Se ne parla qui di seguito.
Il conflitto e la speranza
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 20 Ottobre 2010
Finalmente qualcosa torna a muoversi sotto i cieli d’Europa. E i francesi ne sanno qualcosa: il loro presidente Nicolas Sarkozy ha infatti ribadito che la riforma delle pensioni "andrà avanti", nonostante le forti contestazioni.
"La porterò a termine perché il mio dovere in quanto capo dello Stato è di garantire ai francesi che loro stessi e i loro figli potranno contare sulle pensioni", ha dichiarato il capo dello Stato in un comunicato diramato dall'Eliseo.
Peccato che lo stesso risultato possa essere ottenuto utilizzando diverso strategie e quella scelta dal numero uno francese non va proprio giù a gran parte dei suoi concittadini. Proprio ieri si è svolta l'ultima giornata di manifestazioni prima del voto definitivo della legge sulla riforma in Senato, a cui secondo i sindacati hanno partecipato tre milioni e mezzo di persone.
Numeri enormi, specie se si considera che con quella di ieri è la sesta volta in poco più di un mese che i sindacati riescono a riempire le piazze di tutta Francia. Sarkozy ha anche deplorato i "disordini" generati dal blocco dei depositi di carburante, sostenendo che costituivano "una ingiustizia" verso "la maggioranza dei francesi che vuole continuare a circolare liberamente". A quale maggioranza faccia però riferimento ancora nessuno l’ha capito.
E che qualcosa si muove non lo certifica solo la rivolta francese. Accade di rivedere in ogni dove di Europa agitazioni sociali, scioperi generali e lavoratori finalmente in strada a rivendicare con forza quei diritti dati per acquisiti e adesso unilateralmente rimessi in discussione.
Quella organizzata dalla Fiom a Roma lo scorso sabato, é stata una manifestazione imponente con al centro il tema della difesa della democrazia e dei princìpi costituzionali nell'organizzazione del lavoro. Ma non é stata la prima e non sarà l'ultima, in una Europa che propone un modello di profitti per le imprese da primo mondo a fronte di un'organizzazione del lavoro e salari da terzo mondo.
I paesi P.I.I.G.S. (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) sentendo aria di macelleria sociale, sembrano infatti aver ritrovato una dimenticata dignità, registrando al loro interno movimenti sociali di ampie dimensioni, tutti indistintamente uniti nel chiedere che i danni della crisi siano sostenuti da chi quei danni li ha oggettivamente creati.
Stessa faccia, stessa razza verrebbe da dire. Ad essere uguali sono invece i problemi e le possibili soluzioni da mettere in campo per evitare una desertificazione non solo e non tanto economica, quanto soprattutto produttiva. Ma andiamo con ordine. Il Portogallo ha recentemente provato a convincere i mercati finanziari che i suoi titoli di Stato sono ancora degni di fiducia.
Negli ultimi giorni di settembre le ultime operazioni di risanamento hanno previsto un taglio agli stipendi degli statali del 5% per contenere la spesa pubblica a partire dal 2011. Il governo di Lisbona è poi intervenuto sul lato delle entrate, con un aumento dell'Iva dal 21 al 23%. Ma gli spread - cioè i rendimenti pretesi dai mercati per sottoscrivere il debito di nuova emissione - dei titoli di Stato restano ancora su livelli record.
Così come quelli dell'Irlanda, la cui situazione appare sempre più compromessa. A peggiorare le cose per l’Eire ci si è messa la crisi della Anglo Irish Bank. Il piano di salvataggio potrebbe costare al governo di Dublino fino a 30 miliardi di Euro, una cifra che non può permettersi in questo momento. In questo periodo si potrà capire meglio anche quanto gli investitori si fidano dell'Italia.
La crisi politica, che fino a ieri mattina ha animato la vita del Belpaese, pare essere già rientrata (sarà vero?); aveva fatto recentemente aumentare in modo significativo il differenziale di rendimento tra Bot e Bund tedeschi, segno che i mercati temevano l'apertura di una lunga fase di instabilità.
