martedì 14 ottobre 2014

Le renze di Renzi

Ritorniamo dopo piu' di 6 mesi di assenza e 8 di governo Renzi. Ecco uno sguardo sulle sue ultime "gesta", piu' che altro sul nulla farcito di bugie spiattellate con una nonchalance da far impallidire lo stesso Berlusconi. 

Vere e proprie renze asfissianti...


Renzi: il segreto del cazzaro
di Daniele Basciu -  http://econommt.com - 14 Ottobre 2014

Abbiamo Renzi che va avanti a ruota libera, con montagne di balle senza contraddittorio, forse perchè spesso i giornalisti non prendono la briga di leggere i documenti ufficiali del Governo, come il DEF.
Ieri ha dichiarato che taglierà le tasse per 18 mld:
La più grande riduzione” mai vista in Italia.
Il segreto del cazzaro è la sicurezza quando si sparano le balle, contro ogni evidenza. Così per lui non è un problema la tabella del DEF da cui risulta che dal 2014 al 2015.

AUMENTERA’ LE TASSE DI 10 MILIARDI COMPLESSIVI !!!

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Ed è incredibile che non ci sia mezzo giornalista che gli rida in faccia, quando le racconta.


Il vero peso delle misure in arrivo 
di Luca Ricolfi - La Stampa - 15 Ottobre 2014

Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista».  
 
Ma in che cosa consiste la manovra? 

Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo.  

Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti.  
 
Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili. 

Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi.  

Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro). 

Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato. 

Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima).  

Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni? 

Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? E’ realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato? 

Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale.  
Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili. 

Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future.  

Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato. 

Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra? 

Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni. 

La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. 

Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo. 

La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati). 

E’ proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato.  

Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.


Renzi: naso lungo, coperta corta. La balla degli sgravi fiscali
di Marco Della Luna - http://marcodellaluna.info - 14 Ottobre 2014

Ieri, 13.10.14, a Bergamo, davanti a un pubblico di Confindustria, Renzi annuncia tagli per 18 miliardi e pari riduzione della pressione fiscale per rilanciare l’economia, vantandosene. 

Questo annuncio è incompatibile con l’ultimo DEF e con la Nota di Aggiornamento, in cui il governo formalmente si vincola, anche nei confronti dell’UE, ad aumentare la pressione fiscale fino al 2017, pure se continuerà la recessione; inoltre vi sono clausole di salvaguardia che faranno scattare aumenti dell’IVA, se necessario a garantire i saldi obbligati di bilancio. Insomma, il governo non può ridurre la pressione fiscale, anzi necessariamente la aumenterà.

Quindi Renzi ieri, a meno che intenda rompere con l’Eurozona, ha mentito pubblicamente. Ingannandoli, ha raccolto il plauso prima degli sprovveduti industriali presenti in sala, e poi dei mass media che stanno al  gioco suo e di chi l’ha messo lì e lo dirige. 

Quand’anche Renzi non avesse gli impegni di bilancio suddetti, non credo che gli sarebbe possibile trovare 18 miliardi senza tagliare trasferimenti alle pubbliche amministrazioni, senza tagliare i servizi ai cittadini o rincararli, senza aumentare altrove la pressione fiscale (penso alle incombenti revisioni catastali e alla solita introduzione di presunzioni di redditi inesistenti), cioè senza rivalersi diversamente sulla gente, come del resto ha fatto per la mancia degli € 80.  

Non è possibile, perché gli apparati dei partiti e la burocrazia vivono mangiando spesa pubblica attraverso sprechi creste, quindi se Renzi cercasse di tagliare spesa pubblica inutile e parassitaria, essi lo silurerebbero.
Ma anche se riuscisse a ridurre le tasse senza colpire in altro modo e cittadini, la cosa non avrebbe l’effetto di rilanciare l’economia nazionale, e ciò per due diverse ragioni, che adesso espongo.
Prima ragione: spostare i soldi non fa ripartire l’economia. E’ come tirare una coperta corta. Bisogna allungare la coperta, per farla ripartire. L’esperienza giapponese (e di altri paesi) descritta e analizzata matematicamente da Richard Werner nei suoi saggi The Princes of the Yen e New Paradigms in Macroeconomics, dimostra che sono senza effetto, ai fini della rilancio dell’economia, tutte le manovre di spostamento di liquidità (dal settore pubblico a quello privato o viceversa, dai consumi agli investimenti o viceversa, dalle imposte dirette a quelle indirette o viceversa). 

L’unica manovra che abbia effetto di rilancio è l’aumento della liquidità nell’economia reale. Ma al contrario noi abbiamo oramai, in Italia, una continua sottrazione della liquidità, per effetto di 

1) trasferimenti netti a UE (diamo all’UE più di quanto di ritorna); 
2) trasferimenti al Meccanismo Europeo di Stabilità (57 miliardi);   
3) fuga di capitali (solo quest’anno, 67 miliardi); 
4) contrazione del credito concesso.  

Quindi la coperta continua ad accorciarsi, riducendo non solo la domanda e gli investimenti, ma la stessa solvibilità dei debiti già contratti, quindi facendo dilagare insolvenze e fallimenti e diffondendo un clima di cupa sfiducia nel futuro. 

Va precisato che questo dissanguamento monetario sistematico non è accidentale – altrimenti sarebbe inspiegabile – bensì viene portato avanti dalle istituzioni nazionali ed europee al fine di costringere l’Italia a svendere i suoi assets e mercati sottocosto a capitali finanziari stranieri, nonché a cedere loro il potere politico sul Paese. 

Si noti che gli oltre 2000 miliardi creati dalla Banca centrale europea e immessi nel sistema bancario dell’eurozona, non hanno prodotto alcun rilancio dell’economia reale, la quale sta rallentando persino in Germania e Finlandia; e questo perché sono andati in impieghi improduttivi, speculativi, e non nell’economia reale. Se Draghi e soci avessero voluto rilanciare l’economia, fare il bene della gente, avrebbero immesso quei soldi nel settore produttivo.
Seconda ragione: Renzi potrebbe ancora dire che i suoi famosi 18 miliardi li sposterà, mediante una dura spending review, da impieghi pubblici aventi basso effetto moltiplicatore sul reddito nazionale – che so, 1,1 – a impieghi privati di famiglie e imprenditori aventi più alto moltiplicatore sul reddito nazionale – che so, 1,3, così che produrranno un aumento del reddito di  5,4 miliardi anziché di 1,8. 

Ma anche questo non può avvenire, perché condizione affinché le famiglie spendano di più anziché mettere da parte, e le imprese investano di più anziché tesaurizzare, è che il quadro complessivo del sistema-paese sia positivo e le aspettative siano pure positive, che ci sia fiducia. 

La famiglia non spende ma risparmia, se teme il futuro; e, se spende, compra prodotti di importazione, meno costosi – quindi quella spesa non aiuta il reddito nazionale ma peggiora la bilancia dei pagamenti. 

