lunedì 30 giugno 2008

L'unto di illegalita'

C'e' poco da dire sui comportamenti ripetitivi, scontati e votati all'illegalita' del presidente del Consiglio. Non rappresentano certo una novita' e gli italiani che lo hanno votato, se lo sciroppassero adesso.

Poveri illusi, credevano che Silvio gli avrebbe risolto i problemi economici, con aumenti dei salari, diminuzioni delle tasse e dei prezzi dei beni alimentari.
Che imbecilli, si meritano proprio di sprofondare nella merda.


Legittimità e legalità
di Barbara Spinelli - La Stampa - 29 Giugno 2008

Se, come ha scritto Carlo Federico Grosso su questo giornale, «il barometro della legalità in Italia segna tempesta», vuol dire che qualcosa di grave sta succedendo, nel governo e nella coscienza dei cittadini: qualcosa che guasta il rapporto che ambedue hanno con il diritto e la giustizia, che li rende indifferenti alle continue capricciose riscritture di leggi e competenze. Qualcosa che inquina non solo il nostro rapporto con la democrazia ma anche la domanda, diffusa, di stabilità e sicurezza delle istituzioni. Piano piano ci stiamo abituando all'idea, ingannevole, che un governo durevole con vasta maggioranza sia sinonimo di stabilità. Che un esecutivo capace di decidere (o decisionista) sia possibile solo indebolendo istituzioni e fonti di diritto altrettanto centrali per lo Stato (Csm, magistratura).

Ma soprattutto, ci stiamo abituando a un'idea scivolosa: che sopra la legalità e separata da essa possa sussistere una categoria superiore: la legittimità. La legittimità non trarrebbe la sua forza da leggi preesistenti, che prescindono da sconquassi contingenti. Essa poggerebbe su una sorta di consacrazione extralegale, che consente di accentrare in una persona o in un unico corpo i poteri di far legge. Grosso evoca le tappe di Berlusconi su questa strada. La prima consiste nel dire che «quando incombono grandi emergenze, rispettare la legge diventa opinabile» (discorso sui rifiuti a Napoli).

La seconda, più grave, consiste nel dire che «quando un Governo ha ricevuto un mandato forte dagli elettori e governa direttamente in nome del popolo, ha diritto di gestire il potere senza intralci o impedimenti», lasciando «poco spazio ai controlli in corso d'opera».L'idea che sussista una legittimità preminente sulla legalità non è tuttavia una novità e neppure è tirannide classica.

È una malattia della democrazia, una sua estremizzazione: è quel che le accade quando il peso del potere (esecutivo o legislativo) non è corretto da contrappesi egualmente autonomi, forti (da un sistema di check and balance). È un'escrescenza democratica basata su convinzioni sbadate: che il liberalismo sia un prodotto della democrazia e non una sua premessa (un prius, dice Sartori). Che la rule of law nasca con la democrazia anziché precederla.

L'unzione del capo può discendere da Dio, da antiche dinastie. Può anche esser democratica e in tal caso chi unge è il popolo liberato dal tiranno, è la «volontà generale» teorizzata nella Rivoluzione francese (non è molto diverso nell'Antico Testamento: la legittimità d'Israele unge tutto un popolo nell'esodo-liberazione).

Lo Stato democratico unto dalla volontà popolare rischia l'assolutismo non meno dei re antichi: Carl Schmitt descrivendo Weimar lo chiamava Stato legislativo parlamentare e lo riteneva rovinoso perché contrapposto allo Stato giurisdizionale e al suo «durevole, generale» imperio della legge. In una democrazia siffatta il popolo è un'entità non eterogenea ma omogenea, monolitica, e in quanto tale conferisce al principe il diritto esclusivo di legiferare. La maggioranza parlamentare pretende di coincidere con tale popolo indifferenziato ed è in suo nome che il legislatore reclama il monopolio sulla legalità. Minoranze, opposizioni, autorità di garanzia e regolamentazione sono d'intralcio coi loro «controlli in corso d'opera», e la democrazia sfocia nell'autoritarismo.

Quel che per strada si perde è la liberale separazione dei poteri: la persuasione di Montesquieu secondo cui «perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere». Se Luigi XIV diceva «lo Stato sono io», Berlusconi democraticamente dice: io, unto dal démos, sono la Legge.

Berlusconi è figlio della Rivoluzione francese, non del liberalismo e di Montesquieu. I motivi che spingono a estremizzare la democrazia possono essere molti. Schmitt ricorda che chi monopolizza la legalità e mette in concorrenza il legittimo col legale invoca generalmente «concetti indeterminati» come sicurezza e ordine pubblico, pericoli nazionali e stati di necessità, emergenze, interessi vitali e infine guerre.

Anche lo «spirito di conciliazione» tra governo e opposizione viene invocato in tempi di torbidi, usando la chimera del popolo uniforme e buono per corrompere la democrazia esasperandola. La corrompe a tal punto che lo scopo spesso viene mancato. Infrangere rule of law e separazione dei poteri non dà più sicurezza, ma riduce il senso del dovere degli italiani. Non dà più pace civile, perché acuisce le tensioni e perché l'immunità per le alte cariche non rende queste ultime più autorevoli.

All'origine di simili distorsioni c'è il convincimento che il mandato popolare sia tutto, e chi l'incarna sia legibus solutus: sciolto da leggi, immune da sanzioni. Che sia esso stesso la legge, la legge del più forte. Che il mandato conferisca non solo speciali diritti ma un premio supplementare di legittimità al legislatore e all'esecutivo. «In una democrazia legge è la volontà del popolo così come questo si presenta, cioè praticamente la volontà della momentanea maggioranza dei cittadini che hanno diritto di voto: lex est, quod populus iubet» (è legge quel che ordina il popolo - Schmitt, Legalità e legittimità, 1932): «Il 51 per cento dei voti popolari dà la maggioranza in Parlamento; il 51 per cento dei voti parlamentari dà il diritto e la legalità; il 51 per cento di fiducia del parlamento al governo dà il governo parlamentare legale».

Tale è la democrazia senza imperio della legge: un male ricorrente da secoli, cui le sinistre non sono affatto estranee. La linea di separazione non è infatti fra destra e sinistra, né fra democratici e antidemocratici, ma fra democrazia liberale e estremismo democratico: per la prima la questione centrale è come si esercitano i poteri per evitarne gli abusi, mentre per l'estremismo democratico la cosa cruciale è chi li esercita.

Quando non è contaminata dallo Stato giurisdizionale, la democrazia scivola nella tirannide e riconoscerlo è difficile non solo a destra. Figlia del democraticismo giacobino, la sinistra non sempre è attrezzata per il dilemma legalità-legittimità, e per far proprio quel che scrisse Bobbio nell'84: «Lo Stato liberale è il presupposto non solo storico ma giuridico dello Stato democratico». La preminenza data alla legittimità delle maggioranze è una tentazione costante, così come costante è l'appello alle emergenze nazionali.

L'ininterrotta guerra al terrorismo ha spinto Bush a sprezzare le convenzioni di Ginevra su tortura e prigionieri di guerra. Ma lo stesso avvenne per motivi nobili con De Gaulle, che due volte mise in primo piano la legittimità. Prima nel 1940, quando da Londra denunciò - in nome della Resistenza - la legalità di Pétain. Poi nel 1958, quando impose una nuova Costituzione per sormontare l'immobilizzante partitocrazia della Quarta Repubblica. Il passato antifascista lo aiutò a tacitare chi lo accusò, nel '58, di golpismo.

L'esempio di De Gaulle è importante perché dimostra la natura anfibia (nobile o pericolosa) del concetto di legittimità. Ci si riferisce a essa anche per il diritto alla resistenza. Anche Antigone contrappone la propria legittimità al legalismo del re Creonte. Non è per pignoleria che occorre approfondire il dilemma legalità-legittimità. Proprio perché l'Italia ha bisogno di una discontinuità che finalmente dia allo Stato l'autorevolezza che non ha, urgono concetti non manomessi, chiari. Proprio perché i torbidi esistono, urge al tempo stesso aver memoria e accortezza nell'azione. La memoria conferma che le più grandi catastrofi storiche son spesso costruite su cose mal pensate. L'accortezza insegna che le rotture possono esser benefiche (fu il caso di De Gaulle) ma a una condizione: che rompendo non si curi il male con dosi ancor più massicce del male di ieri.


La legalità secondo il Cavaliere
di Carlo Federico Grosso - La Stampa - 24 Giugno 2008

Alcune settimane fa Berlusconi aveva affermato che, quando incombono grandi emergenze, rispettare la legge può diventare opinabile. Parlava del caso Napoli e della sua immondizia. Si riferiva, in particolare, alle infrazioni compiute in Campania da alcuni funzionari nel nome di un asserito interesse generale e criticava le indagini penali compiute nonché le misure cautelari assunte nei confronti dei responsabili delle infrazioni.

Se agire era necessario per risolvere un gravissimo problema, occorreva comunque operare, qualunque cosa stabilissero le leggi.Nei limiti posti, il problema poteva anche costituire oggetto di discussione fra i giuristi. Non sempre rispettare alla lettera la legge corrisponde all’interesse pubblico del momento. Una legge inadeguata alla situazione può recare danno anziché sollievo. Fino a che punto, allora, nel nome del rispetto della legalità, è ragionevole rischiare di non risolvere i problemi? Fino a che punto l'osservanza del precetto può essere, invece, sacrificata all'esigenza di salvaguardare gli interessi minacciati? Legalità è sempre, e soltanto, rispetto della norma o può diventare, talvolta, tutela concreta, per necessità, degli interessi in gioco? Teoricamente si possono sostenere entrambe le posizioni.

