a mutare il volto dei commerci e degli investimenti dei prossimi dieci anni. Un rapporto sempre più stretto, avviato in verità nel decennio che ha già cambiato il mondo, ma che dopo la grande crisi ha assunto il volto di una partnership tra "emergenti" che intende bypassare i mercati in sofferenza di America ed Europa, magari nell'ipotesi che non possano più tornare agli splendori del passato. Una sorta di autoassicurazione per il futuro, dunque.
E un rapporto che, se prima si riassumeva in un classico "do ut des" commerciale tra paesi in sviluppo (soia o petrolio brasiliani contro pagamenti o investimenti cinesi in infrastrutture di base), oggi assume connotati a maggiore valore aggiunto.
Un link, economico quanto politico, tutto da scoprire. Ma già attivo anche sugli scenari mondiali: l'impegno, soprattutto finanziario, di Cina e Brasile a sostegno dello sviluppo (e che sviluppo!) in Angola ne è conferma tra le tante.
Certo la Cina di Wen Jiabao può giocare da prim'attore. Forte di riserve valutarie record (ormai circa 2.500 miliardi di dollari), di una moneta ancora sottovalutata e di grandi gruppi industriali, ormai attivi oltre frontiera sotto la spinta della politica del "Go global" benedetta dai Signori di Pechino, ha come obiettivo il finanziamento della creazione nei paesi in sviluppo di infrastrutture e mercati di consumo: le infrastrutture anche per meglio veicolare le materie prime, di cui lo sviluppo del gigante asiatico ha fame insaziabile, e per dare lavoro a big dell'hi-tech quali Huawei, gigante delle tlc; nuovi e sempre più vasti mercati invece per i suoi beni a basso costo, ma anche per le auto Geely, i televisori Tcl, i frigoriferi Haier, i computer Lenovo.
La tela dei rapporti è stata tessuta abilmente dal premier Wen e dal presidente Hu Jintao, nel corso di numerosi viaggi, spesso impegnativi peripli continentali.
Anche il Brasile, orgoglioso e ambizioso gigante sudamericano, si è mosso abilmente con la regia di Luiz Inacio Lula da Silva. Dal 2003 alla fine del suo mandato il presidente-operaio ha visitato (non certo per turismo) ben 68 paesi invia di sviluppo.
Obiettivi: superare lo status di mero fornitore di materie prime ai paesi più o meno avanzati, dare sprint alla diversificazione dell'economia. E in effetti oggi i jet a medio raggio della brasiliana Embraer prendono la via della Cina come dell'Italia.
Ma, in verità, il carburante iniziale nel motore di Brasilia è arrivato dalle casse di Pechino, ed è per questo che il rapporto Brasile-Cina è stato, è e sarà ancora per qualche anno un laboratorio di un nuovo modello di sviluppo interno e dei rapporti tra stati. L'investimento nelle infrastrutture e nelle industrie dei paesi in sviluppo.
Tra il 2009 e il 2010 la svolta. L'anno scorso la Cina ha superato gli Stati Uniti come maggiore partner commerciale del Brasile, a suggello di dieci anni di crescita ininterrotta degli scambi.
E ora Pechino lavora per diventare il maggior investitore nel maggiore paese sudamericano nei prossimi dieci anni: a fine 2010 si prevede che gli investimenti cinesi raggiungeranno i 10 miliardi di dollari contro i 92 milioni del 2009.
A conferma dell'impegno crescente, a inizio ottobre l'investimento nell'energia di Sinopec per 7,1 miliardi di dollari nella Repsol Brasil, di cui ora detiene il 40% dell'azionariato: il più grande investimento cinese in Brasile.
Un business che si va ad aggiungere, solo per fare un altro esempio, al prestito di 10 miliardi di dollari fatto dalla China Development Bank alla potente Petrobras lo scorso anno a sostegno del big petrolifero brasiliano per un piano di espansione di 174 miliardi di dollari. Settimana dopo settimana, le agenzie battono nuovi business.
Con una differenza rispetto al passato, secondo gli analisti: le compagnie petrolifere cinesi oggi investirebbero non solo per il core business ma anche per ottenere un ritorno dagli investimenti. E, considerata l'attrattività che oggi Petrobras e altre imprese brasiliane hanno sui mercati finanziari, è un'ipotesi più che valida.
Va poi nella direzione dello sviluppo delle industrie reciproche il prestito di 1,23 miliardi di dollari concesso a Vale do Rio Doce, big dei materiali ferrosi, da due banche cinesi per acquistare 12 grandi navi cargo da cantieri della Repubblica popolare.
E si può prevedere che cinesi saranno i finanziamenti e i costruttori di una parte dell'alta velocità e delle infrastrutture che fioriranno in Brasile in vista dei Mondiali di calcio del 2014 e delle Olimpiadi di Rio del 2016.
Per le industrie cinesi e brasiliane una buona partnership di base per andare alla conquista dei reciproci mercati domestici e di classi medie in marcia accelerata: a fine 2009, 40 milioni di persone in Brasile, 130 milioni in Cina con una ricchezza privata tra i 5.300 e i 31.600, secondo una recente ricerca del Gruppo Allianz sulla nuova classe media globale. Risultato per il Brasile: una crescita a ritmi cinesi(+8,9% nei primi sei mesi di quest'anno).
Lo stesso dicasi per altri paesi in sviluppo. Per il commercio mondiale una virata della crescita a favore sempre degli emergenti su rotte degli scambi sempre più Sud-Sud: secondo il Wto, tra il 2000 e il 2008 sono cresciuti del 18%, molto più velocemente di quelli Nord-Sud.
Resta da vedere se il meccanismo continuerà a funzionare, o se e quando negli ingranaggi del nuovo modello si insinueranno il rifiuto per quelli che alcuni definiscono il nuovo imperialismo cinese, e una conseguente paralisi da protezionismo.
Certo fin d'ora è che America ed Europa pagano il costo dei loro passati imperialismi a senso unico nel Terzo e Quarto mondo e della miopia sommata a pigrizia mentale con cui hanno guardato all'azione dei Signori del Nuovo mondo. Cina e Brasile, ma non solo.