L’imprenditore, a sua volta, non investe e non assume, se non prevede una domanda che assorba i suoi prodotti. Il rimedio, allora, sarebbe quindi quello keynesiano: non tagliare la spesa pubblica, ma dirigerla per quanto possibile, anche aumentandola a deficit, in investimenti pubblici utili e ben progettati, infrastrutturali, che, traducendosi direttamente in appalti, inducano assunzione di forza lavoro quindi domanda solvibile, e insieme migliorino l’efficienza e la produttività, quindi la competitività, del sistema paese. 

Ma, nell’Europa del rigore, della crescita e della solidarietà, questo tema è tabù. Intanto, i capitali, le imprese migliori, i tecnici e i ricercatori, i giovani, stanno emigrando in massa, e l’Italia diviene una bara previdenziale-assistenziale, cioè un deposito, forse uno smaltitoio, di pensionati, di disoccupati, di sussidiati, di lavoratori a nero, di immigrati mantenuti. 

Questo processo oramai è consolidato e si alimenta da sé.
Volete una ricetta per un lieto fine di questo articolo? Molto semplice: la BCE emette nuovo denaro e, invece di regalarlo alle banche, lo usa per pagare gli interessi sul debito pubblico dei paesi aderenti, rinunciando a richiedere loro il rimborso, ma con vincolo a destinare le somme così risparmiate per 1/3 a riduzione della pressione fiscale generale e per 2/3 a investimenti infrastrutturali nel senso sopra indicato. 


Manovra, la “pillola avvelenata” si chiama “clausola di salvaguardia”
di Paolo Baroni - La Stampa - 15 Ottobre 2014

Aumenti automatici dell’Iva e delle altre imposte indirette per 12,4 miliardi di euro nel 2016, 17,8 nel 2017 e ben 21,4 nel 2018: ecco cosa si rischia nel caso non venissero rispettati gli obiettivi di medio termine

I piani originari, quelli firmati dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli, mettevano in conto per l’anno prossimo ben 17,2 miliardi di risparmi legati alla revisione della spesa. 

Poi sappiamo come è andata: Cottarelli è stato rispedito al Fondo monetario (ormai è questione di giorni..) e quasi tutti i suoi progetti sono rimasti nei cassetti. Si tratta di ben oltre 20 studi che analizzano settore per settore tutta la spesa pubblica e suggeriscono come procedere e che continuano a restare di fatto segreti (con grande scorno di molti dei curatori). 

Evidentemente si trattava di proposte politicamente difficili da sostenere e mettere in campo anche da parte del premier-rottamatore, per cui è stato azzerato (o congelato) tutto. 

E così è nata la “favola”dei tagli semi-lineari, poi siamo passati alla richiesta di tagliare il 3% ai fondi di tutti i ministeri, e infine siamo approdati ad una sorta di “si farà quel che si può” ridimensionando notevolmente gli obiettivi sino ad un minino “sindacale” di 5 miliardi. Che poi però sono saliti a 8, quindi a 10 ed ora ad almeno 13,3 miliardi. 

Che sommati ad un po’ di tasse in più (sulle slot), ad una quota di recupero dell’evasione e a 11,5 miliardi di maggior deficit consentono al governo di mettere assieme quei 30 miliardi che permetteranno di tagliare l’Irap alle imprese, finanziare il jobs act e la conferma del bonus da 80 euro magari allargandolo un poco. 

Lo scoglio della spending, su cui nelle settimane scorse si sono infrante molte speranze, però resta tutto. L’esperienza di questi mesi insegna infatti che è particolarmente difficile ottenere in così poco tempo, ovvero nel 2015, un intervento di una portata così grande. Il governo vuole provarci e ci auguriamo tutti che riesca nel proprio intento e che riesca a tagliare la spesa più improduttiva sia quest’anno e ancor di più nei prossimi anni. 

Anche perché il Def, in Documento economico finanziario appena approvato dal Parlamento, è vero che sposta al 2017 il pareggio di bilancio, ma ha già al suo interno quello che potremmo chiamare una “poison pills”, una vera e propria pillola avvelenata.  
I tecnici la chiamano “clausola di salvaguardia”, e negli ultimi anni non c’è manovra che non ne preveda una tanto era certa la solidità dei piani che venivano varati. In questo caso, ahinoi, si calca davvero la mano prevedendo aumenti automatici dell’Iva e delle altre imposte indirette per 12,4 miliardi di euro nel 2016, 17,8 nel 2017 e ben 21,4 nel 2018 nel caso non venissero rispettati gli obiettivi di medio termine. Per cui auguriamo che i conti del governo non siano sbagliati, e che la nostra economia riparta davvero, altrimenti saranno veri dolori. 


E' iniziata la grande rivolta della lira
di Ambrose Evans Pritchard - www.telegraph.co.uk - 13 Ottobre 2014

Il più grande partito unico nel parlamento italiano per numero di voti ha gettato il guanto di sfida, chiedendo un referendum sull’ euro per metter fine alla depressione e per salvare la democrazia - scrive Ambrose Evans-Pritchard.

Il dado è tratto in Italia. Il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo ha lanciato una petizione per promuovere il ritiro dell’Italia dall'Unione Monetaria Europea e per il ripristino della sovranità economica.

"Dobbiamo lasciare l'euro il più presto possibile", ha detto Grillo, parlando ad un raduno durante il fine settimana.
"Stasera stiamo lanciando un referendum consultivo. Raccoglieremo mezzo milione di firme in sei mesi - un milione di firme - e porteremo il nostro caso in parlamento, e questa volta, grazie ai nostri 150 parlamentari, dovranno parlare con noi ".

Da quando questo comico battagliero si è imposto sulla scena politica, le élite della zona euro avevano creduto che il partito non fosse, in fondo, euroscettico e comunque che non volesse seriamente ritornare alla lira.
Questa illusione è stata infranta.
Un referendum in sé non sarebbe vincolante, ma una "legge di iniziativa popolare" lo sarebbe sicuramente. Per la prima volta, si è avviato in Italia un processo che imposterà un dibattito nazionale sulla unione monetaria - che potrà spingersi fino a un voto sulla adesione all'UEM - che non potrà essere facilmente controllato.

 

Gianroberto Casaleggio, il co-fondatore del partito e guru dell’economia, mi ha detto oggi che il Movimento Cinque Stelle - o Cinque Stelle - aveva già esposto le proprie richieste a maggio scorso, proponendo la creazione di Eurobond per appoggiare la UEM e l'abolizione del Fiscal Compact imposto dall'UE. "Sono passati cinque mesi e non abbiamo rivevuto nessuna risposta. Ci hanno completamente ignorato" - ha detto.
 

Il Fiscal Compact è una follia economica, significa obbligare l'Italia a dover prevedere enormi avanzi di bilancio per decenni. Così la depressione sarebbe ancora più profonda e spingerebbe il rapporto con il debito ancora più in alto e sarebbe quindi scientificamente controproducente. Saranno gli storici ad emettere un verdetto che condannerà quei mascalzoni che hanno voluto imporre questa atrocità in Europa.
 

La mia opinione è che l'Italia non sarebbe riuscita a ripristinare la redditività all'interno dell'UEM, nemmeno se la Germania avesse accettato le due condizioni (un'idea impossibile). E' già troppo tardi ormai, l'Italia ha perso il 40% di competitività sul costo del lavoro contro la Germania da quando il marco e la lira stabilirono un cambio fisso-perpetuo a metà degli anni 1990.
 