Si può affermare che la legge deve essere rispettata sempre e comunque, pena la perdita di autorità dello Stato; si può affermare che in via del tutto eccezionale, quando sono minacciati interessi vitali delle persone, è consentito infrangerla nel nome di una ragionevole valutazione degli interessi in gioco.

La prima tesi corrisponde a una visione formale e rigorosa della legalità; la seconda inquadra il tema nella prospettiva di una valutazione anche di sostanza. In questa seconda ipotesi la legalità è comunque salva, si dice, poiché a cose fatte dovrebbe essere in ogni caso un giudice a stabilire se vi era lo stato di necessità idoneo a giustificare la condotta.

Qualche giorno fa, alzando i toni contro la magistratura politicizzata che lo avrebbe dolosamente vessato, parlando addirittura di magistrati eversivi che si sarebbero infiltrati nell'istituzione giudiziaria per contrastarlo, Berlusconi ha fornito un ulteriore suo concetto di legalità. Quando un Governo ha ricevuto un mandato forte dagli elettori e governa pertanto direttamente in nome del popolo, ha diritto di gestire il potere senza intralci o impedimenti. Sarà il popolo, a fine legislatura, a giudicare la sua azione, approvando o bocciando, con il voto, l'attività compiuta.

In questa prospettiva poco spazio deve essere lasciato ai controlli in corso d'opera, siano essi politici da parte dell'opposizione, giuridici da parte degli organi di garanzia, di legalità da parte di una magistratura indipendente. L'opposizione, se è rigorosa, deve essere considerata automaticamente faziosa, gli organi di garanzia, se possibile, devono essere resi domestici con riforme che ne sviliscano i poteri, la magistratura deve essere a sua volta contenuta.
Quest'ultima esigenza costituisce priorità assoluta.

In tale prospettiva si spiegano le iniziative legislative in materia di giustizia. Con un disegno articolato e complesso sono state progressivamente programmate, con ritmi incalzanti per dimostrare determinazione e disorientare gli avversari, limitazioni delle intercettazioni, meno notizie sui giornali in materia di indagini penali, sospensione dei processi, nuovo lodo Schifani a copertura delle alte cariche dello Stato, in grado di eludere, se possibile, le vecchie censure della Corte Costituzionale.

Chissà quant'altro ancora, a questo punto, verrà progettato, nella medesima direzione, nei mesi prossimi venturi. Ecco che si profila, allora, il volto nuovo dello Stato di diritto voluto dal presidente del Consiglio. Non si tratta più, soltanto, di valutare come legittime condotte antigiuridiche necessarie per fronteggiare asserite situazioni d'eccezione, come egli aveva sostenuto alcune settimane fa a Napoli in un clima politico ancora molto diverso. Con una escalation di progetti, con l'innalzamento dei toni, con l'aggressività delle parole, egli sembra, oggi, volere instaurare un nuovo sistema di governo sostanzialmente senza regole e controlli, introdurre una nuova Costituzione materiale.

In questo modo, egli sostiene, il governo potrà diventare più efficiente, risolvere finalmente i molti problemi incancreniti, rilanciare il Paese. Gli italiani avranno finalmente più sviluppo, più benessere, più felicità. Poche sono, a questo punto, le discussioni possibili fra i giuristi. O si accetta il nuovo concetto di legalità o lo si rifiuta in blocco. Non sono più possibili mezzi termini, parziali benedizioni, condiscendenze. Fino a ieri si era sperato che un nuovo clima di non contrapposizione fra maggioranza e opposizione potesse favorire l'accordo per un approccio ragionevole al tema delle indispensabili riforme elettorali e costituzionali. Oggi il barometro segna, purtroppo, tempesta. Abbozzare, condividere, acconsentire diventa molto più difficile, forse impossibile.

domenica 29 giugno 2008

Il totale fallimento di Bush in Medio Oriente

Mancano ormai pochi mesi alla fine del mandato presidenziale di Bush e il bilancio finale della sua politica nei riguardi del Medio Oriente e' del tutto fallimentare.

Naturalmente i mainstream media nostrani non se ne sono accorti, ma e' molto piu' probabile che aspetteranno il risultato delle prossime elezioni presidenziali USA per scendere dal carro del presidente USA piu' disastroso della storia.

Di solito pero' si sale sul carro del vincitore, non su quello del perdente...


Qui di seguito un lungo articolo tratto dal sito antiwar fa una spietata sintesi di questo fallimento a 360 gradi dell'amministrazione Bush.


L'eredità di Bush per il Medio Oriente
di Muhammad Sahimi - AntiWar.com - Tradotto per EFFEDIEFFE.com da Massimo Frulla
Originale > Explosively False Propaganda

Nessuna parte del mondo, neppure gli Stati Uniti, ha risentito della Presidenza Bush più profondamente del Medio Oriente. A partire dai pomposi obiettivi del dar vita ad una "rivoluzione democratica," del creare un "nuovo Medio Oriente," e dell'aiutare i Palestinesi ad avere il proprio stato indipendente, per finire con la finta "guerra al terrore," le invasioni di Iraq ed Afghanistan e l'impicciarsi degli affari del Libano, la politica medio-orientale di Bush è stata semplicemente un disastro via l'altro.

La realtà è che il Medio Oriente è per gli Stati Uniti, di importanza strategica fondamentale. Il coinvolgimento statunitense nell'area di certo non terminerà quando Bush, a gennaio 2009, uscirà dalla Casa Bianca. Pertanto, poichè il secondo mandato presidenziale si avvia al termine, è importante prendere in esame i risultati della sua politica per il Medio Oriente, con la speranza che il prossimo presidente possa trarre insegnamenti significativi dalle numerose cantonate di Bush e pianifichi una politica mediorientale più costruttiva. Quindi, prendiamo in esame il lascito di Bush.

Iraq

Se c'è un risultato positivo minimo ottenuto da Bush con la sua politica per il Medio Oriente, questo è la rimozione dal potere di Saddam Hussein e del suo Partito Ba'ath. Ma, a quale prezzo ?
1. Di fatto l'Iraq è stato diviso fra Shi'iti, Sunniti e Curdi.
2. L'Iraq è diventato un gigantesco campo di addestramento per gli estremisti di Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Pakistan e Kuwait.
3. Le infrastrutture irachene sono state significativamente danneggiate. Ci vorranno decenni perchè l'Iraq ritorni al livello nel quale si trovava prima della guerra.
4. La maggior parte dell'eredità culturale irachena è stata trafugata dai musei.
5. I prigionieri iracheni sono stati torturati ad Abu Ghraib ed in altri posti.
6. Due milioni di iracheni hanno abbandonato il loro paese. Logicamente sono quelli con livello culturale più elevato ( almeno 3000 di essi sono professori ), professionisti e benestanti; la loro partenza costituisce quindi una cospicua fuga di cervelli. Fatte le debite proporzioni, sarebbe come se 24.000.000 di americani abbandonassero gli USA.
7.Quasi 2,5 milioni di iracheni sono rimasti nei confini iracheni ma sono stati spostati. Questo equivale a 30.000.000 di americani che si ritrovassero con lo status di rifugiati pur restando negli Stati Uniti.
8. Più o meno 1,1 milioni di iracheni sono stati uccisi. In proporzione, è come fossero stati uccisi 13.000.000 di americani, un numero impressionante. Da notare che fra i morti ci sono almeno 230 professori, ed altri 60 mancano all'appello, presumibilmente morti.
9. Minimo 1.000.000 di bambini iracheni sono orfani.
10. Il 70% dei bambini iracheni soffre di disturbi mentali.
11. Joseph Stiglitz, della Columbia University, premio Nobel per l'economia nel 2001, e Linda Bilmes dell'Harvard University calcolano che il costo finale della guerra possa raggiungere i due trilioni di dollari [ 2.000.000.000.000 di dollari, 3 milioni di miliardi delle vecchie lire al cambio attuale , ndt ]. Se per dieci anni a fila venissero raddoppiati i finanziamenti per la ricerca contro il cancro, venisse curato ogni americano con il diabete o disturbi di cuore, venisse condotta una campagna globale di immunizzazione che salverebbe milioni di bambini,se tutto questo fosse fatto per dieci anni a fila, il costo totale ammonterebbe a 600 miliardi di dollari [ 600.000.000.000 di dollari, ndt ].

Come se questo prezzo pagato dagli iracheni fin'ora non fosse abbastanza, l'amministrazione Bush-Cheney ha fatto richiesta al governo iracheno per le seguenti "negoziazioni" segrete:

1. 58 basi militari ( americane )
2. controllo dello spazio aereo iracheno al di sotto dei 32.000 piedi
3. L'autorità di uccidere od arrestare, senza autorizzazione irachena, chiunque sia ritenuto "ostile"
4. L'autorità di iniziare attività di guerra al terrorismo dall'Iraq, senza necessità di permesso iracheno
5. Totale immunità da incriminazioni su suolo iracheno per militari americani ed appaltatori civili americani.

