Si tratta evidentemente di un Nobel anticinese, deciso subito dopo la visita ufficiale in Europa del premier cinese Wen Jiabao.
Naturalmente non si è fatta attendere l'ovvia reazione di Pechino: prima la polizia si è recata nell'abitazione di Liu e poco dopo è arrivato anche il commento ufficiale del governo, che ha definito la decisione "un'oscenità".
Secondo il Ministero degli esteri, Liu Xiaobo è "un criminale che è stato condannato dalla giustizia cinese" e questa decisione è destinata a "nuocere alle relazioni tra la Cina e la Norvegia".
Liu Xiaobo sta infatti ancora scontando una condanna ad 11 anni di carcere per "istigazione alla sovversione" e questo Nobel rappresenta solo un altro tassello nella "guerra" sotterranea in atto tra USA, UE e Cina.
L'arma segreta della Cina nella guerra contro gli Usa
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 8 Ottobre 2010
Un azzardo. Di quelli seri ma che, in situazioni come quelle attuali, occorre mettere sul piatto visto che porta con sé un obiettivo ambizioso e comune: raggiungere gli 80-100 miliardi di dollari di interscambio tra Italia e Cina entro i prossimi 5 anni. Questo l’azzardo condiviso ieri dal Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e dal premier cinese, Wen Jiabao.
Attualmente l’Italia è il 21/esimo Paese nella classifica degli esportatori in Cina: «C’è ancora molto da fare», osservava la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, citando fra i settori di interesse per il futuro le alte tecnologie, l’impiantistica e le reti complesse. «La Cina rappresenta un mercato di enormi opportunità. È imprescindibile per qualsiasi strategia presente e futura dell’impresa italiana» ha concluso la Marcegaglia.
Wen Jiabao, dal canto suo, ha spiegato che la Cina ha spalancato le porte a un aumento degli investimenti delle imprese italiane: «Spero che le imprese italiane possano camminare in prima fila tra i paesi dell’Ue, anzi del mondo. Fino a questo momento si registrano investimenti italiani da 5 miliardi di dollari e seimila progetti di imprese, ma questi numeri sono ancora troppo poco - osservava Wen - e non corrispondono ai reali rapporti economici tra Italia e Cina.
Basti pensare che gli investimenti Usa nel nostro Paese hanno superato i 60 miliardi di dollari e quelli europei nel loro complesso i 50 miliardi. La Cina considera l’introduzione di tecnologie e gli investimenti esteri come un punto chiave del suo sviluppo. So che in questa sala sono presenti tanti Marco Polo di oggi».
Già, dei Marco Polo. Ma anche degli abili Richelieu, come il nostro premier. Dal quale è arrivato invece un «apprezzamento ammirato» per il ruolo della politica internazionale della Repubblica Popolare Cinese: il premier ha elogiato la “molta saggezza” che c’è nelle relazioni internazionali della Cina la quale «si presenta sempre con la volontà di sedare tutti i contrasti e risolvere tutte le situazioni con grande saggezza e serietà» nel segno di quella che un ministro cinese ha definito una politica ispirata “all’armonia”. Chiedere referenze al riguardo a Taiwan, Tibet, Giappone e ultimamente Usa.
Soddisfazione, inoltre, è stata espressa dal presidente del Consiglio per le novità nell’ordinamento cinese che ha parificato le condizioni operative delle imprese a capitale straniero e quindi italiano, a quelle a capitale nazionale: «Ciò - sottolinea Berlusconi - comporta notevoli facilitazioni dal punto di vista burocratico, fiscale e alla possibilità di partecipare a gare d’appalto».
Insomma, un bel po’ di quattrini e di possibilità di sviluppo all’orizzonte: molto bene, sulla carta. Ma attenzione, perché questo sacrosanto atteggiamento di rapporto privilegiato con la Cina porta con sé un doppio pericolo.
Primo, l’invidia dei partner europei, visto il chiaro altolà di Wen Jiabao all’Ue e alle sue pressioni per una giusta valutazione dello yuan sui mercati: il fatto che un leader cinese aggiunga a braccio una frase al riguardo nel suo discorso ufficiale all’Ue parla chiaro e dice che se l’Europa vuole vedere l’euro spaccato in due dalla sera alla mattina non deve fare altro che mettere il naso nelle questioni cinesi. Secondo, il sentimento anti-italiano che aleggia da tempo negli strati intermedi del governo Usa, leggi il Dipartimento di Stato e le sue emanazioni di consorteria come Foreign Policy e Council on Foreign Relations, potrebbe ora contagiare anche altri settori, ponendoci nella “black list” di chi spalanca un po’ troppo le porte al nemico. Si sa, gli americani hanno una concezione tutta loro della guerra: guai a chi dice “beh” sulla loro politica di interscambio vitale con Pechino fatta di export contro gestione del debito, ma se un partner cerca, giustamente, di mangiare la fetta di torta che gli spetta, allora si irrigidiscono come manichini. E Silvio Berlusconi, in questo momento, ha bisogno di tutto tranne che di nervi tesi con gli Usa, essendo Gianfranco Fini l’uomo designato a guidare la nuova destra italiana da parte di molti, influenti pensatoi e gruppi lobbistici Usa: non sono mie speculazioni complottistiche o dietrologiche, leggete cosa scrivono e pensano legittimamente di lui al B’nai B’rith e fate due calcoli, essendo questa organizzazione potentissima a livello di lobbing e molto influente presso i circoli di Rockfeller e soci. Inoltre, in questo momento gli equilibri globali sono molto incerti. Il dito Usa, infatti, è sul grilletto e di fronte alla canna della pistola c’è in prima istanza l’Europa. Nonostante le rassicurazioni degli scorsi giorni, infatti, la Bce è pesantemente sotto pressione per la guerra valutaria in atto nel pianeta e la sua decisione di mantenere i tassi invariati