Qualsiasi tentativo di mettere in atto una "svalutazione interna" sullo stile irlandese, in una economia chiusa già in deflazione, sarebbe suicida, e innescherebbe un crollo del sistema bancario italiano con una esplosione dell'indice di indebitamento pubblico e privato. 

Ho il sospetto che Casaleggio abbia un punto di vista simile al mio. "Un quarto dell'industria italiana è scomparsa. La nostra valuta è sopravvalutata e non possiamo fare niente restando dentro l'euro" - ha detto.
La critica dei Cinque Stelle all'UEM non si limita solamente all'economia, benché questo sia un punto di importanza cruciale, ma si rivolge anche alla difesa della sovranità italiana, all'autogoverno, alla democrazia ed è contro gli abusi di un meccanismo comunitario che ha usurpato le funzioni parlamentari.
 

"Io non do via la mia sovranità a nessuno", ha detto Casaleggio.
"Mio nonno ha combattuto tre anni con i partigiani. Se volete la mia sovranità, dovete venirvela a prendere, non basta sventolare una lettera della BCE. Dovete venire ben armati, come come fecero quando ci provarono l'altra volta " - ha detto.
La lettera della BCE - la Lettera, come la chiamano in Italia - fu il diktat segreto inviato al presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi nel mese di agosto 2011 dove si chiedevano drastiche "riforme" di tutti i tipi. Una lettera simile fu inviata al capo della Spagna. Il quid pro quo era l'acquisto delle obbligazioni.
 

La minaccia implicita era che la BCE avrebbe rifiutato di assumersi la sua responsabilità come prestatore di ultima istanza, a meno che Berlusconi non si fosse dimesso. Lui non lo fece, o almeno tentò di non farlo. L'acquisto delle obbligazioni fu bloccato e il rendimento dei titoli italiani a 10 anni schizzò oltre il 7% . Berlusconi fu rovesciato.
 

Ho sempre pensato che queste due lettere sarebbero diventate l'incubo della BCE, e dell'Unione Monetaria stessa, e pare che adesso stiano presentando il conto.
"[Mario] Draghi [il Presidente della BCE] ci ha detto che i governi che non avessero fatto le riforme sarebbero stati buttati fuori. Draghi non è un membro del governo e non so con quale autorità possa esigere queste riforme: non ha il diritto di ordinarci niente né direttamente né indirettamente " - ha detto il signor Casaleggio.
 

Cinque Stelle ha vinto con il 26% dei voti nelle elezioni politiche italiane dello scorso anno, più di ogni altro partito unico. (Non ha preso la maggioranza ufficale, per effetto delle particolari modalità previste dal sistema parlamentare italiano). Ha 108 deputati e 54 senatori.
 

E' vero che il premier Matteo Renzi quest'anno ha rubato la scena a Beppe Grillo, ma Cinque Stelle non è svanita. E' arrivata seconda alle elezioni europee a maggio con il 21.5% dei voti. I suoi 17 deputati siedono con l'UKIP a Strasburgo.
La luna di miele di Renzi è già finita, e in ogni caso ha fatto un errore di valutazione strategica. Il giovane prodigio ha strappato il potere con un colpo di Stato interno al suo partito nel mese di febbraio - con brillantezza tattica, per essere sinceri - basandosi sul presupposto che l'Italia avesse ormai toccato il fondo dopo sei anni di depressione, con una caduta del PIL del 9.1%, del 24% della produzione industriale e con una disoccupazione giovanile al 43%.
 

Aveva creduto al mantra, tanto ben orchestrato, che l'Europa stava sull'orlo di un nuovo ciclo di ripresa spontanea, poggiando sulla crescita mondiale, e si era convinto che tutto quello che doveva fare sarebbe stato solo galleggiare sulla marea che stava salendo. Invece, è sprofondato di nuovo nella crisi.
L'errore di Renzi è comprensibile. Un pio desiderio può convincere, come certe idee sulla ripresa che si affidano a teorie come quella di Irving Fisher - della deflazione del debito - o come quella di Knut Wicksell - la contrazione del debito e l'allineamento dei tassi di interesse possono generare delle spontanee spirali virtuose - oppure la più recente teorie di Michael Woodford, sul tasso di cambio reale .
 

L'Italia è già in una tripla recessione, la sua economia è tornata a livelli di quattordici anni fa. L'OCSE dice che la crisi si trascinerà ancora per gran parte del prossimo anno e che la crescita sarà solo dello 0.1% nel 2015.
 

Ricordiamoci che il governo Monti tre anni fa disse che il rapporto del debito italiano sarebbe arrivato al 115% nel 2014.  In realtà ha raggiunto il 135.6% del PIL nel primo trimestre di quest'anno, con un aumento che si sta avviando al 5% del Pil ogni anno, nonostante una serie di pacchetti di austerità, e un avanzo di bilancio primario del 2.5%. 
Antonio Guglielmi di Mediobanca ha lanciato un monito il mese scorso perché questa situazione è "catastrofica per le finanze del Paese". Il debito schizzerà automaticamente verso 145% il prossimo anno (secondo i vecchi calcoli, e resterà sotto il 140% in base alle nuove norme contabili). 

"Stavolta sta scoppiando una bomba nucleare, se Draghi finisce per non fare quasi niente, l'Italia è morta " - ha detto.
Stavolta non stiamo parlando del
solito difetto morale nell'Italia degli ultimi anni, si tratta di un effetto meccanico, un "effetto denominatore", con un onere del debito che cresce, mentre alla base c'è un PIL nominale che si contrae.
Il punto è molto semplice. Il tasso di interesse medio sul debito pubblico in Italia si aggira intorno al 4%, quindi il pagamento degli interessi costa circa il 5,5% del PIL. A meno che il PIL nominale non cresca alla stessa velocità, il rapporto PIL/debito deve continuare a salire. Qualsiasi riforma strutturale sarebbe senza dubbio auspicabile, se fine a se stessa, ma non avrebbe nulla a che vedere con questo rapporto numerico.
L'attuale crisi italiana è interamente dovuta al fallimento della politica monetaria e al rifiuto della BCE di raggiungere il suo obiettivo di inflazione, o di rispettare i propri obblighi scritti nel Trattato di Lisbona per sostenere la crescita. (E sì, la BCE ha un doppio mandato come prevedono le leggi del trattato UE). 

Quindi in queste circostanze più saranno le riforme drastiche che farà l'Italia, peggiori saranno i risultati immediati. Come tutti sanno gli effetti a breve termine delle riforme portano ad una immediata contrazione (a breve termine).
 
Non sono male i risultati raggiunti in tutte e tre le principali economie dell'UEM: il Fronte Nazionale, in Francia, ha vinto le elezioni europee di maggio chiedendo un ritorno immediato del franco francese; AfD, il partito Anti-euro tedesco si è improvvisamente imposto in tre parlamenti regionali chiedendo un ritorno del marco tedesco; e ora Cinque Stelle vuole un ritorno della lira in un paese che è stato sempre affidabile e con una passione europeista da oltre 60 anni.
 