L'ultimo punto fu richiesto dagli Stati Uniti anche all'Iran, all'inizio degli anni '60, e fu la miccia per le rivolte iraniane del 5 giugno 1963, che di fatto portarono alla Rivoluzione iraniana del 1979. Come disse all'epoca l'Ayatollah Khomeini:"Capitolazione significa che se noi uccidiamo i cani che gli Americani si sono portati dietro in Iran, noi saremo incarcerati, ma se loro uccidono noi, o le nostre mogli, o i nostri bambini, o distruggono le nostre case, in Iran non saranno neppure incriminati."

Il lascito di Bush all'Iraq ? Un paese distrutto, unificato solo sulla carta e, molto probabilmente, una mezza colonia americana, fin dove si possa prevedere per il futuro.

Afghanistan

Dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre, c'è stato un oceano di buona volontà verso gli Stati Uniti, ed un grande sostegno alla distruzione di al-Qaeda. E poi ?

L'Afghanistan è stato attaccato anche se gli USA sapevano benissimo che i capi di al-Qaeda si erano già rifugiati nella nazione confinante del Pakistan, e ripetutamente Donald Rumsfeld disse che "non ci sono buoni bersagli in Afghanistan." I Talebani erano già stati rovesciati. Ma a che punto è ora l'Afghanistan ?

1. I Talebani stanno risorgendo. Stanno guadagnando terreno ed il sostegno dell'etnia Pashtun, e controllano la maggior parte del sud dell'Afghanistan. Ricordo che appena prima degli attacchi dell'11 settembre, erano disprezzati.
2. Al confronto con l'Iraq, l'Afghanistan ha ricevuto scarsi aiuti. E' un paese agitato e confuso, prova ne è il tentato assassinio del Presidente Hamid Karzai, il recente assalto delle forze Talebane alla prigione di Kandahar con la liberazione di almeno 400 Combattenti Talebani. Il tasso di disoccupazione è minimo al 60%.
3. Karzai è visto da molti Afgani come il burattino degli USA, questo in una nazione che storicamente ha sempre avuto una bassa tolleranza per gli stranieri ed i loro servitori.
4. La produzione di oppio, che fu bandita sotto i Talebani, è fiorente. Fornisce il 93% dell'eroina mondiale ed il 53% del Prodotto Interno Lordo afgano.
5. A parte la capitale Kabul, il governo ha difficoltà di controllo. Il paese è stato di fatto diviso fra i Capi Militari.
6. Il numero di soldati NATO è salito da 20.000 nel 2003 a più di 64.000, compresi 3.200 Marines appena arrivati. Praticamente ogni giorno civili innocenti sono uccisi dai bombardamenti NATO, il che crea un forte desiderio di vendetta contro la NATO.

Il lascito di Bush all'Afghanistan ? Dal punto di vista economico è un "caso clinico" che necessità di consistenti aiuti internazionali per la sola sopravvivenza e che per decenni non sarà in una condizione vivibile, se mai lo sarà.

Pakistan

Dall'11 settembre, gli USA hanno foraggiato il Pakistan per 11 miliardi di dollari di aiuti, oltre ad aver condonato i debiti pregressi. L'80% di tali aiuti ( 9 miliardi di dollari circa, ndt ), è finito nelle mani dei militari con il presunto scopo di combattere al-Qaeda. Come è andata a finire?

1. Il 90% degli aiuti militari [ 90% di 9 miliardi = 8,1 miliardi di dollari circa. ndt ], è stato utilizzato dal Generale Pervez Musharraf per comperare armamenti avanzati e metterli al confine India-Pakistan, una delle aree meno stabili la mondo, dove due nazioni con armi nucleari sono allineate una contro l'altra.
2. Musharraf in effetti ha siglato un accordo di pace con i simpatizzanti dei Talebani delle province ovest e nord del Pakistan, il che significa che sia i Talebani che al-Qaeda hanno zone sicure per l'addestramento dei terroristi.
3. Con il consenso USA, od almeno col suo silenzio, Musharraf ha ripetutamente violato la Costituzione pakistana. Per esempio, l'anno scorso ha rimosso ed imprigionato quei giudici della corte Suprema pakistana che gli si opponevano. Quindi ne ha nominati di nuovi che però hanno dovuto giurare fedeltà a lui e non alla Costituzione pakistana. I giudici incarcerati ancora aspettano di essere liberati.
4. Gli USA manovrarono per far ritornare Benazir Bhutto in Pakistan giusto per dare una facciata civile ad una dittatura militare, senza neanche accertarsi che fosse al sicuro. E' stata infatti assassinata.

Lascito di Bush al Pakistan ? Una nazione con armi nucleari in condizione di instabilità, con un gran numero di fanatici nei suoi servizi segreti ( ISI ), che sono di sostegno ai Talebani.

Libano

Dopo l'assassinio del precedente Primo Ministro libanese Rafik Hariri il 14 febbraio 2005, e la conseguente Rivoluzione dei Cedri, Bush ha spinto affinchè in Libano ci fossero delle elezioni democratiche. Queste si tennero nella primavera del 2005, ma i risultati non furono quelli che piacevano a Bush.

Non solo Hezbollah ottenne una significativa percentuale di voti e mandò 14 suoi rappresentanti in parlamento, ma anche i suoi partners della coalizione dell'8 Marzo ottennero un significativo numero di voti, così Hezbollah entrò nel luglio 2005 nel governo del Primo Ministro Fouad Siniora. Fu il fallimento dell progetto di "democrazia diretta" sponsorizzato da Condoleezza Rice.

Ma Bush non smise di rimestare negli affari del Libano. Sobillò costantemente Siniora contro Hezbollah ed i suoi alleati, in particolare contro Michel Aoun, ex-generale Maronita. Risultato : completa paralisi del governo. Poi venne la guerra fra Hezbollah ed Israele, estate 2006. Hezbollah iniziò la guerra, e fu legittimamente condannato dal mondo. Ma Hezbollah aveva portato avanti numerose simili piccole operazioni in passato, ed ogni volta c'era stato un rapido cessate il fuoco.

Non questa volta. Con il deciso sostegno di Bush e Cheney, Israele iniziò una guerra su larga scala. Nel frattempo, gli USA impedivano che il Consiglio di Sicurezza dell'ONU raggiungesse un qualunque accordo sul cessate il fuoco, facendo guadagnare tempo ad Israele con la speranza che stroncasse Hezbollah. Condi Rice promise un "nuovo Medio-oriente," uno nel quale Hezbollah fosse sconfitto e l'Iran fosse attaccato. Milleduecento libanesi ( 1000 dei quali civili ), ed oltre 150 israeliani ( 40 dei quali civili ), furono uccisi e le infrastrutture libanesi furono pesantemente danneggiate dai bombardamenti israeliani.

Ma fu Hezbollah a vincere la guerra. Benchè un ufficiale USA abbia detto a Seymour Hersh che gli israeliani consideravano il Libano "una anteprima per l'Iran", il Pentagono dovette rivedere i suoi piani per attaccare l'Iran. Dopo aver visto i tipi di armamenti usati da Hezbollah, il Generale John Abizaid, l'allora comandante del CENTCOM, disse che gli Iraniani "ci hanno dato indizi sulle cose che ci aspettano."Hezbollah è rimasto intatto, e la sua popolarità nel mondo arabo è più grande di prima.

Questa era la seconda volta che vinceva una guerra con Israele. La prima fu nel 2000, quando, dopo quindici anni di combattimenti con Israele, Hezbollah lo obbligò a ritirarsi dal Libano del sud, che aveva occupato dal 1982.

Ma Bush continuò a rimestare. Spinse Siniora a far dimettere il capo della sicurezza dell'aeroporto di Beirut, sospettandolo di essere un membro Hezbollah, e fece chiudere la rete di comunicazioni ottiche di Hezbollah, che aveva giocato un ruolo decisivo nella vittoria su Israele.

Risultati: Hezbollah ha conquistato rapidamente Beirut Ovest ed ha allontanato le forze leali a Siniora. Ha preteso il ripristino della sua rete di comunicazioni, la riassunzione del precedente capo della sicurezza ed il potere di veto su tutte le decisioni governative. Siniora a quel punto ha intrapreso delle azioni contro Hezbollah contando sull'aiuto USA. L'aiuto non è mai arrivato. Bush ha vacillato. Siniora ha vacillato.

Risultati : Hezbollah ha avuto tutto quanto richiesto e di più. Michel Sulewiman, un generale con il quale Hezbollah è in ottimi rapporti, è ora il Presidente. Hezbollah è potente come non mai.

Lascito di Bush al Libano ? Una organizzazione che gli USA hanno bollato come terroristica ha conseguito una serie impressionante di vittorie sia sugli USA che su Israele, e c'è Hezbollah al posto di guida.

Iran

L'Iran, quando le forze USA attaccarono l'Afghanistan nell'autunno 2001, fornirono loro aiuti significativi. Aprì il suo spazio aereo ai caccia USA e fornì informative dei servizi sulle forze dei Talebani. Quelli dell'Alleanza del Nord, le forze di opposizione che per anni gli americani avevano sostenuto, furono i primi a raggiungere Kabul ed a rovesciare il governo Talebano.