parla questa lingua: da un lato non sa come gestire i rischi di slamp che comporterà la scelta di ritirare i piani di supporto alle banche, dall’altro si trova a combattere contro un fantasma dal nome “debito sovrano”. E gli Usa, questo lo sanno, avendo nelle loro mani due armi segrete: le società di rating, molto arzille ultimamente, e i fondi speculativi, pronti a far scattare la clausola di default sui cds di Anglo Irish Bank, con le conseguenze che questo comporterebbe. Questo perché gli Usa stanno per conoscere un periodo davvero difficile: da un lato Goldman Sachs parla chiaramente di un dollaro destinato a indebolirsi ancora, con la prospettiva di 1,50 con l’euro entro la fine dell’anno e di 1,79 contro la sterlina entro sei mesi e di 1,85 al massimo entro un anno. Quindi, un potenziale turbo all’export ma dall’altro lato, sempre la ex banca d’affari newyorchese mette in guardia riguardo le prospettive dell’economia a stelle strisce, definite “decisamente cattive” nei prossimi sei-nove mesi anche a causa delle scelte non certo brillanti della Fed. Insomma, gli Stati Uniti stanno camminando su un filo da equilibrista e state certi che prima di cadere cercheranno di garantirsi un’ampia porzione di materasso sottostante, a discapito di altri che si romperanno l’osso del collo. Ecco un esempio per capire come stanno le cose dall’altro capo dell’Atlantico. Harrisburg, la semisconosciuta capitale della Pennsylvania, lo scorso mese è sfuggita a un vero e proprio disastro finanziario, prendendo soldi dallo stato per pagare i detentori delle sue obbligazioni, questo nonostante l’entità statale avesse reso noto chiaramente che quel denaro serviva per il fondo pensioni dei lavoratori statali. Venerdì scorso, Harrisburg ha bussato di nuovo alle porte dello stato, dicendo chiaramente che senza fondi dal “distressed cities program” non avrebbe potuto pagare gli stipendi. Il problema è che negli Usa sono sempre di più le città e i governi locali che fanno affidamento a queste scappatoie per evitare le corti federali per bancarotta. Sono 20 in Pennsylvania, 37 in Michigan, 7 nel New Jersey, una a testa in Illinois, Rhode Island e nella pressoché fallita California. Insomma, negli Usa un tempo potenza egemone mondiale, città e governi locali vivono grazie ai piani di salvataggio statali: ovvero, campano di sussidi. Il problema è che quel tipo di programma dovrebbe servire a fornire linee di credito per ristrutturare le proprie finanze e tornare a camminare con le proprie gambe, non a mantenere chi non riesce a farcela da solo: capite da soli che il numero di città che busseranno alla porta continuerà a salire e i soldi finiranno molto prima del previsto. Le entità federali Usa, quindi, si trasformeranno in tante, piccole Fannie Mae e Freddie Mac, e sappiamo come queste due siano finite e come abbiano ridotto le casse dello Stato. L’unico precedente di default federale negli Usa risale ai tempi della Grande Depressione, quando l’Arkansas fallì a causa dell’incapacità di ripagare obbligazioni generali: purtroppo, c’è il forte rischio che le lancette dei precedenti storici verranno a breve portate avanti di qualche decina d’anni. Insomma, capite facilmente da soli che gli Stati Uniti hanno più di una ragione per avere i nervi tesi. Tanto più che anche l’opzione bellica, intesa come ripartenza dell’economia e dell’industria attraverso una guerra o un rafforzamento del comparto difesa in ossequio al nuovo allarme terroristico, vede gli Usa scontrarsi contro una sgradevole realtà, anche in questo casa targata Cina: il neodymium, un componente metallico necessario per il direzionamento magnetico delle bombe attualmente sganciate dagli aerei Usa in Afghanistan. Fu la grande intuizione di Deng Xiaoping, ovvero puntare tutto come priorità industriale-strategica sul neodymium e su altre sedici componenti denominate “rare earths”, la chiave dell’evoluzione dell’industria bellica di cui ora la Cina è monopolista. E, guarda caso, di cui ora ha ridotto fino alla fine dell’anno l’export del 72%: in parole povere, il Pentagono ha perso il controllo delle sue stesse bombe. E questo non sapete come fa innervosire i vertici militari Usa! Per Peter Leitner, un adviser strategico del Dipartimento della Difesa dal 1986 al 2007, «il Pentagono è stato estremamente negligente al riguardo, ci sono stati infatti decine di segnali d’allarme riguardo il fatto che la Cina avrebbe usato la leva di questi materiali come arma». Già, armi contro gli Usa e componenti metalliche utilizzate per schermi a cristalli liquidi e computer portatili contro il Giappone, avendo Pechino di fatto bandito l’export di questi materiali verso Tokyo lo scorso 28 settembre. Già lo scorso aprile il braccio investigativo del Congresso Usa, il Government Accountability Office, aveva avvertito riguardo la vulnerabilità del settore militare a causa della mancanza di offerta interna di “rare earths”. Caso strano, proprio tra pochi giorni l’House of Representatives Armed Service Committee terrà un’audizione ad alto livello sul tema, mentre il Pentagono pubblicherà un report riguardo le possibilità sul piatto per assicurarsi questi materiali in grande quantità (guarda caso, l’Afghanistan ne è strapieno, solo che estrarli non è così semplice in un contesto di guerra: certo, un bell’accordo con i Talebani - di cui si parla con sempre maggiore insistenza - faciliterebbe tutto...). Al momento ci sono due piani di produzione di “rare earths”, entrambi programmati per la fine del 2012, uno gestito dalla Molycorp Inc. in California e una dalla Lynas Corp. in Australia, ma gli esperti parlano di un arco temporale necessario di 15 anni affinché