Anche la Grecia - di cui ci siamo interessati più volte su Altrenotizie - è di nuovo semiparalizzata per via delle proteste contro l'austerity e le riforme del governo di Giorgio Papandreu. Ai camionisti, che hanno deciso il proseguimento per la terza settimana consecutiva della protesta, si sono recentemente aggiunti i lavoratori dei trasporti ferroviari e stradali urbani ed extraurbani, dei portuali e dei medici, mentre manifestazioni sono state convocate da tutti i sindacati nel quadro di una scesa in campo a livello europeo.
Non pare vero che finalmente i lavoratori di tutto il continente si stiano unendo nella lotta contro politiche di bilancio imposte da un’Europa guidata più dalle banche che dai popoli.
Ma è forse la Spagna il paese che meglio sintetizza il momento storico contingente. E? proprio nella terra della corrida che i trasporti pubblici sono stati semplicemente bloccati, intere città sono andate in tilt per il primo sciopero generale negli otto anni dell'era Zapatero, il settimo da quando c'è la democrazia.
La domanda di elettricità nella capitale si è ridotta di un quinto rispetto al livello abituale di un giorno feriale. Ferme le industrie, in particolare il settore metallurgico e quello delle costruzioni.
Io "vado a lavorare", pare abbia detto Josè Luis Zapatero, con una battuta poco felice, mentre varcava il portone d'ingresso delle Cortes - il Parlamento spagnolo - nella giornata del primo sciopero generale in sei anni e mezzo di governo socialista.
Apparentemente sicuro di sé, come sempre, non è da escludere che con il passare delle ore il premier spagnolo abbia perso in parte la sua tradizionale pacatezza. Non solo perché il livello straordinariamente alto di adesione alla protesta ha permesso ai sindacati di parlare di un "successo indiscutibile".
Ma soprattutto perché è probabile che sia stato proprio lo sciopero a convincere gli analisti di Moody's a tagliare - la notizia è stata ufficializzata il 30 settembre quindi il giorno successivo alla mobilitazione - il rating sul debito della Spagna da AAA a AA1, con outlook stabile, spiegando di prevedere deboli prospettive di crescita economica per il paese iberico.
Moody's si aspetta che l'economia cresca in media dell'1% l'anno per diversi anni. Ha inoltre aggiunto che la Spagna raggiungerà gli obiettivi di bilancio che si é proposta per l'anno in corso e per il prossimo, ma saranno necessarie altre misure per ridurre il deficit dopo il 2011.
Il riequilibrio dell'economia spagnola, aldilà del settore costruzioni, richiederà dunque diversi anni secondo Moody's, ma l'impegno del governo nella riduzione del debito - vista anche la forte risposta delle classi sociali colpite dai piani di riforma - è tra le ragioni principali che hanno portato a rivedere il rating al ribasso. Va rilevato, poi, che anche Ficht aveva tagliato il rating della Spagna con un outlook negativo ad aprile.
L’alta adesione allo sciopero ha preoccupato non poco il leader spagnolo e lo dimostra in modo chiaro soprattutto il suo tentativo realizzato in extremis - proprio alla vigilia della manifestazione - di tendere una mano ai sindacati con la proposta di aprire un tavolo negoziale sui regolamenti applicativi della riforma del mercato del lavoro, varata pochi giorni prima dal Parlamento. Un'apertura così timida che i leader delle due principali organizzazioni dei lavoratori - la Ugt e la Comissiones Obreras - l’hanno subito rispedita al mittente.
Qualcuno in Italia potrebbe prendere appunti e imparare. Per i sindacati spagnoli è l'intera legge a dover essere rimessa in discussione: oltre che inadeguata, la ritengono lesiva dei diritti dei lavoratori. In fondo, per una volta, concordano con la destra parlamentare del partito popolare, secondo cui si tratta di una riforma che "non serve né a generare fiducia, né ad aumentare i consumi, né a favorire la produzione e la creazione di posti di lavoro".