Quindi, durante i colloqui ONU di Bonn, Germania, del dicembre 2001 sul futuro dell'Afghanistan - successivi alla deposizione dei Talebani - il rappresentante iraniano Mohammad Javad Zarif si incontrava giornalmente con James Dobbins, inviato USA, che lodò Zarif per aver impedito che la conferenza saltasse a causa delle richieste dell'ultimo minuto mosse dall'Alleanza del Nord. Perciò il governo di Unità Nazionale di Karzai non sarebbe salito al potere senza l'aiuto dell'Iran.

Come fu ricompensato l'Iran? Due mesi dopo, il Presidente Bush inserì l'Iran quale capolista del suo immaginario "asse del male." Successivamente, nel maggio 2003, l'Iran fece agli USA un'ampia proposta, offrendo di negoziare su tutti i temi importanti, riconoscendo Israele nei suoi confini precedenti la guerra del 1967, e chiudendo i rubinetti del sostegno ad Hamas ed Hezbollah. La proposta non fu mai presa sul serio.

Quali gli effetti della belligeranza di Bush verso l'Iran e del suo costante demonizzare tale nazione ?
1. Gli Iraniani hanno visto i doppi criteri adottati dagli USA che da una parte offrono garanzie di sicurezza ed aiuto alla Corea del Nord e tecnologia nucleare avanzata all'India, mentre dall'altra solo sanzioni e minacce all'Iran. Per questo, nel 2005 eleggono Mahmoud Ahmadinejad, il cui programma elettorale si basava in parte sul fronteggiare gli USA.
2. A fronte delle dichiarazioni di Bush contro il programma nucleare iraniano, rimane il fatto che l'Iran ha fatto più progressi in tale programma durante la sua presidenza che non nei precedenti 30 anni. Questo è dovuto solo al fatto che Bush non ha accettato di negoziare con l'Iran senza porre delle pre-condizoni.
3. A causa degli avvenimenti in Afghanistan, Iraq e Libano, i radicali iraniani sono di fatto al posto di guida e la loro popolarità, nel mondo islamico, è alta come non mai.
4. I fautori della linea dura hanno utilizzato gli stupidi proclami di Bush a sostegno dei riformisti per etichettarli quali agenti USA, e si sono avvantaggiati delle sue minacce all'Iran per cercare di sopprimere il movimento democratico.

Il lascito di Bush all'Iran ? Una nazione sul punto di ottenere l'arricchimento dell'uranio e di diventare una potenza regionale.

Palestina/Israele

Quando Bill Clinton lasciò nel 2001 la Casa Bianca, Israeliani e Palestinesi erano desiderosi e vicini ad un accordo di pace. Oggi, la probabilità della pace è praticamente a zero. Nessun altro presidente USA ha sostenuto Israele in modo così di parte e con un tale paraocchi. E' anche il primo presidente USA che di fatto abbia riconosciuto la politica israeliana del costruire ed annettersi gli insediamenti del West Bank, fornendo ad Israele una lettera segreta che impegna gli USA in tale politica.

Con il sostegno di Bush, Israele ha "evacuato" Gaza e creato la più grande prigione sulla Terra, Gaza stessa, i cui confini di terra, mare ed aria sono controllati da Israele. Israele attacca Gaza a suo piacimento e quando uccide donne, bambini e vecchi, innocenti, cosa dice Bush ? "Israele deve difendere se stessa."

Bush e la Rice hanno spinto perchè si tenessero delle elezioni democratiche fra i Palestinesi. Anche i radicali volevano quelle elezioni ! Cosa è successo ? Le elezioni si tennero e furono certificate come democratiche da Jimmy Carter, ma vinse Hamas. Hamas ricevette più voti di qualunque altro gruppo, incluso Fatah, e prese il controllo del parlamento palestinese.

Come al solito, la Rice ne fu colpita. "Nessuno se lo aspettava," dichiarò. ( Nessun segretario di stato ha mai compiuto viaggi in Israele e Palestina più della Rice e senza ricavarne nessun risultato. ) Come è andata a finire ? Invece di cercare di lavorare con Hamas, che non è mai stato una minaccia per gli USA, Bush ha iniziato a punire i Palestinesi tagliando ogni aiuto e facendo pressioni perchè gli altri seguissero la politica USA. Hamas ha risposto mettendo in rotta le forze di Fatah a Gaza e prendendo il pieno controllo della situazione.

Bush ha finto di appoggiare a parole la creazione di uno stato palestinese indipendente. Nel suo recente discorso davanti alla Knesset, il parlamento israeliano, Bush ha promesso che i Palestinesi dovrebbero avere uno stato loro "nei prossimi 60 anni." Bella promessa.

Il lascito di Bush a Israele/Palestina ? La pace fra Israele ed i Palestinesi è meno probabile che mai.

Il Medio Oriente

In aggiunta a tutto quanto sopra, ecco il rimanente del lascito di Bush al Medio Oriente:
1. Quando Bush fu eletto, il greggio era a 35 dollari al barile. Oggi è vicino ai 140. Grossolanamente, metà del prezzo del petrolio è dovuto a motivi politici, il più importante dei quali è l'instabilità nel Medio Oriente, instabilità causata dalle guerre e dalle minacce di guerra di Bush.
2. Quando si verificarono gli attacchi terroristici dell'11 settembre, nel mondo islamico c'era molta simpatia per gli USA. Oggi, il mondo islamico in gran parte li disprezza.
3. Quando Bush fu eletto, USA ed Iran avevano una possibilità di riconciliazione a seguito del discorso di Madeleine Albright dell'aprile del 2000 nel quale espresse rincrescimento per il ruolo della CIA nel colpo di stato del 1953 in Iran [ Persia, all'epoca, ndt ]. Oggi, una tale possibilità non esiste, perlomeno finchè Bush non se ne va.
4. Bush fu eletto solo otto mesi dopo che i riformisti iraniani presero il controllo del parlamento iraniano nelle elezioni del marzo 2000, e solo sette mesi dopo che l'allora Segretario di Stato Madeleine Albright parlasse dei "forti venti di cambiamento" in Iran. La vittoria dei riformisti, insieme con la elezione di Mohammad Khatami del 1997, ha prodotto numerose discussioni ed analisi interne alle nazioni Arabe del Medio Oriente circa il bisogno di riforme nei loro paesi. In effetti, alcuni di tali paesi, tipo l'Arabia Saudita, il Kuwait e la Giordania, avevano iniziato un cauto muoversi verso le riforme. Ma dopo l'11 settembre e la dichiarazione di Bush di "guerra al terrore," tutti i cauti movimenti verso le riforme sono stati fermati. I regimi di queste nazioni hanno infatti scelto di usare la "guerra al terrore" come scusa dietro la quale nascondere e giustificare la repressione dei propri cittadini.

Bush si rifiuta tutt'ora di riconoscere il casino che ha creato nel Medio Oriente. Il suo lascito complessivo al Medio Oriente è PEF : Propaganda Esplosivamente Falsa [ EFP : Explosively False Propaganda, nell'originale, ndt ], per tramite della quale sta ancora cercando di spacciare al pubblico i suoi deliri come se fossero verità..

Sì, Signor Presidente, contrariamente a quanto da lei detto recentemente in pubblico, esiste una cosa definibile come "storia oggettiva a breve termine," e lei ne ha miseramente fallito la verifica.

sabato 28 giugno 2008

L'inesistenza dell'Iraq nei mainstream media

Nei mainstream media da parecchi mesi ormai non si parla piu' di Iraq, se non sporadicamente per aggiornare l'elenco dei morti per l'ennesima autobomba o attacco suicida.

Silenzio tombale sull'accordo che nelle prossime settimane leghera' mani e piedi di cio' che e' rimasto di quel Paese.

Un accordo che servira' alle varie multinazionali del petrolio per ottenere finalmente il "meritato" premio dopo 5 anni e mezzo dall'inizio dell'invasione USA. La loro pazienza sara' premiata, sempre che tutto fili liscio senza intoppi dell'ultima ora.


Ladri di notizie
di Mazzetta - www.altrenotizie.org - 28 Giugno 2008

Era il 2003 quando Amnesty International fu accusata di fare “terrorismo” pronosticando cinquantamila morti in seguito all'invasione dell'Iraq. A quel tempo i fautori della guerra sostenevano che si sarebbe trattato di un'operazione relativamente semplice intitolata alla diffusione della democrazia in Medio Oriente. Un milione di morti, dieci milioni di feriti e mutilati e quattro milioni di profughi iracheni dopo, sull'invasione dell'Iraq cala una cappa di silenzio a favorire lo scontato epilogo della più grande operazione criminale del nuovo secolo. Tutto sembra dimenticato ed in Iraq sembra non accada più nulla. Difficile pensare che si tratti di un caso. Cinque anni dopo l'invasione il silenzio sull'Iraq serve alla consumazione del grande furto. Il motivo reale dell'invasione dell'Iraq è il controllo degli approvvigionamenti di idrocarburi nell'area mediorientale, chi ancora lo neghi non può che essere in malafede.

