lunedì 25 ottobre 2010

News Shake

Ritorna la rubrica News Shake, notizie a caso ma non per caso...


Gli inganni di Terzigno
di Alessandro Iacuelli - Altrenotizie - 24 Ottobre 2010

"Aprire una discarica in un parco nazionale era una scelta da evitare". Lo dice il sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, in una trasmissione di Radio Svizzera Italiana.

E non sbaglia, visto che si tratta di una scelta ottusa e in contrasto con leggi e regolamenti dello Stato, oltre che con le direttive dell'UE, che vietano tassativamente la costruzione d’impianti in riserve naturali.

Anzi, a dirla tutta, le direttive europee dicono anche che di discariche non se ne devono proprio più fare.

Allora? Perché all'improvviso scoppia una nuova emergenza rifiuti in Campania e tutta la politica dice che occorre destinare a discarica la cava Vitiello, tra Terzigno e Boscoreale, che c'è una legge dello Stato che lo prevede?

E’ un clamoroso inganno, basato sulla scarsa memoria storica sia della maggior parte delle persone (che continua a fregarsene dei propri rifiuti) sia della falsamente scarsa memoria storica di chi dovrebbe fare opposizione.

Tanto per cominciare non può esserci una legge dello Stato che dice che a Terzigno va aperta una seconda discarica. Non può esserci, perché sarebbe in violazione di altre leggi, di regolamenti del ministero dell'Ambiente e di precise norme UE. C'è qualcosa di scritto, è vero, ma non è una legge.

E' un decreto d'urgenza, risalente al maggio 2008, voluto dal commissariato straordinario per i rifiuti che, nel nome del "fare presto" a ripulire la parte salotto della città (sull'emergenza rifiuti si era giocata la campagna elettorale alle politiche di quello stesso anno e Berlusconi aveva detto a gran voce che avrebbe "risolto lui" il problema nei primi 100 giorni) preferì - tanto per cambiare - sacrificare il "fare bene", con il “fare presto”.

Risultato, una discarica che andava fatta più lontana dalle abitazioni e non dove la natura è protetta. E di studi che indicavano dove mettere le discariche ce n'erano stati, anche più di uno. Ma si andava di fretta e a chi protestava Bertolaso, con la solita arroganza, accusava di mettere i bastoni tra le ruote.

Il fatto che esista una legge, lo sentiamo ogni giorno urlare dagli schermi televisivi da parte del governatore Caldoro come dal presidente della Provincia Cesaro; ma é è un "mito" di Stato che va assolutamente sfatato. Prima che, a furia di ripeterlo in televisione, diventi nella mente dei cittadini un’inoppugnabile verità. Quella che chiamano "legge" si chiama "decreto-legge", ha un numero (decreto 90/2008) e un testo qui reperibile: http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/decreto_rifiuti/20080523_dl_90.pdf

Se qualcuno ha la pazienza di leggerlo, si accorge di due cose. La prima è che si parla sia della cava Sari sia della cava Vitiello a Terzigno, eppure fino ad ora è bastata la cava Sari. La seconda cosa è un pugno in un occhio: quel decreto è scaduto.

E' scaduto il 31/12/2009, pertanto non ha alcuna validità legale, tornando ad essere quel che è: carta straccia. Anzi, a dire il vero, tutto il commissariato straordinario all'emergenza rifiuti è diventato carta straccia, visto che non c'è più. Altro che "camorra dietro le proteste", che come mostreremo stavolta non c'entra nulla: siamo di fronte ad un illecito commesso dallo Stato stesso.

E non è l'unica cosa che va "storta". Va storto anche che il comma 2 dell'articolo 14 di quel decreto, che elenca i codici CER, cioè in definitiva le categorie merceologiche di rifiuto, che possono essere tombati a Terzigno e negli altri siti campani.

E si tratta dei codici CER dei rifiuti residui a valle della raccolta differenziata. Vengono vietati i rifiuti tal quale, quelli non trattati, cioè quelli uguali a come sono stati presi dai cassonetti: cioè quelli che vengono tombati alla Sari e presto anche a Cava Vitiello.

Che cosa sta succedendo? E come spiegare il grande "colpo di fortuna" avuto dalle istituzioni alcuni giorni dopo, quando si è interrotta la raccolta dei rifiuti urbani nella città di Napoli? Già, perché di grande colpo di fortuna si tratta, il trovarsi davanti al fermo della raccolta in una città di un milione di abitanti, ed avere la scusa "pronta": gli abitanti di Terzigno e di Boscoreale bloccano le discariche, per cui la raccolta è ferma.

Ma è così? La risposta è no. E' solo l'inganno successivo. E se non è per questo, allora Terzigno cosa c'entra? Nulla. Terzigno e Boscoreale, ancora una volta, sono vittime dell'inganno di Stato. Usate come "scusa", per far sembrare che sia colpa loro se il sistema si è inceppato.

Partiamo allora da quello che è stato il reale inceppamento del sistema di raccolta. Appunto, del sistema di raccolta, non di smaltimento. Si è interrotto il passaggio dei camion autocompattatori che raccoglievano dai cassonetti stradali, pochi giorni dopo l'inizio della fase di scontro e di rivolta popolare a Terzigno e si è addossata la colpa alle proteste popolari.

Invece c'è dietro un problema amministrativo, con dei risvolti degni di un romanzo thriller. E forse la soluzione non è a Terzigno, dove d'altronde lo Stato, la Regione, la Provincia, lo stesso Bertolaso, sapevano già in anticipo che avrebbero trovato resistenza.

Hanno trovato resistenza per la Sari, due anni fa, e oggi gli animi sono anche più esacerbati di allora. Pertanto era più che prevedibile che ci sarebbero stati problemi, un riaprirsi di quella frattura democratica, di cui spesso si è parlato qui su Altrenotizie, già aperta in Campania dal commissariato straordinario. Ma allora, se lo sapevano, perché l'hanno fatto?

A Napoli si sono fermati gli autocompattatori. Punto. Questo è successo. Ma allora, dando una lettura superficiale alla cosa, viene in mente di lasciare Terzigno per qualche ora e andare a porre la domanda presso l'Asia, la municipalizzata di Napoli. C’è però da fare attenzione, perché anche qui c'è un inganno, l'ennesimo.

Infatti, l'Asia non ha sufficienti mezzi. Pertanto ha suddiviso il territorio della città in diversi "lotti" ed ha assegnato ciascun lotto con una regolare gara d'appalto ad un privato. Ma c'è un privato che è un po' più importante di altri. Perché ha più del 66% dei lotti tutti per sè!

Quindi, se si fermano i suoi veicoli, si ferma la raccolta su oltre due terzi di Napoli. Questo soggetto è un colosso nazionale: Enerambiente, azienda privata di proprietà dell'imprenditore veneziano Stefano Gavioli.

Che non campa solo di Enerambiente, visto che è appena una delle 35 società del suo impero societario, peraltro difficile da inquadrare, visto che i pacchetti azionari si perdono in giro per le sue stesse scatole cinesi. Intanto, quel che é certo, è che per capire cosa sta succedendo, bisogna lasciare anche Napoli, e andare di corsa direttamente a Venezia.

La Enerambiente, che ha fermato i suoi camion a Napoli pochi giorni dopo l'inizio degli scontri di Terzigno, ha provocato la mancata raccolta dai cassonetti e, quindi, l'emergenza rifiuti. L'Asia smentisce, dice un'altra cosa. Se invece questa fosse la ragione, non sarebbe certo colpa della gente vesuviana.

Ed è allora un altro inganno da smascherare assolutamente, prima che si perda memoria di un'azienda con questo nome, perché prima o poi lo cambierà, cambierà anche sede e rappresentante legale. Fatto sta che non è stato certo Gavioli a fondarla.

L'ha "ereditata" per scorporo dalla Slia, una delle tante aziende di Manlio Cerroni. Proprio lui, il re dei rifiuti di Roma, il proprietario di Malagrotta. Un bel giorno, la Slia incappa in una interdittiva antimafia del Prefetto di Roma. Gavioli, da Venezia, ne approfitta: la compra "in liquidazione", cambia consiglio di amministrazione e la "ripulisce" dai collegamenti sporchi.

Se si prova a chiedere perché Enerambiente ha fermato i propri compattatori a Napoli, si ottiene come risposta che l'azienza veneta ha fermato i veicoli perché l'Asia di Napoli sarebbe insolvente nei loro confronti. In Asia negano, conti alla mano: ma se si prova a cercare quello che risultava essere l'amministratore delegato di Enerambiente, un tal dottor Faggiano, non lo si trova. Come mai?

Semplice: è latitante. Dopo una condanna in primo grado a 1 anno e quattro mesi per un caso di tangenti a Brindisi, anziché aspettare il processo d'appello ha preferito alzare i tacchi. Sarà all'estero. Magari con una parte di soldi della Enerambiente. Magari giusto con la cifra che a Venezia citano per dichiarare insolvente l'Asia.

Ma queste chiaramente sono solo ipotesi, solo un ragionamento assolutamente non suffragato da fatti che, come si evince in tutta evidenza, vanno ricercati e chiariti da una Procura della Repubblica: solo la magistratura inquirente potrà appurare se Faggiano è scappato con la cassa o senza.

Il posto di Faggiano l'ha preso lui in persona, il Presidente e proprietario, Stefano Gavioli. Che a Napoli ha consolidato le sue alleanze. Nella sua squadra c'é Corrado Cigliano, uomo chiave dell'azienda a Napoli, figlio dell'ex assessore socialista alla Nettezza urbana di Napoli Antonio Cigliano, fratello di Giuseppe, anche lui dipendente di Enerambiente, e Dario, il terzo fratello, consigliere comunale e provinciale a Napoli. Una bella potenza familiare.

L'Enerambiente a Napoli ha subito diversi attentati ai propri mezzi, dopo lo scoppio dei disordini a Terzigno. Pertanto, è stato facile per le agenzie di stampa scrivere: "Camion dei rifiuti incendiati e danneggiati nel Napoletano. La spazzatura è stata riversata in strada. A Boscoreale, alcune persone con il volto coperto da caschi hanno incendiato un autocompattatore".

E' un altro inganno mediatico: i mezzi di Enerambiente sono stati distrutti davvero, ma a Napoli. E Boscoreale non c'entra niente, anche perché qualche notte fa, nella zona industriale di Napoli, qualcuno ha assaltato l'intera sede napoletana di Enerambiente. Azione organizzata, con molti partecipanti, vista l'entità dei danni. Un raid in grande stile: uffici devastati, 46 mezzi danneggiati.

Cinquanta partecipanti, secondo la Digos. Problemi di camorra? La cosa è stata subito chiusa così, troppo frettolosamente. Ancora una volta la camorra è usata come alibi e non si punta alla camorra quando si dovrebbe davvero, cioè a proposito del mondo oscuro delle ecomafie.