gli Usa possano ricostruire una catena di riserve e supply di questi materiali, necessari oltre che per il comparto bellico anche per le auto ibride e le turbine dell’eolico, ragione per cui la domanda potrebbe superare l’offerta entro il 2014 nonostante l’apertura di nuove miniere. Altro che investimenti, dumping industriale, export sleale, yuan sottovalutato e diritti umani come optional, è questa l’arma segreta della Cina nello scontro globale e quindi la priorità numero uno degli Stati Uniti. I quali lo sanno e faranno di tutto per porre fine al monopolio del Dragone: anche utilizzando la vecchia “legge del beduino”, ovvero l’amico del mio nemico è mio nemico. E colpirlo è quindi legittimo in una logica di scontro. Tutti avvertiti. Governo e Confindustria in testa. P.S. Nel tardo pomeriggio di ieri è giunta in ambienti finanziari londinesi una notizia molto interessante, proprio dagli Usa: immediatamente è stata definita “October surprise”. In cosa consta? Semplice, un progetto di legge passato lo scorso aprile alla House of Representatives statunitense, la scorsa settimana è passato anche al Senato senza dibattito pubblico: un qualcosa di molto strano. Ma cosa tratta quel progetto di legge? Del diritto di riscatto da parte delle banche di ipoteche, in questo caso immobiliari: se Obama firmerà tramutando in legge il disegno, per i proprietari di casa sarà molto difficile evitare di vedere la propria casa messa in vendita in quello che sta divenendo un vero e proprio - nonché floridissimo - mercato parallelo del real estate. Stando a un funzionario della Casa Bianca, il presidente avrebbe dubbi riguardo al progetto di legge, ma le pressioni sono non da poco. Nei fatti, la nuova legge toglierebbe ai proprietari di casa il diritto di fare appello legalmente contro il diritto di riscatto: e, caso strano, questo succederebbe proprio mentre la crisi delle cosiddette “foreclosures” sta toccando livelli di guardia. Tanto più che un’entità di finanziamento non bancaria come la Mortgage Electronic Registration Systems ha già cominciato la propria politica di riscatto di immobili, esercitando un’autorità ufficialmente negata dai giudici Usa, quasi fosse certa della firma da parte del Presidente: la speaker della House, Nancy Pelosi, ha non a caso chiesto l’apertura di un’inchiesta per truffa, definendo questo nuovo mercato «un business davvero di grandi dimensioni». La segretaria di Stato dell’Ohio, Jennifer Brunner, ha dichiarato chiaramente che il passaggio in aula al Senato del progetto di legge «ha avuto un timing molto sospetto», di fatto denunciando un’operazione di lobbying dietro le quinte da parte di soggetti erogatori di mutui, banche e finanziarie. Gli Usa, i poteri forti, si stanno stancando delle attese della Fed e dei dubbi immobilisti di Barack Obama: il mercato deve ripartire, in un modo o nell’altro. Che siano i cittadini a pagare, un’altra volta, è solo un dettaglio. L’America sta partendo alla riscossa e non farà, come al solito, prigionieri. Si salvi chi può. Pechino d'Europa di Joseph Halevi- www.ilmanifesto.it - 7 Ottobre 2010 La visita europea di Wen Jiabao, da ieri sera in Italia, avviene mentre si aggrava lo scontro tra la Cina e gli Stati uniti sullo yuan e -in misura meno chiassosa – tra la Cina e la zona dell'Euro. E' inoltre emersa una forte tensione con il Giappone per via dell'acquisto da parte di Pechino di buoni giapponesi che, in talmodo, spingerebbe al rialzo la moneta nipponica. L'estendersi del conflitto sui tassi di cambio significa che ciascuno cerca di risolvere la crisi accaparrandosi fette di mercato in altri paesi. Il cuore del mercantilismo si trova in Europa e in Giappone. In quanto alla Cina, la dinamica dell'export di Pechino non è assimilabile al tentativo euro-tedesco e nipponico di aggirare la crisi interna cercando di esportare altrove. Il 55% delle esportazioni di Pechino sono connesse amultinazionali che hanno investito e subappaltato in Cina, felicissime di utilizzare il basso costo di produzione sull'interagammaindustriale per ottenere profitti riesportando verso i paesi di origine. La rapida integrazione della Cina nelle istituzioni del capitalismo globale(Fondo Monetario, Banca Mondiale, Wto) si è basata sul patto tra Partito comunista cinese (Pcc) e capitalismo monopolistico mondiale. Su questa base il Pcc sta costruendo una classe capitalistica nazionale integrata allo stato. Il rafforzamento strutturale di questa classe, elemento essenziale del patto Pcc-capitale globale, si basa su un alto tasso di investimento a scapito della quota, tuttora calante, dei salari sul reddito nazionale. Per buona parte del capitale statunitense la Cina è sempre fonte di profitti. Per l'Europa il quadro è piú variegato. L'insieme delle industrie meccaniche, elettroniche e di mezzi di produzione europee, italiane incluse, ottengono un saldo positivo con Pechino. Mentre per Francia ed Italia i comparti avanzati non sostengono i loro conti esteri globali. Quindi il deficit con Pechino, destinato peraltro a crescere, morde concretamente. La gestione del debito pubblico da parte della Bce e della Germania, apre la possibilità di diversificare i buoni in possesso della Banca centrale cinese sostenendo simultaneamente il tasso cambio dell'euro che si sta rivalutando nei confronti del dollaro cui è legato lo yuan. Questo è il senso del prospettato acquisto di buoni greci. La Grecia fa inoltre parte della strategia cinese di creare dei solidi punti di sbarco delle merci dirette alla zona mediterranea ed all'est. Le società marittime statali di Pechino hanno già acquistato parte del porto di Napoli. Ora stanno investendo nel porto del Pireo.