Nelle ultime settimane si sono registrate due significative novità: la completa sparizione dell'Iraq dal mainstream occidentale e l'assegnazione dello sfruttamento delle risorse petrolifere irachene proprio alle compagnie occidentali che furono espropriate da Saddam quando nazionalizzò il petrolio. Dicono i soloni dei media che negli Stati Uniti l'Iraq in televisione non tira più e di conseguenza le big dell'informazione si sono adeguate e meditano un ritiro quasi completo dal fronte. Fronte sul quale restano centocinquantamila “bravi ragazzi”, quasi altrettanti mercenari, in gran parte statunitensi; tutti americani che non interessano più agli americani.

Andrew Tyndall, un consulente televisivo che osserva i palinsesti informativi serali dei tre maggiori network, ha rilevato che lo spazio dedicato all'Iraq è stato “massicciamente” ridotto nel 2008 rispetto al 2007, ultimo di una serie di anni comunque a calare. Nei primi sei mesi del 2008 sono stati complessivamente centottantuno minuti a settimana, contro i millecentocinquantasette registrati durante lo scorso anno. Quasi tutte le major ormai progettano una fuga da Baghdad dopo le elezioni americane di novembre. Si spengono le luci e l'assassino torna sul luogo del delitto. Quasi quattro decenni fa quattro grandi compagnie occidentali controllavano il petrolio iracheno.

BP, Exxon Mobil, Total e Shell erano azionisti alla pari di un consorzio anglo-franco-americano che ha controllato le risorse irachene per quasi mezzo secolo. La Turkish Petroleum Company, creata nel 1912 per impadronirsi delle riserve dell'impero ottomano in disfacimento, poi divenuta Iraq Petroleum Company. Queste quattro compagnie hanno ottenuto un accordo per “assistere” il governo iracheno nello sviluppo dei pozzi, pur non avendo competenze in proposito visto che questo genere di attività è svolto da imprese specializzate e non delle major che si occupano della sua distribuzione. Accordo che sarà remunerato in petrolio, ma soprattutto con un diritto di prelazione sui giacimenti iracheni una volta che sia stata varata la legge nazionale sugli idrocarburi.

Una truffa smaccata per scavalcare la resistenza del parlamento iracheno, che da anni come Penelope tesse e disfa la tela di una legge che nessun iracheno vuole firmare, vista la pretesa americana per un assetto che consegni il petrolio proprio a quelle compagnie. Dicono quasi tutti i media anglosassoni che questa mossa ha agitato gli arabi “sospettosi”, che si sono fatti venire in mente e alla bocca accuse di rapina colonialista a mano armata. Strano, che cattivoni questi arabi “sospettosi”.

Il fatto che gli americani abbiano protetto, unico tra tutti, il ministero del petrolio nel giorno dell'invasione, che gli Stati Uniti vogliano una legge sul petrolio terribilmente sfavorevole agli interessi iracheni, che gli Stati Uniti abbiano costruito in Iraq basi immense e un'ambasciata fortificata per millecinquecento addetti e che stiano perpetrando una truffa per scavalcare la volontà del parlamento iracheno, non ha spinto alcun commentatore anglosassone od occidentale ad andare oltre la citazione dei sospetti dei “sospettosi” e innominati arabi.

Lo assicurano fior di commentatori e di stupidi galantuomini, secondo i quali siamo andati in guerra per combattere il feroce Saladino che ci voleva sgozzare e per portare la civiltà in quelle lande desolate abitate da beduini. Il petrolio non c'entra, è un dettaglio secondario per un'amministrazione di petrolieri, sulla buona fede della quale non si possono esprimere dubbi del genere, nemmeno dopo la certificazione dell'enorme mole di fandonie propinate alle opinioni pubbliche, nemmeno dopo la rivelazione di come l'invasione dell'Iraq sia fino a qui servita per far sparire in centinaia di truffe gran parte del denaro dei contribuenti americani stanziato per il conflitto e per l'invisibile ricostruzione irachena.

Tony Blair e il suo omologo australiano Howard, sono stati denunciati da numerose associazioni occidentali per i crimini di guerra commessi in Iraq. Procedimenti a loro carico sono stati avviati al Tribunale Penale Internazionale. Molto probabilmente, vista la mole di prove a carico dei denunciati, si farà un processo con i due ex premier alla sbarra. La stessa avventura potrebbe capitare a breve al primo ministro italiano Silvio Berlusconi. A George W. Bush no, gli Stati Uniti sono tra i pochi stati che non hanno aderito alla convenzione istitutiva del TPI. Al contrario sono gli unici che con pressioni e ricatti hanno estorto trattati di esclusione di responsabilità per le truppe americane a numerosi governi.

I cattivi arabi “sospettosi” e gli occidentali minimamente smaliziati intanto potranno continuare ad assistere allibiti ed impotenti a questo massacro della realtà, traendo ben poca soddisfazione dall'esser stati facili profeti di sventura. Nessuno dei folli sostenitori dell'invasione irachena se n’è ancora dissociato, nel nostro paese l'argomento sembra un tabù inaffrontabile e il garrulo neo-ministro della difesa straparla di una escalation dell'impegno del nostro paese in Afghanistan.

Nemmeno l'evidenza di come la guerra abbia contribuito all'esplosione della speculazione energetica mondiale suscita dibattito. Il tema dell'energia è così importante che si preferisce delirare di centrali nucleari piuttosto che puntare il dito contro chi quell'energia se la vuole conquistare a mano armata e a prezzo di qualunque massacro.

Un italiano “sospettoso” potrebbe pensare che ciò sia dovuto alla mancia promessa all'ENI per la partecipazione e il supporto politico dell'Italia al conflitto, ma probabilmente si tratta solo del servilismo di una classe politica troppo occupata a depredare i propri cittadini per potersi concedere il lusso di riflettere prima di pronunciare sonori “yes!” in cambio di un misero posto a tavola.

venerdì 27 giugno 2008

Afghanistan: La NATO e’ sempre piu’ odiata

Aumenta costantemente l’odio degli afghani verso le truppe occidentali, e non c’e’ da stupirsi di certo.

Un odio che continuera’ a crescere in maniera esponenziale fino a quando non saranno costrette a ritirarsi, come e’ gia’ successo agli inglesi nel XIX secolo e ai russi 20 anni fa.

Nel frattempo la NATO chiede rinforzi.


Afghanistan: sempre più forte il risentimento popolare verso le truppe occidentali
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 25 Giugno 2008

Amir, un ragazzo pashtun di 25 anni, usa Internet per tenersi informato su quel che accade nel suo Paese. Ogni giorno legge sui siti in lingua locale di decine di afgani, talebani o civili, uccisi dalle forze Nato. “La gente dei nostri villaggi è ignorante e dopo tutti questi anni di guerra considera ogni occidentale un ‘bastardo americano’ da far fuori. Tra la popolazione c’è un crescente sentimento di ribellione e di odio verso gli stranieri e un sempre maggiore sostegno per i talebani”.

L’ostilità degli afgani verso le truppe occidentali è sempre più forte e sempre più spesso esplode in rabbiose proteste. Come è accaduto lunedì mattina a Khogyani, nella provincia orientale di Nangarhar, dove centinaia di persone sono scese in strada al grido di ‘Morte all’America’ dopo che un missile lanciato da un elicottero Apache aveva distrutto una casa uccidendo due civili: un bambino e suo padre. La Nato ha negato l’accaduto.

Civili vittime di bombardamenti e gravi abusi. A fomentare l’odio della popolazione afgana verso le truppe straniere non sono solo i tanti civili uccisi dalle bombe e dai missili della Nato – spesso vere e proprie stragi, come i 33 civili uccisi in un bombardamento aereo lo scorso 10 giugno nel villaggio di Ebrahim Kariz, nella provincia di Paktika.
A gettare benzina sul fuoco sono anche le violenze commesse dai soldati governativi afgani che operano a fianco delle truppe occidentali, le quali si guardano bene dal contrastare e denunciare le aberranti malefatte dei soldati locali.
E’ di pochi giorni fa la notizia che i comandi canadesi hanno dato ordine ai propri soldati di “ignorare” i casi di stupri di bambini commessi da militari afgani. Casi che pare siano così frequenti da aver causato traumi psicologici a molti reduci canadesi.

La Nato in difficoltà chiede ancora rinforzi. Intanto la guerra continua sempre più violenta, sia sul terreno militare che su quello della propaganda.
Ogni giorno i portavoce alleati annunciano l’uccisione di decine di ‘insorti’ in seguito a combattimenti e raid aerei: i talebani negano, ammettendo pochissime perdite o dicendo che i morti sono in realtà civili. Dal canto loro, i portavoce talebani annunciano quotidianamente di aver ucciso molti soldati occidentali in scontri a fuoco, agguati e abbattimenti di elicotteri: i comandi Nato non commentano o smentiscono regolarmente.

Intanto però chiedono continuamente nuovi rinforzi per far fronte a una situazione oggettivamente sempre più difficile: lunedì il comandante delle forze Usa Michael Mullen ha detto di aver bisogno di almeno altri 10mila soldati per combattere i talebani. Il mese di giugno è stato per la Nato il più sanguinoso dall’inizio della guerra, con trentadue soldati caduti, secondo i dati ufficiali.

mercoledì 25 giugno 2008

Berlusconi? un inutile perditempo

Anche oggi Berlusconi, davanti alla platea dell’assemblea annuale di Confesercenti, ha vomitato il suo solito veleno contro la magistratura, urlando “Sono costretto ogni sabato mattina, a preparare con i miei legali udienze in cui sono oggetto dell'attenzione dei pm o giudici politicizzati che sono la metastasi della democrazia” e parlando poi di “democrazia calpestata” e “Paese in libertà vigilata”. Aggiungendo poi che il dialogo con l’opposizione “giustizialista” si è spezzato definitivamente.