Qualcosa da pensare ci sarebbe.


Poi non ditemi che non ho teso la mano a Grillo
di Paolo Barnard - http://paolobarnard.info/ - 14 Ottobre 2014

Referendum? Dopo un’eventuale uscita dall’Eurozona, caro Beppe, l’Italia si troverà come un giovane agnello che ha ringhiato ai lupi. Sarà sbranata viva dai Mercati e dalle Tecnocrazie di Bruxelles.

Ma ciò non accadrà se l’Italia si sarà dotata di una squadra di Macroeconomisti internazionali che spaccano un capello in due con uno sguardo. Gente che è stata alla FED USA, o 40 anni dentro Wall Street, e che ha lavorato coi giganti della storia dell’economia al MIT di Boston, a Oxford, a Cambridge, et. al.

Parlo della squadra del più grande esperto di operazioni monetarie statali del mondo, MA RIELABORATE PER L'INTERESSE PUBBLICO, il Dr. Warren Mosler. Sono pronti a essere in Italia a gestire con voi dall’oggi al domani:

La gestione generale dei conti dello Stato nell'Interesse Pubblico. (Banca d’Italia ed emissione di nuova moneta sovrana, tassi interbancari, controllo dei prezzi, REPOS ecc. - Operazioni del Ministero del Tesoro)

Creare subito la Piena Occupazione, nell'Interesse Pubblico. (100% occupati con un +20%  di PIL nazionale stimato in 5 anni, con redditi produttivi assicurati per tutti).

Come saranno gestiti i titoli di Stato nell'Interesse Pubblico. (Banca d’Italia ed emissione di nuova moneta sovrana, controllo tassi sui titoli).

Controllare l'inflazione nell'Interesse Pubblico.

Non ci sarà svalutazione della nuova Lira. (Contano i Real Terms of Trade)

I tassi di cambio nell'Interesse Pubblico.

Il prelievo fiscale del nuovo governo sovrano nell'Interesse Pubblico. (Abolizione totale per due anni del cuneo fiscale et. altro)

Operare un Deficit POSITIVO y on y, all’opposto del nostro Deficit NEGATIVO di oggi.

Raddoppio delle pensioni minime con coperture da Deficit POSITIVI e Real Terms of Trade.

Come regolare import ed export, materie prime e petrolio, nell'Interesse Pubblico.

Aumento FDI (Foreign Direct Investment) in Italia collegato alla Piena Occupazione.

Controllo uso materie prime (finalità green) con indirizzo economico nazionale nel settore servizi alla aziende e alla persona, oggi immensamente sottovalutato.

Rifondare il sistema bancario/finanziario per l'Interesse Pubblico. (Banks’ ops, e rifinancing e capitalizzazione, con relativi bail out senza un centesimo di tasse pubbliche)

La tutela dei risparmi nell'Interesse Pubblico.

Gestire le criticità aziendali, nell'Interesse Pubblico.

Beppe, qui non si scherza. Non si scherza coi Mercati, con Baer, Goldman, Deutsche o Juncker. Non esiste economista italiano schierato con voi che possegga l’esperienza internazionale sufficiente per salvare l’Italia dai mostri di cui sopra, sia fuori che dentro l'euro. 

La squadra del Dr Warren Mosler, sì. (Soft Currency Economics, Mosler Economics, Modern Money Theory)

Beppe sai dove trovarci. Casaleggio volendo.


Banche e derivati: arriva la peggiore catastrofe della storia finanziaria?
di Antonio Tognoli - Il Fatto Quotidiano - 14 Ottobre 2014 

Parliamo di banche e di derivati. Tranquilli non delle nostre, sulle quali pure ci sarebbe da dire, ma di quelle made in Usa e made in Europa. Se c’è qualcosa che la storia possa insegnare è non ripetere gli errori passati. Eppure questa semplice assunzione è sempre più spesso disattesa.

Quando parliamo di banche è meglio farlo con i dati alla mano (sono quelli pubblici dell’Office of the Controller of the Currency – Occ). E i dati ci dicono che il totale dell’attivo delle prime 25 banche Usa a fine giungo 2014 era di 14,1 trilioni di dollari, mentre il valore nozionale dei prodotti derivati in pancia alle stesse ammontava a 302,2 trilioni di dollari. 

Di questi il 58.4% erano contratti swaps e il 16.6% contratti forward, tutti Over The Counter, ovvero contratti che non passano dai listini di nessuna borsa e i cui scambi sono organizzati da alcuni attori del mercato (spesso le banche stesse). In altre parole per ogni dollaro di totale attivo, ce ne sono 21,4 di prodotti derivati. 

Ci si aspetterebbe che dopo la crisi finanziaria iniziata con i subprime che ha investito il mondo intero (ve la ricordate) e tutte le promesse fatte circa la regolamentazione del sistema bancario, la situazione sia migliorata.  

Invece è il contrario, è fortemente peggiorata: i dati al giugno 2006 indicano che l’ammontare del totale dell’attivo delle prime 25 banche made in Usa ammontava a 8,95 trilioni di dollari, mentre il valore nozionale dei contratti derivati era 124,3 trilioni di dollari, vale a dire che per ogni dollaro di attivo ne esistevano 13,9 (contro 21,4 del giugno 2014) di derivati. 

Detto in altri termini, la bomba Lehman Brothers non ha insegnato nulla alle banche made in Usa. Non ci vuole tanto per capire che il rischio complessivo del sistema bancario americano è decisamente maggiore oggi di quanto non lo fosse all’epoca del fallimento di Lehman. 

La volatilità (il rischio) di una perdita in conto capitale dei prodotti derivati è decisamente molto più elevata rispetto a quella media degli altri prodotti finanziari. E lo abbiamo visto nel picco della crisi, quando il valore di mercato di gran parte dei derivati era pari a zero.

Ma voglio essere buono, e immaginare una crisi legata magari a problemi valutari, oppure un cambio delle normative sul mercato dei derivati con una ipotetica imposizione di un limite massimo di esposizione, che scateni una conseguente ondata di vendite di questi strumenti finanziari (si parla di un fenomeno che si può verificare anche in pochi giorni o settimane), oppure una perdita di valore delle attività sottostanti, come per esempio un rialzo dei tassi di interesse dell’1%. Il valore nozionale dei contratti rimarrebbe probabilmente costante, ma cambierebbe significativamente il loro valore di mercato. 

Questo produrrebbe una forte oscillazione nei conti economici delle banche, aumentando la rischiosità complessiva del sistema dovuto ad un aumento dell’incertezza: non essendo a conoscenza di ogni singolo contratto è impossibile sapere chi guadagna e chi perde. Per inciso vi ricordate quando Jp Morgan ha perso 6,22 miliardi di dollari per un “banale errore”. 

E ancora, se una delle prime cinque banche Usa più esposte ai derivati secondo i dati dell’Occ (Jp Morgan, Citigroup, Goldmand Sachs, Bank of America o Morgan Stanley) facesse la fine della Lehman, che cosa succederebbe al sistema finanziario mondiale? Sarebbe la peggiore catastrofe della storia finanziaria.

