lunedì 30 novembre 2009

Cose pazze dal mondo

Un collage di articoli sull'impazzimento che regna sovrano nel mondo.


Obama, sì alle mine antiuomo
di Michele Paris - Altrenotizie - 27 Novembre 2009

A meno di due settimane dalla cerimonia ufficiale per la consegna del Premio Nobel per la Pace, Barack Obama e la sua amministrazione hanno annunciato che gli Stati Uniti continueranno ad abbracciare la politica di George W. Bush sulla proliferazione delle mine anti-uomo, rifiutando di firmare il trattato internazionale che ne sancisce il bando.

La persistente mancata adesione da parte degli USA ad un trattato sottoscritto ormai da 156 paesi, tra cui tutti gli altri membri della NATO, non fa altro che alimentare la frustrazione di buona parte degli elettori americani che in questi primi mesi della presidenza Obama, nonostante alcuni innegabili progressi, hanno visto ribaditi puntualmente non pochi metodi ed eccessi che avevano caratterizzato i due sciagurati mandati del suo predecessore.

La decisione di non firmare il cosiddetto Trattato di Ottawa è stata resa nota nel corso del briefing quotidiano al Dipartimento di Stato dal portavoce Ian Kelly, il quale ha spiegato che al termine di una revisione della propria politica, il governo degli Stati Uniti ha deciso non apportare modifiche in questo ambito alla strategia delineata dalla precedente amministrazione.

Secondo Washington, la firma del trattato sulle mine anti-uomo non sarebbe compatibile con le esigenze della sicurezza nazionale americana e dei suoi alleati. Successivamente, il ministero degli Esteri USA ha chiarito che il processo di revisione sull’utilizzo delle mine è in realtà tuttora in corso, ma che in ogni caso il suo esito finale non porterà alla ratifica del trattato.

L’annuncio dell’invio per la prima volta di osservatori americani alla conferenza sulla revisione del trattato entrato in vigore nel 1999, che si terrà a Cartagena, in Colombia, dal 29 novembre al 4 dicembre prossimo, non ha placato le proteste delle organizzazioni umanitarie, né di alcuni parlamentari democratici.

I più duri critici della decisione americana sono stati il senatore Patrick Leahy e il deputato Jim McGovern, entrambi tra i principali sostenitori del trattato al Congresso, i quali non hanno usato mezze misure per definire l’atteggiamento del loro governo un “errore” e un “insulto” nei confronti della comunità internazionale.

La posizione dell’amministrazione Obama sul bando di ordigni che fanno migliaia di vittime ogni anno - molte delle quali bambini - rappresenta anche una vittoria del Pentagono e dell’establishment militare americano, tradizionalmente ostile al trattato. La vicenda dimostra inoltre quanto negli USA rimanga estremamente diffuso il senso di diffidenza nei confronti dei trattati internazionali, visti come una limitazione alla libertà di azione americana sullo scacchiere mondiale.

Alle richieste dei vertici militari, Obama d’altra parte sta cedendo in maniera evidente in queste settimane anche su una delle questioni più delicate all’ordine del giorno. A dispetto della crescente avversione degli americani per il conflitto in Afghanistan, l’amministrazione democratica continua infatti a definirlo come una “guerra giusta” o “di necessità” e si appresta ad inviare altri 30.000 uomini a partire dal prossimo anno, rischiando una ulteriore destabilizzazione di un paese già completamente nel caos.

Se l’escalation militare in Afghanistan era quanto meno già contenuta nel programma elettorale dell’allora candidato democratico alla presidenza, su molti altri temi si è di fatto assistito ad una vera e propria sconfessione delle promesse di cambiamento.

A dispetto della retorica di Obama sul multilateralismo, il ristabilimento della cooperazione internazionale o l’inversione di rotta rispetto ai metodi autoritari promossi nella lotta al terrorismo dal duo Bush-Cheney, in molti casi i miglioramenti sono risultati, nella migliore delle ipotesi, impercettibili.

La realtà con cui Obama una volta alla Casa Bianca si è scontrato è sembrata essere insomma quella di un sistema di potere consolidato che si estende ben al di là di un’amministrazione repubblicana ormai delegittimata agli occhi di gran parte dei cittadini americani.

Malgrado la schiacciante vittoria elettorale sul rivale John McCain e l’ampia maggioranza democratica nei due rami del Congresso, Obama nel primo anno da presidente non ha saputo o voluto allontanarsi completamente dalla direzione intrapresa dagli Stati Uniti negli ultimi otto anni, sebbene il mandato popolare meritatamente conquistato nel novembre del 2008 avesse suggerito precisamente una svolta chiara e inequivocabile.

A partire dal suo insediamento alla Casa Bianca è iniziato allora un percorso accidentato, lungo il quale Obama da un lato ha lanciato segnali formalmente importanti, sia pure talvolta troppo timidi nella sostanza, come la chiusura del carcere di Guantánamo, il dialogo con i paesi rivali, la riforma di un sistema sanitario immorale e di un settore finanziario fuori controllo, così come la recentissima promessa di impegnare il proprio paese nella lotta al cambiamento climatico; dall’altro, in molti casi si è ritrovato a ricalcare le impronte lasciate dalla disprezzata amministrazione Bush.

Sul fronte dell’America Latina, ad esempio, i segnali incoraggianti dei primi tempi sono svaniti da qualche mese a questa parte. L’improvviso avallamento del golpe in Honduras ai danni del legittimo presidente, Manuel Zelaya, con l’annuncio del riconoscimento delle elezioni nonostante il mancato reinsediamento di quest’ultimo, rischiano di compromettere la cooperazione promessa con gli altri paesi sudamericani.

Allo stesso modo, la firma di un accordo con il governo di Álvaro Uribe lo scorso mese di ottobre per ottenere l’accesso a sette basi militari in Colombia minaccia la stabilità e la pace dell’intero continente.

Alle parole di disgelo pronunciate da Obama nei confronti di Cuba e la cancellazione di alcune restrizioni relative ai viaggi e all’invio di rimesse in denaro verso l’isola, poi, ha fatto seguito la firma sul prolungamento dell’embargo per un altro anno, a dispetto del voto di condanna quasi unanime dell’ONU per il diciottesimo anno consecutivo.

Così, sotto la spinta dei parlamentari anti-castristi, i passi avanti promessi verso la normalizzazione dei rapporti con L’Avana si sono risolti per ora in un nulla di fatto. E mentre Obama annuncia di attendere "segnali" da L'Avana, quelli che invia da Washington sono pessimi.

Lo sconforto dei sostenitori di Obama, soprattutto liberal e indipendenti, ha raggiunto però il culmine sulle questioni interne più delicate e sullo smantellamento della condotta antidemocratica dell’amministrazione Bush nella guerra globale al terrorismo.

In questi ambiti infatti, sono stati quasi subito messi da parte, tra gli altri, gli impegni per la creazione di un sistema sanitario universale pubblico e per il controllo governativo sulle istituzioni finanziarie responsabili della crisi economica.

Ugualmente, si è continuato a impiegare quei procedimenti dalla legalità quanto meno dubbia e tanto cari alla precedente amministrazione, come la detenzione indefinita per i sospettati di terrorismo o il trasferimento segreto di essi verso paesi terzi.

A nemmeno un anno dall’inizio della sua presidenza, Obama dispone teoricamente di tutto il tempo necessario per dare un’impronta di cambiamento al suo mandato. D’altro canto, tuttavia, le incertezze e i compromessi di questi primi mesi non prefigurano progressi sostanziali per l’immediato futuro.

Soprattutto alla luce del fatto che il semplice avvicendamento alla guida del paese non sembra aver scalfito minimamente il sistema di potere americano né aver mutato gli interessi strategici di Washington su scala mondiale.


Impossibile ormai portare democrazia in Afghanistan. Si resta per l'unità della Nato
di Massimo Fini - www.massimofini.it - 29 Novembre 2009

Gli americani manderanno altri 30mila soldati in Afghanistan. Agli alleati europei ne sono stati richiesti 5.000. L’Italia, "usa a servir tacendo", ha ha promessi 500. Già queste cifre, che vanno sommate agli 80mila uomini attualmente in Afghanistan, dicono che c’è qualcosa che non quadra.

Che ci sia bisogno di un esercito di 120-130 mila soldati, armati con i mezzi più sofisticati, per battere quello che dovrebbe essere un manipolo di terroristi non è credibile. E infatti in Afghanistan noi non stiamo facendo la guerra alla mitica Al Quaeda (che secondo il pm Armando Spataro, che da anni si occupa di terrorismo internazionale, non esiste più come organizzazione), stiamo facendo la guerra agli afgani.

Nè vi stiamo portando la democrazia, obiettivo cui ormai abbiamo rinunciato da tempo, perché la struttura sociale di quel Paese organizzato in clan tribali secondo divisioni etniche, non permette l’esistenza di una democrazia come la si intende in Occidente.

Che la lotta al terrorismo e il "sogno" di esportare la democrazia non siano più gli obiettivi della presenza occidentale in Afghanistan lo ammette anche uno dei commentatori più filo americano, Franco Venturini in un articolo del Corriere.

Perché restiamo in Afghanistan lo spiega lo stesso Venturini: gli Stati Uniti, dopo aver commesso l’errore di entrare in quel Paese, non possono uscirne senza aver almeno dato, l’impressione di aver ottenuto qualche risultato, pena "perdere la faccia", i loro alleati non possono perdere il prestigio che riverbera su di loro dell’essere impegnati col Paese più potente del mondo.

E così per ragioni di "faccia" e di "prestigio" continuiamo ad ammazzare, a migliaia, e decine di migliaia, uomini, donne, vecchi e bambini, ogni giorno (le notizie sulle morti in Afghanistan vengono pubblicate dai nostri giornali solo quando è coinvolto qualche italiano). Gente che vive a 5000 chilometri di distanza, che non ci ha fatto nulla di male e che mai che ne farebbe se non pretendessimo di stargli sulla testa.

Per la verità una ragione seria, anche se sottaciuta, per restare in Afghanistan almeno gli americani che l’hanno. Perché se la Nato perde in Afghanistan si sfalda. Ma quello che è peggio per gli americani sarebbe sicuramente un grave danno, non è detto che non sia invece un vantaggio per europei.

La Nato è stata, ed è infatti, lo strumento con cui gli americani tengono da più di mezzo secolo l’Europa in uno stato di sudditanza, militare, politica, economica e alla fine, anche culturale. Forse è venuta l’ora, per l’Europa, di liberarsi dell’ingombrante "amico americano". E l’Afghanistan potrebbe essere l’occasione buona.

Questa la questione afgana vista con i nostri occhi. Ma cerchiamo di vederla anche, per una volta, con quelli afgani. L’occupazione occidentale è stata molto più devastante di quella sovietica. Perché i russi si limitarono ad occupare quel Paese ma non pretesero di cambiarne le strutture sociali, istituzionali, di "conquistare i cuori e le menti" degli afgani. Noi invece, con la tremenda e sanguinaria presunzione delle "buone intenzioni", abbiamo preteso di portarvi la "civiltà". La nostra. Distruggendo quella altrui.

Ha detto Ashraf Ghani, il più occidentalizzante dei candidati alle recenti elezioni: "Nel 2001 eravamo poveri, ma avevamo la nostra moralità. I miliardi di dollari che hanno inondato il Paese ci hanno tolto l’integrità, la fiducia l’uno nell’altro". In realtà la sola cosa che siamo riusciti a esportare in Afghanistan è il nostro marciume morale.


Dubai: lasciamoli fallire, se lo meritano
di Luca Ciarrocca* - www.wallstreetitalia.com - 27 Novembre 2009

Non ci dispiace affatto se gli speculatori di mezzo mondo (da Bill Clinton a Naomi Campbell a Beckham) hanno "preso un bagno" comprando grattacieli nel deserto che oggi valgono la meta'. Ma attenzione: e' il peggior crack dopo l'Argentina.

Stavamo a fatica uscendo dalla Grande Recessione mondiale del 2008-2009 ed ecco che la sorpresa arriva proprio dai veri ricchi, quegli arabi che i soldi dovrebbero averli davvero, col greggio che si ritrovano sotto la sabbia (anche se Dubai non ha petrolio). Ma come, se fanno crack gli sceicchi, allora che succedera' a noi poveri mortali?

Otto anni fa l'Argentina fece un default da 95 miliardi di dollari ma il mondo era diverso e meno pericoloso, si viveva in un'era moderatamente avida, prima delle bolle comandate e accettate. Il crack di Dubai e' in verita' una goccia di indebitamento nell'oceano dei trilioni della finanza mondiale.

Quella monarchia ha un "buffo" complessivo di 80 miliardi di dollari, inferiore alla somma che noi cittadini italiani collettivamente paghiamo ogni anno al Governo solo in interessi (il debito pubblico dell'Italia nel 2009 e' salito di 90 miliardi a 1.750 miliardi di euro).

Dubai pero' ci ha ricordato all'improvviso che sul mercato ci sono tante altre situazioni esplosive nascoste mentre l'establishment politico e le banche centrali ci ingannano tutti i giorni cercando di far finta di nulla, minimizzando, spargendo ottimismo e alimentando il sistema con le vecchie droghe di sempre. Lehman Brothers, Bear Stearns o Dubai, in effetti pari sono.