Intanto tra tutti gli inganni tirati in ballo finora, ci sono ancora almeno due punti oscuri. Per cominciare: per quale motivo Enerambiente ha fermato i suoi mezzi a Napoli? Secondo: chi ha organizzato un raid contro la sua sede partenopea? Poi ovviamente qualche lettore si starà chiedendo cosa c'entra cava Vitiello in tutto questo. Cerchiamo di far quadrare il cerchio nel modo più ordinato possibile.

La Enerambiente se ne deve andare da Napoli, è già stato deciso dietro le quinte. Ecco perché si è fermata: sta smantellando la sua ala napoletana. Già al primo di novembre cesserà ogni sua collaborazione con le municipalizzate campane.

E perché? La risposta ovviamente è altrove, non a Napoli, non a Venezia, ma da tutta un'altra parte. La risposta si trova in Abruzzo, dove Enerambiente è corsa ad acquistare partecipazioni nelle società ambientali, come quella di Teramo.

E la risposta dice che ancora adesso Enerambiente è oggetto di un esame dell'antimafia, recapitato all'Asia dalla Prefettura di Venezia: secondo indiscrezioni si tratterebbe di un’informativa antimafia atipica.

E' un atto giuridico un po' ostico per i non addetti ai lavori; solitamente viene rilasciata quando gli indizi non assumono caratteri di gravità, precisione e concordanza tali da giustificare un effetto interdittivo automatico, ma contemporaneamente esistono elementi specifici non tanto di "appartenenza mafiosa", quanto di "infiltrazione mafiosa". Infatti, per essere legittimamente emessa è sufficiente il "tentativo d’infiltrazione" avente lo scopo di condizionare le scelte dell'impresa, anche se tale scopo non si è in concreto realizzato, o se è in corso.

Quindi diviene plausibile che i soggetti pubblici, compresa l'Asia, che hanno rapporti con Enerambiente, abbiano voluto rescindere i contratti, una volta ricevuta l'informativa dal Prefetto di Venezia.

Ad avvalorare questa tesi, è successo che qualche giorno prima, nel corso di un'interrogazione parlamentare, il deputato del Pdl abruzzese Daniele Toto ha chiesto al Ministro dell'Ambiente "se risponde al vero che in Enerambiente lavori un personaggio che agisca da anello di congiunzione tra i clan di Castellammare di Stabia e la Sacra Corona Unita".

Un’analoga interrogazione parlamentare è stata presentata anche dall'On. Angela Napoli. Enerambiente lavora anche a Teramo, e anche a Teramo è arrivata l'informativa ed ha smesso di lavorare. Nel capoluogo abbruzzese hanno detto che Enerambiente è in sciopero.

Dove sarebbe la camorra, quindi? Dietro la rivolta popolare di Terzigno? Diviene poco credibile. Viene il sospetto - che ci auguriamo che le procure dissipino - che la camorra tanto per cambiare si sia infiltrata nei trasporti e nelle forniture di automezzi. Come ha sempre fatto. Un altro inganno che salta. La camorra, nel ciclo rifiuti urbani, lucra sui trasporti. O il trasporto lo si fa a Terzigno, o lo si fa altrove, l'appalto è lo stesso e le cose non cambiano. Ci sarebbe semmai da riflettere sul perché, ora che i meccanismi d’infiltrazione sono noti, il tutto avvenga ancora.

Dove la camorra lucra sul serio è sullo smaltimento dei rifiuti speciali, molto più costoso, molto più pericoloso, molto più velenoso. Eppure, da un po' di tempo anche delle fonti autorevoli raccontano che si tratta di un traffico "in declino" o addirittura "finito", adducendo motivazioni molto fantasiose.

Certamente il traffico ha cambiato faccia, si è fatto più furbo e se fino a ieri era quasi completamente sovrapposto al ciclo del cemento, ora si sta andando a infiltrare nel ciclo agricolo, con manovre pericolosissime che, in definitiva, ci fanno arrivare i rifiuti tossici direttamente nel piatto.

E con un filo conduttore neanche troppo invisibile che lega indissolubilmente, da ora in avanti, la Campania all'Abruzzo, Napoli e Caserta a Teramo e L'Aquila. Un filo conduttore che fa ragionevolmente supporre che sarà l'area sul lato del Gran Sasso rivolta verso l'Adriatico che potrebbe essere la terra di sversamento dei rifiuti tossici dell'industria italiana di domani. Questa però è un'altra storia, diversa, che potrà essere raccontata in un'altra occasione.

Per quanto riguarda il raid alla sede della Enerambiente a Napoli, ne sono state pensate tante. L'estorsione, qualcosa andato male in un giro di lavaggio non di rifiuti ma di denaro altrettanto sporco.

Sembra confermarlo un recente rapporto della Procura Nazionale Antimafia, che racconta come la gestione delle discariche e la mala gestione delle compartecipate pubbliche siano spesso un modo per ripulire del denaro illecito. Forse le cose stavolta sono più semplici, probabilmente delle tensioni sindacali, o dei problemi con degli interinali.

Non si capisce però una cosa: perché il sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, abbia raccontato, alla fine di un vertice con il prefetto Andrea De Martino e con il generale Mario Morelli, capo della struttura che sta gestendo il rientro alla normalità, che "Enerambiente questa notte ha avuto all'improvviso 68 malati: il problema è ora di vedere con l'Inps e l'Asl, nel pieno rispetto del diritto di chi è malato sul serio, quelli che non sono malati e visto che sono pagati devono andare a lavorare".

Storia un po' strana. I lavoratori di Enerambiente a Napoli sono circa 400 e sono rimasti tutti fermi, non 68 ammalati. A Napoli ammalati, a Teramo in sciopero. Viene voglia di chiedere a grande voce: "Si può sapere perché non si può dire la verità, e cioè che c'è in ballo una informativa antimafia?"

All'Asia smentiscono e dicono, cosa peraltro giusta, che i flussi dei rifiuti li decide la Regione e che dalla Regione è arrivato "l'ordine" di dirottare i camion, che andavano a scaricare a Chiaiano, verso Terzigno.

Ed ecco costruito il coro istituzionale, dalla Provincia al Governo, passando per la Regione: "Siamo in emergenza perché a Terzigno la gente blocca la discarica". Viene voglia di dire a tutti gli italiani di non cascare in questa bufala, in questo ennesimo inganno.

Intanto a Terzigno non c'è stata mai una discussione, una conferenza dei servizi, un confronto. La discarica è stata imposta. Anche all'Ente Parco Nazionale del Vesuvio. Non si poteva fare altrimenti, dal punto di vista berlusconiano: aveva promesso contemporaneamente di ripulire Napoli, abolire le Provincie, e provincializzare la gestione dei rifiuti.

Per cavarsela, il cavaliere ha dovuto spingere anche all'interno del PDL per avere eletto presidente della Provincia quel Luigi Cesaro, suo uomo di fiducia, accusato a più riprese da decine di pentiti che l’hanno sempre indicato come intimo di Raffaele Cutolo; lo stesso Cesaro non ha mai negato una forte amicizia con il capo della Nuova Camorra Organizzata.

Anche nel 2006 è stato detto che un pentito, che in realtà si era già cantato tutto nel '93, ma evidentemente all'epoca non si poteva dire, lo ha indicato come braccio destro dell'ala dei casalesi impegnata nel traffico illecito di rifiuti speciali.

Ora è Cesaro che ha il cerino acceso in mano e se Enerambiente si ferma, non c'è nulla di meglio che indicare i cittadini di Boscoreale e Terzigno come i "colpevoli", come al solito "pilotati dalla camorra", e in definitiva come causa prima dell'emergenza.

Restando invece a Terzigno, si é detto che sembrava tutto già scritto. Probabilmente è vero, ma non si tratta certo del copione che abbiamo visto in TV. Quello era il copione basato sugli inganni svelati fino ad ora.

Ai lettori sarà rimasto un dubbio: cosa c'entra Terzigno, con la questione Enerambiente? Per questo motivo è stato scritto che aver deciso di forzare su cava Vitiello qualche giorno prima dei guai con l'azienda veneziana è stato un grande colpo di fortuna.

Grazie a questo colpo di autentica fortuna è stato possibile alle istituzioni non dover ammettere qualcosa del tipo: "Abbiamo preso l'impegno di non far infiltrare le mafie nel ciclo dei rifiuti, abbiamo fatto raccogliere i rifiuti a Napoli, per anni, ad un'azienda in cui opera qualcuno che ha contatti sia con i clan campani che con quelli pugliesi."

Sarebbe stato uno smacco troppo grande, che avrebbe ulteriormente minato la fiducia dei cittadini nelle attuali figure alla guida delle istituzioni, per giunta in un momento in cui si parla a giorni alterni di possibili elezioni politiche anticipate. E' stato un bel colpo di fortuna poter dare la colpa a quegli stessi cittadini che non si fidano più.

Certo, c'è anche chi alla fortuna non crede tanto. Decidere di aprire cava Vitiello giusto qualche giorno prima del fermo dei mezzi di Enerambiente e così affossare il caso dell'azienda veneta, senza fargli trovare alcuna risonanza mediatica, è un po' come fare un sei al superenalotto.

Se poi si riflette, allora salta in mente che certamente il caso Enerambiente, tra gli addetti ai lavori e all'interno delle istituzioni non è stato un fulmine a ciel sereno, soprattutto se già c'era stata un'interrogazione parlamentare.

Ma questo significa che quando è stato deciso di procedere con la forza su Terzigno e Boscoreale, creando un clamore mediatico che avrebbe ricorperto tutto il resto, era già noto che stava per succedere qualcosa in Enerambiente.

Contemporaneamente, era noto che procedere con Terzigno avrebbe creato clamore mediatico: come già detto più sopra era noto e arcinoto che sarebbe stata causata una rivolta popolare. Viene quasi il dubbio che forse c'é anche altro da coprire; viene il dubbio che la decisione di aprire una nuova discarica a Terzigno sia servita ai soliti noti e ai soliti interessi. Ma a pensar male, come disse qualcuno, si commette peccato.


Molti Lodi, zero onore
di Massimo Fini - www.ilfattoquotidiano.it - 24 Ottobre 2010

Silvio Berlusconi ha dato mandato a uno dei suoi mille avvocati, Fabio Lepri, di agire in sede civile contro i responsabili della trasmissione ‘Report’ di Milena Gabanelli da cui si ritiene diffamato perché vi si racconta che l’acquisto di ville e terreni ad Antigua, Stato che dal punto di vista fiscale batte bandiera corsara, sarebbe avvenuto attraverso società “off-shore” e nella vicenda sarebbe implicata anche la filiale italiana della svizzera Arner sotto inchiesta per riciclaggio. Vari esponenti dell’opposizione hanno parlato di “censura” o “forma di censura”.