Spostiamoci in Europa e prendiamo la più grossa banca Europea: Deutsche Bank. L’ammontare dei derivati che si legge nel bilancio 2013 (pag. 101) è di 54,7 trilioni di Euro, che vuol dire 20 volte il Pil tedesco o 5,7 volte il Pil dell’intera Europa. 

E’ vero che stiamo confrontando due grandezze diverse: un dato economico (Pil) con uno finanziario (derivati). Non esiste nessuna tuttavia nessuna crisi economica capace di ridurre dell’80-90% il Pil di un paese (nemmeno in Grecia è successo). 

Ma l’esposizione ai derivati può creare danni di diversi trilioni di euro anche in pochi mesi. E questo solo per una banca tedesca.
Non faccio lo iettatore di mestiere, ma i numeri stanno ad indicare che la possibilità che questo avvenga è sempre più concreta.

martedì 1 aprile 2014

Italia update

Torniamo dopo qualche mese di pausa per rinfrescarci un po' la memoria su cio' che attende il Belpaese nei prossimi mesi e anni...

P.S. Intanto ieri l'Eurogruppo ha ribadito per l'ennesima volta che non ci saranno sconti all'Italia: "Ho fiducia che l’Italia rispetterà gli impegni e farà le riforme per favorire l’occupazione, rispettando allo stesso tempo i vincoli di bilancio europei", ha detto il commissario agli affari monetari Olli Rehn.

E mentre il tasso di disoccupazione nazionale vola al 13%, con quella giovanile (persone tra i 15 e i 24 anni) che raggiunge il picco del 42,3%, Renzi corona il suo sogno di varcare la porta di Downing Street 10. Contento lui...


Ma Renzi lo conosce il Fiscal Compact?
di Thomas Fazi - Sbilanciamoci.info - 1 Aprile 2014 


Il nuovo patto di stabilità elimina anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Lo stesso margine a cui il Presidente del consiglio sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere. Secondo alcuni studi, i nuovi obiettivi equivarranno per l'Italia a oneri per 50 miliardi di euro l’anno


Qualche giorno fa, durante il Consiglio Europeo, Matteo Renzi ha ribadito che “l’Italia rispetterà gli impegni europei”, a partire dal tetto del 3% sul rapporto deficit/Pil, pur definendolo “anacronistico”. 

Allo stesso tempo, avrà probabilmente ripetuto quello che aveva detto pochi giorni prima alla Merkel, ossia che intende sfruttare il più possibile i “margini” che secondo lui offrirebbe il Fiscal Compact (incassando l’approvazione della cancelliera tedesca a quanto pare). 

La logica renziana è quanto segue: poiché si prevede che nel 2014 l’Italia registrerà un rapporto deficit/Pil del 2.6% – dunque al di sotto della soglia del 3% – l’Italia avrebbe “un margine ulteriore di 6 miliardi di euro” (0.4% del Pil) che potrebbe coprire una buona parte dell’annunciato taglio di 10 miliardi del cuneo fiscale. 

La posizione di Renzi sarebbe senz’altro apprezzabile, se non fosse che essa si basa su una lettura molto semplicistica (e fondamentalmente sbagliata) del Fiscal Compact, come pare che la Merkel – pur facendo qualche piccola concessione nel breve termine – gli abbia ricordato. 

Non sappiamo se nella sua immaginazione lo abbia messo dietro una lavagna con finte orecchie da asino, però Merkel ci ha tenuto a precisare che quello che bisogna rispettare non è più tanto Maastricht, ma il nuovo Patto di stabilità, il Fiscal Compact che entra in vigore quest’anno e le cui regole sono state stabilite con i pacchetti di regolamenti two-pack e six-pack, approvati dal Parlamento Europeo. Non sappiamo se Renzi stia facendo il finto tonto oppure effettivamente non conosca bene le norme del Fiscal Compact. 

A sentire Renzi, infatti, sembrerebbe che il problema del rispetto del Fiscal Compact riguardi unicamente il rispetto del vincolo del 3%. Il premier, però, ignora – o fa finta di ignorare – che il Fiscal Compact impone dei vincoli di bilancio molto più stringenti del 3%, già previsto dal Trattato di Maastricht (e successivamente rafforzato dal Patto di stabilità e crescita del 1999).

Come ho spiegato più approfonditamente in un recente articolo, il Fiscal Compact non guarda tanto al deficit nominale (fermo restando l’inviolabilità assoluta del limite del 3%) quanto al cosiddetto “deficit strutturale”.

Ma cosa si intende esattamente per bilancio o deficit strutturale? Quest’ultimo viene calcolato dalla Commissione in base a dei parametri del tutto arbitrari e fortemente ideologici (e fortemente contestati), e ufficialmente serve a stabilire quale sarebbe il deficit di uno stato membro se la sua economia stesse operando al “massimo potenziale”. 

Si tratta in sostanza di un indicatore che dovrebbe permettere alla Commissione di giudicare se il deficit di un paese sia dovuto alla congiuntura economica, nel qual caso potrebbe essere eliminato per mezzo della crescita; o se invece sia “strutturale”, ossia continuerebbe a sussisterebbe anche se il paese riprendesse a crescere e arrivasse ad operare al massimo potenziale. 

La premessa è che in condizioni “normali” un paese dovrebbe avere un bilancio nominale sostanzialmente in pareggio. Facendola semplice, il bilancio strutturale viene calcolato sottraendo al deficit nominale una percentuale imputabile, secondo la Commissione, alla congiuntura economica. Questa differenza viene chiamata “output gap”.

Il Fiscal Compact stabilisce che tutti i paesi devono convergere rapidamente verso il “pareggio di bilancio strutturale”, che varia da paese a paese (in base al loro rapporto debito/Pil e ad altri parametri) secondo una forchetta che va dal -1% del Pil al pareggio o avanzo di bilancio (sempre inteso in senso strutturale, non nominale). Nel caso dell’Italia l’obiettivo è un avanzo strutturale dello 0.2%, da raggiungere entro il 2016.

L’introduzione del concetto di bilancio strutturale nella normativa europea rappresenta molto più di un semplice dettaglio tecnico (peraltro poco compreso); esso stravolge radicalmente le regole di bilancio in vigore finora nell’Ue. 

La Commissione può infatti stabilire, in base a dei parametri del tutto arbitrari, che un paese ha un deficit strutturale – e deve dunque implementare ulteriori misure di austerità – anche se registra un deficit nominale (entrate meno uscite, al lordo degli interessi sul debito pubblico) inferiore al 3%, e dunque in linea con i parametri di Maastricht. 

In questo senso, non è esagerato affermare che il Fiscal Compact elimina definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita. Precisamente quel “margine” a cui Renzi sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere.

Il caso dell’Italia è illuminante. Come si può vedere nella seguente tabella, la Commissione prevede che nel 2014 il deficit nominale del paese scenderà dal 3 al 2.6%, portandoci ampiamente all’interno dei margini previsti da Maastricht.

Previsioni della Commissione Europea per l’Italia, febbraio 2014

Allo stesso tempo, però, la Commissione stima che l’Italia quest’anno registrerà un deficit strutturale dello 0.6% – quindi significativamente superiore all’obiettivo del +0.2% che l’Italia, in base al Fiscal Compact, dovrebbe centrare entro il 2016. 