Mica e' questione di nomi, di banche, stati, mega-aziende decotte che falliranno anche in futuro. Ce ne saranno molte altre di bancarotte nel 2010 e oltre, perche' il capitalismo mondiale (che noi rispettiamo e di cui viviamo, chiamandoci Wall Street Italia...) e' affetto ormai da un virus pericoloso che muta di continuo e non si capisce dove vada a parare.

Nonostante la crisi paurosa dell'anno scorso, con il mega salvataggio globale che ha evitato il collasso sistemico un minuto prima che avvenisse (il 10 ottobre 2008) il capitalismo e' identico a prima, non e' stato riformato, le banche sono le medesime, i poteri pure, gli attori hanno gli stessi posti sul palcoscenico. Che stavolta sia la finanza islamica a tracollare nella Penisola Arabica e' irrilevante, se domani facesse crack lo Ior del Vaticano sarebbe lo stesso.

Comunque diciamola tutta: noi di WSI siamo di fatto contenti del default di Dubai World, la holding d'investimento dell'Emirato (purche' non tocchi i nostri portafogli e non abbia il temuto "effetto domino").

Cosa ce ne puo' importare infatti, di un paese (una monarchia medievale, 87 chilometri quadrati, popolazione inferiore a quella di Roma) che in un raptus prolungato da manie di grandezza ha speso decine di miliardi per costruire inutili isole finte a forma di palma, campi da sci con neve fasulla in una bolla di vetro nel deserto (dove gli sceicchi sciano in tunica), alberghi di stralusso a 7 stelle, metropolitane senza passeggeri, eccetera eccetera? Nulla, non ce ne importa proprio nulla.

Noi la pensiamo cosi: che se la cavino da soli ad uscire dal loro guaio finanziario, questi arabi. E le banche che gli hanno prestato impunemente soldi sulla base di business model falsi e pretenziosi, s'arrangino e facciano semmai crack anche esse.

Insomma e' venuto il momento di rivendicare la sana pratica del fallimento in larga scala come avveniva un tempo e come oggi provano sulle loro spalle solo le piccole imprese e gli individui. Ma dobbiamo davvero buttare la ciambella a tutti i peggiori speculatori mondiali mentre noi comuni cittadini sfacchiniamo per far quadrare i conti?

Ma che affoghino e crepino! Questo signor sceicco, certamente educato ad Oxford e con MBA negli Stati Uniti, Sheikh Mohammed Bin Rashid al-Maktoum, se ne faccia una ragione e dica addio alla sua posizione nella parte alta della classifica Forbes dei miliardari. Cartellino rosso, espulso! Tutt'al piu', se proprio ci tiene, che si faccia organizzare un bel salvataggio ad hoc dai vicini di duna, i colleghi principi e sceicchi di Abu Dhabi, capitale confinante degli Emirati Arabi Uniti.

(Tra parentesi: non ci interessa assolutamente nulla nemmeno di questi bond Islamici conosciuti come "sukuks" e sui quali non si dovrebbero pagare interessi perche' il pagamento degli interessi e' vietato da Allah; tra l'altro perche' mai fare default, tanto gli interessi non li pagano in ogni caso? E dato che ci siamo, per quale motivo Dubai World e' anche azionista di un casino' di Las Vegas come MGM Mirage? Cronache da Dolce Vita in stile islamico: morigeratezza solo di facciata).

E' altamente improbabile comunque che il caso Dubai metta a repentaglio l'economia mondiale o le borse. Ci pensera' la grande Wall Street (ieri chiusa per Thanksgiving e oggi semi-aperta) a ristabilire le misure ridando le dovute proporzioni al "buco". Per cui: lasciamoli pure fallire senza preoccupazioni.

Lasciamoli nelle peste con le loro cattedrali nel deserto senz'anima ne' cultura. Che si tengano le sedi lussuose in vetro-cemento per banche e finanzierie come gusci vuoti.

Lasciamoli crogiolare con gli sfiniti marchi del lusso venduti in mall all'americana dai pavimenti marmorei, specchi e ori ovunque. Lasciamoli con le gru ferme e i cantieri bloccati. Gia', un bel patatrack da $40, 59 o anche 80 miliardi di dollari. Sono comunque bruscolini se pensate che sul valutario si scambiano ogni giorno 4 trilioni di dollari alla velocita' di un blip sullo schermo dei computer. Ogni giorno.

Non molti di voi saranno dispiaciuti perche' l'appartamento comprato dagli speculatori all'Albergo della Vela o la villa a Palm Jumeirah hanno perso il 50% del valore nei 2 anni dall'acquisto.

David Beckham, il presidente dell'Afghanistan Hamid Karzai, oligarchi russi, indiani e iraniani, Naomi Campbell e Bill Clinton, Brad Pitt e Denzel Washington, e centinaia di altri arricchiti planetari: benvenuti, vi presentiamo le dure repliche della storia e le mini-implosioni del capitalismo.

Wall Street Italia fu tra i primi ad accorgersi della crisi in Dubai esattamente un anno fa, l'articolo raccontava di Mercedes e Bmw abbandonate all'aeroporto da bancarottieri in fuga dall'Emirato.

Folklore ormai noto a chi segue i mercati finanziari con disincanto e senza indulgere al tifo da curva sud (comunque non pubblichiamo i nomi degli italiani che hanno investito in Dubai per non scatenare la caccia, tanto lo fara' qualcun altro tra quelli che scoprono tutto 1 minuto dopo che il fatto e' accaduto, gente che sa il prezzo di ogni cosa senza conoscere il valore di nulla).

Detto questo, a parte le simpatie o antipatie per l'Emirato e i suoi confinanti, bisogna stare davvero con gli occhi ben aperti, per chi investe istituzionalmente sui mercati: non sono tempi per vedove ed orfani, questi. Attenti all'effetto domino. Attenti a chi specula al ribasso. Attenti ai colpi di coda delle mafie finanziarie perdenti e all'arroganza miope di quelle vincenti.

Attenti perche' la subdola politica di chi guida i mercati finanziari globali (governi, banche, banche centrali, multinazionali) facendo passare le economie da una bolla ad un crack ad un'altra bolla ad un altro crack, con l'1% della popolazione che si arricchisce in tutti i cicli e il 99% che invece ci rimette le penne senza capir nulla, questa politica, stradominante nell'ultimo decennio, continuera'. A oltranza.

Dubai e' un inconveniente sgradevole, uno starnuto. Ma con i tassi bassi oggi come lo erano alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con il denaro che non vale la carta su cui e' stampato, con i maggiori istituti di credito mondiali indebitati per oltre 5 trilioni di dollari, in questo scenario speculazioni colossali sono in corso sempre, tutti i giorni, proprio adesso mentre leggete queste righe.

Pensate che alcuni grandi fondi americani d'investimento offrono un rendimento effettivo sul capitale depositato dello 0.01% annuo. Di questo passo ad un investitore servirebbero 6.932 anni per raddoppiare la cifra iniziale.

La finanza e' ridotta a questo? Il peggio, se ne deduce, deve ancora arrivare. Nuove bolle sono in vista. L'avidita' di pochi avra' conseguenze imprevedibili per tutti finche' qualcuno (che goda di credibilita', e saranno un paio...) non chiedera' agli altri di sedersi attorno a un tavolo per trovare una soluzione globale e condivisa. Non succedera' tanto presto, voi che dite?

*(direttore e fondatore di Wall Street Italia)


Vaticano sotto accusa "Ostacolò il rapporto sulla pedofilia"
da repubblica - 27 -Novembre 2009

Il Vaticano ignorò la commissione d'inchiesta sugli abusi pedofili da parte di sacerdoti nell'arcidiocesi di Dublino e sulla loro gestione da parte dei vertici della Chiesa locale. E' la denuncia contenuta nel rapporto della commissione presentato ieri e citato dall'emittente inglese Bbc, che nel 2007 aveva trasmesso un reportage shock sulle violenze sessuali dei preti irlandesi.

La commissione guidata dal magistrato Yvonne Murphy chiese nel 2006 dettagli dei rapporti sugli abusi inviati alla Santa Sede dall'arcidiocesi di Dublino. Ma il Vaticano, secondo il rapporto... non rispose, limitandosi a comunicare al ministero degli Esteri irlandese che "la richiesta non era andata attraverso gli appropriati canali diplomatici". La commissione ha sottolineato però che era indipendente dal governo e quindi non aveva ritenuto opportuno usare canali diplomatici.

Fu anche ignorata, secondo la Bbc, una richiesta di informazioni avanzata al nunzio apostolico a Dublino nel febbraio 2007, in cui la commissione chiedeva tutti i documenti rilevanti (gli abusi e la loro gestione toccati dall'inchiesta vanno dal 1975 al 2004) in suo possesso. Non ci fu risposta neanche alla richiesta di commento al rapporto, parte del quale fu inviato al Nunzio, visto che menzionavano il suo ufficio.

L'Irish Times cita oggi un portavoce della Santa Sede, per il quale "si tratta di una questione che riguarda la chiesa locale". Il responsabile attuale dell'arcidiocesi di Dublino, Diarmuid Martin, ha ieri espresso "dolore e vergogna" per la vicenda degli abusi e per come furono coperti dai vertici della chiesa cattolica di Dublino, offrendo le sue "scuse" alle centinaia di vittime delle violenze.

Anche in Italia il caso era esploso dopo la messa in onda del documentario dell'emittente inglese Sex crimes and the Vatican durante una puntata di Annozero su Raidue (e pubblicato su Pressante 8 mesi prima, qui). Il video racconta di 100 bambini e bambine abusati da 26 sacerdoti che il giornalista della Bbc sostiene siano stati coperti dal Vaticano, dalla Chiesa di Roma e dall'allora cardinale Ratzinger, a capo della Congregazione della Dottrina della Fede.


Il razzismo in salsa svizzera
di Emanuela Pessina - Altrenotizie - 28 Novembre 2009

Una donna velata da un burqa nero, di cui si intravede solo uno sguardo minaccioso, con dei minareti, rappresentati come missili scuri, che proiettano le loro ombre su una bandiera svizzera stesa. È questa l'immagine scelta dalla destra nazional-conservatrice svizzera (SVP) per la campagna anti-minareti promossa in vista del referendum del 29 novembre, e la polemica è già alle stelle.

Il razzismo espresso dai manifesti della SVP va a coronare una situazione di per sè già tesa: il referendum di domenica potrebbe vietare per legge la costruzione di nuovi minareti su suolo elvetico e ciò costituirebbe, per molti, un’offesa alla libertà con la “elle” maiuscola.

L'iniziativa è stata lanciata nel maggio 2007 da alcuni confederati di destra contrari alla costruzione di tre minareti in altrettante località svizzere. I cittadini hanno raccolto i voti necessari a indire il referendum: l'SVP, la maggior forza politica in Svizzera, è intervenuta a sostegno dell’iniziativa soltanto in un secondo momento. La vittoria del "sì" porterebbe all'introduzione nella Costituzione Federale del divieto di costruzione di nuovi minareti, creando una situazione paradossale in uno stato "neutro" e tollerante come la Confederazione Elvetica.

I manifesti discriminanti diffusi dalla SVP, in realtà, sono soltanto la punta dell'iceberg di un problema molto più profondo. Secondo alcuni, il referendum già di per sé costituisce un insulto alla libertà di professare e di espressione dei cittadini. Il governo elvetico si è detto contrario all’iniziativa, ma - come si suol dire - il dado è ormai tratto e i media di tutto il mondo islamico sono ora puntati verso la Svizzera.

"Noi svizzeri viviamo nel cuore dell'Europa, ma costituiamo un caso del tutto particolare" ha detto al quotidiano tedesco Tagesspiegel, Jean Ziegler, sociologo svizzero e professore alla Sorbona di Parigi. "Centoquindicimila svizzeri hanno votato per indire il referendum: già questo è sintomo di quella che io definisco la patologia elvetica". Secondo Ziegler, la causa di questa "iniziativa carica di intolleranza" è la paura: "Per gli oppositori, il minareto simbolizza la pretesa di potere dell'Islam sulla Svizzera". Paura dell'Islam, certo, che a volte però diventa - erroneamente - sinonimo di paura del terrorismo.

A questo proposito si è pronunciato anche Youssef Ibram, l'Imam della moschea di Ginevra, il più grande luogo di culto islamico della Svizzera. Ibram sa che non si tratta di un semplice referendum contro i minareti: la controversia è il manifestarsi di un pregiudizio latente tanto radicato quanto pericoloso. "Noi non siamo responsabili per Bin Laden, non siamo responsabili per Al Qaida, non siamo responsabili per i talebani in Afghanistan", ha sottolineato Youssef Ibram. "Noi siamo responsabili solo di noi stessi".

Ginevra, tra l'altro, è una delle città che hanno permesso l'affissione dei manifesti incriminati: ce ne sono parecchi, anche vicino alla moschea stessa, e non fanno che aggravare una situazione già molto tesa.

Qualche giorno fa, alcuni fanatici oppositori dell'Islam hanno lanciato delle pietre contro la facciata della moschea ginevrina, inaugurata nel 1978 dal re dell'Arabia Saudita in persona: l'attacco non ha provocato nessun ferito, ma ha reso necessario lo stazionamento costante di una pattuglia della polizia svizzera di fronte al luogo di culto. Altre città, come Basilea, hanno proibito la diffusione dei manifesti.