Non è così. Come scrivevo sul ‘Fatto’ del 19/10 la censura o il tentativo di censura si ha quando si blocca o si cerca di bloccare una trasmissione (o la pubblicazione di un libro o di un articolo di giornale) prima che vada in onda (o che venga pubblicato) come aveva minacciato Niccolò Ghedini, l’avvocato principe del Cavaliere.

Ma dopo la messa in onda o la pubblicazione è pieno diritto di chiunque e quindi anche del premier, adire le vie legali se si ritiene diffamato. Questa è la strada corretta.

Ma se dovessero diventar legge il “Lodo Alfano”, così come è configurato attualmente, o il cosiddetto “legittimo impedimento” il processo contro ‘Report’ e Gabanelli si dovrebbe fermare.

La motivazione ufficiale del Lodo e del legittimo impedimento sta nel fatto che il premier non può essere distolto dai suoi gravi e pesanti impegni istituzionali per spendere il proprio tempo nei processi che lo riguardano.

Ma se per questo motivo il premier perde la capacità passiva, cioè quella di essere trascinato in un processo, perde anche, per lo stesso motivo, quella attiva, cioè di trascinare altri in un processo. Perché la perdita di tempo c’è nell’uno e nell’altro caso. Come ha notato, anticipando i tempi, Gabanelli: “La differenza è che lui può querelare me ed io non posso querelare lui”.

Sul Lodo Alfano Giorgio Napolitano ha espresso le sue perplessità perché lederebbe paradossalmente le sue prerogative sottoponendolo per eventuali reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni al voto del Parlamento a maggioranza semplice e quindi, di fatto, mettendolo alla mercè della maggioranza di governo.

Ma questo è un problema minore, di secondo grado. Napolitano è molto sensibile quando si toccano le sue prerogative, ma dovrebbe esserlo altrettanto, anzi molto di più, quando si ledono principi fondamentali della Costituzione che ledono i diritti di tutti i cittadini.

Il Lodo Alfano viola il principio fondamentale di qualsiasi Stato democratico dell’”uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge” garantito dall’articolo 3 della Costituzione. Ho sentito spesso affermare da esponenti del Pdl che uno “scudo processuale” per il premier esiste anche in Francia.

Non è vero: in Francia si sospendono i processi solo al capo dello Stato e solo per reati commessi nell’esercizio delle funzioni (il premier, non parlamentare, non gode nemmeno dell’immunità di deputati e senatori).

L’attuale Lodo Alfano invece riguarda anche il premier ed è omnicomprensivo.

Cioè, in ipotesi, Berlusconi potrebbe assassinare Veronica e farla trovare cadavere in un pozzo, triturare con le eliche di un motoscafo tuo figlio e non essere processabile fino alla scadenza del suo mandato. Un’aberrazione inaudita.

Il “legittimo impedimento” non arriva a questi eccessi grotteschi ma viola ugualmente il principio di uguaglianza, per cui c’è un soggetto che non risponde delle proprie azioni al contrario di quando avviene per tutti gli altri che diventano cittadini di serie B.

Una legge del genere dovrebbe sollevare l’indignazione di tutti i cittadini perché, al di là di ogni disquisizione giuridica, lede innanzitutto la loro dignità.

È come se uno entrasse in un bar fumando e uno degli avventori gli facesse notare che è proibito alla legge e quello rispondesse “Giustissimo, ma questa proibizione vale per voi, non per me”.

In un bar chi si comportasse in questo modo verrebbe buttato fuori a pedate nel sedere dagli altri clienti, nella Repubblica italiana invece si ritiene possibile, su questioni ben più gravi e decisive, questa disparità di trattamento.

In coda faccio notare che, ai bei tempi, quando una persona, soprattutto con un ruolo pubblico, si sentiva diffamata, per difendere il proprio onore sporgeva querela penale “con la più ampia facoltà di prova”.

Berlusconi invece contro Gabanelli vuole agire con rito civile, dove ciò che si difende non è l’onore ma i quattrini, perché nell’azione civile di danno ciò che conta non è la verità dei fatti ma, appunto, il danno.

E anche un ladro o un evasore fiscale riconosciuti penalmente come tali possono essere danneggiati se definiti ladri o evasori fiscali “in termini non continenti”. Ma in fondo Berlusconi agendo civilmente è coerente con se stesso. Ha sempre negato di essere “un uomo d’onore”.


Intervista a Luciano Gallino. Quale crescita nella crisi economica
di Carla Ravaioli - www.ilmanifesto.it - 24 Ottobre 2010

Un capitalismo ecologico (se potesse esistere) allontanerebbe o scongiurerebbe il disastro che è già cominciato?

Il neoliberismo divora le risorse della crescita. La politica si fa ancella della finanza. Le sinistre hanno capito ben poco della globalizzazione. E parlare di ambiente a una donna di Haiti è complicato. Ma la crisi ecologica è planetaria e il rilancio dell'economia mondiale la aggraverà.

Luciano Gallino, come giudica le politiche seguite da quanti hanno responsabilità pubbliche (industriali, economisti, politici) al fine di superare la crisi. Politiche che di fatto si riassumono in rilancio di produzione e consumi, aumento del Pil, insomma crescita... Una linea che nessuno mette in discussione.
Gli interventi postcrisi sono l'esito di un processo di ristrutturazione dell'economia cominciato con Reagan e Thatcher nei primi anni anni 80, cui hanno contribuito anche governi europei guidati da socialisti: dopo aver fabbricato la crisi, tentano ora di porvi rimedio con metodi tipicamente neoliberali. Ma bisogna fare qualche distinzione. Gli Stati Uniti, motore primo del capitalismo finanziario, da cui è partita la crisi, stanno facendo una politica un po' più progressista dell' Europa: salvando le banche, ma anche contenendo la disoccupazione con forti interventi di stimolo, e destinando decine di miliardi a una politica ecologica. Con tutti i suoi limiti, si tratta pur sempre del primo segno di vita della politica nei confronti della finanza. Mentre la Ue, fedele alla strategia di Lisbona, sta andando in tutt'altra direzione.

Quello che lei mi dice conferma la totale disattenzione del mondo politico nei confronti della crisi ecologica planetaria, e che il rilancio dell'economia mondiale non può che aggravare. Come giudica tutto ciò?
Lo giudico un grosso pericolo. E' come essere su un aereo che sta andando dritto contro una montagna e in cabina non c'è nessuno...

Di recente il Global Footprint Network ha annunciato che è già stata consumata la quantità di natura da potersi usare quest'anno senza squilibrare ulteriormente l'ecosistema. E la data viene anticipata ogni anno... Ma nessuno ci fa caso: seguitano a invocare crescita, dimenticando che (a prescindere dall'aumento di catastrofi) alla crescita può mancare la materia prima...
Ha detto quasi tutto lei. Io ho finito di scrivere un libro sulla crisi come crisi di civiltà, in cui tra l'altro ricordo che l'impronta ecologica dell'economia globale occupa ormai un pianeta virgola tre. Se il Sud del mondo dovesse produrre come l'Occidente, in pochi anni di Terre ce ne vorrebbero due. I responsabili principali sono la fede neoliberale e le pratiche economiche che ne sono derivate. Le dottrine economiche del neoliberalismo parlano di foreste, di mari, di acque, di terreni, ecc. sotto un unico aspetto: la valorizzazione. Uno distrugge mille kmq di foreste pluviali in Indonesia o in Brasile e la considera un'opera di valorizzazione: qualcosa che pareva non servire a nulla diventa materiale da costruzione.

Questa dottrina economica è affatto irrazionale, perché non calcola nei passivi la distruzione dei servizi che quella foresta - o quella palude, quell'agro, quel fiume - rendeva: un valore annuo che in media supera di due o tre volte il ricavo della cosiddetta valorizzazione. Con la differenza che quei servizi che erano durevoli sono scomparsi per sempre, mentre la valorizzazione avviene una volta sola.

Ma questo comportamento non attiene alla natura stessa del capitale?
Del capitale senza regole e senza controlli. Ma ci sono stati dei periodi in cui il capitale era ragionevolmente regolato.

Forse perché, come dice Wallerstein, c'erano ancora degli spazi in cui fuggire... Il mondo non era antropizzato, sfruttato come ora.

Questo è indubbio. Oggi, al di fuori della società capitalistica mondiale, non c'è nessuno spazio. Ma ci sono anche altri fattori geopolitici da considerare. Tra il 1945 e il 1980 il capitalismo fu in qualche modo regolato. In diversi paesi europei gli orari di lavoro furono ridotti: in Francia si arrivò alle ferie di cinque settimane.

Per molti motivi. Non ultima la presenza di una grande ombra a oriente, che induceva imprenditori, banchieri, politici, a muoversi con cautela. Finito ciò, s'è avuta la controffensiva, mirante a tagliare le conquiste sociali intervenute tra il '60 e l'80. E tutta la legislazione è stata modificata in modo da dare massimo spazio al capitalismo finanziario.

Secondo una politica totalmente identificata con l'economia neoliberista...
Certo, quella vincente. La politica neoliberale è a suo modo una politica totalitaria, persino con connotazioni fideistiche: lo stato deve essere ridotto ai minimi termini. Le strade verso la crisi ecologica globale sono state spianate a colpi di legge da una politica che ritiene prioritaria l'economia. Bisogna recuperare la capacità della politica di imporsi in qualche misura all'economia, in specie alla finanza. Certo con difficoltà enormi: questa realtà è stata messa in piedi già dalla fine degli anni '40.

Quando il problema ambiente ancora non si poneva...
Sì, allora la conquista del dominio dell'economia sulla politica si poneva in termini molto chiari. La globalizzazione è stata uno degli strumenti per costruire un dominio politico e ideologico non meno che economico. E finora è mancata la controffensiva. Soprattutto è scomparso il pensiero critico.

E in tutto ciò il problema ambiente è stato completamente rimosso...
Non direi che è stato rimosso. Gli economisti neoliberali, principali artefici del disastro, in realtà ne erano e ne sono benissimo consapevoli. Soltanto che, finché dura, ci vedono un'occasione di profitto.

Il moltiplicarsi di questi disastri, dovrebbe allarmare questi signori...
Perché mai dovrebbero allarmarsi... La cosa, pensano, capiterà ai pronipoti...

Sta già capitando anche a loro. Con il Golfo del Messico, ad esempio.
Sta di fatto che cercare di convincerli è del tutto inutile, perché la loro forma mentale, il modo in cui calcolano costi e benefici, è strutturato in quella direzione.

Lei mi conferma che l'economia è un sistema completamente autoreferenziale, che ignora la realtà...
Abbia pazienza, attendersi qualcosa di diverso da queste persone è irrazionale da parte nostra. Sono loro i costruttori di questo mondo, che dal loro punto di vista va benissimo. Uno come Warren Buffet, il primo o il secondo uomo più ricco del mondo, alcuni anni fa ha scritto ai suoi azionisti una lettera in cui diceva: «Io non so bene se esiste qualcosa come la lotta di classe, ma se esiste è chiaro che noi siamo i vincitori». Come fai a convincerli... Il problema è che qualcuno a sinistra dovrebbe muoversi, e non soltanto l'1 o il 2 per cento.