Solo su un punto la legge è chiara: d'ora in poi, per le aziende, sarà più facile licenziare, oltretutto con costi nettamente più bassi (appena 20 giorni di indennizzo per anno lavorato) con la semplice giustificazione di "perdite attuali o previste" o per la "diminuzione persistente del livello di entrate". Inoltre, si autorizza l'interruzione del rapporto di lavoro per assenteismo.
Un attacco ai lavoratori e ai diritti sociali in pieno stile Marchionne; segno che se da una parte gli operai faticano a fare fronte comune contro le politiche dei governi europei, dall’altra i padroni non hanno certo perso tempo nel pressare i rispettivi esecutivi con la minaccia della delocalizzazione.
Ma veniamo alla protesta. Con la scelta di portare al centro dell'attenzione, in questa giornata di sciopero generale, il tema della reforma laboral i sindacati hanno cercato di allontanare il sospetto di una protesta "inutile e tardiva", com'è stata definita da alcuni settori della destra politica e mediatica, che sono arrivati a ipotizzare una sorta di gioco delle parti concordato con il governo per non perdere la faccia dopo anni di assoluta pace sociale.
E in effetti, lo sciopero arriva solo quattro mesi dopo l'annuncio del durissimo pacchetto di misure di austerità varato dall'esecutivo, in seguito alle pressioni determinanti esercitate dall'Unione Europea nei giorni più drammatici della crisi finanziaria.
Fu quello il momento in cui la società spagnola si rese conto all'improvviso - con il taglio degli stipendi dei funzionari pubblici, il blocco delle pensioni e la drastica riduzione degli investimenti in infrastrutture - che Zapatero si stava rimangiano d'un colpo sei anni di politica tutta basata sul mantenimento dello stato sociale e sul rispetto delle garanzie fondamentali per i lavoratori.
I sindacati hanno tuttavia consentito al premier di superare indenne un'estate in cui, solo grazie al tradizionale andamento favorevole dell'occupazione stagionale, per un paio di mesi si è diffusa l'impressione che le cose potessero cominciare a migliorare. Una situazione in tutto e per tutto uguale a quella dei fratelli greci impegnati nella resistenza ad oltranza contro le politiche varate dal governo Papandreu.
Riforme varate e difese dai governi ma decise e immaginate nei consigli di amministrazione delle banche creditrici dello Stato. Alla ripresa autunnale, in Grecia come in Spagna é tutto come prima: l'ultimo dato statistico parla di un nuovo incremento dei senza lavoro nel paese iberico, con 60.000 disoccupati in più ad agosto. In totale sono sempre circa 4 milioni, quasi il 20%, ovvero il doppio della media europea.
Nel frattempo, come se non bastasse, Zapatero ha anche insistito sulla necessità di portare a 67 anni l'età pensionabile (un’altra riforma sulla quale i sindacati si dicono intenzionati a dare battaglia) e, appena pochi giorni fa, ha presentato in Consiglio dei Ministri il progetto di bilancio per il 2011, per il quale si è assicurato il decisivo appoggio parlamentare del partito nazionalista basco, in cambio di nuove concessioni a favore della già vasta autonomia regionale.
Manco a dirlo, una nuova legge "lacrime e sangue", dove neppure l'annuncio di una stangata fiscale per i più ricchi (è previsto un aumento dell'Irpef dal 43 al 44% per i redditi superiori ai € 120.000 e al 45% per chi raggiunge il € 175.000 l’anno) gli è servito a raccogliere consensi tra i gruppi di sinistra.