Ma questa volta la platea gli ha riservato una sonora bordata di fischi e ciò potrebbe far ben sperare su un prossimo risveglio di un Paese che lo ha votato in massa per risolvere i gravi problemi economici che attanagliano la stragrande maggioranza delle famiglie italiane e che di certo non l’ha votato per ritrovarsi per la quarta volta un Presidente del consiglio attento invece solo a risolvere i propri problemi con la giustizia, dimenticandosi totalmente che l’Italia sta sprofondando nel baratro e che non c’è più tempo da perdere per cercare quantomeno di porvi un minimo rimedio.

Invece Berlusconi, come era facilmente prevedibile, sta perdendo tempo dietro alle sue solite faccende personali che si trascina da 20 anni, mentre il Paese è allo sfascio. Un uomo noioso e inutile.

Complimenti ai suoi fan, che ben presto si ritroveranno spiaccicati nel baratro che attende l’Italia. E senza neanche rendersene conto.


Il prezzo dell'impunità
di Giuseppe D'Avanzo – La Repubblica – 25 Giugno 2008

Berlusconi andrà fino in fondo senza curarsi degli inviti del Capo dello Stato a trovare in Parlamento soluzioni condivise - almeno per materie come la sicurezza e la giustizia. Non si attarderà ad ascoltare le perplessità del suo alleato (la Lega). Non presterà alcuna attenzione alle sollecitazioni di un'opposizione moderata e ragionevole (Udc, Pd).

Non stringerà la mano tesa di una magistratura che, stanca di guerra, vuole almeno tutelare - in questa temperie - una decente funzionalità dell'amministrazione giudiziaria, un'accettabile efficacia del processo penale, la concretezza della pena. Venisse giù il cielo, Berlusconi andrà fino in fondo per due ragioni che sono indivisibili nella indefinitezza che ha sempre separato il suo privato dalla responsabilità pubblica che (legittimamente) interpreta. Deve proteggersi da un presente penale e rimuovere ogni incognita dal futuro. La sua urgenza personale (non essere processato) è diventata pubblica necessità come la diffusa percezione d'insicurezza, come la crisi della "monnezza" a Napoli.

Oscurità che chiedono di essere rimosse presto, con un'immediata decisione, rapida come un lampo di luce, anche a costo di violare lo Stato di diritto - anche in quest'occasione, come nelle altre - di separare lo Stato dal diritto. Diventata estrema e improrogabile la necessità di fermare il suo processo e di scongiurare la possibilità che ce ne siano in futuro, vengono congelati per un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno del 2002, in attesa di approvare un nuovo "lodo" immunitario.

Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari. È un reato rarissimo, in Italia. Si celebrano meno di due processi all'anno per quel delitto. È questa trascurabile presenza statistica che rende indispensabile fermare per un anno migliaia di processi per i più diversi reati. La decisione paralizza una macchina giudiziaria già inceppata e caccia l'esecutivo in una contraddizione irrisolvibile e irragionevole, se ci fosse ancora spazio per la ragione.

Da un lato, definisce un catalogo di reati di grave allarme sociale e ne irrobustisce le pene; dall'altra, per gli stessi reati (stupro, usura, traffico di rifiuti, sfruttamento della prostituzione, omicidio colposo per i pirati della strada...) li dice irrilevanti, marginali e dappoco fino allo spartiacque del 30 giugno 2002.

In nome di una personale sicurezza e impunità, il capo del governo accetta di mettere in tensione la sicurezza di tutti. Racconta di voler rendere più sicuro il Paese e lo rende disarmato. Chiede alla magistratura di fronteggiare le minacce diffuse e l'azzoppa irrimediabilmente. Il metodo può apparire incoerente per il senso comune, per la più fragile delle decenze istituzionali. È, al contrario, ragionevolissimo per un esecutivo e una maggioranza iperpersonalizzati che presentano il premier come un sovrano, come il solo salvatore capace di risolvere i problemi del Paese, il solo uomo in cui la maggior parte degli italiani ha "fiducia".

Salvare da ogni controllo di legalità Berlusconi, trasformato in icona e pietra angolare del sistema; proteggere il suo potere e - con esso - la possibilità stessa di una "decisione" libera dai consueti legacci o dai "costituzionali" contrappesi vuol dire - in questo nuovo, artificioso stato di necessità - tutelare non Berlusconi, ma il governo del Paese, la sola via d'uscita dalle molte crisi che lo affliggono.

In questo slittamento di significato dal privato al pubblico, dalle ragioni di uno alle necessità di tutti, si deve cogliere uno dei segni distintivi di questa stagione politica. Bisogna cominciare a fare i conti con gli esiti. Occorre iniziare a cogliere, dietro la retorica berlusconiana, le tecniche che la sostengono. È necessario prendere atto, oggi e innanzitutto, dello svuotamento funzionale del potere del Parlamento.

C'erano molte ragioni per una valutazione attenta del Senato dei pericoli, contraddizioni e debolezze del provvedimento con forza di legge approvato dal governo. Le circostanze aggravanti da infliggere a chi "si trova illegalmente sul territorio nazionale" rispettano il dettato costituzionale o danno vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero?

La sospensione incondizionata dei processi migliora davvero il "servizio giustizia" nell'interesse del cittadino - sia esso imputato o vittima - o ne pregiudica in modo grave il lavoro? Un'immunità che garantisca le alte cariche dello Stato deve davvero passare attraverso lo strappo violento del precetto che rende tutti uguali davanti alla legge? C'era anche "materia" politica e istituzionale da sorvegliare dopo le aperture della Lega, le proposte di Udc e Partito democratico, le prudenti riflessioni dell'Associazione nazionale magistrati.

Il Senato (e alla Camera non andrà in modo diverso) si è mostrato del tutto indifferente a ogni questione; disinteressato a ogni distinzione tra utile e dannoso, necessario e arbitrario, giusto e ingiusto; neutrale anche rispetto ai valori costituzionali interpellati dal decreto del governo e dagli emendamenti imposti dal presidente del Consiglio. Affiora un metodo.

Il Parlamento (un Parlamento non di eletti, ma di "nominati") rinuncia a elaborare "politiche", le subisce. Non le discute, le approva a occhi chiusi consegnandosi, come fosse un involucro vuoto, a una impotente autoemarginazione. Libera dalla presenza del potere legislativo, la retorica "anti-sistema" di Berlusconi potrà muoversi senza ostacoli - se quel che si è visto finora è soltanto un saggio del futuro della legislatura - lungo i confini disegnati dalle tre strategie finora messe in campo.

Istituzionale: coinvolge il capo dello Stato nelle sue iniziative, salvo imbrogliarlo nel merito; mima il dialogo con le opposizioni, salvo affondarlo secondo convenienza. Extra-istituzionale: con una comunicazione manipolata e sovrattono, abusa della "fiducia" che il Paese gli concede a piene mani per compilare un'agenda di governo che ne trascura i problemi più autentici. Anti-istituzionale: aggredisce con sistematicità le istituzioni di controllo, subito la magistratura. È un'agevole previsione credere che molto presto toccherà all'informazione.

martedì 24 giugno 2008

Italia: un futuro di povertà

Le prospettive di un progressivo ma pesante impoverimento nel prossimo futuro degli italiani sono molto concrete.

E questo anche perché l’aumento dei salari è e sarà sempre legato al tasso d’inflazione programmato, un’invenzione della BCE, a dir poco inferiore rispetto a quello effettivo e reale, che è invece quantomeno il quadruplo.

Quindi una grave e inarrestabile erosione del potere d’acquisto è ciò che ci aspetta, insieme ad un costante aumento dei prezzi dei carburanti, dell’energia e dei prodotti agricoli primari.
E intanto è già crollato in Italia il consumo di pane, diventato ormai un prodotto di lusso.


Il nostro arretramento pianificato
di Maurizio Blondet – Effedieffe – 23 Giugno 2008

Com’è vecchio Epifani (CGIL): crede di vivere ancora sotto la lira, al tempo della sovranità monetaria. Poichè Tremonti ha posto un «tasso d’inflazione programmato» ridicolo, 1,7%, Epifani ha fatto due conti e scoperto che un salario da 25 mila euro annui perde 1500 euro di potere d’acquisto in tre anni. Bella scoperta.
Tremonti gli ha consigliato di telefonare alla BCE: «Vi spiegherà qual’è il motivo tecnico per cui ci chiede di inserire nei documenti di finanza pubblica questa indicazione».

Appunto, non siamo più sovrani della moneta. Viviamo sotto una moneta estera, l’euro, ed è la Banca Centrale Europea a imporre il tasso d’inflazione a quel ridicolo livello.
Tremonti però avrebbe dovuto spiegare meglio il motivo tecnico: si tratta del piano di impoverimento programmato, deciso dai gestori monetari, della classe media e lavoratrice europea.