Infatti. Non sarebbe il momento per le sinistre di rendersi conto che sfruttamento del lavoro, disoccupazione, precarietà, salari inadeguati, orari insostenibili, sono parte integrante di questa realtà ? Già Marx diceva che la produzione è solo produzione per il capitale. E Napoleoni asseriva che la vita del capitale consiste essenzialmente nella crescita di sé stesso... Sono domande centrali, oggi più di ieri. Le sinistre non dovrebbero vedere l'insostenibilità di questa situazione? In fondo erano nate per battere il capitalismo, poi hanno scelto il riformismo. Forse oggi dovrebbero accorgersi che il riformismo non serve più... Sarebbe il momento buono....
Sì, ma il momento buono cominciava almeno trent'anni fa .....

Sono d'accordo, e non è cominciato... Ma serve continuare così?
Se lei mi chiede una diagnosi, le dico che le sinistre (tranne forse una quota minima della sinistra-sinistra) di quello che è successo nel mondo hanno finora capito ben poco. Perché non c'è nessuna analisi approfondita del processo di globalizzazione, che al tempo stesso è un progetto politico, economico e tecnologico.

La globalizzazione per certi aspetti è stato un gigantesco progetto di politiche del lavoro, volte a portare la produzione il più possibile nei paesi dove non solo il lavoro costa meno, ma ci sono meno diritti, il problema ambiente quasi non esiste, i sindacati sono solo sulla carta o poco più. Analisi approfondite, a livello di partito, non ne abbiamo viste. Sono molto più avanti alcuni think tank liberal americani ...

Solo che poi nessuno, nemmeno autori di fama, pensa che si debba, o si possa, superare il capitalismo. Ad esempio Stiglitz, o Krugman: criticano le enormi disuguaglianze ... le condizioni tremende di certi paesi "in via di sviluppo"... Auspicano correzioni ai singoli problemi. Ma nessuno sembra supporre che il capitalismo possa avere una fine.

Senta, se mi mettessero davanti un bottone verde e uno rosso, e mi dicessero "Prema il bottone verde e il capitalismo scompare", io lo premo subito (magari dopo aver chiesto che cosa lo sostituisce). Credo tuttavia che -considerando le forze in campo e la schiacciante vittoria del neoliberismo - il massimo che oggi si possa realisticamente sperare sia un capitalismo ragionevolmente regolato. I rapporti oggi sono tali che appare già una smisurata ambizione tentare di regolare in modo pratico il capitalismo. Partendo dal terreno politico, perché è lì che bisogna intervenire.

Ma assumendo in tutta la sua portata lo squilibrio ecologico non sarebbe possibile proporre un discorso più radicale? E' un azzardo pensarlo?
E' un azzardo perché non ci sono le forze sociali. Perché il proletariato mondiale (2 miliardi e mezzo tre- miliardi di persone) nell'insieme si può anche considerare "una classe in sé". Però c'è un' enorme distanza da colmare perché diventi "una classe per sé". E ' difficile contribuire a colmare questa distanza con persone che vivono con meno di 2 dollari al giorno... Come si fa a parlare di problemi ambientali a una donna di Haiti che vede i figli morire di fame?

Però adesso in Pachistan c'è un milione e mezzo di persone in fuga dall' alluvione... Dei poveracci che il problema ambiente lo patiscono sulla propria pelle. Sono i poveri che scontano lo squilibrio dell'ecosistema... Non è proprio su questo che la sinistra potrebbe lavorare?
Sì. basta trovare dov'è questa sinistra. E bisognerebbe lavorare, sgobbare, fare un'analisi approfondita, resuscitare il pensiero critico... Ci hanno rinunciato quasi tutti. Ma è vero che la questione della disuguaglianza è tragicamente collegata all'ambiente. Anche se con quelli che non sanno cosa si mangia stasera, di ambiente è difficile discorrere.

Forse sarebbe necessario per un momento mettere da parte i problemi storici delle sinistre - lavoro, salario, casa ... - per affrontare questa aporia di una crescita produttiva illimitata in un mondo che illimitato non è. ... In questa chiave tutte le politiche tradizionali potrebbero essere riviste...
Lei con me sfonda non una porta aperta, ma un cancello. Però occorre considerare che ci troviamo di fronte a formazioni politiche che hanno drammaticamente perso la loro battaglia. D'altronde temo non basti l'esortazione, né la critica più dura. Il loro carattere sociale è stato formato in quel modo e non si può tagliare la testa al soggetto per cambiargliela. Bisogna trovare il modo di mostrargli altre cose, di insegnarli altre cose.

Ma per questo mancano i think tank, mancano i politici. Ad esempio, una delle grandi questioni politiche di cui non si parla è che le enormi disuguaglianze esistenti nel mondo sono state un fattore importante sia della crisi finanziaria sia della crisi industriale, e non da ultimo della stessa crisi ecologica. La lotta alle disuguaglianze è la prima da combattere se si vuole che qualcuno ci segua anche sul terreno della politica ambientale.

Forse occorre considerare anche quello che a me pare uno dei guasti più profondi: cioè il fatto che il consumismo, l'identificazione col possesso di oggetti...e quindi la competitività, la corsa al reddito, siano causa di una corruzione mentale gravissima, che comporta poi anche la corruzione spicciola.....
Non c'è dubbio. Penso all'ultimo libro di Benjamin Barber "Consumati", che analizza l'infantilizzazione dei consumatori, addirittura il rimbecillimento, dei giovani soprattutto ma anche degli adulti. Io non parlerei però di corruzione o deformazione, userei termini come carattere sociale, come diceva Erich Fromm, per indicare un carattere molto diverso e magari opposto a quello che noi vorremmo.

E però la consapevolezza di una crisi non solo ecologica non più sopportabile, si va diffondendo, specie tra i giovani... E' gente che, magari duramente criticandole, astenendosi dal voto, fa però riferimento alle sinistre... Non sarebbe questa una base da cui partire?
Io sono scettico su posizioni di questo genere, sostenute peraltro da più d'un autore. A me sembrano una riedizione in piccolo della speranza nel soggetto rivoluzionario che sorge per forza propria. Certo esiste tra un certo numero di persone la consapevolezza del rischio ecologico, ma non basta. Occorre che questa consapevolezza entri nella politica, si faccia politica... e per questo ci vogliono le forze, ci vogliono dei voti, dei parlamentari... Mi pare che siamo ancora lontani da questi traguardi.

BIOGRAFIA
Dalla Olivetti di Ivrea 
ai testi sull'Italia postindustriale

Nato a Torino nel 1927, Luciano Gallino è tra i sociologi del lavoro più autorevoli del paese, avendo contribuito, nel secondo dopoguerra, all'istituzionalizzazione della disciplina. Chiamato a Ivrea da Adriano Olivetti, che aveva incontrato a Torino nell'autunno del 1955, Gallino ha compiuto il proprio apprendistato sociologico tra il 1956 e il 1971, prima come collaboratore dell'Ufficio studi relazioni sociali costituito da Adriano Olivetti, il primo del suo genere in Italia; poi, nel periodo 1960-1971, come direttore del Servizio di ricerche sociologiche e di studi sull'organizzazione (SRSSO), che di quel primo ufficio fu una filiazione diretta. Tra il 1968 e il 1978 è stato direttore dell'Istituto di sociologia di Torino, una delle prime strutture di ricerca in questo ambito disciplinare costituite nell'università italiana. Tra gli ultimi libri pubblicati si possono ricordare: «La scomparsa dell'Italia industriale» nel 2003; «Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità» nel 2007; infine «Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l'economia» nel 2009.

Tratto da www.eddyburg.it.


Lavoratori senza status in Francia emergono come forza sociale

di Karen Virsig* - www.globalresearch.ca - 19 Ottobre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Renato Montini

Verso il tardo pomeriggio del 27 maggio scorso, una manifestazione di massa ha marciato fino alla Piazza della Bastiglia a Parigi. La marcia di per sé ha rappresentato quello che ora può considerarsi il peggior momento delle mobilitazioni sindacali nazionali nella sfida al tentativo di indebolire il sistema previdenziale francese e ad altre risposte alla crisi economica mondiale di natura reazionaria da parte del governo di Nicholas Sarkozy.

Ma nonostante la pioggia, nonostante i preoccupanti segni di affaticamento del movimento e di apatia dei francesi, un gruppo di lavoratori si è dato da fare rendendo questa una giornata difficile da dimenticare per il movimento operaio francese.

Centinaia di lavoratori in sciopero e senza status, conosciuti come travailleurs sans papiers, ha iniziato a occupare la scalinata del teatro dell’opera della Bastiglia in quella che stava per diventare un momento cruciale del loro sorprendente sciopero.

Lo sciopero era iniziato il 12 ottobre del 2009, un anno fa, una mattina dopo un concitato raduno e una riunione per i preparativi tenuta nella sede generale del più grande sindacato francese, la Confédération Générale du Travail (CGT), nella parte orientale del centro di Parigi.

Centinaia di lavoratori, uomini e donne provenienti da diverse parti del mondo residenti in Francia in condizioni estremamente disagiate, hanno messo in atto picchetti presso le agenzie interinali, compagnie edili, aziende di pulizie e ristoranti.

In tutto, circa 6,700 lavoratori sono usciti dall’ombra e hanno ridato energia ai movimenti sociali di sinistra francesi, e con la loro presenza hanno confermato ciò che tutti sapevano ma che pochi erano disposti ad ammettere: quante aziende fanno affidamento, traendone profitto, su lavoratori senza diritti sociali, in maniera diretta o indiretta, in subappalto.

Tra queste ci sono l’azienda edile ben conosciuta internazionalmente Bouygues e altri costruttori, catene di ristoranti ben conosciuti e anche l’autorità del trasporto pubblico di Parigi, il RATP.

La creazione di una forza lavoro penitenziaria
Lo sciopero ha rappresentato uno cambiamento dagli scioperi della fame individuali e di gruppo e occupazioni di chiese caratteristici degli anni ’80 e ’90, quando la gente senza status in Francia veniva ancora indicata come ‘clandestina’.

Quelle campagne spesso intendevano combattere le deportazioni e il rifiuto dello status di rifugiati. Coinvolgevano associazioni e gruppi comunitari, non i sindacati. E la realtà degli immigrati come lavoratori di solito non veniva evocata.

La Francia è la seconda nazione di immigrati al mondo, dopo gli Stati Uniti. Per oltre un secolo, i lavoratori immigrati – spesso provenienti da colonie francesi e dall’Europa orientale e meridionale – arrivarono per costruire il paese.

Molti ottennero lo status attraverso il loro impiego e rimasero in Francia. Nel 1970, il capo della Bouygues ammise in un’intervista per il documentario Etranges étrangers che lui poteva pagare i lavoratori immigrati il 30% meno di quelli francesi.