Il patto la Cina e il capitale mondiale si fonda pertanto su un perdurante esercito industriale di riserva. La crescita capitalistica cinese continuerà dunque a poggiare sul binomio investimenti ed esportazioni. La crisi in corso fa risaltare la cesura tra stati nazionali e gli interessi di ampi settori di capitale globale il quale non vuole assolutamente mutare il ruolo della Cina.
Tuttavia i comparti che ne beneficiano maggiormente sono quelli della Germania e dei paesi scandinavi. Il deficit complessivo con la Cina non preoccupa questi paesi perchè i settori che sostengono la loro posizione mondiale non ne sono intaccati.
Nei confronti della Cina le faglie intraeuropee emergono lucidamente. Assente ogni politica economica europea, eccetto i tagli ai bilanci pubblici, rimane solo la bagarre sul tasso di cambio. Anche Pechino opera nelle contraddizioni europee.
Sono tutte strategie volte a potenziare fortemente le esportazioni verso l'Unione europea. La Turchia, a sua volta visita ta da Wen Jiabao, entra peinamente in tale ottica. Ankara, che ha uno status di libero scambio con l'Ue, ha cominciato ad importare auto cinesi precedute da una vasta pubblicità sui principali canali televisivi. Queste importazioni sono in concorrenza con i localmente dominanti marchi Fiat e Renault.
A gennaio una foltissima delegazione ministeriale cinese aveva stipulato ad Ankara accordi che vanno dal commercio ad investimenti diretti in Turchia come base di espansione verso il resto dell'Europa. La Turchia diventerà un tassello importantissimo nel connettere esportazioni ad investimenti esteri cinesi alla maniera del Giappone e della Corea meridionale.
Cina: shopping in Europa
di Gorka Larrabeiti - www.rebelion.org - 6 Ottobre 2010
Traduzione per www.vocidallastrada.com a cura di Vanesa
Sabato è cominciato il tour del capo di governo cinese, Wen Jibao, in Europa. Erano 24 anni che un primo ministro cinese non metteva piede in Grecia, e non è una casualità che lo abbia fatto l’anno in cui la Grecia- e l’Europa- hanno sofferto una crisi così grave come quella che viviamo.
- fondo speciale per la cooperazione sino-greca nel trasporto marittimo, con una cifra iniziale di 5 miliardi di dollari;
- del più grande porto della Grecia, Pireo, come un centro di distribuzione regionale delle esportazioni cinesi, dirette in Europa;
- un volume di commercio bilaterale di 8 miliardi di dollari in cinque anni;
- maggiore scambio di turismo, cultura e scienze umane,
- e il coordinamento degli interventi nelle organizzazioni internazionali.
Un'altra cosa sarebbe se ci fosse stato un Servizio d’Azione Estera che avesse negoziato con la Cina in nome di tutti i paesi, ma sembra che nessuno dei paesi maialini (PIIGS) lo voglia, convinti che otterranno più benefici negoziando separatamente con il Dragone, nè quel Servizio Estero Europeo è capace al momento di affrontare una negoziazione bilaterale, occupato com' è dall’Alta Rappresentante nell' assegnazione di poltrone dei vari ambasciatori dell'UE provenienti da 27 paesi.. Tutto un mal di testa. Tutto un vantaggio per la Cina.
Fonti:
http://www.eubusiness.com/news-eu/greece-china-trade.6e1
http://spanish.news.cn/mundo/2010-10/03/c_13540934.htm
http://www.eubusiness.com/news-eu/china-asia-asem.6cx/
http://www.imf.org/external/np/sec/memdir/eds.htm
http://www.libertas.sm/News_altre_notizie/news_dettaglio.php?id=21058
Wen Jiabao e lo shopping greco
di Gabriele Battaglia - Peacereporter - 4 Ottobre 2010
Economia ma anche politica nel viaggio europeo del premier cinese
Se l'America mi attacca, cerco alleati in Europa. Il viaggio nel Vecchio Continente del premier cinese Wen Jiabao nasce nel cono d'ombra creato dal recente disegno di legge Usa che consentirà misure protezionistiche contro le merci made in China.
E quindi il Dragone cerca una sponda dalle nostre parti, puntando sia ai singoli Paesi sia alle istituzioni comunitarie, in un itinerario che mette in fila Grecia, Unione Europea (a Bruxelles), Germania, Italia e Turchia.
Non si sa quanto casualmente, il tour di Wen comincia proprio dall'anello più debole del consesso europeo. Atene ha l'acqua alla gola: investita dalla crisi finanziaria, con previsioni a medio termine che vedono consumi stagnanti e investimenti interni depressi, spera nell'export e soprattutto negli investimenti dall'estero.
Gli aiuti europei e del Fondo Monetario Internazionale assommano a 110 miliardi di euro ma saranno dilazionati in tre anni. Non solo: il finanziatori occidentali impongono misure di austerity che hanno già surriscaldato il conflitto sociale.
Ed ecco che spunta la Cina.
Arrivato ad Atene, un Wen a tutto campo - ha trovato anche il tempo di rilasciare un'intervista sui progressi della democrazia in Cina a un network americano - ha espresso fiducia sulla capacità dei greci di riprendersi e ha garantito il sostegno cinese.
Da un lato, la Cina acquisterà i bond a lungo termine che la Grecia emetterà nel 2011, dall'altro finanzierà il locale settore navale con un investimento di oltre cinque miliardi di dollari, finalizzato all'acquisto di navi cinesi da parte degli armatori greci.