Anche perché l'esigenza di riportare il deficit entro i limiti del 3% nel 2013 ha costretto il governo a confermare uno ad uno tutti i tagli di spesa previsti. È per questo che, mentre i sondaggi continuano a sancire - ormai da mesi - un vantaggio netto dei popolari sui socialisti, un protagonista storico della politica spagnola, il vecchio leader comunista Santiago Carrillo, paragona la solitudine di Zapatero a quella che soffrì il primo presidente della democrazia, Adolfo Suarez, nei mesi tragici che precedettero il golpe del 23 febbraio 1981.
Un punto è quindi importante da sottolineare: indipendentemente dal colore politico del governo in carica, il costo della crisi finanziaria, in tutta Europa, viene scaricato sui lavoratori e sull’economia reale.
Di fronte a ciò, in controtendenza rispetto chi vede solamente depressione e senso d’impotenza, questa crisi potrebbe rappresentare paradossalmente una fonte d’ispirazione: generare speranza al posto del senso di colpa in chi si vede negati i propri diritti, ottimismo in un futuro diverso invece della rassegnazione davanti un presente tropo brutto per essere vero.
Costruire una resistenza comunitaria, europea, finalmente post-ideologica, all’interno delle nostre comunità alla fine dell’era della finanza e delle banche, potrebbe rappresentare la via per la transizione verso un futuro più localistico, naturale, umano, condivisibile e partecipato.
I mille fuochi d'Italia
da www.beppegrillo.it - 20 Ottobre 2010
In questo caso, purtroppo, un manifestante rischia di perdere la vista per un candelotto lacrimogeno, mentre un altro candelotto ha colpito un fotoreporter ricoverato in ospedale.
Ma i candelotti si sparano in aria o ad altezza d'uomo? Continuano le proteste a Boscoreale in Campania per le discariche con due rimorchi di rifiuti incendiati, prima di essere sversati, dai manifestanti.
Non è pensabile che ogni protesta si trasformi in un problema di ordine pubblico anche perché i focolai si stanno diffondendo.
Quanti agenti servono per il Ponte di Messina, la Tav in Val di Susa, le fabbriche che continuano a chiudere, le centrali nucleari, la base americana di Vicenza? 50.000? 100.000? Guidati in prima fila da Maroni e La Russa?
La gente si rivolta quando è esasperata o non ha più niente da perdere. Quando si salderanno i fuochi chi riuscirà a spegnere l'incendio?
La promessa di B. ai sindaci: “Quella discarica non si farà”. Dopo 20 giorni ecco il dietrofront
di Gaetano Pecoraro - www.ilfattoquotidiano.it - 21 Ottobre 2010
“Preparate i bicchieri”. Sorride, parlando al cellulare, il sindaco di Terzigno: “Abbiamo vinto. Berlusconi l’ho lasciato proprio ora. Ci ha detto che la discarica a cava Vitiello non si farà”. E’ il 30 settembre, e i cittadini già da giorni protestano in strada. La notizia dello stop rasserena gli animi. Ma è una promessa che non sarà mantenuta. Una presa in giro, quella di Berlusconi, costata cara.
Passano solo venti giorni e si arriva a questa notte. Le immagini degli scontri raccontano lo svilimento, la rabbia e la delusione dei campani. Ora che non c’è più nulla per cui brindare, il primo cittadino del Pdl, Domenico Auricchio, raggiunto da ilfattoquotidiano.it, dice che oggi stesso sarà a Roma per incontrare il premier e chiedere chiarimenti.
La guerriglia per le strade di Terzigno arriva dopo clamorosi dietrofont. Causa scatenante delle proteste di questa notte, l’annuncio, ieri sera, dei vertici del Pdl, dopo un incontro con le istituzioni campane: “La discarica si farà”.
Una politica poco chiara che spiazza gli amministratori locali: se il sindaco di Terzigno chiede chiarimenti al premier, il primo cittadino di Boscoreale, Gennaro Langella, annuncia di volersi dimettere dal Pdl e di sostenere i manifestanti.
Sassaiole da una parte, fumogeni e manganellate dall’altra. E il capo della Polizia, Antonio Manganelli, ora mostra il pugno duro: ”Si deve sversare e lo faremo anche se questo costerà l’uso della forza”.