Il film, realizzato da produttori della televisione pubblica che erano stati licenziati all’inizio di uno sciopero aspro, con il supporto della CGT, destò consapevolezza nei cittadini francesi sulle spaventose condizioni di vita e lavorative degli immigrati nella Francia di quel tempo. Il film fu visto da molti, nonostante la Bouygues ne avesse bloccato la trasmissione in TV a causa dell’intervista incriminante.

Nel 1972, lo stato francese rese improvvisamente più difficile per i lavoratori la possibilità di ottenere il diritto a rimanere nel paese dove lavoravano. L’antropologo Alain Morice evidenzia come le prime misure per limitale l’immigrazione legale dei lavoratori ebbero luogo prima della crisi petrolifera e successivamente economica; Morice sostiene che le misure riflettevano sia la xenofobia del governo di quel tempo e, più concretamente, un desiderio di bloccare i lavoratori immigrati nord africani che – all’inizio della ribellione del 1968 di studenti e lavoratori, francesi e immigrati, per tutta la Francia – erano diventati attivi nelle battaglie per migliori condizioni abitative, contro il razzismo e per la giustizia in Palestina. Come sempre, essi si iscrivevano ai sindacati.

Ad alcuni degli attivisti venne negato il rinnovamento del visto e così nacque l’espressione ‘sans papiers’. (Morice, Alain, “Le movement des sans-papiers ou la difficile mobilization collective des individualismes,” in Histoire politique des immigrations (post)coloniales, France 1920-2008, Boubeker and Hajjat eds, Editions Amsterdam, 2008).

Nel 1973, 20,000 lavoratori nord africani senza status proclamò uno sciopero generale per opporsi agli omicidi di stampo razzista. Lo sciopero fu represso ma il movimento che continuava alla fine potè garantire nel 1975 lo status per tutti i lavoratori coinvolti nello sciopero. (Désobéir avec les sans-papiers, Le passager clandestine, 2009)

Intanto, nel 1974, il governo diffuse una circolare che apertamente negava il diritto all’immigrazione permanente in base all’impiego. Come indica Morice, il provvedimento creò una classe permanente di gente senza status che tuttora sussiste in Francia, gente che arriva nel paese attraverso canali formali e non, per svolgere lavori sempre sottopagati e a volte pericolosi; lavori che, anche in tempi di crisi, non mancano mai.

Numerose campagne e movimenti per il riconoscimento pubblico e per lo status hanno portato alla regolarizzazione di migliaia di persone in Francia fino al 2008 e al cambiamento dell’opinione pubblica, sempre più in loro favore.

Ma le vittorie ottenute si limitavano a quelli i cui dettagli rientravano nei termini della campagna, senza mai estendere il principio dei diritti agli immigrati di tutte le razze di vivere per sempre in Francia. E il sistema non ha mai smesso di creare gente senza status.

Nel 2006, un gruppo di lavoratori delle lavanderie ad Essonne, un sobborgo a sud di Parigi, proclamarono uno sciopero per garantire lo status a 22 di loro. “Fino ad allora, i collettivi (di sans-papiers) avevano occupato piazze e chiese” ha detto recentemente al quotidiano L’Humanité Raymond Chauveau, segretario generale della CGT locale, che sarebbe diventato un elemento chiave negli scioperi successivi. “È la prima volta che lavoratori senza status e i loro colleghi hanno fatto uno sciopero per richiedere le regolarizzazioni.”

Lo sciopero ebbe successo ma, così come per quelli precedenti, apportò benefici solo per chi ne prese parte senza alcun guadagno strutturale per i lavoratori senza status.

Un cambio nella legislazione del lavoro nel 2007 ha aperto di nuovo la possibilità di ottenere lo status attraverso il lavoro, anche se ha minacciato di multare i datori di lavoro che assumono lavoratori senza status.

La nuova legge, tuttavia, è venuta dopo l’ulteriore chiusura dei confini francesi ed europei in quella che, secondo gli attivisti e immigrati, è diventata la Fortezza Europa. È diventato praticamente impossibile per i lavoratori del sud globale guadagnare accesso legale alla Francia; e quelli che sono già nel paese senza status non lasciano il paese per paura di non poter tornare mai più.

La nuova legge avrebbe dovuto rendere più facile l’ottenimento dei loro documenti per gli immigrati intrappolati, ma le prefetture – delegati locali dello stato incaricati tra le altre cose di assegnare i visti dei residenti delle loro giurisdizioni – non sono coerenti e applicano la legge in modo arbitrario.

Inoltre, i datori di lavoro sono riluttanti a compilare i documenti per lavorare e a pagare le tasse per ottenere i visti, per non parlare del maggiore salario e delle condizioni lavorative che un lavoratore con status e con l’appoggio del sindacato potrebbe reclamare.

Lavoratori senza status si rivolgono al Movimento operaio

Nel 2007, altri lavoratori senza status hanno deciso di scioperare e sono andati alla CGT di Raymond Chauveau per chiedere aiuto. Il 15 aprile del 2008, in ciò che è conosciuta come la prima ondata, qualche migliaio di lavoratori ha scioperato per costringere i datori di lavoro e le prefetture a seguire la legge e dar loro lo status. Dopo un paio di mesi, 3,000 lavoratori hanno ottenuto lo status.

Nel frattempo, il Collectif de sans papiers a Parigi, rinfacciando alla CGT di aver usurpato il movimento ed escluso alcuni lavoratori dalla protesta – quelli che lavorano in nero, badanti e lavoratori isolati – occupava l’ufficio del sindacato a Parigi. Questo gruppo sarebbe stato sfrattato 13 mesi dopo dagli addetti alla sicurezza del sindacato.

Inoltre, nello stesso periodo, alcuni prefetti intorno a Parigi hanno iniziato a visitare i datori di lavoro e a minacciarli di multe, col risultato che molti lavoratori senza status sono stati licenziati. Il movimento sembrava andare a pezzi.

Senonché i lavoratori senza status non si sono arresi. Un numero crescente di loro stava uscendo allo scoperto per rivendicare i propri diritti e, nonostante la controversia con la CGT, sembravano desiderosi di allearsi con qualunque organizzazione fosse disponibile ad aiutarli.

Undici organizzazioni, CGT e altri 4 sindacati inclusi, decidevano allora di spingere per ottenere una soluzione strutturale all’approccio arbitrario delle prefetture e all’incapacità dei datori di lavoro. Era finito il tempo dell’approccio ‘caso per caso’.

Il primo ottobre del 2009, le organizzazioni spedivano una lettera al primo ministro chiedendo una nuova circolare per interpretare la legge del lavoro che potesse una volta per tutte definire un percorso chiaro per lo status di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro provenienza e dalla tipologia di lavoro che svolgevano, secondo criteri chiari da utilizzare in tutto il paese.

Senza ottenere alcuna risposta nell’immediato, una seconda ondata di scioperi veniva proclamata il 12 ottobre e questa volta includeva badanti e lavoratori in nero e quindi ha accolto un numero significativo di donne. Loro scioperavano sotto lo slogan della prima ondata: “ Viviamo qui, lavoriamo qui, rimaniamo qui”.

A novembre, dopo vari incontri con i rappresentanti delle 11 organizzazioni, il governo rispose con una nuova circolare che era probabilmente ideata per dividere il movimento escludendo esplicitamente badanti e lavoratori in nero, oltre a quelli tunisini e algerini (adducendo il pretesto di accordi bilaterali in materia lavorativa).

Gli scioperanti condannarono la nuova circolare scegliendo di proseguire con lo sciopero durante un rigido inverno. Anche per quelli con poco da perdere, i sacrifici erano tanti e anche a livello transnazionale: quelli tornati a casa avevano perso le rimesse mentre molti scioperanti perdevano le loro case e la loro eventuale indipendenza finanziaria.

Verso la fine di un freddo e umido mese di maggio, qualcosa venne concesso ma non da parte del governo, nonostante la speranza suscitata dalla sua dolorosa sconfitta alle elezioni regionali di fine marzo.

C’erano state dozzine di picchetti durante lo sciopero, la maggioranza di essi al confine del centro di Parigi e nei sobborghi intorno. Alcuni di essi, spesso occupazioni di luoghi di lavoro o agenzie interninali, erano stati smantellati violentemente dalla polizia, incluso quelli degli edifici lavorativi importanti e simbolici nel sempre crescente La Défense, il centro finanziario completo di torri bancarie, catene di negozi internazionali e condomini situati nella zona ovest del centro della città. Verso maggio, era scontato per la gente della regione di Parigi, per non parlare del resto del paese, dimenticare lo sciopero.

Con la partecipazione all’occupazione della scalinata del teatro dell’Opera di Bastiglia, lo sciopero riappariva nei titoli dei giornali nazionali. Inoltre, dopo tanti mesi al freddo dei picchetti, gli scioperanti potevano contare e rivendicare i loro numeri e la presenza collettiva, questa volta in un luogo altamente simbolico della città.

L’enorme striscione che riportava ‘noi viviamo qui, lavoriamo qui, rimaniamo qui” mai è sembrato così appropriato. La Bastiglia era la sede del castello e del carcere fino alla Rivoluzione francese, quando un gruppo di ‘rivoltosi’ – i rivoluzionari parigini – andarono a prendersi le armi lì custodite.

Era il 14 luglio 1789. Tre settimane dopo, il 4 agosto, la decima sarebbe stata abolita, così come i diritti feudali. Un numero di controrivoluzionari avrebbero perso le proprie teste su quella piazza prima che la ghigliottina venisse spostata in quella che ora è conosciuta come Place de la Nation. E il monumento dorato posto a guardia sugli scioperanti che occupano la Bastiglia rende onore alla rivoluzione del 1830, quando il penultimo monarca francese, Carlo I, scappò in Inghilterra.

Gli scioperanti entrano nella storia repubblicana e revoluzionaria della Francia

Gli scioperanti, molti dei quali sono nati nelle precedenti colonie francesi del nord Africa e dell’Africa sub-sahariana, hanno letteralmente reclamato un posto per se stessi nella storia repubblicana e rivoluzionaria francese e nel farlo, hanno catturato l’attenzione e la simpatia di chi fino ad allora non si era accorto della loro lotta. La stessa occupazione è servita a motivare il ministero del lavoro ad accettare un incontro con le 11 organizzazioni in loro appoggio.

La mattina presto dell’ottavo giorno di occupazione, prima che potesse avvenire l’incontro con il ministro del lavoro e mentre le organizzazioni facevano pressione perché partecipase anche il riluttante ministro dell’emigrazione, la scalinata del teatro dell’Opera viene evacuata con la forza da polizia con manganelli e spray al pepe.

Circa 33 scioperanti e simpatizzanti sono stati arrestati e portati in carcere e altri picchiati e colpiti con spray. Verso la fine della mattinata, centinaia di scioperanti e simpatizzanti si sono riuniti all’inizio della scalinata, di fronte a un blocco di polizia antisommossa ben equipaggiata, decidendo di non lasciare la Bastiglia.