In piccolo, si tratta dello stesso schema con cui la Cina tiene incatenati a sé gli Stati Uniti: fornisce la merce e poi rifinanzia il debito di chi gliela compra con investimenti diretti o acquistando i buoni del tesoro locali.
Così aumenta l'integrazione tra le economie, o forse sarebbe meglio dire la dipendenza. Nel caso del rapporto con la Grecia, bastano le cifre: nel 2009, il valore delle esportazioni cinesi nel Paese ellenico era di oltre tre miliardi di euro mentre quello dell'export di Atene nella Repubblica Popolare assommava a soli 93 milioni.
Dato che il Wto impone ad Atene di vendere asset pubblici, la Cina gioca i suoi assi nella manica. Con Wen, viaggia Wei Jiafu, presidente della China Ocean Shipping Company (Cosco), il gigante delle spedizioni via mare che già dispone di circa cento scali in giro per il mondo.
Dal 2008 e per trentacinque anni gestisce anche due enormi bacini per container nel porto del Pireo, grazie a un accordo da tre miliardi e mezzo di euro.
Ora il valore potrebbe triplicarsi in base a una lista della spesa che comprende magazzini a Thriasio, installazioni portuali a Tessalonica (Salonicco), un cantiere per le riparazioni navali a Perama (Pireo) e il nuovo aeroporto di Kastelli, a Creta.
Questo schema si sta ripetendo in tutta Europa. Quest'anno la Cina ha per esempio già comprato titoli sul debito spagnolo per quattrocento milioni di euro e durante la tappa greca Wen ha annunciato che continuerà ad acquistare bond europei.
La politica ne consegue. "Come usiamo dire sia in Grecia sia in Cina - ha ben sintetizzato il Primo ministro greco Papandreou - è nei tempi duri che si vede chi sono i veri amici".
Un segno tangibile di tale amicizia europea potrebbe arrivare già nei prossimi giorni sul tema scottante della politica economica. La Cina, oltre a fare affari, chiede alla Ue un riconoscimento esplicito della propria natura di "economia di mercato", il che renderebbe più difficile colpirla con misure anti-dumping come quelle varate dalla camera Usa.
Non solo: chiede anche un appoggio per avere più peso nelle sedi che contano - leggi Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale - e una revisione del sistema di rating basato su agenzie molto poco indipendenti.
Anche i leader europei criticano la Cina per il basso valore del renminbi. Sono pungolati dai businessmen del vecchio Continente che soffrono la concorrenza delle merci cinesi.
Ma gli stessi uomini d'affari, come gli armatori greci, bramano d'altra parte i soldi freschi del Dragone. Una contraddizione che fa il gioco di Pechino.
Tra le prossime tappe di Wen c'è anche l'Italia.
Nobel per la Pace a Liu Xiaobo, il più famoso dissidente cinese
da Peacereporter - 8 Ottobre 2010
Già protagonista di Piazza Tiananmen e promotore di Charta 08, è attualmente incarcerato
Originario di Changchun, nella provincia nord-orientale del Jilin, Lu sta attualmente scontando undici anni di reclusione per "incitamento alla sovversione dei poteri dello Stato", in base all'articolo 105 del codice penale cinese.
Giornalista, 54 anni, coscienza critica della Cina contemporanea, Liu fu uno dei leader del movimento di piazza Tiananmen nel 1989, in prima linea sia nei tentativi di mediazione con le autorità sia nello sciopero della fame che caratterizzò la protesta degli studenti pro-democrazia.
In seguito, fu uno dei pochi che ha scelto di non rinnegare i principi in cambio del benessere economico o di emigrare all'estero.
Nel 2008, Liu ha promosso la raccolta di firme per il documento Charta 08 che, ispirandosi alla Charta 77 di Václav Havel e dei dissidenti cecoslovacchi, chiedeva "la fine del regime monopartitico comunista e l’istituzione di un sistema basato sui diritti umani, lo stato di diritto e la democrazia". Il manifesto ha raccolto in pochi mesi circa novemila firme.
Troppo, per l'establishment cinese: il dissidente di Changchun è stato arrestato nel giugno 2009.
Nella Repubblica Popolare di oggi, intellettuali come Liu sono liberi di criticare apertamente il regime pur di non minarne le fondamenta, cioè il sistema monopartitico. E' la cosiddetta "zona grigia" in cui può muoversi il dissenso, qualcosa di non ben definito ma che bisogna stare attenti a non oltrepassare.
Da quando il nome di Liu era stato inserito tra i favoriti, Pechino aveva esercitato pressioni sulla Norvegia affinché il premio non gli fosse assegnato. Il ministero degli Esteri cinese aveva dichiarato pubblicamente che il dissidente cinese non ha mai promosso "La pace tra i popoli, l'amicizia internazionale e il disarmo" e che quindi la sua candidatura fosse contraria allo spirito del Nobel.
Il direttore del Nobel Institute, Geir Lundestad, aveva rivelato nei giorni scorsi che il viceministro degli Esteri di Pechino, Fu Jing, aveva definito l'eventuale assegnazione del premio a Liu "un gesto non amichevole", che "avrebbe avuto conseguenze negative" sulle relazioni tra Cina e Norvegia.
Il precedente che spaventa l'establishment cinese è l'assegnazione del Nobel al Dalai Lama nel 1989, lo stesso anno della repressione del movimento studentesco pro-democrazia in piazza Tiananmen. La concomitanza dei due eventi determinò l'isolamento internazionale di una Repubblica Popolare ormai avviata sulla strada delle riforme economiche.
Per la Cina odierna, che oltre all'appeal economico cerca di esercitare all'estero anche un soft power basato sulla cosiddetta "offensiva dello charme", la scelta del comitato del Nobel rischia di riportare indietro le lancette del tempo.