Finora, i musulmani hanno costruito quattro minareti in territorio svizzero. Su quasi 8 milioni di abitanti, la Svizzera conta più di trecentomila musulmani: si tratta di una minoranza superiore al 4 per cento. Dopo il cristianesimo (cattolici e protestanti), l'Islam è la seconda religione professata nella Confederazione. Tanto per fare un confronto: gli islamici, in Italia, raggiungono uno sparuto 1,6 percento.

Il problema, quindi, va oltre i puri e semplici minareti: il referendum tocca sfere della coscienza svizzera (ma anche europea) particolarmente vulnerabili in questi tempi quali tolleranza, razzismo, paura del diverso e pregiudizio. E offrono uno spunto a riflettere sui fanatismi religiosi, di qualsiasi colore o razza essi siano.


Adesso l'Europa teme il contagio

di Renzo Guolo - La Repubblica - 30 Novembre 2009

La battaglia del cielo è vinta dalla destra populista e xenofoba. Nel referendum indetto dall'Udc e dall'Udf, gli svizzeri si pronunciano a maggioranza per il divieto di costruzione di nuovi minareti. Uno stop che non riguarda la libertà di culto, incomprimibile nello spazio europeo anche fuori dall'Unione, ma la dimensione simbolica della presenza islamica nel paese.

Con il referendum, tipica modalità della democrazia diretta elvetica, la destra chiedeva una modifica costituzionale che vietasse l'edificazione di nuovi minareti, definiti espressamente "simbolo di imperialismo politico-religioso".

Affermazione che rivela come il nodo del contendere, che va oltre i confini della Confederazione e conferma come la forma del conflitto in Europa assuma, sempre più, i tratti del conflitto sui valori, sia ormai la visibilizzazione dell'islam nello spazio pubblico.

Visibilizzazione negata, nel tentativo di marcare gerarchicamente il territorio attraverso l'espulsione di dimensioni simboliche, siano esse il minareto o il velo, considerate minacciose per l'identità locale declinata in chiave religiosa o etnica.

Battaglia che la destra xenofoba e nazionalista svizzera e le correnti evangeliche più legate al cosiddetto "sionismo cristiano", movimento diffuso negli Usa che nell'islam vede un ostacolo alla realizzazione messianica della loro apocalittica dottrina, conducono in nome di un identità cristiana iperpolitica, che prescinde dalle posizioni delle leadership delle confessioni maggioritarie.

Tanto che mentre i proponenti chiedevano di inserire il divieto in Costituzione, come misura "atta a mantenere la pace fra i membri delle diverse comunità religiose", le altre confessioni osteggiavano apertamente tale indicazione.

La stessa Chiesa cattolica giudicava la vittoria del "sì" un ostacolo sulla via dell'integrazione e del dialogo. Icona di un cristianesimo senza Cristo, quella veicolata dalla destra cristiana xenofoba, in Svizzera come altrove, che tende a impugnare la Croce sottraendola alle Chiese, accusate di non interpretare il vero "sentire del popolo, spesso oscillanti tra il timore per la loro presa in un Continente secolarizzato e religiosamente plurale e l'opposizione alla discriminazione verso gli immigrati".

Un voto, nonostante i troppo ottimistici pronostici contrari, in continuità con alcuni referendum del passato e con gli orientamenti emersi nelle ultime elezioni politiche. Anche se nella circostanza l'oggetto non era tanto, o solo, l'immigrazione proveniente dai paesi islamici, il 5% della popolazione, circa quattrocentomila persone, ma la rigerarchizzazione delle culture e delle religioni per via politica.

Un voto destinato a rilanciare, anche lontano dalle rive del Lemano e più vicino a Chiasso, le polemiche sui luoghi di culto islamici; oltre che l'idea che la libertà religiosa, inscindibile dalla possibilità di edificare luoghi di culto, possa essere oggetto di pronunciamento popolare, magari a livello locale e senza più dover mascherare il quesito dietro a vaghe motivazioni estetiche o urbanistiche. Come se i diritti fondamentali fossero disponibili al giudizio della mutevole maggioranza del tempo.

Un pronunciamento che deve far riflettere anche quanti ritengono l'integrazione dell'islam nelle società europee un corollario del nuovo pluralismo religioso e culturale che le caratterizza. I generici appelli al dialogo e al riconoscimento del pluralismo non bastano più per fronteggiare le derive xenofobe: servono pragmatiche politiche pubbliche capaci di produrre insieme coesione, sicurezza e libertà. Il "si" svizzero obbliga, infine, gli stessi musulmani a pensarsi meno in termini di comunità e più in termini di individui.

Trasformazione che presuppone anche il superamento di posizioni e leadership tese a mantenere rigidamente coese le comunità; mentre il progredire dell'interazione con le società europee, vero antidoto alla politica esclusivista invocata da attivi imprenditori politici della xenofobia e favorita dallo stesso riflesso di chiusura di leadership che perseguono l'autoghetizzazione comunitaria per proteggere i musulmani dalla "contaminazione" con l'ambiente "impuro" circostante, implica un'apertura destinata a metterle in secondo piano.

Scelta che implica l'accettazione di un islam europeo, lontano dai canoni di tradizioni o neotradizioni che, a torto o a ragione, appaiono agli autoctoni foriere di minacce.


Proposta Lega "La croce nel tricolore"

da www.corriere.it - 29 Novembre 2009

«Ancora una volta dagli svizzeri ci viene una lezione di civiltà. Il messaggio, che arriva soprattutto a noi che viviamo vicini a questa terra, è forte. Occorre un segnale forte per battere l'ideologia massonica e filoislamica che purtroppo attraversa anche le forze alleate della Lega». Lo dice Roberto Castelli, del Carroccio, aggiungendo: «Credo che la Lega Nord possa e debba nel prossimo disegno di legge di riforma costituzionale chiedere l'inserimento della croce nella bandiera italiana»


"Figlio mio lascia questo Paese"

di Pier Luigi Celli - La Repubblica - 30 Novembre 2009

Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.

Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato.

Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l'idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai.

Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l'affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.

Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all'attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai.

E' anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l'Alitalia non si metta in testa di fare l'azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell'orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà.

E d'altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l'unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.

Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po', non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility.

Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese.

Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all'infinito, annoiandoti e deprimendomi.

Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell'estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni.

Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.

Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze.

Preparati comunque a soffrire.

Con affetto,
tuo padre

L'autore è stato direttore generale della Rai. Attualmente è direttore generale della Libera Università internazionale degli studi sociali, Luiss Guido Carli.


Bin Laden, il rapporto del Senato "Nel 2001 Usa a un passo dalla cattura"

da www.corriere.it - 29 Novembre 2009

Il rapporto del Senato americano: «Rumsfeld fermò l'operazione». Il fallimento 3 mesi dopo l'attaco alle Torri

Nel dicembre del 2001, Osama Bin Laden era accerchiato e le truppe americane «senza ombra di dubbio» erano vicine alle sua cattura. Il numero uno di Al Qaeda si trovava a Tora Bora, in Afghanistan, ma i vertici militari presero la decisione di non attaccare il suo rifugio con tutte le forze a disposizione. Lo rivela un rapporto che la Commissione per gli Affari Internazionali ha svolto per il Senato dal titolo significativo: «How we failed to get bin Laden and Why it matters today» («Come abbiamo fallito a catturare Bin Laden e perché ciò è importante oggi»).

Nel rapporto, pubblicato sul sito del Senato dove sarà presentato lunedì e il cui principale relatore è il senatore John Kerry, si legge che il fallimento nella cattura del leader di Al Qaida tre mesi dopo l'attacco alle Torri Gemelle ha avuto conseguenze terribili sulla lunga distanza e soprattutto ha posto le basi per l'attuale recrudescenza della guerriglia talebana in Afghanistan e per i conflitti interni che sconvolgono il Pakistan.

Il dossier imputa all'allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e all'ex comandante del Centcom, Tommy Franks, una decisione dalle «conseguenze disastrose». Non è la prima volta che Kerry, candidato democratico alla presidenza nel 2004, parla della fallita cattura di Osama Bin Laden già nel 2001. Da anni, il senatore accusa l'amministrazione Bush di essersi fatta sfuggire il leader del terrore sulle montagne dell'Afghanistan, tre mesi dopo l'11 settembre.

LE CONSEGUENZE DELLA MANCATA CATTURA - Nell'introduzione del rapporto che sarà pubblicato lunedì, proprio alla vigilia dell'annuncio del presidente degli Stati Uniti Barack Obama sul «surge» necessario per «finire il lavoro» contro i talebani ed Al Qaeda, John Kerry, presidente della commissione Esteri del Senato, scrive: «Quando siamo andati in guerra meno di un mese dopo gli attacchi dell'11 settembre, l'obiettivo era quello di distruggere Al Qaeda e uccidere o catturare il suo leader, Osama Bin Laden e altri importanti personaggi. La nostra incapacità di concludere il lavoro alla fine del 2001 ha contribuito al conflitto di oggi che mette a rischio non solo le nostre truppe e quelle dei nostri alleati, ma la stabilità di una regione cruciale e instabile».

LE ACCUSE - Ancora, il rapporto commissionato dal senatore Kerry, ex candidato democratico alla Casa Bianca nel 2004 contro George W. Bush e intitolato «Tora Bora rivista: come abbiamo fallito nel prendere Bin Laden e perché questo importa oggi» denuncia: «Rimuovere il leader di Al Qaeda dal campo di battaglia otto anni fa non avrebbe eliminato la minaccia estremista nel mondo.

Ma le decisioni che hanno aperto la porta alla sua fuga in Pakistan hanno permesso a Bin Laden di emergere come potente figura simbolica che continua ad attrarre flussi costanti di denaro e ad ispirare fanatici nel mondo. Il fallimento nel completare il lavoro rappresenta un'opportunità persa che ha alterato per sempre il corso del conflitto in Afghanistan e il futuro del terrorismo internazionale».

Il documento - basato anche su dati non classificati del governo e su interviste con partecipanti all'operazione - sostiene con certezza che il leader di Al Qaeda si nascondeva tra le montagne di Tora Bora in un momento in cui gli Stati Uniti avevano i mezzi più che sufficienti per dare avvio a un'operazione rapida con migliaia di uomini.

«Osama Bin Laden era a portata di mano a Tora Bora - si legge nel rapporto - Accerchiato in uno dei posti più impervi della terra, lui e centinaia dei suoi uomini resistettero instancabilmente ai bombardamenti americani, quasi a 100 raid al giorno».

Il leader di Al Qaeda «si aspettava di morire - rivela ancora il dossier - Le sue ultime volontá e il suo testamento scritti il 14 dicembre riflettevano il suo fatalismo. Diede istruzioni alle moglie di non risposarsi e chiedere scusa ai suoi figli per essersi dedicato al jihad».


Terrorismo e complotti: ucciso il capo della Federal Reserve Russa (non per i giornali)

da www.wallstreetitalia.com - 29 Novembre 2009

La bomba sul treno ha ucciso l'omologo di Bernanke a Mosca, Boris Yevstratikov. Tesi cospirazionista: e' il weekend in cui i poteri occulti tramano per i nuovi assetti finanziari mondiali, da Dubai a Wall Street a Mosca.

Boris Yevstratikov, capo della Rosreserve, la Federal Reserve russa, e' morto nell'incidente ferroviario che ha coinvolto il treno Mosca-San Pietroburgo e che gli inquirenti sostengono sia stato causato da un attentato. Yevstratikov era stato nominato a marzo.

Se Yevstratikov sia rimasto vittima involontariamente o se fosse il target esatto dei terroristi, non e' ancora dato sapere. La notizia, dal nostro punto di vista, riducendo di 1 milione di volte le implicazioni e fatti i debiti paragoni, ha questa portata: e' come se sul treno Washington-New York dell'Amtrack fosse morto in un attentato terroristico il presidente della Federal Reserve Usa Ben Bernanke.

La morte di Yevstratikov non avra' implicazioni per i mercati finanziari, anche se il rublo e la borsa di Mosca saranno probabilmente shortati dai broker delle grandi banche internazionali. Resta il fatto che i cospirazionisti sono gia' in allerta per segnalare che, con questo episodio, tutto si tiene e il cerchio si chiude:

1) Notizia sul possibile default di Dubai mercoledi' 25 notte.

2) il Dubai possiede una quota di Euronext, borsa di Londra.

3) Giovedi' 26 Wall Street chiusa per Thansgiving.

4) giovedi' la Borsa di Londra e' stata chiusa straordinariamente per 3 ore e mezza per "problemi tecnici".

5) Venerdi' 27 mattina il NYSE emana un ordine che da' alla borsa di New York la facolta' di sospendere gli scambi in caso di volatilita' e turbolenza.

6) Venerdi' 27 sera viene ucciso con una bomba su un treno il presidente della Federal Reserve di Mosca.

Tutti questi episodi sono ovviamente scollegati, solo qualche visionario potrebbe "unire i puntini" sostenendo che c'e' un disegno preciso. Ma grazie a internet qualche blogger (ovunque nel mondo) non perdera' l'occasione per sostenere un simile teorema.

Anche per questo nelle sale trading degli hedge fund di Manhattan insegnano pure ai ragazzi appena assunti di non essere mai long in un weekend di 4 giorni come questo. Vedremo come sara' posizionato il denaro istituzionale lunedi' alla riapertura delle borse, dando per scontata una volatilita' abnorme.

Per l'attentato in Russia il danno collaterale e l'effetto implicito sono che i terroristi (forse ceceni - vedi sotto) hanno assassinato il governatore della Federal Reserve di un paese del G8 con forti interessi nella finanza, negli equilibri militari ed energetici mondiali.