La rabbia degli scioperanti, che avevano condotto un movimento non violento per i propri diritti, non potendo lasciare nemmeno per un minuto il posto per paura di essere presi, detenuti e infine deportati, era evidente.

C’era sicuramente paura, soprattutto per i compagni arrestati, ma anche un senso di stanchezza, da parte della gente, di temere costantemente di non riuscire a fermare le azioni che avrebbero ucciso il loro movimento. “Siamo esseri umani, non cani”, gridavano alcuni verso la linea della polizia prima di venire calmati da altri per evitare di provocare un altro attacco.

Da quel che si è visto in seguito, la tessera del sindacato degli scioperanti è servita in questo caso per farli uscire dalla galera. Tutti i detenuti, anche quelli accusati di resistere all’arresto, venivano rilasciati lo stesso giorno e, alcuni dopo una visita in ospedale, sono tornati ai picchetti e ad occupare la Bastiglia.

L’attacco della polizia non ha portato nessuna simpatia della stampa per il governo. Poco dopo, anche il riluttante ministro dell’immigrazione accettava di incontrare le 11 organizzazioni.

L’occupazione continuava per altre due settimane nella piazza di fronte al teatro dell’Opera. Dopo due incontri coi ministri, a nessuno dei quali aveva partecipato un rappresentante degli scioperanti, le 11 organizzazioni venivano fuori con un accordo ritenuto sufficiente per liberare la Bastiglia. Era la sera del venerdì 18 giugno e gli scioperanti in tripudio pulivano la piazza per poi tornare ai picchetti in attesa della definizione dei dettagli.

L’accordo di per sè non era una panacea. Portava un nuovo ‘addendum’ alla circolare di novembre (che non ha il peso della circolare che le organizzazioni volevano, ma chiarisce come le prefetture debbano interpretare la legge). Includeva molti dei punti richiesti dagli scioperanti in termini di un processo chiaro e coerente.

Stabiliva anche un precedente permettendo a badanti, molti dei quali donne che lavorano in nero per datori di lavoro individuali, di acquistare status anche senza avere un contratto regolare. L’accordo permetteva anche a tutti gli scioperanti che lavoravano in nero in altri settori di ottenere lo status.

Tuttavia, all’ultimo minuto, il governo ha messo sul tavolo il requisito della residenza: nessuno poteva ottenere lo status a meno di provare di essere stato in Francia per 5 anni. È come se i datori di lavoro, alcuni dei quali hanno aderito alla richiesta dei sindacati di un sistema più semplice e chiaro, si fossero presi la loro rivincita: la clausola dei 5 anni garantisce di fatto un continuo flusso di lavoratori senza status in attesa di quel magico traguardo dei 5 anni. Le organizzazioni hanno accettato l’odiosa condizione invece di proseguire lo sciopero di 8 mesi.

Nonostante l’accordo, i picchetti sono rimasti mentre gli scioperanti preparavano le richieste per la notoriamente difficile burocrazia francese. E mentre l’accordo veniva firmato dai ministri del lavoro e dell’immigrazione, le prefetture locali che avrebbero dovuto implementarlo scelsero delibertamente di bloccare i picchetti. L’Humanité lo ha chiamato “un blocco amministrativo deliberato e ideologico”.

Un anno dopo l’inizio dello sciopero, solo 58 scioperanti avevano ricevuto i documenti. Molti stanno ancora facendo i picchetti e la settimana scorsa hanno iniziato a occupare il museo dell’immigrazione nella zona orientale di Parigi.

Mentre c'è ancora timore che il movimento si vaporizzi prima dell’ottenimento dei documenti da parte degli scioperanti e del rafforzamento dei nuovi cambi strutturali di cui si era parlato nell’accordo con i ministri, c'è ancora un elevato tasso di mobilitazione tra lavoratori senza status e una connessione continua tra loro e i movimenti sociali che, al momento, stanno cercando di bloccare il paese per fermare Sarkozy e la riforma delle pensioni.

Il coinvolgimento della CGT è stato causa di critiche della sinistra francese. Il sindacato è stato accusato di impossessarsi del movimento, di strumentalizzare i lavoratori senza documenti che facevano lo sciopero per obiettivi propri (presumibilmente per la propra immagine pubblica e reclutamento), di aver limitato la richiesta di documenti solo per l’impiego e di aver mancato il raggiungimento di un migliore accordo dopo uno sciopero così lungo.

Il sospetto di paternalismo c'è e non è diradato dalla mancata convocazione di rappresentanti tra gli scioperanti al momento della negoziazione tra il governo e le 11 organizzazioni.

Attivisti temprati dallo sciopero indispensabili nella lotta alla controrivoluzione di Sarkó

Allo stesso tempo, la partecipazione della CGT e di altri sindacati nella lotta per ottenere lo status presenta alcuni fattori potenziali per l’immediato futuro. Dopotutto, l’ingiustizia non finisce quando una persona ottiene i documenti.

Lo sciopero è stato combattuto durante una crisi economica e con gli attacchi alla sicurezza sociale, con l’attivazione del governo, supportato dai media conservatori e intellettuali pubblici, per lasciar fuori certi gruppi etnici in base al tendenzioso progetto di “identità nazionale” (donne che indossano il niqab, le deportazioni dei Rom e la cacciata di massa dei ‘viaggiatori’ (gens de voyage), dei giovani che vivono nelle banlieue , di alcuni giocatori della nazionale di calcio francese, per citare solo alcuni esempi).

I lavoratori immigrati in Francia continueranno a subire discriminazioni sul posto di lavoro, a scuola e nelle strade, continueranno ad avere difficoltà per garantirsi case decenti e accessibili, ad attrarre l’attenzione della polizia in base alla pratica di racial profiling e rischiano di essere esclusi.

Le donne continueranno ad affrontare altra violenza di genere e disparità salariale. Essendo lavoratori in Francia, i sans papiers che scioperano non potranno evitare il misero connubio di colonialismo, razzismo, sfruttamento capitalista e patriarcato.

Le continue iscrizioni ai sindacati dei centinaia di attivisti di colore temprati dallo sciopero costituiscono un’opportunità per questi uomini e donne e per i sindacati stessi, di costruire una solidarietà generata attraverso la lotta alla giustizia in tutti gli aspetti della loro vita quotidiana, magari con la solidarietà dei vicini per i quali il lavoro non è più un aspetto costitutivo delle loro vite.

Nell’assemblea seguita allo sgombero della Bastiglia, Raymond Chauveau della CGT ha implorato gli scioperanti di rimanere coinvolti con il sindacato e di portare la loro esperienza, le loro conoscenze ed energie così necessarie per il movimento.

Questo atteggiamento contrasta con quello di associazioni come Réseau éducation sans frontières (RESF), che è costituita essenzialmente da cittadini nati francesi che si mobilitano per salvare le famiglie che hanno bambini nelle scuole dalla deportazione.

Lo studio del movimento di Lilian Mathieu, movimento che ha avuto un gran successo nel destare l’attenzione del pubblico sulla situazione di chi non ha status e sulla crudeltà delle deportazioni e che ha fermato circa 25,000 deportazioni annuali, identifica la linea di divisione tra i cittadini “francesi” che si mobilitano e la gente che loro aiutano che non finisce dopo che una famiglia è salva (“Soutenir les familles sans papiers...” in Les nouvelles frontières de la société française, Editions La Découverte, 2010).

È su questa linea che i sans papiers in sciopero hanno iniziato a costruire un ponte, sia nel movimento operaio che nelle comunità che fanno i picchetti, dove i vicini – poveri, operai e classe media, bianchi e di colore – hanno portato il loro supporto morale e materiale.

*Karen Wirsig è una scrittrice e attivista che recentemente ha vissuto diversi mesi a Parigi, e alcuni giorni a giugno alla Bastiglia.


IL COLLASSO DELLA SICUREZZA SOCIALE: I LAVORATORI FRANCESI AFFRONTANO IL PROGRAMMA POLITICO NEOLIBERISTA

"Lavorare di più per guadagnare di meno": Furia francese nella gabbia dell'Unione Europea

di Diana Johnstone - http://globalresearch.ca - 22 Ottobre 2010

I francesi sono di nuovo in sciopero, stanno bloccando i trasporti, scatenano l'inferno nelle strade e tutto ciò solo perché il governo vuole innalzare l'età pensionabile da 60 a 62 anni. Essi devono essere pazzi.

Questo, suppongo io, è il modo in cui è visto il movimento di massa in corso in Francia, o almeno è mostrato, in gran parte del mondo, e soprattutto nel mondo Anglosassone. Forse la prima cosa che deve essere detta a proposito degli scioperi di massa è che questi non sono realmente intorno "all'aumento dell'età pensionabile da 60 a 62 anni".

Questo è un po come descrivere il libero mercato capitalista come una sorta di stand di limonate. Una semplificazione propagandistica su questioni molto complesse. Permette ai commentatori di sfondare una porta aperta.

Dopo tutto, essi osservano saggiamente, le persone in altri paesi lavorano fino a 65 o più anni, quindi, perché i francesi si scoraggiano a 62? La popolazione sta invecchiando, e se l'età di pensionamento non viene fatta salire, il sistema pensionistico andrà in rovina nel pagamento delle pensioni a così tanti anziani.

Tuttavia, il movimento di protesta in corso non è circa "l'aumento dell'età pensionabile da 60 a 62 anni." Si tratta di molto di più. Per prima cosa, questo movimento è l'espressione dell'esasperazione nei confronti del governo di Nicolas Sarkozy, che favorisce palesemente i super-ricchi rispetto alla maggior parte delle persone che vivono in questo paese.

E' stato eletto con lo slogan "Lavorare di più per guadagnare di più", e la realtà si è tramutata in lavorare di più per guadagnare di meno. Il ministro del lavoro che ha introdotto la riforma, Eric Woerth, ha ottenuto un lavoro per la moglie nell'ufficio del personale della donna più ricca di Francia, Liliane Bettencourt, l'erede del gigante dei cosmetici Oreal, nel momento in cui, come ministro del bilancio, stava sorvolando sulla sua massiccia evasione fiscale.

Mentre i benefici fiscali per l'aiuto dei ricchi vuotano le casse pubbliche, questo governo sta facendo tutto il possibile per abbattere l'intero sistema previdenziale che è emerso dopo la Seconda Guerra Mondiale, con il pretesto che "non possiamo permettercelo." Il problema del pensionamento è molto più complesso "dell'età di pensionamento". L'età legale di pensionamento significa l'età alla quale si può andare in pensione.

Ma la pensione dipende dal numero di anni di lavoro, o per essere più precisi, dal numero di contributi (versamenti) nell'articolazione del regime pensionistico. Per i motivi di "salvataggio del sistema dalla bancarotta", il governo sta aumentando gradualmente il numero di anni di contributi da 40 a 43 anni, con indicazioni che questi aumenteranno ulteriormente in futuro.