Gli indizi della presa in giro, però, erano già evidenti quel 30 settembre. Poche ore dopo la promessa di Berlusconi, il numero uno della Protezione civile, Guido Bertolaso e il prefetto di Napoli, Andrea De Martino avevano ammonito il governo. Entrambi chiedevano “l’applicazione della legge”.
Vale a dire confermare l’istituzione del nuovo impianto tra Boscoreale e Terzigno. E alla fine, così è successo.
Intanto aumenta la conta dei feriti. Tra loro, i violenti e i guaglioni della camorra che ne approfittano per alzare la testa in un territorio sempre più distante dalle istituzioni, dove appare difficile mantenere il controllo.
Una situazione ora così difficile da spingere il capo della polizia a parlare di “area geografica unita da sentimenti di ostilità verso le forze dell’ordine”. E a ricordare: “Noi non siamo certo nemici di chi manifesta”. Ma adesso sembra troppo tardi.
29 ottobre in piazza. Nell'ignoranza la sottomissione, nella conoscenza la ribellione
da www.unionedeglistudenti.net - 20 Ottobre 2010
Dopo i cortei dell'8 e del 16 Ottobre gli studenti torneranno in piazza il 29 sui territori e il 30 Ottobre a Napoli, a sostegno dei precari della scuola che hanno indetto per il 30 Ottobre una manifestazione nazionale a Napoli.
Per questo in tantissime città italiane saremo in piazza il 29 Ottobre invitando gli studenti universitari, i ricercatori precari e strutturati ad unirsi a noi per costruire una mobilitazione coordinata del mondo della conoscenza contro la precarietà e le politiche di questo Governo.
E' necessario che la data del 30 Ottobre a Napoli si moltiplichi il 29 anche sui territori per continuare le mobilitazioni di queste settimane contro il Ministro Gelmini.
Scendiamo quindi in piazza il 29 Ottobre per portare un forte dato di continuità con la manifestazione nazionale del 30 Ottobre dei precari della scuola, per una battaglia che riqualifichi la scuola e distruggere la precarietà e per generalizzare la protesta a tutto il mondo della conoscenza in mobilitazione.
L'appello "Nell’Ignoranza la sottomissione, nella conoscenza la ribellione" agli studenti universitari e ai ricercatori.
“Nell’Ignoranza la sottomissione, nella conoscenza la ribellione”
Appello al mondo dell’Università e della Ricerca per costruire una mobilitazione il 29 Ottobre nelle città e il 30 Ottobre a livello nazionale a Napoli
Il 30 Ottobre a Napoli i precari della scuola hanno indetto una manifestazione nazionale contro le politiche del Ministro Gelmini, che tagliando risorse sulla scuola sta operando un vero e proprio licenziamento di massa.
Le studentesse e gli studenti delle scuole superiori intendono moltiplicare la data del 30 Ottobre a Napoli, costruendo il 29 cortei territoriali a sostegno della mobilitazione dei precari.
Rivolgiamo per questo un appello agli studenti universitari, ricercatori precari e strutturati in mobilitazione al fine di generalizzare la data del 29 a tutto il mondo della conoscenza.
Precari sono i luoghi dove studiamo, ricerchiamo, lavoriamo e viviamo.
Mancano laboratori, strutture sicure, strumenti didattici. L’edilizia scolastica e universitaria è decadente e non c’è nessun finanziamento sulla messa in sicurezza dei luoghi della formazione nelle ultime finanziarie del Governo. Scendiamo in piazza per chiedere scuole e università più sicure.
Precaria è la didattica.
Il taglio alle risorse, l’aumento degli studenti per classe, il mancato svecchiamento delle metodologie d’insegnamento ed una valutazione fatta di crediti, sentenze e numeri diventano uno scoglio reale per chi studia, per chi insegna e ricerca.