Nel frattempo la Casa Bianca ha emesso un report in seguito all'attentato al treno russo, tramite il portavoce di Barack Obama, Robert Gibbs, senza pero' andare al di la' del generico cordoglio per la perdita di vite umane. Per ora.

Il capo della Federal Security Service (FSB, ex KGB) cioe' i servizi segreti di Mosca, Alexander Bortnikov, ha gia' consegnato un rapporto al presidente russo Dmitry Medvedev confermando che a far deragliare il treno alle 9.37pm ora locale di venerdi' sera e' stata un'esplosione causata dall'equivalente di 7 chili di tritolo (TNT). Medvedev ha ordinato a Bortnikov e al Procuratore Generale Yuri Chaika di investigare sulle cause del disastro.

Secondo quanto risulta a Wall Street Italia, fonti del contro-terrorismo confermano che lo stesso treno, il Nevsky Express, e' stato gia' target di attentati terroristici. E' un convoglio utilizzato da alti funzionari di stato, neo-miliardari e tycoon russi di vario tipo che fanno i pendolari in carrozze di lusso tra Mosca e San Pietroburgo, le due piu' importanti citta' della Russia.

Lo stesso treno fu colpito nel 2007 da gruppi terroristi della Caucasia del Nord legati ad al Qaeda, in crescita - secondo le nostre fonti - sia in Russia che altrove e non solo in Chechnya ma anche in Dagestan, Ingushetia e Kabardino-Balkaria.

Segnaliamo inoltre che proprio ieri il comandante della task-force anti-terrorismo del ministero dell'interno del Dagestan (in sigla SOBR) e' stato assassinato e una bomba di alto potenziale e' esplosa vicino al binario sud del treno che va Makhachkala. Una seconda bomba e' stata scoperta in prossimita' di uno dei maggiori condotti petroliferi della zona. Infine sempre ieri in Kabardino-Balkaria, la polizia che arrestava un sospetto e' stata presa di mira da raffiche di mitra.

Oggi è apparsa su un blog ultranazionalista la dichiarazione di un sedicente gruppo «Combat 18» che rivendica la responsabilità dell'incidente ferroviario e annuncia nuovi attentati. Per ora gli investigatori non hanno commentato. «Noi militanti del gruppo autonomo Combat 18 - si legge nel testo - rivendichiamo la responsabilità per l'esplosione del treno Nievski Express. Ci saranno altre azioni in futuro. È giunta l'ora. Noi dichiariamo che la guerra toccherà ogni uomo della strada, in questa guerra non ci possono essere né persone estranee né vittime innocenti, ci sono solo i nostri sostenitori e i nostri nemici».

Il gruppo «Combat 18» aveva rivendicato via internet anche l'esplosivo ritrovato il 14 novembre scorso in un vagone della metro di San Pietroburgo: era avvolto in un sacchetto di plastica con una svastica. Secondo gli investigatori, si trattava di falso esplosivo.

Nel primo pomeriggio di sabato un allarme bomba è scattato alla stazione ferroviaria Kievskaia di Mosca, una delle più grandi e frequentate della capitale russa. Come ha riferito la radio Eco di Mosca, sono in corso controlli da parte degli artificieri, e i responsabili dello scalo hanno invitato la gente con gli altoparlanti ad abbandonare la stazione.

domenica 29 novembre 2009

Update italiota

Il consueto aggiornamento sulle recenti vicende italiote.

Quelle nebbie misteriose sulle origini della Fininvest
di Attilio Bolzoni e Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 29 Novembre 2009

Il RACCONTO di Repubblica di come i mafiosi di Brancaccio ritengano di avere "un asso nella manica" da giocare contro la Fininvest ha provocato le proteste di Marina Berlusconi, presidente della holding, e l'annuncio di azioni penali e civili di Mediaset. La protesta di Mediaset è temeraria.

Forse per un equivoco o soltanto per offrire ai giornali della Casa un titolo aggressivo, sostiene che, nell'inchiesta, ci sia scritto: "il 20 per cento di Mediaset appartiene alla mafia".

È falso. Nessuno ha scritto una frase di questo genere. Nessuno poteva scriverla. Mediaset nasce come società quotata in Borsa soltanto nel 1996 mentre la cronaca dà conto, per la prima volta, degli interrogatori dei mafiosi di Brancaccio che raccontano vicende degli anni ottanta e primi anni novanta, comunque precedenti al 27 gennaio 1994, quando Filippo e Giuseppe Graviano sono stati arrestati a Milano.

L'inchiesta si occupa di Fininvest, non di Mediaset. Di quel che i mafiosi riferiscono della Fininvest (detiene il 38,618 per cento di Mediaset).

Gaspare Spatuzza rivela ai pubblici ministeri di Firenze che "Filippo Graviano mi parlava come se Fininvest fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi da tasca sua". È una dichiarazione che ripropone la questione mai accantonata della provenienza dei capitali che hanno favorito l'avventura imprenditoriale di Silvio Berlusconi che di suo - è noto - risorse non ne aveva a disposizione.

Per sintetizzare i dubbi che ancora ci sono su quell'inizio, Repubblica ha ritenuto di citare una breve frase dal libro di Paolo Madron, Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer: "Sono [di Berlusconi] non meno dell'80 per cento delle azioni delle holding che controllano Fininvest. Sull'altro 20 per cento, per la gioia di chi cerca, ci si può ancora sbizzarrire" (pag.137).

Contro questa frase muove oggi con indignazione e qualche sovrattono Marina Berlusconi. Lasciamo in un canto i suoi insulti. La presidente della Fininvest dichiara: "Il 100 per cento della Fininvest, come emerge incontrovertibilmente da tutti i documenti, appartiene alla nostra famiglia, a Silvio Berlusconi e ai suoi figli. Così è oggi e così è da sempre, non c'è mai stata una sola azione della Fininvest che non facesse capo alla famiglia Berlusconi".

Se così è, perché la Fininvest non ha mai considerato calunnioso e diffamatorio il libro di Madron, diventato nel tempo anche autorevole direttore di Panorama Economy, periodico della Casa? Perché se ne duole soltanto oggi? Possibile che le sia sfuggito un libro pubblicato da una casa editrice dal 1995 di proprietà della Mondadori?

Di quel lavoro, qualcosa si sa. Paolo Madron è forse il solo giornalista che abbia avuto modo di incontrare e intervistare a lungo il conte Carlo Rasini, patron della Banca Rasini che mise a disposizione del giovane Berlusconi fidejussioni, prima, finanziamenti, poi. Madron riesce a incontrare Rasini nella sua casa ai Bastioni di Porta Venezia, a Milano. La conversazione è lunga, piacevole e assai intrigante.

Il conte banchiere racconta come "in realtà, le città giardino di Berlusconi sono servite a qualche famiglia milanese per far rientrare le valigie di soldi depositate a suo tempo in Svizzera". Ricorda di come, un giorno, Berlusconi "va da Rasini e gli chiede di appoggiarlo su quei suoi amici, clienti o meno della banca, che hanno portato fuori tanti soldi e che, se lui ci metterà una buona parola, potrebbero dargli fiducia".

Rasini ne parla con il padre di Berlusconi, Luigi, che non vorrebbe. Ha paura che il figlio "resti schiacciato dalla sua ambizione". Ma Rasini, come ha fatto altre volte, non gli fa mancare il suo aiuto. "In fondo, quale migliore occasione per far tornare il denaro dal paese degli gnomi e farlo fruttare bello e pulito nelle mani di quel giovanotto che dove tocca guadagna?".

Ora Madron è a colazione da Carlo Rasini. Gli chiede conto di quei finanziamenti e il conte banchiere gli rivela che Berlusconi ha restituito, di quelle somme, soltanto l'ottanta per cento. "E l'altro venti?", chiede Madron. Rasini sorride e gli dice: "L'altro venti per cento non è stato restituito; so come sono andate le cose e a chi appartiene quel venti per cento, ma non glielo dirò". Marina Berlusconi, nel suo sdegno, sostiene ancora: "Anni e anni di indagini e perizie ordinate proprio dalla procura di Palermo si sono concluse con l'unico possibile risultato: (...) nell'azionariato Fininvest (...) non esistono zone d'ombra".

L'affermazione è imprudente, se si legge la sentenza della II sezione del Tribunale di Palermo che ha condannato Marcello Dell'Utri, braccio destro di Berlusconi. La consulenza dell'accusa, scrivono i giudici, nonostante la "parziale documentazione" messa a disposizione, "evidenzia la scarsa trasparenza o l'anomalia di molte operazioni effettuate dal gruppo Fininvest negli anni 1975-1984. [Questa conclusione] non ha trovato smentita dal consulente della difesa Dell'Utri", il professor Paolo Maurizio Iovenitti, docente alla Bocconi di Finanza mobiliare e Analisi strategiche e valutazioni finanziarie.

Iovenitti ha ammesso in aula che alcune operazioni erano "potenzialmente non trasparenti". Scrivono allora i giudici: "Non è stato possibile, da parte dei consulenti [del pubblico ministero e della difesa], risalire in termini di assoluta certezza e chiarezza all'origine, qualunque essa fosse, lecita od illecita, dei flussi di denaro investiti nella creazione delle holding Fininvest. (...). La consulenza Iovenitti non ha fatto chiarezza sulla vicenda in esame [e], pur avendo la disponibilità di tutta la documentazione esistente presso gli archivi della Fininvest, non ha contribuito a chiarire la natura di alcune operazioni finanziarie "anomale" e a evidenziare la correttezza delle risultanze societarie, contabili e bancarie del gruppo Fininvest".

Naturalmente sull'intera questione, avrebbe potuto far luce con autorevolezza Silvio Berlusconi. Si sa come andarono le cose. Interrogato il 26 novembre del 2002 a Palazzo Chigi, il presidente del consiglio si è "avvalso della facoltà di non rispondere". Così le perplessità sulle origini della fortuna di Berlusconi restano ancora vive. Ora che Cosa Nostra sembra ricattare il premier, sarebbe necessario illuminare quel che ancora oggi è oscuro, più che gridare a un "disegno politico di annientamento".


I fatti oscuri e il dovere di governare
di Eugenio Scalfari - La Repubblica - 29 Novembre 2009

Tra le tante afflizioni che la "fin du règne" berlusconiana ha procurato al Paese c'è stato anche un crescente scontro tra le nostre massime istituzioni e soprattutto tra il presidente del Consiglio da un lato e il presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e la magistratura dall'altro.

Nel momento più aspro del confronto anche il cosiddetto triangolo che raccorda il Quirinale con i presidenti delle due Camere ha dimostrato segni di scissura, con Gianfranco Fini solidamente schierato con il Capo dello Stato e Renato Schifani più sensibile ai "lai" del capo dell'Esecutivo.

Dobbiamo all'estrema prudenza di Giorgio Napolitano se queste tensioni si sono parzialmente attenuate, ma lo dobbiamo anche al vasto capitale di credibilità e di fiducia che il Quirinale raccoglie nella pubblica opinione, scoraggiando chiunque volesse impegnare un duello all'ultimo sangue con la nostra massima autorità di garanzia. Sarebbe un duello dall'esito assai prevedibile: gli italiani infatti hanno sempre avuto bisogno di esser rassicurati sulla propria qualità di "brava gente".

Questo riconoscimento sta loro a cuore più di qualunque altro; sta a cuore agli adulti come ai giovani, alle donne come agli uomini, agli abitanti delle province settentrionali e a quelli del Mezzogiorno.

Si possono avere opinioni diverse su questa particolare fragilità dell'anima italiana, ma non sul fatto che esista. Con la conseguenza che, in un ipotetico duello tra il Quirinale e l'inquilino di Palazzo Chigi, la palma della vittoria andrebbe al primo e non al secondo.

Per Berlusconi metà degli italiani nutrono sentimenti di amorosa esaltazione; per Napolitano più del 70 per cento sente profondo rispetto e stima. A lui affiderebbero in custodia i figli e gli averi, all'altro no.

Del resto sentimenti analoghi e analoghe proporzioni del consenso gli italiani li hanno avuti per Carlo Azeglio Ciampi e per Sandro Pertini, per non citare che i più popolari e i più stimati. Questa è stata una fortuna non indifferente per il nostro Paese in una lunga e agitata fase di transizione che ha avuto luogo in tutta Europa e che, dopo oltre trent'anni, non è ancora finita.

Il duello dunque è scongiurato, almeno per ora. Ma ci si deve domandare perché Berlusconi non fa che riattivarlo al suo massimo quando tira in ballo i suoi personali interessi e quando è il primo a sapere che non avrà la forza di andare fino in fondo. Perché questa così invincibile coazione a ripetere? Non è un errore risollevare un tema che poi finirà assolutamente nel nulla?

***

Il presidente Napolitano l'altro ieri è stato lapidario: commentando i giudizi del capo del governo sui magistrati di Firenze che lui accusa di incitamento alla guerra civile, ha osservato che un governo cade soltanto nel momento in cui il Parlamento gli nega la fiducia; altre cause non sono previste. Fin quando la maggioranza che sostiene il governo continua ad appoggiarlo non ci può essere crisi. Se ci fosse, spetterebbe al Capo dello Stato di arbitrarne i passaggi.