Così, mentre l'educazione si prolunga e l'occupazione inizia più tardi, per avere una pensione completa la maggior parte delle persone dovranno lavorare fino a 65 o 67 anni.

Una "pensione completa" arriva a circa il 40% dei salari al momento del pensionamento. Ma anche così, questo potrebbe non essere possibile. I posti di lavoro a tempo pieno sono più duri e più difficili da ottenere e i datori di lavoro non necessariamente vogliono trattenere i dipendenti più anziani.

Oppure l'impresa cessa l'attività e un impiegato di 58 anni si ritrova permanentemente senza lavoro. Sta diventando sempre più difficile lavorare a tempo pieno con un lavoro salariato di oltre 40 anni, per quanto si possa decidere di volerlo.

Così, in pratica, la riforma Sarkozy-Woerth significa semplicemente la riduzione delle pensioni. Che, di fatto, è ciò che l'Unione Europea ha raccomandato a tutti i suoi stati membri, come misura economica destinata, come la maggior parte delle riforme in corso, a ridurre i costi sociali in nome della "competitività", che significa competizione per attrarre i capitali di investimento.

I lavoratori meno qualificati, che, invece di proseguire gli studi, sono entrati nel mondo del lavoro da giovani, diciamo a diciott'anni di età, aderiranno a un regime per 42 anni fino all'età di 60, se essi riusciranno davvero ad essere impiegati per tutto questo tempo. Le statistiche mostrano che la loro aspettativa di vita è relativamente breve, quindi necessiterebbero di abbandonare prima per godere di un qualsiasi pensionamento.

Il sistema francese si basa sulla solidarietà tra generazioni, in quanto i contributi dei lavoratori di oggi vanno a pagare le pensioni di oggi. Il governo ha sottilmente provato a mettere una generazione contro l'altra, sostenendo che è necessario tutelare il futuro dei giovani di oggi, che stanno pagando per i pensionamenti "baby boom".

E' quindi estremamente significativo che questa settimana gli studenti liceali e universitari abbiano iniziato ad entrare massicciamente nel movimento scioperativo di protesta. Questa solidarietà generazionale è un duro colpo per il governo.

I giovani sono anche più radicali di quanto lo siano i sindacalisti più anziani. Sono molto consapevoli della crescente difficoltà a costruirsi una carriera. La tendenza per il personale qualificato è quella di entrare nel mondo del lavoro sempre più tardi, dopo anni passati a ricevere un'istruzione.

Con la difficoltà a trovare un lavoro stabile full-time, molti dipendono dai loro genitori fino all'età di 30 anni. E' la semplice aritmetica che mostra, in questo caso, che non ci sarà alcuna pensione completa fino ad oltre i 70 anni.

Produttività e deindustrializzazione

Siccome è diventata una pratica standard, gli autori delle riforme neo liberali le presentano non come una scelta, ma come una necessità. Non c'è alternativa. Dobbiamo competere sul mercato globale.

Dobbiamo farlo o andremo in rovina. E questa riforma era essenzialmente dettata dall'Unione Europea, in un rapporto del 2003, che concludeva che, siccome le persone lavoravano più a lungo, era necessario tagliare i costi pensionistici.

Questi dettami impediscono ogni discussione di due fattori fondamentali alla base del problema delle pensioni: la produttività e la deindustrializzazione. Jean-Luc Mélenchon, l'ex Partito Socialista che che guida il relativamente nuovo Partito di Sinistra, è praticamente l'unico leader a sottolineare che, anche se ci sono meno lavoratori che contribuiscono ai regimi pensionistici, la differenza può essere costituita dalla crescita di produttività.

Infatti, la produttività del lavoratore francese è tra le più alte nel mondo (superiore a quella della Germania, per esempio). Inoltre, anche se la Francia ha la seconda maggiore aspettativa di vita in Europa, ha anche il tasso di natalità più alto.

E anche se gli impiegati sono di meno, a causa della disoccupazione, le ricchezze che producono dovrebbero essere sufficienti a mantenere i loro livelli di pensione. Ah, ma qui sta l'inghippo: per decenni, mentre la produttività era in aumento, i salari stagnavano. L'aumento dei profitti di produttività è stato dirottato nel settore finanziario.

La bolla del settore finanziario e la stagnazione del potere di acquisto hanno portato alla crisi finanziaria, e il governo ha preservato lo squilibrio attraverso il salvataggio dei dissoluti finanzieri.

Quindi, logicamente, il mantenimento del sistema pensionistico richiede fondamentalmente l'aumento dei salari per tenero conto della maggiore produttività, un cambiamento politico molto importante.

Ma c'è un altro problema cruciale collegato alla questione delle pensioni: la deindustrializzazione.

Al fine di mantenere alti i profitti drenati dal settore finanziario, e evitare di pagare salari più alti, un settore dopo l'altro ha trasferito la propria produzione in paesi a basso costo del lavoro. Aziende redditizie chiudevano, mentre i capitali andavano in cerca di profitto ancora più elevato.

E' meramente questo l'inevitabile risultato della nascita delle nuove tendenze industriali in Asia? E' questo un inevitabile abbassamento degli standard di vita in Occidente dovuto alla sua origine in Oriente? Forse.

Tuttavia, se si sposta la produzione in Cina, si finisce per abbassare il potere di acquisto in Occidente, e quindi le esportazioni cinesi ne soffriranno. La Cina sta facendo i primi passi verso il rafforzamento del porprio mercato interno.

La "Crescita guidata da esportazioni" non può essere una strategia per tutti. La prosperità mondiale dipende in realtà dal rafforzamento sia della produzione nazionale che dei mercati nazionali.

Ma questo richiede una sorta di deliberata politica industriale che è vietata dalle burocrazie della globalizzazione: l'Organizzazione Mondiale del Commercio e l'Unione Europea.

Esse operano con i dogmi del "vantaggio comparativo" e della "libera concorrenza". Per i motivi di libero mercato, la Cina è in realtà di fronte a sanzioni per la promozione della sua industria dell'energia solare, vitalmente necessaria per porre fine all'inquinamento atmosferico che affligge questo paese.

L'economia mondiale è trattata come un grande gioco, dove seguire le "regole del libero mercato" è più importante dell'ambiente o delle necessità di base degli esseri umani. Solo i finanzieri possono vincere questa partita. E se perdono, beh, essi ottengono dai governi servili ancora più sodi per un altro gioco.

Impasse?

Dove andremo a finire?

Si dovrebbe finire in qualcosa di simile ad una rivoluzione democratica: una completa revisione della politica economica. Ma ci sono molte solide ragioni per cui ciò non accadrà. Per prima cosa, non c'è una leadership politica in Francia che sia pronta e in grado di portare veramente un movimento radicale. Mélenchon è ciò che si avvicina di più, ma il suo partito è nuovo e la sua base è ancora stretta.

La sinistra radicale è paralizzata dal suo cronico settarismo. E c'è una grande confusione tra la gente in rivolta senza programmi chiari e leaders. I leader dei lavoratori sono perfettamente consapevoli che i dipendenti perdono una giornata di salario per ogni giorno che vanno in sciopero e, in realtà, sono sempre ansiosi di trovare il modo di porre fine allo sciopero.

Solo gli studenti non soffrono di tale situazione. I sindacalisti e i dirigenti del Partito Socialista non chiedono nulla di più drastico di quello di aprire i negoziati sui dettagli della riforma. Se Sarkozy non fosse così testardo, questa è una concessione che il governo potrebbe fare e che potrebbe riportare la calma senza cambiare molto.

Ci vorrebbe la nascita miracolosa di nuovi leader per portare il movimento in avanti. Ma anche se questo dovesse accadere, vi è un formidabile ostacolo ad un cambiamento fondamentale: l'Unione Europea.

L'UE, edificata sul sogno popolare di una pacifica e prospera Europa unita, si è trasformata in un meccanismo di controllo economico e sociale per conto del capitale e, in particolare, del capitale finanziario.

Inoltre, è legata ad una potente alleanza militare, la NATO. Se lasciata a se stessa, la Francia potrebbe sperimentare in sistema economico più giusto socialmente. Ma l'UE è li proprio per prevenire tali esperimenti.

Attitudini Anglosassoni

Il 19 Ottobre, il canale televisivo internazionale France 24 mandò una discussione degli scioperi tra 4 osservatori non francesi. La donna portoghese e l'uomo indiano sembrava stessero cercando, con discreto successo, di capire cosa stava succedendo.

Al contrario, i due angloamericani (il corrispondente da Parigi della rivista Time e Stephen Clarke, autore di 1000 Years of Annoying the French) si divertivano nel dimostrare l' auto-compiaciuta incapacità di capire il paese di cui scrivono per vivere. La loro semplice e rapida spiegazione:"I francesi sono sempre in sciopero perché gli piace."

Un po più avanti nel programma il moderatore ha mostrato un breve colloquio con uno studente del liceo che ha fornito dei commenti seri sulla questione delle pensioni. Forse ciò avrebbe fatto riflettere gli anglosassoni?

La risposta è stata istantanea:"Che tristezza vedere un 18enne pensare alle pensioni quando dovrebbe pensare alle ragazze!" Quindi, sia che lo facciano per divertimento, o sia che lo facciano invece di divertirsi, per gli angloamericani, abituati a raccontare al mondo intero quello che dovrebbero fare, i francesi sono ridicoli.


Baratti iraniani

di Massimo Fini - www.ilfattoquotidiano.it - 22 Ottobre 2010

Per capire com’è conciata la Nato in Afghanistan bastano due episodi accaduti questa settimana. Lunedì c’è stato, a Roma, l’incontro dei rappresentanti dei 45 Stati che occupano quel Paese.

Inaspettatamente era presente un iraniano di alto livello, Alì Oanezadeh, verso il quale gli americani si sono mostrati insolitamente cordiali. Alla fine Holbrooke ha detto: “Riconosciamo che l’Iran ha un ruolo da giocare per una soluzione”.

Ma come? L’Iran non era uno dei tre Paesi dell’”asse del Male“, uno degli “Stati canaglia“, violatore dei “diritti umani“? E la povera Sakineh, in fondo solo colpevole di aver fatto accoppare il marito? Tutto messo nel ripostiglio, per il momento. Per piegare l’Afghanistan va bene anche l’Iran.

Mi ha chiamato la Radio iraniana e l’intervistatrice, Amina Rasj, mi ha chiesto che cosa ne pensassi di queste profferte americane. Ho risposto che, a mio avviso, accettarle sarebbe per l’Iran un grave errore politico oltre che un’infamia. “Un errore perché se agli americani riesce una ‘exit strategy’ dall’Afghanistan il prossimo obiettivo siete voi. Un’infamia perché andreste ad aiutare Golia contro Davide, contro un Paese che lotta, da solo, contro mezzo mondo”.