La cosa risponde, in qualche modo, a giustizia: un popolo italiano che è meno colto, meno istruito, meno produttivo del popolo cinese o indiano, non può pretendere di avere un potere d’acquisto superiore.
Nel prossimo decennio, ci impoveriremo al livello cino-indiano, mentre gli indiani e i cinesi saliranno tendenzialmente verso il livello attuale europeo. Ci si incontrerà a metà strada.
Ma ovviamente, una cosa è essere dalla parte che sale, e ben peggio è stare dalla parte che scende.

Non è solo perdita del potere d’acquisto; è la perdita storica di possibilità che attende le generazioni future (e semi-analfabete); ci saranno meno speranze, e prospettive più ristrette.
E se l’istruzione continua a scendere, ci saranno sempre meno competenze, quelle da cui dipende se risaliremo dall’abisso.
E’ l’Occidente che diventa terzo mondo (1).

Il fenomeno non è solo italiano. Nè euro-dipendente. In Gran Bretagna, milioni di famiglie si sono accorte che il costo della vita è aumentato per loro del 6,7% annuo (inflazione reale) contro il 3,3% d’inflazione ufficiale.

E un’inflazione programmata dal governo britannico del 2% (2). Il che è giusto, visto che i giovani maschi bianchi britannici intendono andare all’università solo in 26 casi su cento, mentre quelli di origine indiana o pakistana proseguono gli studi superiori in 62 casi su cento (3).
Si sta evidentemente formando un sottoproletariato permanente di ignoranti bianchi, che saranno comandati e diretti da una classe dirigente di colorati.

Epifani vuole un tasso d’inflazione più alto per ottenere aumenti automatici dei salari; tutto lavoro in meno per i sindacati.
Ma - è questo il segreto di pulcinella rivelato da Tremonti - la politica imposta dalla Banca Centrale persegue deliberatamente il progetto contrario: tenere il tasso d’inflazione artificialmente basso, in modo che gli alti salari europei (immeritati) vengano a poco a poco divorati dall’inflazione reale.

Chi vuol guadagnare di più - questa la teoria - non si affidi agli automatismi; si metta a sgobbare, a fare più straordinari, il doppio lavoro, o - extrema ratio - a studiare di più. Questa teoria, come tutte le teorie economiche, viene da Washington.
Paul Krugman, economista di Princeton, benchè piuttosto critico del sistema capitalistico terminale, segnala che ormai la sola cosa da fare è scongiurare l’innesco della spirale prezzi-salari degli anni ‘70-‘80 (4).

Nel 1981, il sindacato minatori USA strappò un aumento contrattuale dell’11% in 33 anni, seguito da aumenti salariali per tutte le altre categorie. «Lavoratori e datori di lavoro si impegnarono nel gioco della cavallina: i primi chiedevano aumenti di salario per tener testa all’inflazione, le ditte passavano i costi salariali maggiorati sui prezzi delle merci e servizi, e prezzi rincarati portavano ad ulteriori richieste salariali e così via».

La spirale della «stag-flation». Da cui l’America è uscita con la deregulation, spietata soprattutto per i lavoratori.Oggi, dice Krugman, è sciocco temere che l’alluvione monetaria con cui la FED ha salvato le banche d’affari provochi inflazione. «Dove sono i sindacati che chiedono aumenti salariali dell’11 %? Anzi, dove sono i sindacati tout court? I consumatori si preoccupano dell’inflazione, ma bisogna cercare col lanternino lavoratori che chiedano di compensare l’inflazione con salari più alti, e meno ancora padroni disposti. Di fatto le paghe sembrano persino rallentare, data la debolezza del mercato del lavoro».

L’offerta di lavoro - contrariamente all’offerta di petrolio - è sovrabbondante: è «giusto» che costi sempre meno. Quindi la FED fa benissimo a non aumentare il tasso primario per tenere sotto controllo l’inflazione. Non ci sarà inflazione.
Il prezzo del disastro finanziario lo pagheranno i lavoratori.Agisce qui il dogma - sancito da Milton Friedman, l’autore dell’ultraliberismo terminale - che l’inflazione è sempre e solo un problema monetario.

I rincari di petrolio e cibo, che hanno altre cause, non sono definiti «inflazione». Basta, dice Krugman, che i prezzi delle materie prime calino. E caleranno perchè, nell’immiserimento generale, ci sarà meno richiesta per esse. Allora «anche l’inflazione si calmerà da sè».E’ il Washington Consensus - sempre quello - a cui la Banca Centrale Europea sta obbedendo.

A modo suo: mantiene interessi altissimi e impone ai Paesi membri più sconquassati «tassi d’inflazione programmata» ridicoli, raccomandando in più «moderazione salariale».
Il lavoro italiano ha produttività bassa, e quindi il suo potere d’acquisto deve adeguarsi alla produttività.

Naturalmente non è colpa dei lavoratori se la loro produttività è bassa: è colpa delle imprese che non hanno investito in impianti nè in sviluppo, ed è colpa dell’inefficienza pubblica sprecona, la vera palla al piede.Perciò, in questo fenomeno storico di arretramento - che dovremo sopportare - il nostro vero problema non è l’erosione del reddito reale.

Il vero problema italiano è che potenti categorie si difendono - perchè possono - dall’erosione. Gli stipendi pubblici sono aumentati regolarmente più dell’inflazione reale; e peggio, aumentano meno quelli degli statali utili (poliziotti, insegnanti) e moltissimo quelli dei grandi fannulloni ammanicati.

Epifani ha fatto il calcolo su un salario privato di 25 mila euro l’anno, che perderà 1.500 euro di potere d’acquisto. Incauto: 25 mila euro sono la paga mensile dei deputati, e certo quelli si compenseranno dall’inflazione.

E’ solo un esempio fra i tanti: pensate ai notai o agli idraulici, all’ENEL, ai bottegai, ai consiglieri regionali o dirigenti di ASL. Quelli, possono mantenere il loro livello di vita e d’acquisto, facendolo pagare a noi - precisamente a quella parte della popolazione che sta discendendo la china storica verso la miseria da terzo mondo.

Un simile programma di arretramento storico richiederebbe la condivisione dei sacrifici, a cominciare dalle categorie parassitarie, che costano troppo per il nulla che danno.
Oltretutto, la loro difesa dei propri livelli di vita indebiti rallenta il processo di discesa dei prezzi - già spasmodicamente lento - che deve seguire l’impoverimento generale. Sappiamo che ciò non avverrà. Ne abbiamo le avvisaglie.

Il governo ha provato ad abolire nove province, e già si sta rimandando tutto, per le forti resistenze dietro le quinte che incontra. Tremonti ha preso provvedimenti timidi verso i profitti eccelsi dei petrolieri; e nessuno verso le banche e le assicurazioni (ho appena visto che, per fare un bonifico, la banca si è prelevata 6 euro, 12 mila lire!).

Nessuno in Italia ha la forza di ridurre alla moderazione le cosche e le caste. Krugman, americano, si domanda «dove sono i sindacati». Noi no, perchè lo sappiamo: sono a fianco di ogni Casta.

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1) Ho spiegato più ampiamente questo processo storico in «Schiavi delle banche» (EFFEDIEFFE).
2) Harry Wallop, «Middle class hit as annual bills increase at twice inflation rates», Telegraph, 23 giugno 2008. «Le famiglie di classe media sono quelle più colpite, perchè tendono ad usare più l’auto e a mandare I figli a scuole private e università». In Gran Bretagna la famiglia che l’hanno scorso spendeva 100 sterline a settimana per il cibo, oggi ne spende 406. Il costo dell’istruzione superiore è aumentato del 13,1% in un anno. E il ministro delle Finanze (Cancelliere allo Scacchiere) Alistair Darling raccomanda di non reagire chiedendo più alti stipendi: «L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di tornare alla situazione degli anni ‘70-80, dove qualunque aumento salariale veniva divorato dagli aumenti dei prezzi nei negozi. Gli aumenti sia nel settore pubblico come in quello privato devono essere coerenti con la nostra inflazione programmata del 2%. Sarà difficile, sarà dura». Ma almeno in Inghilterra gli stipendi pubblici saranno trattati come i salari privati. Da noi è ben diverso.
3) Alexandra Frean, «White teenagers are significantly less likely to go university than their peers from ethnic minority gropus», Times, 18 giugno 2008.4) Paul Krugman, «A return of that ‘70s show?», New York Times, 2 giugno 2008.

lunedì 23 giugno 2008

L’ineluttabile fine dei centri sociali

Col passare degli anni l'agonia dei centri sociali milanesi si è aggravata in maniera esponenziale e irreversibile fino ad arrivare all’attuale situazione di “morte cerebrale” causata soprattutto da una perdita totale di consenso, straripante autoreferenzialità, eccessiva commercializzazione, mancanza di unità tra le varie realtà e progressiva autoghettizzazione in chiave egoistica.

Oggi al presidio per l’ennesimo tentativo di sgombero del Leoncavallo – rinviato poi al prossimo 22 Settembre – c’erano infatti i soliti quattro gatti. Ben diverse erano le cifre 15/20 anni fa.

Un’epoca si è definitivamente chiusa anche perché è la stessa città di Milano che è cambiata dal punto di vista sociale, peggiorando inesorabilmente.
Ma nelle altre città italiane, dove sono storicamente presenti queste realtà, la situazione non sembra essere molto diversa da quella milanese.