Non si poteva interpretare più chiaramente la situazione e bloccare le fughe in avanti di Berlusconi da un lato e dei i suoi più queruli detrattori (che fanno senza accorgersene il suo gioco) dall'altro. Naturalmente sia l'uno che gli altri si sono riconosciuti nelle parole di Napolitano, piegandole ognuno ai suoi intendimenti e alle sue convenienze. È un curioso destino quello del Quirinale: tutti gli danno ragione pur continuando ciascuno a proseguire nel gioco al massacro sul quale campano.

Questo è vero per tutti, ma in modo particolare per il capo del governo. Berlusconi non può accettare che la discussione politica si sposti dai suoi personali interessi a quelli del Paese. Se l'interesse generale avesse un peso adeguato, sarebbe assai facile concentrarsi su di esso: basterebbe che il capo del governo avesse preso atto della sentenza della Corte sulla legge Alfano, che affrontasse i processi concordando con il Tribunale l'iter delle udienze e ne attendesse l'esito con sereno rispetto. Tre gradi di giudizio non sono pochi. Nel frattempo governasse.

Ma è proprio questo che lo spaventa: governare, con questi chiari di luna. Decidere chi paga il disastro economico tuttora in corso, quale sarà la strategia di uscita dalla crisi, come dovrà cambiare l'industria, le esportazioni, gli investimenti, la divisione internazionale del lavoro. Ed anche come cambieranno il Welfare, la scuola, la ricerca, la giustizia, la pubblica amministrazione.

È passato un anno e mezzo e ancora il governo si tiene a galla con i rifiuti smaltiti a Napoli e le casette consegnate all'Aquila, mentre i disoccupati aumentano in modo esponenziale ed ad ogni pioggia mezzo Paese resta col fiato sospeso per sapere questa volta a chi toccherà.

***

Intanto sono diventate di pubblico dominio le dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia ai giudici che indagano in secondo grado di giurisdizione sul senatore Dell'Utri, co-fondatore di Forza Italia. I colleghi D'Avanzo e Bolzoni ne hanno ampiamente scritto con la compiutezza che il caso richiede. Farò a mia volta alcune osservazione nel merito.

Nei mesi scorsi si è a lungo parlato dei vizi privati del premier, diventati pubblici per sua scelta nel momento in cui negò l'esistenza di fatti documentati. Poi se ne continuò a parlare perché i suoi insostenibili dinieghi lo avevano messo in una situazione di ricattabilità assai difficile per chi occupa un'altissima posizione istituzionale.

Ora si profila un tema ancora più delicato: riguarda l'atteggiamento del presidente Berlusconi nei confronti dell'organizzazione mafiosa "Cosa Nostra". Che cosa dicono le carte fin qui disponibili di quel dossier? Oppure, chi fa il mestiere del giornalista, deve liquidare il problema giudicandolo un pettegolezzo senza interesse?

La risposta è evidente: la mafia, la camorra, la 'ndrangheta sono strutture criminali che hanno raggiunto in Italia dimensioni esorbitanti. Seminano il terrore in tutto il Mezzogiorno e altrove, partecipano a cartelli internazionali sulla produzione e distribuzione di droga, controllano decine di migliaia di "soldati", controllano anche istituzioni finanziarie, riciclano migliaia di milioni di euro e di dollari, svolgono in nero enormi transazioni.

Si può far finta di non vedere? Non si deve accertare se eventuali contatti tra politica e criminalità siano esistiti ed esistano, oppure se si tratti di calunnie che meritano esemplari punizioni?

Dunque è lecito occuparsene. Anzi è doveroso. Giulio Andreotti ebbe alcuni contatti con le strutture criminali di allora. Li ebbe da politico che doveva fronteggiare una situazione di estrema gravità. Parlarono alcuni pentiti. La magistratura inquirente trovò riscontri. Si aprirono i processi. Nel frattempo il quadro era cambiato e gli interlocutori anche. Molti protagonisti caddero sul campo in quella guerra, alcuni pagando col sangue il loro coraggio, altri pagando col sangue la loro doppiezza.

Andreotti seguì tutte le udienze dei processi. Aveva un libretto sul quale scriveva i suoi appunti man mano che il dibattimento si svolgeva. Arrivava in aula per primo e usciva per ultimo dopo aver salutato il presidente e il pubblico ministero. Fu condannato con gravissime motivazioni. Poi, nei successivi gradi di giurisdizione, le sentenze furono riviste e ritoccate. Infine nell'ultimo passaggio fu assolto, in parte con formula piena e in parte con formula dubitativa.

Il vero problema di Andreotti era di natura politica, non giudiziaria. Il giudizio politico restò diviso e tale resterà anche per gli storici che verranno. Quello giudiziario fa ormai parte delle materie giudicate. Ma resta che quell'uomo non fuggì dai processi e questo è un riconoscimento positivo che si è guadagnato.

Sapremo tra pochi giorni, alla ripresa del processo Dell'Utri di secondo grado, se le dichiarazioni dei pentiti indurranno i magistrati ad occuparsi anche del presidente del Consiglio oppure no. I pentiti di mafia parlano quasi sempre un gergo allusivo di non facile interpretazione, che può diventare più chiaro solo in dibattimento. Dare giudizi sul materiale disponibile è quindi azzardato. Ma ci sono aspetti che emergono con chiarezza.

1. I pentiti, nel caso specifico, sono personaggi di discreto livello ma non di primissimo piano. Del resto è sempre stato così salvo forse nel caso Buscetta.

2. I pentiti sono sempre stati messi al bando dai loro capi e da tutta la Cupola mafiosa. Definiti infami. Sottoposti ad intimidazioni continue e terribili. Infine, magari a distanza di molti anni, sono stati raggiunti e puniti con la morte. Nel caso attuale si sta invece verificando qualche cosa di estremamente anomalo: i capi mafiosi tirati in ballo dai pentiti non li hanno né sconfessati né intimiditi. Al contrario. Il loro pentimento è dunque condiviso? Oppure operano come esecutori di un disegno organizzato con i loro stessi capi?

3. Il piano, secondo le dichiarazioni dei pentiti, avrebbe come finalità effettiva quella di "riscuotere" dalla Fininvest il capitale e gli interessi, debitamente rivalutati, che sarebbero stati anticipati a quella società come fondi riciclati. I prestatori sarebbero appunto i fratelli Graviano della mafia del rione Brancaccio di Palermo.

4. È noto che la Fininvest fu fondata da alcune società Fiduciarie delle quali risultavano fondatori alcuni improbabili prestanome. Col passare degli anni alcune di tali Fiduciarie furono disvelate, risultando intestate a Berlusconi e ai suoi familiari. Ma le posizioni dettagliate non sono ancora completamente chiare.

5. Occorre tenere presente che Fininvest è il socio di controllo di Mediaset, di Mondadori, e di una serie assai ampia di società il cui valore ammonta attualmente a molte decine di miliardi di euro nonostante la caduta nelle capitalizzazioni dovuta alla crisi mondiale.

6. Si discute e si mette in dubbio da parte dei difensori di Berlusconi la validità di un reato come quello di concorso esterno in associazione mafiosa, non contemplato dal codice penale ma ormai da gran tempo legittimato da una serie costante e conforme di pronunce giurisprudenziali della Cassazione. Il reato di associazione esterna rappresenta (e chiunque ha un minimo di familiarità con questi problemi lo sa) il punto centrale di penetrazione della mafia nella società civile. L'estrema pericolosità dell'intera struttura mafiosa è dovuta al fatto che attraverso una zona grigia di personalità estranee alle organizzazioni criminali ma in contatto con esse la penetrazione si effettua e la mafia entra nei recessi più reconditi delle decisioni amministrative del pubblico potere. Per conseguenza ogni discorso sulla improprietà di un reato non previsto da un codice penale più che antiquato è priva di qualunque fondamento.

***

È importante mettere in luce questioni di questa delicatezza. È altrettanto chiaro che l'interesse ad un chiarimento di tali questioni non riguarda soltanto la democrazia italiana ma anche Silvio Berlusconi e la sua famiglia. Sicché risulta assai poco comprensibile il continuo sforzo non solo a far rinviare i processi ma ad abbreviarne la prescrizione. Quale chiarimento porta con sé un processo prescritto? Nessuno. Resterà per sempre ignota la zona oscura all'origine delle fortune imprenditoriali di Berlusconi.

Di tutto questo si parla non da quindici anni ma da molto prima. Berlusconi era ancora ben lontano dal voler entrare in politica, stava passando dal settore immobiliare nel quale aveva fatto fortuna al mondo delle Tv. Era pieno di soldi e con essi praticava audaci politiche di "dumping" sulle tariffe e i contratti pubblicitari. Lo sa bene Dell'Utri che era della partita insieme a Verdini. Ma lo sapevamo anche noi che all'epoca eravamo suoi concorrenti insieme alla Mondadori di Mario Formenton.

Ricordo queste cose perché è ormai entrato a far parte dei luoghi comuni il fatto che i processi contro di lui cominciano con il suo ingresso nella politica. In realtà le ipotesi criminose sono molto più antiche. Questa di cui ora si parla risale nientemeno che a trenta anni fa. La legge sul conflitto di interessi avrebbe offerto il destro di chiuderla. È colpa di una parte della sinistra se non fu fatta ma è responsabilità pienamente sua averla sempre testardamente impedita.

Ha ragione Napolitano quando dice che non è per via di processi che si elimina un avversario politico fin tanto che gli rimane la fiducia della maggioranza. Ma è altrettanto vero che gran parte di quella fiducia si verifica meglio alla luce di processi e sentenze che mettano in chiaro passaggi rimasti per troppi anni oscuri e inquietanti. Noi pensiamo che sia questa la buona democrazia. Intanto, il governo ha il diritto e il dovere di governare. Se cominciasse a farlo invece di restare perennemente in "surplace" sarebbe un buon risultato.


Politica tra moniti e inciuci
di Nicola Lillo - Altrenotizie - 29 Novembre 2009

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è intervenuto per sedare il bailamme di attacchi, ingiurie e proclami, che riempiono le pagine dei giornali e soprattutto le bocche dei “nostri” politici. Il Colle dice basta alle “polemiche e tensioni” fra le istituzioni e avverte la magistratura: “Si attenga alle sue funzioni”. “L'interesse del Paese - afferma - richiede che si fermi la spirale di crescente drammatizzazione di polemiche e tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali”.

Napolitano ribadisce che “nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento”. Un monito che sarebbe certamente condivisibile in una situazione come quella descritta dal nostro Presidente della Repubblica, ma che non rispecchia del tutto la realtà dei fatti.

È bene contestualizzare queste parole e adattarle al contesto politico attuale. Luca Palamara, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), ha affermato infatti che “noi magistrati non siamo in guerra con nessuno, ma chiediamo di non essere aggrediti”. Aggressioni che derivano dalle parole pronunciate dal Premier, il quale ha accusato la magistratura di “portare il paese sull’orlo di una guerra civile, e di far saltare l’equilibrio costituzionale tra i poteri dello stato, mentre trama per far cadere il governo”. Fantascienza e accuse forti, esse forse eversive.

Berlusconi si sente in crisi a causa delle indagini di mafia che lo stanno coinvolgendo. Nelle procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze, infatti, il nome del Cavaliere è stato più volte pronunciato. Soprattutto dal pentito Spatuzza, il quale avrebbe individuato in Berlusconi e Dell’Utri i referenti politici di Cosa Nostra dalle stragi del 1993.

L’arma di difesa del Premier è la delegittimazione. Sta infatti operando in questo senso, ed è probabile che dopo il 4 dicembre (data in cui si è fissata l'audizione del pentito) possa fare un intervento televisivo per spiegare (chiaramente a modo suo) come stanno “veramente” le cose.

Intanto il monito del Colle viene preso con serietà dalla magistratura, sempre attraverso le parole di Palamara, il quale dichiara che “il capo dello Stato fa affermazioni in cui ogni magistrato deve riconoscersi”, mentre il Presidente del Consiglio si smarca dall’altolà di Napolitano affermando di non essere certo lui “ad alzare i toni dello scontro. Sono semmai alcuni pm a tenere un comportamento che, in qualunque democrazia, non sarebbe tollerato”. Dunque, continua a farsi affiancare dalla sua presunta e perenne irresponsabilità, sia politica, che giuridica.

Anche l’ex-Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in un’intervista della settimana scorsa a La Repubblica, ha lanciato il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo “imbarbarimento” e di questa “aggressione”: ossia Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a “colpi di piccone i principi sui quali si regge la Costituzione, la nostra Bibbia civile”. Preoccupato dallo stato di salute della nostra democrazia, Ciampi ha affermato che “è in corso la manipolazione delle regole”, attraverso la delegittimazione delle istituzioni dell’attuale Presidente del Consiglio.

Una “tirata di giacca” anche a Napolitano, al quale l’ex Presidente chiede di non firmare il ddl sul processo breve e di frenare le leggi ad personam. Anche in questo caso affermazioni degne di nota. Ma non fu lo stesso Ciampi a firmare il Lodo Schifani nel 2004 poi ritenuto incostituzionale dalla Consulta? A quanto pare si.

Intanto Napolitano si rivolge a tutto l’arco costituzionale, avvertendo che spetta al Parlamento “esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volta a definire corretti equilibri tra politica e giustizia”. Non alla magistratura, né al governo. Neanche a dirlo. Già una settimana fa Bersani ha dato mandato alla capogruppo del Pd al Senato, Anna Finocchiaro, di aprire un tavolo di confronto sulle riforme di cui il paese ha bisogno, in particolare la riduzione dei parlamentari, il Senato delle Regioni e i poteri del Presidente del Consiglio. Riforme non da poco, che vanno ad incidere sulla forma di governo della Repubblica.