Come cambia la censura in Cina
di Gabriele Battaglia - Peacereporter - 6 Ottobre 2010
"Spingere i confini un po' più in là". Parla Zhang Ping, giornalista che sfida il potere
Qual è lo stato della censura in Cina? Per capirlo, vale la pena leggere chi la conosce bene.
Zhang Ping (nome di penna, "Chang Ping") è un giornalista piuttosto noto in Cina. Definito "voce liberal" (nell'accezione anglosassone), è stato redattore del Nánfāng Rìbào, un giornale di Guangzhou (Canton) noto per la sua indipendenza e per le sue inchieste su temi politicamente sensibili.
"Come scoprire la verità su Lhasa?", un articolo sui disordini in Tibet di due anni fa, firmato da Zhang, chiedeva per esempio maggiori libertà per i media che si occupano della questione tibetana.
Un mese fa, la polizia gli ha fatto visita in redazione. Da allora, gli è stato proibito di scrivere editoriali per il giornale e per le riviste collegate.
Il cartoonist Kuang Biao gli ha dedicato una vignetta significativa [cliccarci sopra per ingrandire].
In un'intervista al quotidiano taiwanese Wang Bao, Zhang spiega come cambia il sitema dei media - e quindi il controllo - nel suo Paese.
Ne riprendiamo i punti salienti.
Complicità e autocensura
I media in Cina - sostiene - hanno grande potere. Per questo motivo, è molto facile che i professionisti dell'informazione diventino "gruppo d'interesse".
Molti giornalisti "si ribellano" quindi alle autorità per il semplice desiderio di essere cooptati nel sistema di potere: "Sarebbero molti felici di essere invitati dai funzionari a cena".
Noi li chiameremmo nella migliore delle ipotesi "giornalisti compiacenti".
Ma in Cina la commistione tra potere e informazione è nel solco di una tradizione millenaria in base alla quale l'intellettuale e il funzionario sono la stessa persona. Anche oggi - osserva Zheng - molti direttori e redattori hanno cariche ufficiali. Ma "nel caso di un funzionario, il segreto per avere successo è il silenzio". L'esatto contrario di quanto dovrebbe fare un buon giornalista.
Nazionalismo
Dopo Tiananmen '89 questa tendenza si è acuita. Nella società cinese si sono infatti imposti gli "studi nazionali" in contrapposizione alla precedente "liberalizzazione borghese". Un famoso storico, Li Zehou, ha così descritto la situazione: "I pensatori sono spariti e sono emersi i letterati", facendo riferimento agli eruditi della Cina imperiale, i mandarini (letterati e funzionari), riproduttori di cultura (i classici confuciani) più che creatori.
Gli studi nazionali hanno nutrito un'intera generazione di giovani cinesi nel segno della fedeltà alla tradizione ripulita da ogni pensiero critico. Ma la situazione è più complessa di quanto appaia, perché l'evoluzione della tecnologia ha messo a disposizione strumenti - come Twitter - difficilmente controllabili. E così il senso critico, uscito dalla porta, rientra dalla finestra. La generazione dei "letterati" e dei "nazionalisti" comincia a porsi qualche problema.
Evoluzione dei controlli
Così la censura si sposta su internet e si evolve tecnologicamente. Dieci anni fa, gli staff redazionali ricevevano direttive dal ministero della Propaganda che imponevano di trascurare determinati contenuti comparsi sul web.
Oggi le autorità dispongono di tecnologie per censurarli alla radice, direttamente online. Il graduale trasferimento del controllo su Internet, paradossalmente, consente più libertà alla carta stampata. Sono così i giornali tradizionali che spesso diventano "scomodi".
Gli effetti del mercato
Perfino il giornale del Partito, il Quotidiano del popolo, ha creato una testata satellite, il Beijing Times, gestita secondo criteri di mercato. Un suo giornalista è stato di recente malmenato dal governatore dello Hubei, Li Hongzhong (che ha cercato di strappargli di mano il registratore digitale), perché gli faceva domande scomode su una vicenda torbida che riguardava un funzionario locale.
Per Zhang questo è solo uno dei molti casi in cui i giornali (e quindi i reporter) rivelano una sempre maggiore autonomia dal potere politico, che reagisce in maniera scomposta.
Il punto è che se devi "vendere" un giornale, devi anche trovare notizie che interessino alla gente. E quindi editori e direttori devono "spingere i giornalisti a rompere gli indugi e fare domande di ogni tipo".
D'altra parte, se la ragione economica sostituisce quella politica - osserva Zhang - molti media puntano sempre più a privilegiare il profitto rispetto all'informazione, cercando la compiacenza dei lettori più della verità.
E' comunque in corso un cambio generazionale nelle redazioni: oggi i ragazzi di Tiananmen sono nella maturità e tengono maggiormente a professionalità e indipendenza.
L'unione fa la forza
A marzo, tredici autorevoli testate hanno pubblicato un editoriale congiunto che chiedeva la fine dell'Hukou, la residenza obbligatoria che penalizza i migranti rurali. Il dibattito è acceso in Cina e c'è un consenso esteso sulla sua abolizione, o quanto meno riforma.
Per le autorità non è questo il problema - sostiene il giornalista - bensì il fatto che i quotidiani abbiano esercitato una sorta di contropotere semplicemente coalizzandosi. Il nuovo trend del ministero della Propaganda è quindi quello di spingere i giornali a unirsi, sì, ma per sostenere posizioni dettate dall'alto
Scrivere per i cinesi
Zhang non vuole "scrivere solo per gli americani", vuole continuare a farlo per i cinesi. "Io e il gruppo del Nánfāng Rìbào non ci consideriamo forza d'opposizione contro il governo, ma testiamo costantemente i confini.