Da cui si comprende perché la Commissione chiede all’Italia – le previsioni della Commissione vanno sempre intese più come indicazioni politiche che come semplici stime – di ridurre ulteriormente il suo deficit, portandolo al 2.2%, entro il 2015, facendo crescere il suo saldo primario (già uno dei più alti al mondo) dal 2.7 al 3.1% del Pil, per mezzo di un’ulteriore manovra di circa 5 miliardi. Altro che “margine”.

E questo sarebbe solo l’inizio. In base a uno studio realizzato da Giorgio Gattei e Antonino Iero, infatti, gli obiettivi di riduzione del debito previsti dal Fiscal Compact costringerebbero l’Italia a mantenere (per quasi vent’anni!) un avanzo primario non inferiore al 4.5% (pari all’incirca a 50 miliardi di euro l’anno).[1] 

Che è esattamente l’obiettivo di medio termine che Bruxelles si aspetta dall’Italia, secondo fonti interne alla Commissione. E questo ipotizzando delle condizioni economiche future (tasso di crescita, inflazione, ecc.) “al meglio”. Una strada insostenibile non solo da un punto di vista sociale ma anche economico. Come ha scritto Carlo Bastasin sul Sole 24 Ore:

Se si considera il moltiplicatore fiscale si può dire che per effetto di una tale manovra il Pil scenderà di un altro punto percentuale e che quindi nemmeno la manovra aggiuntiva metterà i conti italiani in ordine. I cittadini saranno estenuati dalla dimensione della manovra e indignati per la sua inefficacia. 

A quel punto l'azione del governo sarà politicamente insostenibile. In conclusione: o si cambia strategia nei confronti dell'Italia (Marshall Plan, deroghe su debito e spesa per investimenti, intervento della troika) o l'architettura del Fiscal Compact dovrà essere modificata.[2]

Alla luce di ciò, non si capisce bene quale sia il “margine” a cui fa riferimento Renzi. Il fatto stesso di porre il problema in termini di rispetto o meno del vincolo del 3% non ha senso, poiché nell’epoca del Fiscal Compact la questione non riguarda più lo sforamento o meno del tetto del 3% (che comunque il Patto vieta categoricamente), ma piuttosto il fatto che ormai è stato cancellato anche l’esiguo spazio di manovra previsto dal Trattato di Maastricht

Perché Renzi non lo dice? E anzi continua a parlare come se continuassimo a vivere nell’era pre-Patto? Dobbiamo veramente credere che egli non capisca come funziona il Fiscal Compact? 

O piuttosto le sue dichiarazioni vanno intese come facenti parte di una strategia intesa a rivedere il Fiscal Compact in sede europea, magari contando su una maggioranza socialdemocratica nel Parlamento dopo le elezioni di maggio (per apportare modifiche al two-pack e al six-pack basta il Parlamento europeo).

Se fosse veramente così – e ovviamente ce lo auguriamo – Renzi però dovrebbe dirlo apertamente, coinvolgendo attivamente la società civile italiana ed europea e facendosi promotore di una campagna europea per la ridiscussione del Patto nel suo complesso. Ma questo significherebbe innanzitutto dire agli italiani la verità sul Fiscal Compact. L’esatto opposto di quello che Renzi ha fatto finora.

[1] Giorgio Gattei e Antonino Iero, “L’insostenibile rimborso del debito”, Economia e Politica, 10 marzo 2014.
[2] Carlo Bastasin, “L’Europa cambi linea”, Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2013

Meccanismo Europeo di Stabilità: tutto quello che non vi dicono e che dovreste sapere - 1
di Paolo Becchi - Il Fatto Quotidiano - 1 Aprile 2014

In molti si rincorrono oggi a criticare un Trattato internazionale, il cosiddetto Fiscal compact, che avrà i suoi effetti dirompenti e drammatici per il nostro paese dal prossimo anno. A chiedere la rinegoziazione di un accordo che prevede per il nostro paese l’obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio per Costituzione, quello del non superamento della soglia di deficit strutturale superiore allo 0,5% del Pil e una significativa riduzione del debito pubblico al ritmo di un ventesimo (5%) all’anno, fino al rapporto del 60% sul Pil nell’arco di un ventennio, sono, in modo sorprendente e tragicomico, anche quei partiti che l’hanno ratificato in Parlamento nel luglio del 2012 dietro le direttive dell’allora premier Mario Monti.
 
La campagna elettorale per le elezioni europee di maggio, del resto, è iniziata e il regime del partito unico che governa il paese dall’ex Commissario dell’Unione Europea, Monti, a Renzi, passando per Letta, continua nella sua opera di mistificazione verso una popolazione, della quale non interessa nemmeno più il voto.

Troppo poco, a torto, si sa di un altro Trattato internazionale, quello istitutivo il Meccanismo europeo di stabilità (MES), che, in modo complementare al Fiscal Compact, ha istituito una nuova governance europea per la gestione della crisi.

Il MES ha già prodotto risultati pratici tangibili e enormi. L’Italia, considerando anche il vecchio Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) di cui il Mes è stato l’erede, ha già versato 46 miliardi di euro dei 125 miliardi previsti fino al 2017. Soldi che chiaramente potevano essere utilizzati per rilanciare la nostra economia attraverso quei progetti eternamente sospesi per la mancanza di coperture. Al contrario, il MES ha permesso alle banche del Nord Europa di riprendere i crediti contratti nei paesi del Sud, in default a causa delle asimmettrie economiche insostenibili prodotte dalla moneta unica e emerse in maniera drammatica nel 2010. Il tutto è stato venduto all’opinione pubblica come un Fondo salva Stati. Ma è proprio così? 

Il MES: la natura del Trattato. 
Il meccanismo europeo di stabilità – European Stability Mechanism o ESM – è un Trattato intergovernativo, che, in modo complementare al Fiscal Compact, ha di fatto istituito una nuova governance europea di gestione della crisi, parallela a quella costituita dai Trattati istitutivi dell’Unione Europea.

La creazione del MES è stata decisa nel Consiglio europeo del 16-17 dicembre 2010. In quell’occasione si è raggiunto l’accordo per avviare la procedura di revisione semplificata (ai sensi dell’art. 48 del Trattato dell’Unione Europea) riguardo all’art. 136 del Trattato funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e si è potuto introdurre il nuovo paragrafo 3, con il quale si riconosce in modo esplicito il potere degli Stati membri la cui moneta è l’euro di dar vita ad un’istituzione finanziaria permanente, il MES appunto, con sede a Lussemburgo, non previsto originariamente dai trattati.

Dato che per creare il MES si è modificato appunto il Trattato, bisognava anche consultare il Parlamento, il quale, ahinoi, con una risoluzione tra l’altro velocissima, ha dato il 23 marzo 2011 parere positivo pur sollevando diverse obiezioni. 

Senza tener modo in alcun modo delle critiche del Parlamento europeo e recependo solo alcune modifiche introdotte dal Consiglio, il Trattato è entrato in vigore il 27 settembre 2012, con l’avvenuto deposito da parte di un certo numero di Stati firmatari degli strumenti di ratifica. 