Furio Colombo si chiede se “ha senso per un partito di opposizione rendere all’avversario, dotato di potere e di prepotenza, l’omaggio di far credere che sia sempre un partito solido, guidato con fermezza e degno di quel tanto di fiducia che si dà a un interlocutore affidabile”. Ed inoltre ci chiediamo, se sia possibile che il Pd, in vista anche delle regionali del 2010, voglia prendersi qualche merito in queste “riforme condivise”, grazie alla porta lasciata aperta dalla maggioranza.

Porta che resterà aperta esclusivamente se il Partito Democratico scenderà a un compromesso con il Pdl, seguendo quella che è la proposta dell’Udc (quanto mai incostituzionale) di creare un mini-lodo (Lodo Casini) esclusivamente per Silvio Berlusconi, onde evitare di sfasciare la giustizia con il processo breve. Pochi giorni fa, Bersani ha preso l’impegno, con il Capo dello Stato, di non tirarsi indietro per opportunismo o tatticismo sulle riforme, con la convinzione, però, di non scendere a patti con il Pdl su leggi e leggine a favore del Premier. Se così fosse la porta resterebbe chiusa e l’”inciucio” lontano dai nostri occhi. Forse…


Andrà tutto benissimo
di Gianluca Freda - http://blogghete.blog.dada.net - 26 Novembre 2009

Sabato 5 dicembre non succederà niente. La manifestazione del “No Berlusconi Day” si svolgerà in serenità, senza scontri né spargimento di sangue. Ci saranno tanti oratori, tante parole al vento, tanti begli applausi; poi il campanile farà rintoccare il richiamo di compieta e ciascuno tornerà alla propria casa, stanco morto, ma soddisfatto per aver portato il proprio contributo all’evanescente e mutilata venere della democrazia partecipativa.

E’ sempre andata così. Andrà così anche questa volta. Non c’è nulla da temere dall’insipida manifestazione di sabato. Io sono un povero paranoico, rincoglionito da Orwell e Le Carrè e mi sto preoccupando per nulla. Meglio che mi prenda un bicchiere di latte caldo e mi metta a letto, evitando di elucubrare e diffondere allarmismi senza fondamento. Non c’è nulla che possa andare storto, davvero.

Ora prendo l’incipit di questo articolo, lo stampo e lo appendo di fronte alla scrivanietta del mio computer, poi lo rileggo il numero di volte necessario a convincermi che il disagio che provo in questo momento è solo frutto della mia immaginazione malata. Quasi certamente è così. Anzi è così, via quell’ignobile avverbio indefinito, fonte di terrorismo mediatico senza fondamento.

Okay, mi arrendo. Non riesco a dormire. Sono andato sul sito del No B. Day. La prima cosa che vedo è la foto della mia sorellina e degli altri ragazzi dell’IdV di Piacenza che distribuiscono volantini della manifestazione. Il tutto è sovrastato da titoli e link di color viola cupo. Tutto è immerso nel viola, come in certi cieli autunnali densi di tempesta. La prima associazione di idee che mi viene in mente me la tengo per me. La seconda è anche peggio.

Ricordo che la moda delle rivoluzioni colorate è passata, di anno in anno, per la fase arancione, per quella porpora, per quella giallo zafferano... nelle collezioni di quest’estate, in Iran, andava molto il verde, con sfumature di rosso sangue, finto (Neda) e autentico (qualche decina di studenti realmente massacrati).

Gli stilisti della CIA e delle ONG non avevano ancora sperimentato il viola. Sarà il nuovo colore autunno-inverno? Ma no, per carità, tu guarda cosa diavolo vado a pensare. Che Dio maledica e spenga il mio cervellaccio. Ora vado a letto, giuro, ci dormo sopra e queste fantasie svaniranno nel cielo violaceo della notte.

Chi ha organizzato questa manifestazione? Chi l’ha finanziata? Chi paga per i pullman, per i treni, per gli oratori, per le misure di sicurezza? Chi ha fornito il supporto logistico? Cerco su internet e trovo un’infinità di siti che riportano tutti le stesse laconiche informazioni, scarne ed evasive come un ciclostilato di rivendicazione emanato dall’Ufficio per la Gestione Operativa dei False Flag. “Il comitato “No Berlusconi Day”, nato su Facebook per iniziativa di un gruppo di blogger democratici, indice per il prossimo 5 dicembre, a Roma, una manifestazione nazionale per chiedere le dimissioni del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi”.

Che minchia vuol dire?

Chi sono questi “blogger democratici”? Hanno nomi e cognomi? Esistono? Come hanno fatto a reperire fondi e sostegno organizzativo in così poco tempo? Ci sono centinaia di migliaia di adesioni alla manifestazione di sabato. Sì, va bene, Berlusconi è un fetente e anch’io non ne posso più.

Ma centinaia di migliaia di adesioni presuppongono un’operazione mediatica di ampia portata e con ampio sostegno da parte dei media mainstream (che non a caso si sono prontamente prestati alla bisogna). Non è pane per i denti di un gruppuscolo di “blogger democratici” con un account su Facebook. Ecco, i miei vecchi acciacchi dietrologici tornano a farsi sentire. Forse è davvero ora di andare a farmi una bella dormita.

La novella della “mobilitazione che nasce dal basso” devo averla già sentita. Passo per il blog di Tafanus, un tempo tra i miei favoriti, oggi assai meno. Ci trovo una considerazione politica che, una volta tanto, condivido: “Niente nasce dal basso, mai”. Che Berlusconi e il suo entourage di malfattori suscitino antipatia e repulsione posso capirlo e condividerlo. Che l’antipatia e la repulsione diventino così forti da sterilizzare ogni barlume di raziocinio e di analisi politica è preoccupante.

Che portino addirittura a zittire ogni cautela e ogni riflessione sulla regia di un film già riproposto in ogni possibile format ad ogni possibile latitudine mi sembra, in questa crepuscolare sera di novembre, un presagio agghiacciante. Per fortuna io so che tutto andrà benissimo alle ore 14.00 di sabato 5 novembre. La notte, si sa, è fatta di ombre, minacciose ma inconsistenti.

Il fatto che l’iniziativa sia nata su Facebook non mi rassicura di certo. Ricordo bene che la tentata (e fortunatamente fallita) “rivoluzione verde” iraniana di quest’estate, nonché quella in Moldavia dello scorso aprile, erano state organizzate e fomentate attraverso social network come Facebook e Twitter, accuratamente gestiti dall’intelligence americana e israeliana per rovesciare i governi locali e sostituirli con fantocci di più rigida osservanza.

Qui in Italia i tempi sono maturi per un cambio della guardia al vertice dell’opera dei pupi. Berlusconi, il burattino ribelle, sta per essere sostituito dal neodesignato Gianfranco Fini, ligio ai desiderata economico-energetici della Grande Potenza in putrefazione, prono e strisciante dinanzi agli interessi politico- ideologici sionisti che stanno allungando le zampe sull’Europa. Fini si è già ampiamente smarcato dalla coalizione di cui fa parte e con le sue dichiarazioni attenta ogni giorno alla stabilità del governo, tenendosi pronto per le idi di marzo.

La sua designazione come nuovo quisling della colonia italiana è già un dato di fatto e verrà formalizzata il prossimo febbraio, durante la visita dell’ex braccio destro del decaduto caudillo alla Camera dei Rappresentanti statunitense, come ci informa La Stampa. Manca soltanto una potente giustificazione propagandistica a questo indesiderato cambio della guardia. Una spettacolare repressione di piazza contro un movimento “spontaneo” e “nato dal basso”, di cui incolpare il vecchio regnante, sarebbe una lettera di presentazione formidabile per il nuovo governo dei congiurati.

Gli organizzatori fantasma del No B. Day scrivono nel loro ciclostilato: “A noi non interessa cosa accade se si dimette Berlusconi”. A me un po’ sì. Mi interessa anche sapere cosa accadrà prima e durante la transizione, su quale buccia di banana il vecchio leader dovrà scivolare, quante vittime (vere o fasulle) ci vorranno per giustificare, agli occhi del popolo, la sua decapitazione politica. Ma sono sicuro che sabato non accadrà nulla. Ora rileggo ancora una volta il mio incipit, per esserne assolutamente sicuro.

Eppure c’è nell’aria un fetor di retorica, un miasma codino, una puteolenza di vanvera irriflessiva che mi impedisce di prendere sonno. Leggo sul Manifesto un orrorifico articolo di Domenico Gallo, rigurgitante di nonsense che in un giornalista d’antica militanza non può essere frutto di pura e semplice incompetenza politica.

Si parla (ma guarda un po’) di “movimento nato dal basso”, si invoca la santa Costituzione (forse Gallo non se n’è accorto, ma il Trattato di Lisbona sta per abrogarla tra gli applausi dei suoi correligionari, assoggettando ogni stato europeo ad una normativa sovranazionale promulgata da legislatori oscuri che faranno strame di ogni diritto acquisito), si straparla di patria, di Repubblica democratica, di dignità umana, di eguaglianza, di “pericolo mortale per la patria-Costituzione”, roba che neanche nei messaggi più soporiferi del più verboso presidente della Repubblica... si rispolvera, insomma, tutta la ciarla retorica delle grandi occasioni, ci si mette il vestito buono della declamazione demagogica in vista di un gran galà che appare in fase di avanzata elaborazione.

Dinanzi a tanto solenne vaniloquio, viene spontaneo domandarsi: dov’è la festa? E quando? E chi sono gli invitati? E chi il festeggiato? E soprattutto: qual è il ruolo di noi nessuno in questo lieto happening del cambio di regime, in cui tra una citazione di Pertini e uno sproloquio su Calamandrei si magna e si beve?

Naturalmente quello di convitati d’onore e commensali di prima fila. Noi siamo il popolo, il “movimento nato dal basso”. Noi creiamo governi, noi rovesciamo sovrani. Tutto andrà benissimo e le mie inquietudini notturne svaniranno di fronte alla placida allegria della colorata manifestazione romana di sabato. Già, colorata...

Bevo il mio bicchiere di latte e me ne vado a letto. E’ tardi. Sento il liquido caldo scivolare sgomento giù per l’esofago urlando “ecco, idioti, ve lo avevo detto!”. Sono proprio fuso. Siamo noi i commensali, vero?


Go, Johnny Franky, go!
di Alberto Signorini - http://blogghete.blog.dada.net - 28 Novembre 2009

È Gianfranco Fini la nuova carta degli USA

Una volta costretto a ritirarsi dalla scena politica, Berlusconi potrà intitolare le sue memorie Come covarsi una serpe in seno, inserire il libro nella nuova collana Mondadori “Chi è causa del suo mal...”, e dedicarlo a Gianfranco Fini. Il 25/11 scorso, infatti, con una significativa coincidenza, l’editoriale del Corriere della Sera celebrava il tramonto del quindicennio berlusconiano, mentre La Stampa titolava in prima pagina: «E ora gli americani puntano su Gianfranco», preannunciando che a febbraio il Presidente della Camera è atteso negli USA «da interlocutore privilegiato». Siamo dunque alla resa dei conti, e stavolta neanche un chirurgo riuscirebbe a ricomporre una frattura ormai esposta alla luce del sole.

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel dicembre ’93, quando l’allora segretario missino sfidò Rutelli per la carica di sindaco di Roma e Sua Emittenza dichiarò la propria preferenza per il primo. Lo “sdoganamento” era iniziato, e al delfino di Almirante si offriva un’occasione insperata.

Il 40enne che aveva appena teorizzato il “Fascismo del 2000” fu lestissimo a fiutare il mutar dei venti e a capire che, per sfruttarne la spinta, il vecchio veliero erede della RSI – i cui marinai si chiamavano ancora camerati e si salutavano romanamente – necessitava di un profondo restyling. La metamorfosi fu talmente rapida che nel giro di un anno l’antifascismo divenne un valore fondante per gli ex fascisti riverginati in AN.

Le acque passate a Fiuggi (gennaio ’95) furono attentamente esaminate a Washington, Londra e Gerusalemme, che certificarono la perfetta riuscita dell’operazione: anziché l’antica ostilità all’imperialismo anglo-americano, un atlantismo a prova di bomba; niente più destra sociale, e avanti tutta col liberismo imposto da Wall Strett e dalla City; condanna dell’antigiudaismo mussoliniano e virata di 180° verso il fascismo sionista (l’antisemitismo rimaneva, virato però contro i palestinesi e gli arabi in genere). L’ex nostalgico di Salò aveva insomma creato una destra “per bene”, e il plauso dei perbenisti fu entusiastico. Miracolati dopo 50 anni di ghetto, ai suoi non parve vero che si spalancassero le porte del potere e del sottopotere.

Grazie al Cavaliere, che l’ha insediato prima come ministro degli Esteri, poi come vicepresidente del Consiglio e infine come terza carica dello Stato, l’ambiguo e ambiziosisimo numero 2 è arrivato là dove forse puntava fin dall’inizio. Ma il parricidio dev’essere inscritto nel suo destino come qualcosa d’ineluttabile.

E dunque, dopo l’abiura dell’eredità ducesca e almirantiana, ecco giunta l’ora di detronizzare il sovrano di Arcore caduto in disgrazia. Da qui l’accelerazione degli ultimi mesi, che vede mister Arrogance prendere ogni giorno le distanze dal suo stesso governo, dal partito di cui pure è co-fondatore, e soprattutto dal leader cui deve tutto.