Un sistema autoritario è diverso da una società fondata sul diritto, e i confini non sono sempre chiari. Questo richiede una comprensione del pensiero di chi comanda. Quanto spazio abbiamo? Nessuno lo sa, nessuno può saperlo se non si fa un tentativo. Quello che cerco di fare è spingere i confini un po' più in là".
Conflitto strategico inevitabile tra Cina e Usa
del Prof Wang Jisi* - www.globalresearch.ca - 5 Agosto 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Nino Vitale
All'inizio del 2010, i conflitti tra Cina e U.S.A. si sono infittiti e velocizzati, dando inizio al più grande disordine politico tra i due paesi dai tempi dell'incidente aereo del 2001. Agli inizi di Aprile, quando i capi di entrambi i paesi comunicarono via telefono e il presidente cinese Hu Jintao partecipò al summit sulla sicurezza nucleare a Washington, i rapporti sino-americani divennero meno tesi. Le tensioni si attenuarono grazie al secondo Dialogo Strategico ed Economico tra Cina e U.S.A. tenutosi a Beijing a Maggio.
Ma allo stesso tempo alcune discordanze ben studiate tra i due paesi si stanno facendo più acute. Le recenti esercitazioni militari statunitensi e sudcoreane nel Mar Giallo hanno mostrato che un consenso strategico sino-statunitense non è ancora stato stabilito, mentre si è andata intensificando una sfiducia strategica.
Passiamo ora ad esaminare alcuni fattori che dal 2003 interessano i rapporti sino-statunitensi, quando i due paesi erano nel pieno del proprio splendore.
1. La politica interna degli U.S.A.
Nel 2003, la popolarità del presidente americano George W. Bush era ancora relativamente alta e i Repubblicani detenevano la presidenza, il Senato e il Congresso. Oggi la popolarità del presidente degli Stati Uniti Barack Obama sta diminuendo, suggerire un controllo sulle relazioni sino-americane ha fatto si che questa popolarità diventasse più debole di quella di Bush.
Alle elezioni di Novembre di metà mandato , i Democratici affronteranno un'ardua sfida con i Repubblicani e la Cina potrebbe essere sempre più il risultato di questo bersaglio. Nei dipartimenti di Stato e di Difesa statunitensi, i fautori della linea dura verso la Cina stanno guadagnando terreno.
2. Il Commercio
Nel 2003, entrambi i paesi hanno assistito a molti attriti commerciali, inoltre gli U.S.A. hanno sollevato il problema del tasso di cambio dello yuan. Ma, i recenti attriti commerciali sino-statunitensi si sono estesi ai campi finanziari che precedentemente avevano un effetto positivo sulle relazioni di ambo le parti e il problema del tasso di cambio dello yuan è diventato altamente politicizzato.
Nel frattempo, alcune aziende transnazionali, come la Goldman Sachs, Google e la General Electric, sono rimaste enormemente scontente delle politiche della Cina sull'incoraggiamento dell'innovazione nazionale. I conflitti economici e commerciali sono divenuti indiscusse barriere per lo sviluppo del consenso strategico bilaterale.
3. Legami militari
Gli scambi militari sino-statunitensi furono interrotti dall'incidente aereo del 2001, ma la visita negli Stati Uniti del Ministro cinese per la Difesa Cao Gangschuan nell'Ottobre 2003 ha segnato il “totale restauro” degli scambi militari bilaterali. Tuttavia, all'inizio di quest'anno, gli scambi militari si sono bloccati nuovamente a causa dell'approvazione della vendita di armi in Taiwan e gli ufficiali dell'esercito di entrambe le nazioni stanno dando voce a sentimenti più antagonistici.
4. Taiwan
Nel 2003, l'amministrazione Chen Shui-bian stava promuovendo dei cambiamenti per la condizione del Taiwan. Nello stesso periodo, gli U.S.A. erano impegnati con la guerra in Iraq e con l'antiterrorismo, così gli U.S.A. accusarono le autorità del Taiwan di sconvolgere lo status quo del cross Taiwn Strait [accordi tra Cina e Taiwn n.d.t.] e gli U.S.A. considerarono Chen un agitatore.
Bush e tutti gli alti funzionari in carica per gli affari sino-statunitensi dichiararono in diverse occasioni che gli U.S.A. hanno supportato la one-china policy [politica promossa dalla Cina nei confronti delle altre nazioni al fine di riconoscere il governo cinese come l'unico legittimo della terraferma cinese e taiwanese n.d.t.] e non l'indipendenza del Taiwan.
Cina e U.S.A. sono giunti ad una sorta di consenso sulla questione del Taiwan. Ma la vendita recente di armi è stata descritta dagli ufficiali cinesi come “una coltellata alle spalle”.
5. Corea del Nord
Nel 2003 c'è stato un dialogo a tre tra Cina, U.S.A. e Corea del Nord, così come il primo Six-Party Talks (dialogo tra sei stati: Corea del Nord, Corea del Sud, Cina, Russia, Giappone e U.S.A.) Ma sette anni più tardi, la Corea del Nord ha condotto due prove nucleari e un nuovo Six-Party Talks sembra alquanto lontano. L'incidente di Cheonan, in cui la Cina si rifiutò di supportare l'occidente dando la colpa alla Corea del Nord con l'O.N.U, ed altre ben peggiori situazioni. multilaterali Sia la Cina sia gli U.S.A. ritengono che sia l'altro ad avere un ruolo negativo trattando con la Corea del Nord, ottenendo come risultato una sfiducia strategica.
6. Giappone
Sin dalla fine della guerra fredda i rapporti sino-giapponesi sono stati un contrappeso ai rapporti sino-statunitensi. Nel Gennaio 2003, l'allora Primo Ministro giapponese Junichiro Koizumi rese omaggio alle vittime della guerra al Yasukuni Shrine, suscitando l'indignazione della Cina. Nei due anni successivi, l'immagine del Giappone in Cina era peggiore di quella degli Stati Uniti e nel 2005 la Cina fu segnata da varie proteste anti-giappone.