Il MES ha istituito un’organizzazione internazionale permanente con un capitale sociale pari a 700 miliardi di euro, di cui solo 500 prestabili, rinnovabile all’infinito attraverso una decisione dell’istituzione stessa. Decisione della quale, a parte la Germania che l’ha escluso attraverso la sentenza del 12 settembre del 2012 della sua Corte costituzionale, i Parlamenti nazionali non potranno più avere voce in capitolo.

Perché si è deciso di costituire il MES?Per far fronte alla crisi della zona euro che nel 2010 stava portando al collasso della moneta unica, si è deciso di ricorrere ad un accordo di diritto internazionale, con regole proprie che fuoriescono dal sistema normativo comunitario, e creare un ente finanziario che ha come obiettivo quello di correggere gli squilibri finanziari maturati nell’ambito della zona euro. 

La finalità del MES non consiste quindi nel “salvataggio” degli Stati, ma, come ha spiegato molto bene Lidia Undiemi, in una conferenza organizzata alla Camera e come dimostrerà in un suo libro di prossima pubblicazione, nella creazione di una governance politica intergovernativa attraverso la quale potere intervenire tutte le volte che l’instabilità – a monte generata da una crisi della “bilancia dei pagamenti” – mette in discussione la sopravvivenza della moneta unica. Cosa prevede il MES?
 

Sono cinque i punti più importanti del Trattato che devono essere compresi meglio:

– Il MES si baserà su un capitale garantito dagli Stati membri che utilizzerà sui mercati, dai quali attingerà poi le risorse richieste. (art.3 del Trattato istitutivo del MES)


- Il MES “avrà piena personalità giuridica e capacità giuridica”, potrà quindi acquistare e alienare beni immobiliari e mobili o stipulare dei contratti. Tutti i suoi beni, fondi e averi godranno dell’immunità totale da qualunque procedimento giudiziario e saranno esenti da restrizioni, regolamentazioni, controlli e moratorie. (art. 32)


- Per aver accesso all’assistenza del MES, gli Stati dovranno rispettare le regole relative al Patto di stabilità e di crescita, i criteri di convergenza e i Memorandum d’intesa. Prima di ogni erogazione d’aiuti viene fatto firmare un Memorandum. Si tratta di un legame fondamentale e troppo spesso sottovalutato con il cosiddetto Fiscal Compact, che rende i due trattati un unicum politico nella creazione di quella nuova governance europea. (Punto 5 del Preambolo)


- È stata, infine, introdotta una deroga alla regola dell’unanimità e le decisioni più urgenti saranno prese a maggioranza qualificata. (art. 4)


Si tratta di un meccanismo democratico? 
Vista l’importanza che il MES ha assunto e assumerà nella gestione della politica interna dei vari Paesi che hanno chiesto e chiederanno il suo aiuto è anzitutto importante osservare che il MES è costruito con soldi pubblici, ma viene gestito senza mai passare attraverso un organo democraticamente eletto. 

La governance e l’istituzione è infatti tripartita tra il Consiglio dei governatori formato dai ministri delle finanze della zona euro, un Consiglio d’Amministrazione (nominato dal Consiglio dei governatori) e da un Direttore generale, che è responsabile dell’intera organizzazione, nominato a maggioranza qualificata dal Consiglio dei Governatori. 

Il diritto di voto di ogni stato membro non ha eguale valore ma varia al variare della quota versata. È dunque evidente che il MES è saldamente nelle mani dei governi nazionali e poiché la Germania è il maggior contribuente è anche il paese che ha il maggior peso nelle decisioni.

Tre sono i punti che devono essere messi maggiormente sotto i riflettori.

Primo. L’istituzione intergovernativa ed i membri dell’organizzazione – compresi quelli dello staff – sono per Trattato immuni da procedimenti legali in relazione ad atti da essi compiuti nell’esercizio delle loro funzioni (art. 32, punto 1). Gli atti scritti e i documenti ufficiali redatti sono inviolabili: non è previsto alcun meccanismo d’accesso. Persino i locali e gli archivi del MES sono inviolabili. Il direttore generale del MES può revocare l’immunità di qualsiasi membro del personale del MES eccetto se stesso (art. 35). Insomma è intoccabile.

Secondo. L’esperienza dei Paesi dove ha operato effettivamente il MES. I casi di Grecia, Spagna, Portogallo e Cipro ci forniscono già quattro indizi che fanno più di una prova: attraverso il MES, i creditori internazionali della Troika si sostituiscono di fatto nella gestione della “politica economica” del paese debitore. 

Lo Stato che chiede un prestito deve, infatti, sottostare ad una “rigorosa condizionalità” nell’ambito di un programma di aggiustamento macroeconomico e di progressivo rientro del suo debito pubblico. 

Tali condizioni possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite. Il Paese in difficoltà che ha bisogno del prestito deve in poche parole cedere la propria sovranità nella definizione delle scelte di politica economica. Imporre ad una nazione in difficoltà un’agenda economica per soddisfare le richieste di un’istituzione finanziaria, perlopiù deresponsabilizzata grazie all’immunità, è qualcosa che va aldilà di ogni regola democratica.

Terzo. Il MES è infine un’organizzazione che opera concretamente come tutti gli enti finanziari e quindi eroga prestiti, rivolgendosi al mercato con l’obiettivo ultimo di un profitto. I privati – tra cui rientrano finanziatori come Nomura, Goldman Sachs, Merril Lynch e praticamente tutti i principali istituti di investimento mondiali – sono poi ammessi (punto 12 del Preambolo), in qualità di osservatori, a partecipare alle riunioni che hanno ad oggetto la valutazione della concessione del credito al paese richiedente, nonché la definizione delle rigorose prescrizioni da imporre alla nazione “minacciata”. 

Questa ingerenza si traduce nel serio rischio che a dettare le disposizioni di politica economica da applicare nel territorio dello Stato debitore siano coloro che concedono i soldi al fondo. 

La sovranità dei singoli Stati membri rischia quindi di essere sostituita da una governance economica privata in grado di imporsi facilmente sugli organi sovrani dei vari Paesi membri.

sabato 23 novembre 2013

Bye bye Italia...


Mentre si continua a cianciare di stabilità, seconda rata Imu, decadenza, primarie e altre "amenità" del genere, forse è il caso di cominciare a guardare in faccia il futuro e prepararsi...

 

 

Allarme della London School of Economics: “Non rimarrà nulla dell'Italia”

Affari Italiani - 17 Ottobre 2013

Nel giro di 10 anni del nostro Paese non rimarrà più nulla. O quasi. E' la conclusione catastrofica cui giunge nella sua analisi il professore Roberto Orsi della London School of Economics and Political Science (LSE). 

Che cosa ci sta portando alla dissoluzione e all'irrilevanza economica? Una classe politica miope che non sa fare altro che aumentare le tasse in nome della stabilità. Monti ha fatto così. 

E Letta sta seguendo l'esempio. Il tutto unito a una "terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa".