Poco importa che l’uomo sia sfuggente come un’anguilla e rotante come una banderuola: è abilissimo a recitare le ultime banalità del politically correct. Non per nulla, ai tempi del Fronte della Gioventù, i suoi camerati l’avevano soprannominato «dietro gli occhiali niente», e di lui Craxi diceva che è «un vuoto incartato: dentro, non c’è il regalo».

Un bluff ambulante, insomma, uno zero ben confezionato. Ma, proprio per questo è quel che ci vuole per eseguire fedelmente i desiderata d’Oltreoceano: uno che si può tenere saldamente al guinzaglio facendogli pendere sul capo la spada di Damocle del suo passato.

I politici ricattabili sono infatti i più “fungibili”: il padrone che li ha gratificati assumendoli come camerieri, nel caso si prendano troppe confidenze può sempre rimetterli al loro posto. Cosa divenuta assai più difficile con un soggetto anomalo come Berlusconi: straricco di suo, senza trascorsi politici da farsi perdonare e con un seguito popolare tuttora vastissimo, non è ricattabile, e dunque risulta inaffidabile.

L’assalto finale al Cavaliere, del resto, è stato candidamente preannunciato da Paolo Guzzanti, che ha rotto col premier accusandolo di aver tradito Washington per vendersi a Mosca.

Sul suo blog, l’11/9 scorso, il senatore fuoriuscito dal Pdl scriveva testualmente: «L’ordine è arrivato dagli USA: Berlusconi va eliminato. (...) A me già lo disse chiaro e tondo l’ambasciatore Spogli, che andai a salutare quando lasciò l’ambasciata di via Veneto: “Vogliamo un’Italia che non dipenda dalla Russia come una colonia e non vogliamo che la Russia incassi una somma di denaro di dimensioni mostruose, che poi Mosca converte direttamente in armamenti militari”.

Da allora, un fatto nuovo di enorme gravità si è aggiunto: l’Italia ha silurato il gasdotto Nabucco (che eliminava la fornitura russa passando per Georgia e Turchia) facendo trionfare South Stream, cioè l’oro di Putin. Contemporaneamente Berlusconi organizzava la triangolazione Roma-Tripoli-Mosca associando Gheddafi nell’affare. (...) L’operazione è stata preparata con cura attraverso una campagna mediatica di lavoro al corpo di Berlusconi, basato sulle vicende sessuali, sulle inchieste di mafia e sulla formazione, nell’area moderata, di un’alternativa politica a tre punte: Luca Cordero di Montezemolo, Perferdinando Casini e Gianfranco Fini, ciascuno a suo modo e con le sue vie, ma in una sintonia trasparente. (...) Lo scontro è ravvicinato e mortale. La grande manovra è cominciata, le artiglierie già battono il campo».

Il giorno dopo, per i duri di comprendonio, Guzzanti aggiungeva due particolari illuminanti: «Le grandi inchieste Mani Pulite sono nate dalla polizia USA (non dalla Cia, ma dall’FBI)» e «Il nuovo ambasciatore USA David Thorne, che davanti al Senato USA ha spiegato di essere consapevole dei problemi che dividono USA e Italia (oltre al bla-bla-bla dell’amicizia sempiterna), ieri ha reso visita per mezzora a Montecitorio a Gianfranco Fini» (www.paologuzzanti.it ).

E infatti, puntuale come la morte, ecco avvicinarsi il botto definitivo: il 4 dicembre, ossia 17 anni dopo i fatti, il mafioso pentito Gaspare Spatuzza testimonierà che Berlusconi è il mandante degli omicidi di Falcone e Borsellino, nonché delle stragi del ’93 (degli assassinî del mostro di Firenze per ora no, ma non si sa mai).

Ecco perché, algido come un blocco di ghiaccio, impettito come un tacchino, sprezzante e pieno di sé come non mai, Fini è oggi sulla rampa di lancio per una nuova e ben più importante investitura. Piace alla destra laicista e tecnocratica, piace a una sinistra ormai incapace di distinguere una patacca da una pepita, ma soprattutto piace agli USA, decisi a sbarazzarsi d’un miliardario ch’è uscito dal seminato ed è diventato una pietra d’inciampo. E allora fiato alle parolacce demagogicamente proferite di fronte ai giovani immigrati contro chi osa definirli “diversi”, tanto non c’è nessuno a ricordargli che la legge tuttora in vigore contro gli stessi si chiama Bossi-Fini.

Quando avrà fatto fuori il Cavaliere, Fini potrà coronare il suo sogno di gioventù. Se infatti la sua scelta missina fu causata dai sessantottini bolognesi che gli impedivano l’ingresso a un cinema dove si proiettava Berretti verdi, avrà presto di che consolarsi: accolto a braccia aperte dai guerrafondai yankee, per i quali John Wayne è sempre un mito, verrà forse ricevuto alla Casa Bianca, dove siede uno zio Tom che raddoppia l’impegno militare in Afghanistan, apre un nuovo fronte in Pakistan, non chiude Guantanamo e riceve perfino il Nobel per la Pace. Campioni di coerenza, i due sono fatti per intendersi.


Scorie e papelli
di Giorgio Bongiovanni - antimafiaduemila.com - 28 Novembre 2009

Guardare l’Italia oggi è un po’ come guardare un Giano bifronte.
Un paesaggio naturale da togliere il fiato dall’alto delle montagne giù per le colline fino al mare. Un patrimonio artistico unico al mondo, con bellezze eterne, prodotto dell’ingegno creativo di Maestri inimitabili. Culla del pensiero, della filosofia e delle arti, terra di Dante, di Leonardo, di Giordano Bruno e di un numero ineguagliato di intelletti stupefacenti.

Ma allo stesso modo un paesaggio naturale deturpato, depredato, inquinato che si ribella con la violenza del suolo e dell’acqua alla sua devastazione.
Terra abitata da mostri capaci di ogni nefandezza, di versare sangue innocente pur di mantenere potere e arroganza.

Un’Italia fatta del male dei misteri più orribili e delle infinite debolezze del bene.
Italia di eroi che per quello slancio innato riescono a tradurre in vita pratica quello che per molti è l’Amore universale e per altri l’Amore di Cristo. Eroi cui questa patria distratta e irriconoscente non ha nemmeno reso l’onore della Giustizia se non qualche barlume dopo anni.

E oggi, dopo 17 anni, qualche lampo di verità emerge dal silenzio della vigliaccheria o forse semplicemente della superficialità e della leggerezza.

Abbiamo finalmente il famigerato “papello”, la prova ulteriore che quel dialogo tra Stato e Mafia è avvenuto e poi le tardive rivelazioni di questi ultimi tempi a dimostrarci che le responsabilità della tragedia di quegli anni sono da ricercare in un quadro molto più ampio rispetto alla sola Cosa Nostra.

Non è per autocelebrazione e nemmeno per vana gloria ma fin dai primi anni della nostra pubblicazione ANTIMAFIADuemila aveva sostenuto che Paolo Borsellino era stato eliminato perché ostacolo della trattativa, perché probabilmente aveva capito chi erano i nuovi protagonisti del gioco grande.

Servizi segreti, verità non dette, dettagli nascosti per anni, tutto ha lasciato intuire che la strage di via D’Amelio sia stata una “strage di stato” così come ci aveva detto personalmente la signora Agnese Borsellino. “L’omicidio di mio marito è un omicidio di Stato”.
Ora non ci resta che aspettare e vedere dove ci porteranno questi nuovi elementi, se la magistratura riuscirà e potrà accertare tutta la verità.

Perché uomini e donne delle istituzioni parlano solo ora? Sono in buona fede o meno?
Cosa ci vuole dire Riina, da artefice a vittima della trattativa, attraverso le parole del suo avvocato Luca Cianferoni che dai microfoni di Annozero ha sostenuto la strumentalizzazione della mafia così come di altri organismi violenti del passato al fine di creare una nuova stabilità economico-politica del Paese?

A Palermo, lo scorso luglio, nel corso del nostro convegno presso l’università di giurisprudenza, la stessa dove studiarono Falcone e Borsellino, invitai la società civile tutta a sostenere i giudici Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, così come il procuratore Lari e gli altri magistrati impegnati su questo fronte.

Se li sapremo proteggere con la nostra attenzione, se non li ostacoleranno o peggio non cercheranno di eliminarli fisicamente potremo forse intravvedere la verità. Una verità che farà male e che potrà mettere in discussione molti settori di potere: politico, finanziario, imprenditoriale… su su fino al ruolo non trascurabile del Vaticano.

Gli stessi “grumi di potere”, questi sì, che hanno usato la criminalità organizzata per disfarsi delle scorie che con assurda incoscienza hanno gettato in fondo al mare mettendo a rischio l’incolumità di tutti noi.

Ora si abbia coraggio, per una volta, di andare ad assicurarsi di ciò che è stato nascosto sotto i mari della Calabria e chissà di quali altre coste e ci si dica se siamo in pericolo noi e soprattutto il futuro dei nostri figli.

Chi pagherà per questa ultima vergognosa e ignobile offesa alla nostra Italia bifronte bella e dannata allo stesso tempo, vittima di figli ingrati e folli?

Che abbiano il coraggio, almeno una volta, di dirci la verità.


Tagli e dettagli
di Eugenio Benetazzo - www.eugeniobenetazzo.com - 27 Novembre 2009

Quando nel 1994 Amy Whitfield scalava le classifiche musicali internazionali con il suo "Saturday Night" ed imperava la cultura del disco entertainment degli anni 90, allo stesso tempo il nostro paese raggiungeva il suo picco di massimo splendore per quanto concerneva il benessere economico alimentato da uno sviluppo e successo industriale che proprio in quell'epoca ostentava il suo massimo slancio evolutivo.

Ricordo molte bene quel periodo, frequentavo da qualche anno l'università ed al tempo stesso mi dilettavo come dee jay negli house club: rammento ancora come tutti noi giovani "discotecari" sognavamo un giorno di poter possedere o gestire un locale da ballo (e sballo) tutto nostro, vedendo gli incassi e le migliaia di persone che vi gravitavano ad ogni serata. Sono passati appena quindici anni e quel periodo ormai è un ricordo di un passato che non rivedremo mai più.

Dalla metà degli anni 90 per l'Italia è iniziato infatti un lento processo di declino industriale: sono stati fatti entrare a frotte milioni di extracomunitari con il solo scopo di consentire ai grandi gruppi industriali di poter abbassare i costi di manifattura (grazie a persone disperate disposte a lavorare con retribuzioni minori rispetto agli italiani), di lì a poco è stato introdotto il lavoro interinale come soluzione per "snellire" l'attività di impresa che in poco tempo ha fatto nascere una nuova fascia sociale, quella dei precari, infine si è dato inizio ad una lenta opera di deindustrializzazione aiutando gli industriali a smantellare le loro aziende per spostarle al di fuori dei confini italiani e decretando così la fine di centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Quando sta accadendo in questi ultimi 18 mesi non può essere definito genericamente come semplice crisi, come ci vogliono far credere i media tradizionali con il loro gracchiante vociferare, quanto piuttosto come una vera e propria emergenza che sino ad oggi ha manifestato solo il primo dei sue tre aspetti, ovvero quello finanziario.

Adesso dovranno arrivare le altre due sfacettature, quella industriale e quella sociale, entrambe legate da questo scellerato ed osannato modello economico imposto dal WTO in cui tutti i paesi occidentali hanno dovuto lentamente e progressivamente regalare le loro produzioni ed i loro ordinativi industriali alle nuove aree emergenti di questo millennio, così facendo si sono create le condizioni sociali ed industriali per una impensabile sperequazione.

L'Inghilterra regna sovrana su questo, il modello thatcheriano (privatizzazioni e dismissioni forzate dei gangli strategici della nazione) sta dimostrando come l'eccesso di liberismo economico produca l'esatto opposto di quello che aveva promesso. Gli USA che sono stati il primo paese a delocalizzare (con Messico ed India) hanno pagato il conto con la loro stessa solidità finanziaria.

Per chi non lo avesse ancora compreso i mutui subprime sono detonati perchè lentamente sono stati bruciati milioni di posti di lavoro e persone che avevano contratto precedentemente debiti per vivere non sono più stati in grado di ripargarli (la FED poi ci ha marciato accellerando il processo di polverizzazione finanziaria).

Ormai dovremmo parlare di una mutazione genetica per il nostro tessuto socioeconomico: il turbocapitalismo ci sta presentando i conti. E siamo appena agli inizi. Chi continua a profetizzare la fine di questa cosidetta "crisi" temo che non abbia veramente ancora compreso che cosa stia accadendo.

L'Italia è un paese manifatturiero (per quello che rimane) ed esportatore, questo significa che per esserci veramente ripresa questa deve realizzarsi al di fuori dei nostri confini, consentendo alla nostra economia di seguire a traino.

Tra meno di quindici anni saremo catapultati al quindicesimo posto su scala planetaria, non saremo più un paese industrialmenete rilevante, ma uno stato depresso in lento e silenzioso declino. Direi proprio silenzioso perchè di giovani a gridare ce ne saranno sempre meno: sempre tra quindici anni oltre il 40 per cento della popolazione avrà un'eta superiore ai sessant'anni.