Ci parlano di merito e di qualità mentre la didattica è indietro di 30 anni. Chiediamo un ripensamento reale e partecipato della didattica nelle scuole e nelle università.
Precario è il nostro presente.
La mancanza di fondi per il diritto allo studio, i tagli agli assegni di ricerca, il blocco del turn over, gli alti costi della mobilità locale, nazionale e trasnazionale creano una linea di demarcazione forte tra chi può accedere al sapere e chi no.
Il taglio a scuola e università non è solo una misura economica del Governo ma un preciso progetto politico di creare un sistema di esclusione sociale.
Precario è il nostro futuro. Vogliono trasformare la precarietà in un sistema di controllo e assopimento delle vite. La difficoltà di programmare e pensare il proprio futuro è la più grande barbarie dei potenti nei confronti delle nostre generazioni.
Scenderemo in piazza quindi per chiedere forme di welfare e di tutela per tutti coloro che vivono i luoghi della formazione per liberarli e renderli autonomi dal proprio contesto sociale e familiare.
A quest’attacco generalizzato non può che corrispondere una radicale azione di risposta coordinata del mondo della conoscenza. L’indisponibilità dei ricercatori deve diventare una parola d’ordine per precari, studentesse e studenti.
Siamo indisponibili ad accettare provvedimenti calati dall’alto che decidono delle nostre vite, violentandole. Indisponibile è il nostro presente e il nostro futuro e non permetteremo a nessuno di utilizzarlo e sfruttarlo.
Per questo rivolgiamo quest’appello per scendere insieme in piazza il 29 Ottobre nelle città di tutta Italia, per continuare la mobilitazione del mondo della conoscenza dopo la data dell’8 e del 16 Ottobre contro un Governo che utilizza la crisi come strumento per accentuare le diseguaglianze sociali.
Dal mondo della conoscenza nasce la ribellione, contro ogni ignoranza, contro ogni sottomissione.
Unione degli Studenti
Tel. 06/69770332
La piazza Fiom: cosa viene dopo
di Paolo Flores d'Arcais - www.ilfattoquotidiano.it - 20 Ottobre 2010
Per capire se la manifestazione della Fiom di sabato sia stata solo un grande successo o costituisca invece una potenziale svolta storica per la vita politica e sociale del paese è necessario approfondire cinque punti: dimensioni numeriche della partecipazione, strategia sindacale radicalmente alternativa avanzata dal segretario Fiom Landini, capacità o meno di unificare lavoratori occupati con disoccupati e precari, capacità di unificare lotte sociali e lotte civili, implicita necessità di una proiezione politica di tutto ciò.
COMINCIAMO dai numeri. I mass media non hanno potuto disconoscere il successo, ma ne hanno oscurato sapientemente le dimensioni, che sono state invece del tutto fuori dell’immaginabile.
Eppure tutti i giornalisti hanno visto quello che Luca Telese ha puntualmente raccontato ai lettori de Il Fatto: dopo quattro ore di manifestazione, quando durante l’ultimo discorso, quello di Epifani, molta gente cominciava a tornare a casa, via Merulana era gremita dal corteo, la cui coda doveva ancora muoversi da piazza Esedra. Ma gli altri giornalisti si sono ben guardati dal riferire la circostanza ai rispettivi lettori e telespettatori.
Perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento che neppure il Circo Massimo sarebbe stato sufficiente per quel mare di dimostranti. E poiché la manifestazione di otto anni fa al Circo Massimo con Cofferati era stata riconosciuta come la più grande nella storia della nostra Repubblica... Quella dei numeri non è dunque questione filologica o maniacale.
Se la dimensione della manifestazione non fosse stata occultata, se ci fosse stata una diretta, con le canoniche riprese dall’alto, tutti sarebbero oggi costretti a discutere sulla “scandalosa” capacità di consenso di una forza sindacale data come “isolatissima” e sul carattere di punto di riferimento generale e nazionale che la sua piattaforma “radicale” si è conquistato.