Ma dubito che gli iraniani ci sentano da questo orecchio. Sono sempre stati ostili ai talebani, perché li vedono come dei concorrenti ideologici, più “duri e puri”, e non li hanno mai aiutati.

Il secondo episodio riguarda le notizie che sarebbero in corso trattative a Kabul fra Karzai e “alti comandi” talebani legati direttamente al Mullah Omar sotto il patrocinio del mitico generale Petraeus che avrebbe addirittura facilitato il trasferimento, via aereo, di questi negoziatori dai loro “covi” in Pakistan a Kabul. Una balla ridicola. Se gli americani avessero saputo dove si trovavano questi “alti comandi” li avrebbero già fatti fuori come han fatto con altri leader talebani.

È una manovra per cercare di dividere i talebani, come afferma Abdul Salan Zaeef, ex ambasciatore del governo talebano a Islamabad, catturato dopo la caduta dell’Emirato e, prima di finire a Guantanamo, passato per le carceri di Bagram e Kandahar dove è stato denudato e deriso dai militari americani, uomini e donne, mentre un altro scattava fotografie, ma che da tempo si è staccato dal movimento del Mullah Omar.

All’inviato del Corriere, Lorenzo Cremonesi, che gli chiedeva se i guerriglieri non fossero indotti alla trattativa perché nell’ultima offensiva di Petraeus avrebbero perso quasi 5000 uomini, Zaeef ha risposto: “Chi mette in giro questa leggenda non sa nulla degli afghani. Se uccidono mio fratello devi morire pur di vendicarlo… Petraeus ha lanciato un’offensiva massiccia ma ha rilanciato la guerriglia. Siamo fatti così. La guerra è parte della nostra cultura. Più ci ammazzano e più diventiamo coriacei”.

In realtà contatti fra emissari di Karzai e di Omar sono in corso da un anno. Non a Kabul, in Arabia Saudita sotto il patrocinio del principe Abdullah. Ma la precondizione posta da Omar è che prima di iniziare qualsiasi trattativa le truppe straniere se ne devono andare.

E dice Zaeef: “Queste condizioni non sono mai cambiate. Per i talebani l’Afghanistan è dal 2001 sotto occupazione, non riconoscono Karzai, il governo, la Costituzione, le elezioni. E quindi prima la coalizione si ritira. Poi ci penseranno i talebani a trattare con il resto del Paese”.

Sarebbe giusto così: sono gli afghani che devono decidere del proprio destino. E la “exit strategy“? Siamo noi che abbiamo creato “il pantano afghano” ed è giusto che ne usciamo coperti del fango che ci siamo meritati.


La verità sull11 settembre era solo un pesce d'aprile fuori stagione: tappata a tempo di record in Germania la falla nel muro dell'omertà mediatica

di Roberto Quaglia - www.edicola.biz - 22 Ottobre 2010

Era un pesce d’Aprile e ci siamo cascati, ingannati probabilmente dal fatto che adesso è ottobre, cronologicamente agli antipodi di Aprile.

Avevamo riportato, pochi giorni fa, dell’incredibile fatto che la grande stampa si fosse finalmente occupata (in Germania) dei retroscena dell’11 settembre trattandoli per quelli che sono: una colossale truffa nei confronti del mondo intero!

Si trattava di una piccola breccia nel muro dell’omertà mediatica con cui i giornalisti contemporanei nascondono, a quella parte fiduciosa della popolazione che vuole continuare a credere a ciò che fidati giornali e telegiornali raccontano loro, gli straordinari progressi dell’investigazione popolare sui fatti dell’11 settembre.

Nell’arco di dieci mesi il coraggioso giornalista tedesco Oliver Janich ha pubblicato non uno, ma ben due ampi articoli sulla importante rivista economica Focus Money, letta da centinaia di migliaia di persone. Articoli elaborati e ben argomentati, dritti al nocciolo delle cose, senza omissioni ed inganni.

Avevamo ipotizzato che questo potesse essere il preludio al crollo della diga con la quale si cerca disperatamente di arginare l’afflusso della verità sul tema verso le popolazioni dell’Occidente democratico. Avevamo preconizzato uno tsunami di purissima merda il giorno che la diga fallata avesse ceduto.

Tutto sbagliato.

La falla nella diga è stata riparata a tempo di record dagli esperti ingegneri tappabuchi tedeschi della divisione “Orwell”.

L’articolo è stato infatti rimosso dalla versione online del giornale, al giornalista Janich è stato intimato di rimuovere la copia in PDF ospitata sul suo sito, ed il giornalista Janich stesso è stato epurato. Non lavorerà mai più per Focus Money. Né per le altre importanti testate con le quali aveva già collaborato, quali l’edizione tedesca del Financial Times, la Süddeutsche Zeitung ed altre.

“Nei miei confronti è già iniziata l’opera di character assassination.” Ha dichiarato Janic. La distruzione dell’immagine dei personaggi scomodi è ormai una prassi molto consueta, nell’Occidente democratico.

La rivista “Der Spiegel” ha immediatamente lanciato un attacco ad personam contro il giornalista. Ricordiamo che Der Spiegel, che adesso cerca di coprire i veri autori dell’11 settembre, in un passato affatto lontano analogamente si distinse per negare la diretta responsabilità nazista nel rogo del Reichstag nel 1933, l’evento che segnò l’affermazione finale del nazismo.

Ovviamente, tutti si guardano bene dall’entrare nel merito dei fatti riportati da Janich nei suoi coraggiosi articoli. Nessuno prova a smontarne gli argomenti. Ci si limita a cercare di nascondere i cocci sotto il tappeto, sperando che la gente si dimentichi di quanto ha letto. Anche il caporedattore di Focus Money, che ha approvato gli articoli, è stato ora messo sotto pressione.

Tutto ciò sia istruttivo per chi, per inerzia, sentimentalismo o pigrizia, ancora si ostina a conservare fede nelle proprie testate giornalistiche preferite.

Una delle obiezioni che negli anni mi sono sentito rivolgere più spesso riguardo al mio libro sull’11 settembre, è stata quella che se l’11 settembre ci fosse stato un complotto governativo di tale portata, non si sarebbe riusciti a tenere le cose nascoste, qualcuno avrebbe parlato, i giornalisti avrebbero indagato. Umberto Eco stesso ha pubblicamente sostenuto questo argomento.

Adesso abbiamo l’irrefutabile dimostrazione empirica del perché questo argomento sia sbagliato.

In verità, sono stati moltissimi quelli hanno parlato, quelli che hanno fatto trapelare notizie segrete, in verità non si è riuscito a tenere le cose nascoste, in verità tutto ciò che era nascosto è in effetti saltato fuori nel tempo. Però, coloro che noi abbiamo delegato ad informarci rispetto a tutto ciò, ovvero i giornalisti, semplicemente… non ce lo hanno mai detto! Non ce lo hanno mai detto!

Ed ora abbiamo sotto gli occhi anche la prova sperimentale, la certezza empirica del perché non ce lo hanno detto!

Se un giornalista della grande stampa compie correttamente il proprio lavoro a questo proposito, perde immediatamente ogni possibilità futura di lavorare, i suoi articoli già scritti vengono cancellati, rimossi, nascosti, viene declassato per sempre al rango di innominabile paria. Oliver Janich non è il primo a subire questa sorte. Volete la lista intera?

Questo spiega perfettamente come mai il vostro quotidiano o telegiornale preferito non vi parlerà mai dei retroscena ormai assodati in merito ai fatti dell’11 settembre, e quando lo facesse, sarebbe solo per sviarvi, per vaccinarvi contro ulteriori curiosità.

Se ancora è sopravvissuto nel vostro cuore un giornale o un telegiornale preferito, investite qualche minuto del vostro prezioso tempo a riflettere sul caso emblematico di Oliver Janich. Se la fede nel vostro giornale o TG sopravvive anche a queste riflessioni, guardatevi allo specchio. Negli occhi. A lungo. Chissà che non aiuti.

Mi era giunta voce che io fossi invitato a presentare il mio libro Il Mito dell’11 Settembre alla Fiera del Libro che si svolgerà a Trieste ad inizio novembre. Poi l’invito sarebbe decaduto. Per “motivi politici”. Chissà perché, la cosa non mi ha sorpreso affatto.

La mole di evidenza che dimostra la totale insensatezza della narrazione ufficiale dei fatti dell’11 settembre è tale, e continuamente cresce e si perfeziona e si consolida, che chi cerca di tenere la cosa nascosta agli ultimi ignari ormai evita a tutti i costi di entrare nel merito del problema, poiché in una discussione corretta non avrebbe alcuna chance di salvare la faccia. Per non parlare del fondoschiena.

Poiché l’epurazione di Janich costituisce una prova inoppugnabile del fatto che, proprio come nelle dittature, i giornalisti delle democrazie occidentali non sono più liberi di fare informazione come si deve, SOSTITUITEVI AI GIORNALISTI INADEMPIENTI E CONDIVIDETE QUEST’ARTICOLO CON QUANTA PIU’ GENTE POTETE, con tutti gli amici che avete, su Facebook e nella blogosfera.

Molti hanno già capito da tempo come stanno le cose, ma ancora in troppi sono sentimentalmente incatenati a qualche giornale o giornalista a cui nel tempo si sono affezionati, e non vogliono rendersi conto di essere in realtà sempre stati - e di continuare a venire presi per il culo da dei mangiapane a tradimento. Forse questo piccolo caso tedesco li aiuterà a crescere.

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Il numero di Gennaio 2010 e quello di Settembre 2010 di Focus Money,
che contengono i due articoli “incriminati”

L’articolo precedente, nel quale si riportava l’exploit di Janich, lo trovate qui.

E qui trovate una traduzione in francese dell’articolo, che potete segnalare ad eventuali amici francofoni.

Per chi capisce il tedesco, ecco una lunga discussione telefonica con Oliver Janich, effettuata su un sito tedesco di controinformazione. In passato, per accedere alle informazioni censurate i cittadini che vivevano nella Germania nazista potevano sintonizzarsi su Radio Londra, mentre nelle dittature del comunismo del Patto di Varsavia ci si poteva informare su Radio Free Europe. Oggi, Internet offre qualche opportunità in più per prendersi delle sane vacanze dalla propaganda.

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Originalmente pubblicato su Edicola.biz e Newspapers Online
Qui potete scaricare il PDF della versione cartacea dell’articolo su Focus Money, per futura memoria, prima che, come preannunciato, venga rimosso per sempre.

Post Scriptum: Non ci vuole un genio a capire che tutta questa faccenda, prima ancora che una ”minaccia alla democrazia” è soprattutto un insulto all’intelligenza. Alla resa dei conti, probabilmente ciò che da più fastidio è proprio questo. Bisogna evitare che i nostri teatri mentali si trasformino in discariche pubbliche, intasate da barzellette tossiche spacciate per informazione.