Ad ogni modo, dal momento che i rapporti sino-giapponesi cominciarono a migliorare nel 2006, le discordanze tra Cina e U.S.A. si sono fatte più aspre. Oggi, la sensibilità patriottica dei cinesi è principalmente concentrata sugli U.S.A. piuttosto che sul Giappone.
7. Sicurezza Nazionale
Intorno al Marzo 2003, quando gli U.S.A. diedero inizio alla guerra in Iraq, i contrasti degli U.S.A. con paesi quali Francia, Germania e Russia e il mondo Islamico erano molto intensi e in tutto il mondo i sentimenti anti-U.S.A. raggiunsero vette senza precedenti. La Cina assunse una posizione neutrale e l'amministrazione Bush gliene fu grata.
Ma la situazione attuale è abbastanza diversa. Gli U.S.A. sono insoddisfatti della posizione della Cina nei confronti della questione nucleare iraniana. La Cina non ha risposto prontamente all'invito di Obama a [non avere n.d.t.] un “mondo non nucleare”, e l'organizzazione militare e diplomatica degli Stati Uniti tra i vicini della Cina ha fatto si che quest'ultima si mettesse in guardia.
8. Sicurezza inconsueta
Nel 2003, la controversia contro la SARS promosse il consenso dei due paesi su alcuni problemi inconsueti, ma ci sono stati anche alcuni spiacevoli inconvenienti durante la conferenza sul Cambiamento Climatico dell'O.N.U. a Copenhagen alla fine del 2009. Sui problemi climatici e energetici, entrambe le nazioni hanno una popolazione profondamente scettica sull'impegno e sulle motivazioni reciproche.
9. Verso il cambiamento
A Dicembre e a Novembre 2003, Hu Jintao e Wen Jiabao hanno presentato la “China's peaceful rise” [espressione utilizzata dalla Cina per indicare la propria politica estera n.d.t.]. A questo punto, gli osservatori statunitensi hanno creduto che la direzione dello sviluppo a lungo termine della Cina avesse come obiettivo quello di integrarsi con l'ordine internazionale dell'Occidente.
Ma oggi i media statunitensi vedono la Cina come una minaccia etichettandola sempre più come tale. In Cina, come mostrano alcune pubblicazioni quali Currency Wars, Unhappy China e The Chinese Dream, i sentimenti anti-americani e il nazionalismo aumentano.
Non sono meno rare le discussioni dei media cinesi sulla forte crescita e sull'abbandono dei principi a cui la Cina è rimasta a lungo legata come il non-allineamento e il rifiuto ad utilizzare le armi nucleari se non per rispondere agli attacchi [no first use – NFU n.d.t.].
10. Potere predominante
Il distacco tra i due paesi si sta inoltre colmando. Nel 2003, il prodotto interno lordo cinese era di 1.4 trilioni di dollari, pari ad un ottavo dei 10.9 trilioni di dollari U.S.A.. Nel 2009, il prodotto interno lordo cinese è salito a 5 trilioni di dollari, pari a più di un terzo dei 14 trilioni di dollari degli Stati Uniti. E il coinvolgimento degli Stati Uniti nell'economia mondiale si è ridotto dal 29 percento nel 2003 al 23 percento nel 2009.
Il distacco tra il potere predominante dei due paesi sta diminuendo velocemente. Con la crisi economica mondiale, la forza e l'influenza dell'Occidente si sono inclinate e i poteri emergenti hanno svolto un ruolo sempre più fondamentale a livello mondiale.
Conclusione
I rapporti strategici sino-statunitensi stanno affrontando un processo significativo di aggiustamento. Visto che la solidità cinese cresce rapidamente, il paese premerà sulle suddette questioni prendendo l'iniziativa per il mantenimento della stabilità dei rapporti sino-statunitensi. Dunque, nella partita tra Cina e U.S.A., la Cina ha il possesso della palla, ma la palla viene calciata verso gli U.S.A. più frequentemente.
Dal 2003 la cooperazione pratica sino-statunitense si è sviluppata parecchio in larghezza e in profondità e entrambe le parti hanno ampliato e incrementato gli interessi comuni in molti campi, specialmente nell'istruzione, nella salute pubblica, nell'energia e nella finanzia.
Ma il punto cruciale delle attuali relazioni sino-statunitensi tocca alcune problematiche più rilevanti sulla sicurezza e la strategia, sulle quali la Cina tenta sempre più di dire “No”, non c'è alcuna probabilità immediata che gli U.S.A. cambino posizione.
Il distacco tra le visioni dei due paesi su alcune importanti questioni internazionali si sta ingrandendo. Gli strateghi statunitensi stanno ancora cercando di trarre vantaggio dai punti deboli degli affari interni e internazionali della Cina.
L'incremento del potere della Cina non può essere trasferito nelle leve di spinta e di politica per instaurare le relazioni sino-statunitensi. Servirà molto tempo prima che gli U.S.A. cambieranno le proprie politiche con la Cina. Perciò, in futuro l'area di cooperazione strategica tra le due sarà stretta e una grande competizione sarà inevitabile.
La stabilità e lo sviluppo interno della Cina sono il presupposto della stabilità e dello sviluppo delle relazioni sino-statunitensi. Se la Cina si occupasse meglio degli affari interni allora le relazioni sino-statunitensi miglioreranno. I dipartimenti pertinenti hanno bisogno di coordinarsi l'un l'altro e mantenere la pace con il governo centrale sulle maggiori problematiche.
Wang Jisiis è il direttore del Centro degli studi Internazionali e Strategici dell'Università di Pechino.