PERCHÉ è verissimo che Maurizio Landini ha fatto un discorso privo di divagazioni ideologiche, da leader sindacale tutto concretezza, ma proprio in questa concretezza sono ritornate parole ormai scomparse da anni presso i vertici della Cgil, come “ribellione” e “sfruttamento”, ed è stata delineata una linea sindacale organica e alternativa su almeno tre questioni: primo, la contrattazione deve sempre più andare in direzione di grandi contratti nazionali, addirittura per compartimenti produttivi (industria, commercio, ecc.) anziché per categorie (metalmeccanici, chimici, tessili, ecc.).
Questo significa che un contratto nazionale dell’industria è il minimo vincolante per tutti gli imprenditori, senza possibilità di deroghe, poiché le uniche ammesse saranno quelle migliorative dei contratti integrativi settoriali o locali. Con il che siamo agli antipodi del modello Pomigliano, siamo allo scontro frontale con Finmeccanica e Confindustria, siamo alla rottura con Bonanni che grida “dieci, cento, mille Pomigliano”.
SECONDO, la proposta di un salario “di cittadinanza” per tutti, che dunque vada oltre la cassa integrazione, che tuteli in radice il disoccupato. Novità radicale nelle strategie sindacali italiane, fin qui sempre sospettose sul tema, che invece in gran parte dei Paesi d’Europa è conquista storica irrinunciabile (accettano solo che si discuta come rafforzarla evitando al contempo alcuni possibili effetti perversi di “disoccupazione volontaria”).
Proposta accompagnata a quella del salario minimo per tutti i comparti produttivi, alla impossibilità che il lavoro precario venga remunerato meno di quello fisso, alla distruzione della frammentazione contrattuale nella stessa fabbrica tra chi dipende dall’azienda, dalla “cooperativa” di un subappalto, ecc.
Anche qui siamo esattamente agli antipodi del modello che invece governo e padroni (parola che alla Fiom si usa ancora) pretendono venga accettato come necessità “obiettiva” imposta dalla globalizzazione.
TERZO, l’obbligo (addirittura per legge) della democrazia contrattuale, cioè del voto della base dei lavoratori su qualsiasi contratto, nazionale o integrativo. Il che significa l’impossibilità di firmare contratti separati con Cisl e Uil e il dovere di lasciare ai lavoratori l’ultima parola anche per vertenze concluse con la firma unanime dei sindacati.
Una vera e propria “rivoluzione copernicana” che ricrea le premesse per una unità dal basso, radicata negli interessi dei lavoratori e che batterebbe in breccia gli interessi di burocrazie sindacali troppo impegolate con l’establishment.
È questa strategia alternativa ad essere stata consacrata dall’inaudito successo della manifestazione di sabato. È su queste posizioni di sindacalismo innovativo che è stato “incoronato” Maurizio Landini.
Non perché “radicali” ma perché le posizioni del gruppo dirigente Fiom hanno dimostrato di essere le uniche a poter unificare tutto il mondo del lavoro occupato (non a caso a riconoscersi nella lotta dei metalmeccanici c’erano dalle tessili dell’Omsa ai chimici di Porto Torres), cioè a realizzare come dirigenti metalmeccanici quello che dovrebbe essere il compito della Cgil.
MA LA STRATEGIA della Fiom si è dimostrata anche l’unica capace di parlare ai precari e ai disoccupati, compiendo quello che sembrava un impossibile miracolo: colmare tra lavoratori “garantiti” e non, un fossato che sembrava destinato inesorabilmente ad accrescersi fino a diventare baratro anche esistenziale.
Questa è forse la novità più carica di conseguenze e la meno evidenziata: il sindacato storico dell’industria più “fordista” che si dimostra capace di unificare sotto la sua egida (“egemonia”, verrebbe da dire, ma di tipo davvero nuovo) i lavoratori del precariato post-moderno, raccontati come individualisti strutturalmente refrattari alla dimensione delle lotte solidali.