Da Bel Paese un tempo, presto saremmo denominati come il cimitero degli elefanti. La contrazione della capacità produttiva industriale che si è verificata in questi ultimi mesi ci ha proiettati ai livelli di produttività di oltre quindici anni fa (non penso che si riuscirà mai più a recuperare questi livelli).

Il futuro è piuttosto delineato, chi è vecchio vivrà con quei quattro soldi messi da parte e chi è giovane si troverà a doversi inventare la vita di tutti i giorni, lavorando a missione e a singhiozzo: già tra cinque anni almeno 1/5 se non 1/4 delle aziende italiane si estinguerà o si ritirerà dal mercato, lasciando un profondo vuoto a livello occupazionale.

Non dimentichiamo inoltre come le pesanti situazioni di default finanziario che stanno vivendo le imprese italiane presto si riverserà proprio sui bilanci delle stesse banche che adesso (grazie alle strepitose opere di privatizzazione riguradanti appunto lo stesso sistema bancario italiano) continuano a dettare legge su chi vive e chi dovrà estinguersi.

Chi pensa di replicare il modello inglese per assorbire gli esuberi occupazionali, puntando quindi tutto sul terziario (settore dei servizi) probabilmente si è laureato per corrispondenza in Economia Davanti e Commercio Dietro presso l'Università per Barbieri.

A livello nazionale non vi è una forza politica che si faccia portavoce di esigenze di protezionismo nei confronti dei nostri gloriosi ed invidiati distretti industriali, l'unica risorsa che avevamo ovvero la distintività ed originalità della manifattura italiana è stata brutalmente sacrificata per permettere a paesi come la Cina di assorbire, copiare e far morire le nostre tipiche produzoni, diventando nel frattempo la grande fabbrica del pianeta.

A mio modo di vedere l'unica salvezza potrebbe essere un incredibile e improvviso cambio di governance politica che faccia emergere un "tribuno del popolo" stile Lula in Brasile, che contrasti e metta fine a questo dictat economico che sta portando il paese al suicidio industriale, sociale ed economico.


La verità di un Ponte inutile

di Italo Romano - www.oltrelacoltre.com - 26 Novembre 2009

Il Ponte sullo Stretto verrà costruito sul debito e non si ripagherà.

Questa e altre terribili verità saranno la vera base della Grande Opera che non unirà l'Italia.

Soffermatevi sui dati. Non uno è meno che inquietante.

Tra poco partiranno i lavori per la realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Oltre 6 miliardi di euro come costo iniziale: di cui 2,5 mld arriveranno dalla società Stretto di Messina (i cui soci maggioritari sono Anas e Trenitalia), i restanti 3,5 mld si dovranno ricercare tra gli investitori privati. Il ponte verrà costruito sul debito. La Stretto di Messina emetterà delle obbligazioni che lo Stato italiano dovrà ripianare nei prossimi 30 anni.

Questi 6 mld di euro la società Stretto di Messina conta di recuperali con i padaggi. Si, perchè tutto il progetto ponte è basato su uno strampalato piano di rientro economico che starà in piedi solo dinanzi ad un traffico di mezzi e di uomini imponente. Ma negli ultimi anni i traffici risultano drasticamente diminuiti. Vuoi la crisi, vuoi l’indecenza delle più basilari vie di comunicazione di Sicilia e Calabria, i dati parlano chiaro.

Secondo le stime il ponte dovrà smistare circa 100mila autovetture al giorno. Oggi “solo” 15mila vetture transitano da un parte all’altra dello stretto, da dove viene tutta questa necessità di costruire questa opera inutile? Senza contare che i 10 km circa (tratto in nero nella figura) percorribili in pochi minuti con i traghetti saranno, causa ponte, quintuplicati.

Difatti per raggiungere il ponte, per esempio per andare da Messina a Reggio Calabria, bisognerà uscire dall città e prendere la nuova tangenziale (tratto in rosso in figura), poi attraversare il ponte (tratto in giallo in figura) e prendere l’autostrada A3 (tratto in viola in figura) fino a Reggio Calabria per una distanza pari a circa 56 km!!! Ingenti perdite di tempo e di denaro. Per cui al maggiorparte dei pendolari che attraversano giornalmente lo stretto non useranno il ponte!!!

Inoltre secondo i dati forniti dalle Autorità portuali (aggiornati al 2008) il traffico lungo lo stretto è in netta diminuzione. Il traffico Camion è diminuito del 7%, quello dei passeggeri -20%, quello delle auto -30%, quello dei treni passeggeri -33%, quello dei treni merci -11%. Dinanzi a questi numeri il piano di rientro economico del Ponte sullo Stretto è come un castello di carte pronto a cadere prima di essere costruito.

Sarà lo Stato e, quindi, saremo noi cittadini a finanziare totalmente la faraonica opera. La società Stretto di Messina tra 30 anni, allo scadere della concessione, si vedrà rimborsata per metà il valore dell’opera. A quel punto chi gestirà l’abominevole cattedrale nel deserto?

Questo è quello che dovrebbe avvenire se tutto filasse liscio come l’olio. Ma, sappiamo bene che in Italia non è mai così. Il tempo stimato per l’ultimazione della grande opera è di 6 anni e mezzo. Però nessuno ad oggi, visto l’unicità della struttura, può prevedere con precisione i tempi finali.

Tra ritardi di progetto, ritardi tecnici, ritardi naturali e ritardi politici la costruzione del ponte potrebbe richiedere tempi biblici. I costi col passare degli anni lieviterebbero. I meteriali, come l’acciaio (di cui il ponte è quasi totalmente composto) negli ultimi anni hanno subito e potrebbero subire aumenti decisi e inaspettati che, probabilmente, faranno gonfiare l’iniziale investimento di 6 mld di euro di un somma pari almeno alla metà.

Autostrada Salerno-Reggio Calabria docet. Così vi sguazzeranno mafiosi e costruttori italiani che in quest’opera hanno intravisto le loro ricchezze future. L’inganno sta tutto nelle Partnership Pubblico Privato.

Tutte le grandi opere, dal Ponte sullo Stretto sino alle linee TAV, sono costruite con soldi pubblici o (come nel caso del Ponte che collegherà Sicilia e Calabria) garantiti dallo Stato, ma pensate per portare profitto ai privati che investono senza rischio alcuno in queste opere tanto grandi quanto inutili. In questo modo si generano debiti che si ripercuoteranno sulle generazioni a venire. Stiamo parlando di oltre 6 mld di euro, come un grossa manovra finanziaria!

In piccolo, avviene già nelle nostre città, dove i costruttori alzano palazzi e centri commerciali uno dopo l’altro, pagando le ditte fornitrici con assegni post-datati di 2 o 3 anni. Nel frattempo le ditte esterne che forniscono il materiale, non ricevendo pagamenti, falliscono e i termitai (nomignolo dispreggiativo assegnato ai costruttori) vedeno realizzarsi un doppio guadagno: costi di costruzione abbattuti e ricavi dovuti alla vendita o all’affitto degli stabili.

Così si fanno i miliardi, sulle spalle di chi lavora onestamente e anche, lasciatemelo dire, grazie all’ignoranza e all’indifferenza della gente che poi affolla le decine di inaugurazioni di centri sportivi, ipermercati, multisale e grandi catene mondiali!

Se poi ci addentriamo nei dettagli tecnici riguardanti l’impatto ambientale non se ne esce più. Scriveremmo decine di manuali contro l’innalzamento del Ponte sullo Stretto. Ma dinanzi tanto guadagno la tutela del territorio passa in secondo piano. Magari manderanno Sgarbi in giro nei vari salotti a dirci che il Ponte darebbe un tocco d’arte basato sulla prossima natura morta!!!

Il tratto che comprende la punta della Calabria e la punta nord-orientale della Sicilia è a forte rischio sismico e, come abbiamo visto di recente, soggetto a innumerevoli fenomeni franosi, anche di elevata entità.

Immaginate se una frana come quella di Messina di poche settimane fa interessase la zone di ancoraggio dei piloni…Dio solo sa il disastro che ne verrebbe fuori! Il ponte, per dati di progetto, è costruito per resistere a scosse di terremoto fino al 7° della scala Richter, pari a quello che rase al suolo Reggio e Messina nel 1908, perchè si pensa che il prossimo sisma che interesserà la zona sia della medesima portata. A questi ingegneri chi gli da così tanta sicurezza?

E se ci fosse un terremoto di livello superiore? Chi si prenderà la responsabilità del disastro? Questi soldi potrebbero essere ben spesi per la ristrutturazione e messa in sicurezza di Reggio e Messina dove solo un quarto delle case sono a norma anti-sismica. Cosa aspettiamo? Un’altra tragedia come quella avvenuta in Abruzzo mesi orsono? E poi? Che facciamo? Piangiamo in coro e ci disperiamo imprecando contro chissà quale dio malevolo?

Bisogna investire sul dissesto idrogeologico in cui versa la maggiorparte del territorio italiano. Bisogna investire sulle piccole opere locali, sono queste che possono generare ricchezza e posti di lavoro per tutti. Sono queste le opere che darebbero nuovo vigore all’economia e alla popolazione tutta. Se andiamo a vedere la situazione in cui versano le linee ferroviare e le “grandi” strade sicialiane e calabresi potremmo percepire l’immane inutilità del Ponte sullo Stretto.

Qui esistono ancora le linee mono-rotaia, ci sono galleria vecchie 50 anni, strade continuamente interotte per eterni lavori di ammodernamento, che, una volta ultimati risultano nuovamente obsoleti. Vogliono costruire un Ponte in mezzo al nulla! Vogliono distruggere habitat naturali millenari e sgombrare migliaia di cittadini senza possibilità di scelta in nome del più malefico dei profitti.

La società appaltatrice della ciclopica opera è la Imprese Eurolink S.C.p.a. il cui la maggioranza delle quote è detenuta dalla Impregilo S.p.a.. Ricordiamo che la Impregilo è il più grande gruppo di costruzioni italiano e il primo gruppo general contractor per le grandi opere in Italia.

Nonchè ditta appaltatrice delle linee TAV, del passante di Mestre, della Salerno-Reggio Calabria, dello Smaltimento rifiuti in Campania e di opere minori quali l’ospedale San Salvatore della città de L’Aquila dichiarato per il 90% inagibile dopo l’ultimo sisma e costato nove volte tanto l’iniziale stima dei costi!

Voi tutti siete a conoscenza del disastro ambientale della linee TAV specie nella tratta Firenze-Roma dove è stato riconosciuto un danno inestimabile del patrimonio naturale italiano. Voi tutti ricordate gli scandali (ancora attuali con l’ultimo caso Cosentino) dello smaltimento dei rifiuti in campania tra discariche abusive e inceneritori della morte.

Voi tutti, se almeno una volta siete stati in Calabria, avete potuto ammirare lo stato in cui versa dell’inizio (oltre 30 anni!) della sua costruzione l’autostrada A3, addirittura, per lunghi tratti ad una sola corsia per senso di marcia!!! Voi tutti avete potuto vedere gli ammalati portati via in fretta a furia, tra una scossa e l’altra, lo scorso Aprile dall’ospedale abruzzese costatato quanto nove ospedali di media grandezza.

La Impregilo è sotto processo per disastro ambientale anche oltre confine! Questi anzichè impastare cemento, solidificano rapporti con mafie e uomini di Stato in modo da spartirsi senza inimicarsi nessuno il ricco piatto.

Ora voi fareste uscire vostra figlia/o e vostra sorella/fratello con un uomo sotto processo per stupro e pedofilia? Credo di no! Voi richiamereste lo stesso elettricista che ha sbagliato l’impianto di casa vostra per avere un nuovo impianto elettrico? La risposta è ancora no! Eppure noi italiani stiamo silenziosamente consentendo che la Impregilo S.p.a. metta mano a un’opera tanto delicata quanto il Ponte sullo Stretto!

E’ una realtà veramente paradossale! Abbiamo raggiunto vette mai immaginate, qui siamo nel pieno di un abuso di potere grande quanto tutta la nostra Italia. Eh si, perchè per quanto ne possano dire i signorotti seduti in Parlamento, questa Italia è ancora nostra e siamo noi, in Democrazia, a decidere cosa è meglio per il nostro paese!

Sono nati così Movimenti di protesta territoriali, etichettati come egoisti e retrogradi, populisti e anti-democratici, che hanno avuto la lucida follia di comprendere il grande inganno di queste sciagurate politiche volte ad arricchire i pochi eletti.

In tutta la Penisola sono sorti movimenti spontanei a difesa dei più basilari diritti di ogni cittadino, dai No Tav ai No dal Molin passando per i No Ponte. Movimenti composti da gente comune stanca delle politiche arroganti degli uomini di governo. E forse qui che deve nascere una nuova Italia, dal basso, tra noi gente comune, siamo noi il cambiamento, siamo noi il futuro…

La verità è che questo ponte non serve a nessuno tranne a chi sulle sciagure altri costruisce le propria fortune…

Il 19 Dicembre ci sarà una grande manifestazione per fermare i cantieri del ponte organizzata dalla Rete No Ponte credo che più saremo e meglio sarà! Dobbiamo abbattere il muro che la politica e i cani dell’informazione hanno messo tra noi e il Ponte sullo Stretto di Messina. Se non lottiamo noi per i nostri diritti non lo farà nessuno al nostro posto…

Vi lascio con una frase di Pericle nel suo famoso Discorso alla città di Atene che racchiude in sè tutto il senso di una democrazia: “Un uomo che non si interessa dello Stato non lo consideriamo innocuo, ma inutile“.