L'ANALISI DI ORSI

“Gli storici del futuro probabilmente guarderanno all’Italia come un caso perfetto di un Paese che è riuscito a passare da una condizione di nazione prospera e leader industriale in soli vent’anni in una condizione di desertificazione economica, di incapacità di gestione demografica, di rampate terzomondializzazione, di caduta verticale della produzione culturale e di un completo caos politico istituzionale. 

Lo scenario di un serio crollo delle finanze dello Stato italiano sta crescendo, con i ricavi dalla tassazione diretta diminuiti del 7% in luglio, un rapporto deficit/Pil maggiore del 3% e un debito pubblico ben al di sopra del 130%. Peggiorerà.
 
Il governo sa perfettamente che la situazione è insostenibile, ma per il momento è in grado soltanto di ricorrere ad un aumento estremamente miope dell’IVA (un incredibile 22%!), che deprime ulteriormente i consumi, e a vacui proclami circa la necessità di spostare il carico fiscale dal lavoro e dalle imprese alle rendite finanziarie. Le probabilità che questo accada sono essenzialmente trascurabili. 

Per tutta l’estate, i leader politici italiani e la stampa mainstream hanno martellato la popolazione con messaggi di una ripresa imminente. In effetti, non è impossibile per un’economia che ha perso circa l’8 % del suo PIL avere uno o più trimestri in territorio positivo.  

Chiamare un (forse) +0,3% di aumento annuo “ripresa” è una distorsione semantica, considerando il disastro economico degli ultimi cinque anni. Più corretto sarebbe parlare di una transizione da una grave recessione a una sorta di stagnazione.

Il 15% del settore manifatturiero in Italia, prima della crisi il più grande in Europa dopo la Germania, è stato distrutto e circa 32.000 aziende sono scomparse. 

Questo dato da solo dimostra l’immensa quantità di danni irreparabili che il Paese subisce. Questa situazione ha le sue radici nella cultura politica enormemente degradata dell’élite del Paese, che, negli ultimi decenni, ha negoziato e firmato numerosi accordi e trattati internazionali, senza mai considerare il reale interesse economico del Paese e senza alcuna pianificazione significativa del futuro della nazione. L’Italia non avrebbe potuto affrontare l’ultima ondata di globalizzazione in condizioni peggiori.

La leadership del Paese non ha mai riconosciuto che l’apertura indiscriminata di prodotti industriali a basso costo dell’Asia avrebbe distrutto industrie una volta leader in Italia negli stessi settori. Ha firmato i trattati sull’Euro promettendo ai partner europei riforme mai attuate, ma impegnandosi in politiche di austerità. 

Ha firmato il regolamento di Dublino sui confini dell’UE sapendo perfettamente che l’Italia non è neanche lontanamente in grado (come dimostra il continuo afflusso di immigrati clandestini a Lampedusa e gli inevitabili incidenti mortali) di pattugliare e proteggere i suoi confini. 

Di conseguenza , l’Italia si è rinchiusa in una rete di strutture giuridiche che rendono la scomparsa completa della nazione certa.
 
L’Italia ha attualmente il livello di tassazione sulle imprese più alto dell’UE e uno dei più alti al mondo. Questo insieme a un mix fatale di terribile gestione finanziaria, infrastrutture inadeguate, corruzione onnipresente, burocrazia inefficiente, il sistema di giustizia più lento e inaffidabile d’Europa, sta spingendo tutti gli imprenditori fuori dal Paese. 

Non solo verso destinazioni che offrono lavoratori a basso costo, come in Oriente o in Asia meridionale: un grande flusso di aziende italiane si riversa nella vicina Svizzera e in Austria dove, nonostante i costi relativamente elevati di lavoro, le aziende troveranno un vero e proprio Stato a collaborare con loro, anziché a sabotarli. 

A un recente evento organizzato dalla città svizzera di Chiasso per illustrare le opportunità di investimento nel Canton Ticino hanno partecipato ben 250 imprenditori italiani.

La scomparsa dell’Italia in quanto nazione industriale si riflette anche nel livello senza precedenti di fuga di cervelli con decine di migliaia di giovani ricercatori, scienziati, tecnici che emigrano in Germania, Francia, Gran Bretagna, Scandinavia, così come in Nord America e Asia orientale. 

Coloro che producono valore, insieme alla maggior parte delle persone istruite è in partenza, pensa di andar via, o vorrebbe emigrare. L’Italia è diventato un luogo di saccheggio demografico per gli altri Paesi più organizzati che hanno l’opportunità di attrarre facilmente lavoratori altamente, addestrati a spese dello Stato italiano, offrendo loro prospettive economiche ragionevoli che non potranno mai avere in Italia.

L’Italia è entrata in un periodo di anomalia costituzionale. Perché i politici di partito hanno portato il Paese ad un quasi – collasso nel 2011, un evento che avrebbe avuto gravi conseguenze a livello globale. 

Il Paese è stato essenzialmente governato da tecnocrati provenienti dall’ufficio del Presidente Repubblica, i burocrati di diversi ministeri chiave e la Banca d’Italia. Il loro compito è quello di garantire la stabilità in Italia nei confronti dell’UE e dei mercati finanziari a qualsiasi costo. 

Questo è stato finora raggiunto emarginando sia i partiti politici sia il Parlamento a livelli senza precedenti, e con un interventismo onnipresente e costituzionalmente discutibile del Presidente della Repubblica, che ha esteso i suoi poteri ben oltre i confini dell’ordine repubblicano. 

L’interventismo del Presidente è particolarmente evidente nella creazione del governo Monti e del governo Letta, che sono entrambi espressione diretta del Quirinale.
L’illusione ormai diffusa, che molti italiani coltivano, è credere che il Presidente, la Banca d’Italia e la burocrazia sappiano come salvare il Paese. Saranno amaramente delusi.  

L’attuale leadership non ha la capacità, e forse neppure l’intenzione, di salvare il Paese dalla rovina. Sarebbe facile sostenere che Monti ha aggravato la già grave recessione. 

Letta sta seguendo esattamente lo stesso percorso: tutto deve essere sacrificato in nome della stabilità. I tecnocrati condividono le stesse origini culturali dei partiti politici e, in simbiosi con loro, sono riusciti ad elevarsi alle loro posizioni attuali: è quindi inutile pensare che otterranno risultati migliori, dal momento che non sono neppure in grado di avere una visione a lungo termine per il Paese. Sono in realtà i garanti della scomparsa dell’Italia.

In conclusione, la rapidità del declino è davvero mozzafiato. Continuando su questa strada, in meno di una generazione non rimarrà nulla dell’Italia nazione industriale moderna. Entro un altro decennio, o giù di lì, intere regioni, come la Sardegna o Liguria, saranno così demograficamente compromesse che non potranno mai più recuperare.

I fondatori dello Stato italiano 152 anni fa avevano combattuto, addirittura fino alla morte, per portare l’Italia a quella posizione centrale di potenza culturale ed economica all’interno del mondo occidentale, che il Paese aveva occupato solo nel tardo Medio Evo e nel Rinascimento. 

Quel progetto ora è fallito, insieme con l’idea di avere una qualche ambizione politica significativa e il messianico (inutile) intento universalista di salvare il mondo, anche a spese della propria comunità. A meno di un miracolo, possono volerci secoli per ricostruire l’Italia.”