LA CAPACITÀ di difendere “interessi generali” proprio dando respiro strategico alla difesa dei lavoratori che direttamente si rappresenta è da sempre il “salto mortale” che a pochissime organizzazioni sindacali storicamente riesce.
Ma la Fiom sabato è riuscita a fare perfino di più: ha dimostrato come possano essere unificate le lotte sociali, di cui il sindacato è istituzionalmente protagonista (o almeno dovrebbe), con le lotte per obiettivi di civile progresso, per diritti civili individuali e collettivi.
Aprendo con ciò una prospettiva davvero inedita, che non era riuscita neppure alla Cgil di Cofferati nel suo momento di massima capacità rappresentativa. Non si tratta solo di avere dato spazio al movimento per l’acqua pubblica e al pacifismo attivo di Emergency, ai movimenti contro le mafie e al dovere dell’antirazzismo nella sinistra ufficiale completamente edulcorato (per usare un eufemismo), alle lotte degli studenti e alle necessità della ricerca scientifica, ma di averlo fatto indicando una serie di obiettivi irrinunciabili per il movimento sindacale in quanto tale e che – radicate nella concretezza sindacale – costituiscono già una SFIDA POLITICA.
Di questo infatti si tratta, quando il segretario del sindacato metalmeccanico decide di porre DIGNITÀ e LEGALITÀ come temi cruciali della rivendicazione operaia e li correda con la richiesta che meno tasse per i salari dei lavoratori dipendenti vengano compensati da “più tasse per i ricchi”.
ECCO PERCHÉ, nella manifestazione più inequivocabilmente OPERAIA da molti anni a questa parte, si è avuta la partecipazione massiccia di settori consistenti di piccola e media borghesia, di quel mondo “moderato” che tutti dicono di voler rappresentare, scambiando l’essere moderati con l’essere affascinati dalla nullità dei Montezemolo o dai politicantismi dei Casini (che i voti li prendeva grazie ai Cuffaro).
LA LEZIONE della Fiom è dunque anche quella di uno straordinario realismo, che conferma come solo la strategia della intransigenza rispetto ai valori costituzionali sia capace di allargare le alleanze sociali. Fino ad ora avevamo una riprova per negativo: ammiccando alla destra i consensi dei “moderati” non si conquistavano affatto.
Ora abbiamo, grazie alla Fiom, la cartina di tornasole in positivo: una politica bollata come “radicale” o addirittura “estremista” non isola affatto, anzi consente di trascinare con sé strati sociali che si stavano perdendo nell’apatia e nella rassegnazione. Per dirla nel modo più semplice, il gruppo dirigente della Fiom ha dimostrato cosa voglia dire praticare davvero una “vocazione maggioritaria”.
QUALSIASI politica sindacale ha necessità di una sua proiezione politica. Quella della manifestazione di sabato più che mai, visto che entra in rotta di collisione con la pretesa “oggettività” della globalizzazione e dunque esige una sovranità popolare che non sia succube della “libertà” di derubare la famosa “azienda Italia” di interi impianti industriali, trasferiti in qualche Serbia per avidità di iperprofitti aggiuntivi. Ma con ciò arriviamo all’ultima questione, che dovrà essere affrontata in un altro articolo.
Qui possiamo solo fissare i termini ineludibili dell’interrogativo: dai partiti del centrosinistra attualmente esistenti non può venire la risposta politico-elettorale non solo necessaria ma ormai improcrastinabile.
E meno che mai potrà venire dal qualunquismo con cui Beppe Grillo sta ibernando nell’avvitamento del “vaffa” le energie giovanili degli elettori “cinque stelle”.
Bisognerà che le forze più consapevoli della società civile, in primo luogo le testate giornalistiche della carta e del Web, riescano a inventare modalità fin qui inesplorate per risolvere l’equazione della democrazia.