L’ineluttabilità della fine per tutte queste realtà è fin troppo evidente, ma rimane sempre l’esile speranza di una loro trasformazione radicale in grado nuovamente di aggregare consensi e, soprattutto, persone.
D’altronde si sa, “nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”.
Forse.

Qui di seguito un rapido e interessante excursus sulla realtà milanese “antagonista” degli ultimi 20/30 anni.

Noi punk del Virus e i centri sociali milanesi
di Marco Philopat – Il Manifesto – 21 Giugno 2008

Nel 1977 avevo 15 anni e sotto casa mia c'era il primo centro sociale di Milano occupato nel '75, la Casermetta di Baggio. Dentro c'erano quelli di Avanguardia Operaia che tentavano di fare qualcosa di positivo nel quartiere, il Movimento Studentesco che andava nelle vicine case minime a organizzare il doposcuola per i figli dei migranti meridionali, poi quelli più avventurosi dell'Autonomia che erano una marea.

Le prime volte avevo provato a curiosare le lezioni del doposcuola, ma presto mi ero annoiato, nel cortile della Casermetta c'erano ben altre attrazioni rispetto all'insegnamento dell'italiano a dei ragazzini svogliati, i quali a loro volta preferivano sognare la rivoluzione con gli autonomi. La lotta per noi consisteva soprattutto nella partecipazione a qualche manifestazione tesa contro la polizia e nelle serate di socialità diffusa tra cannette e chitarre acustiche.

Eravamo tanti, tutti giovani, mezzi milanesi e mezzi terroni, estremamente felici e sicuri di diventare i protagonisti di un mondo che stava cambiando pelle velocemente. A Milano i centri sociali erano numerosi, senza contare i circoli del proletariato, le sedi politiche extraparlamentari, le librerie e le redazioni dei giornali, se c'era una minima ingiustizia sociale in qualche oscuro angolo di città, la risposta del movimento non tardava mai a farsi sentire.

L'eroina e il punk

La pacchia durò pochissimo e dal vertice dell'onda settantasettina si passò direttamente alla depressione del 1979. La Casermetta fu sgomberata insieme a molti altri centri e circoli, tanti compagni arrestati e noi giovani ribelli dell'ultimora finimmo per irrobustire le file già affollate degli eroinomani. Mi salvai grazie al punk che mi portò a gridare il no future nelle strade di un centro cittadino completamente ripulito. Lì, come per incanto, resisteva ancora un altro centro sociale, il Santa Marta di Demetrio Stratos e delle Kandeggina Gang. Ma la Milano da bere era allora molto convincente e gli ex militanti del movimento creativo furono presto assoldati dai rampanti socialisti craxiani, e così per i pochi punk milanesi non restava altro da fare che rifugiarsi in uno degli ultimi centri sociali sopravvissuti in una zona quasi periferica, a via Correggio 18.
Nei primi quattro anni degli Ottanta il Virus, il locale per i concerti interamente autogestito dai punk nato all'interno di via Correggio 18, era praticamente l'unico luogo antagonista che funzionava ancora. Cioè, c'era per esempio il Leoncavallo e alcuni altri, ma dentro si faceva ben poco e rare erano le persone che li frequentavano.

Al Virus nacque, per la prima volta dopo la grande repressione e il riflusso, una nuova aggregazione giovanile che in pochi mesi moltiplicò la sfera dei propri interessi. Si passò dallo slogan quasi disperato, stampato a caratteri cubitali sugli striscioni dietro al palco che diceva «quando il sistema ti chiude ogni spazio, non rimane che la musica per esprimere il tuo dissenso», all'organizzazione di una grande manifestazione a Comiso contro i missili nucleari, con l'intenzione di occupare la base militare per far suonare le band punk di tutta Europa.

Nel maggio 1984 il Virus tentò di occupare un vecchio teatro in disuso, il volantino portava le firme del Leoncavallo e dell'ultimo tra i circoli, quello di Viale Piave. La polizia sgomberò in poche ore, poi una settimana dopo, per timore di qualche forma di rigurgito stile anni settanta, la giunta comunale socialista si allineò alla questura e tutta l'area di via Correggio 18, Virus compreso, verrà eliminata dalla faccia della città. I punk si stabilirono al Leoncavallo e nel giro di qualche concerto le bianche pareti immacolate del vecchio centro sociale si riempirono di scritte e graffiti a spray.

Il Leo degli anni '80

Nella seconda metà degli anni Ottanta il Leoncavallo, con la gestione dei compagni provenienti dalla storica casa occupata di via dei Transiti, ospitava l'esperienza similpunk dell'Helter Skelter da cui poi sfocerà il centro sociale Cox 18, nato dall'espansione di un'antica sede anarchica. Entrambi i luoghi saranno sottoposti agli sgomberi e poi alle rioccupazioni nel corso dell'estate del 1989.

Da allora, e per tutti gli anni Novanta, a Milano i centri sociali fioriranno ovunque, tra i tanti la Pergola e S. Antonio Rock Squot nel quartiere Isola, il laboratorio anarchico, la casa delle donne di via Gorizia e lo Squott di viale Bligny in Ticinese, la Panetteria e l'Adrenaline a Lambrate, il Vittoria e Via dei Missaglia a sud della città, il Micene e il Galla nella zona nord ovest e nell'hinterland la Cascina di Vaiano Valle, il Bakeka di Novate, l'Eterotopia di San Giuliano, la Corte del Diavolo a Sesto. I Csa a quel tempo agivano nella direzione del soddisfacimento dei bisogni immediati e non guardavano certo al rilancio di grandi utopie.

Non c'erano grandi progettualità politiche ed esistenziali come quelle che avevano caratterizzato il loro esordio vent'anni prima, al limite si erano fatti promotori di una proposta culturale innovativa riuscendo a strapparla al business del divertimento o al monopolio delle ormai decadenti organizzazioni di partito o sindacali. Funzionavano anche come informali camere del lavoro per precari dell'emergente era postfordista e infatti molti tra i gestori e frequentatori impararono una professione, in genere nel campo culturale, chi tecnici dello spettacolo, chi operatori specializzati e qualcuno anche giornalista o regista di video.

Le geografie del desiderio

Intanto nel giugno del 1996 era stato pubblicato un libro, una sorta di fotografia con l'autoscatto, Centri sociali - Geografe del desiderio realizzato da Cox 18 e Leoncavallo con l'aiuto del consorzio Aaster e di Primo Moroni. Ci si interrogava sul ruolo dei Csa in una città come Milano, la disponibilità o meno di entrare in dialettica con il territorio di insediamento, oppure il chiudersi in logiche autoreferenziali.

La questione della diversità e dell'autonomia ma allo stesso tempo il significato dell'essere attraversati da migliaia e migliaia di persone ogni giorno, le prime analisi sui nuovi modelli produttivi e sulla precarietà nel mondo del lavoro, la crisi di rappresentanza e la rappresentanza informale di interessi ben più ampi di quelli a cui si era abituati a pensare.

Il rischio dello slittamento nei rapporti tra i gestori e l'utenza dei centri che poi sarà una delle cause scatenanti dell'attuale situazione di stallo. I centri sociali autogestiti, si diceva, devono affrontare periodiche «prove», sia sul piano simbolico che su quello della tutela concreta, in base alle quali legittimare il proprio implicito parlare ed agire «a nome di», pur nel rifiuto di ogni principio di delega. Di «prove» se ne abbozzarono poche e quel rifiuto del principio di delega che univa il movimento dei centri sociali milanesi fu messo inevitabilmente in discussione.

Tuttavia sul finire del decennio altri spazi aprirono, per esempio il Bulk, il Torkiera e l'Orso, la rivolta di Seattle aveva spinto all'azione le cosiddette moltitudini, Bush aveva rubato il trono ad Al Gore, il centrosinistra manganellato a Napoli e Berlusconi ci aspettava alle soglie della zona rossa. Cariche, botte, sangue, l'omicidio di Carlo, l'undici settembre, Afghanistan e Iraq... Dal 2004 è crisi dichiarata all'interno dei centri sociali milanesi, la proposta culturale innovativa se la sono scippata prima alcuni fuoriusciti dai Csa stessi aprendo circoli Arci, poi tutti gli altri.

I gestori rimasti non sanno che fare, se vogliono organizzare un concerto o un'iniziativa devono stare attenti alla concorrenza, i precari non hanno nemmeno i soldi per uscire e quindi si trovano lavoro altrove e i frequentatori sono perlopiù figli di gente che sta bene. Se oggi, proprio come trent'anni fa, un giovane migrante vuole sognare, non dico la rivoluzione, ma almeno qualche tipo di lotta politica, l'ultimo posto a cui bussare sono i centri sociali. E se per caso vuole semplicemente imparare l'italiano, di certo non può contare su qualche redivivo del movimento studentesco, forse è meglio che si rivolga ai formigoniani della compagnia delle opere.

domenica 22 giugno 2008

Cresce l’ininfluenza degli USA in Medio Oriente

La tregua tra Israele e i gruppi armati palestinesi è ormai entrata nel quarto giorno e l’alleggerimento del blocco dovrebbe consentire presto alle merci di base come farina, zucchero e olio vegetale di entrare finalmente nella Striscia di Gaza.

Si parla già di un aumento del 30% dell’entrata di prodotti alimentari di base, ma ovviamente ciò non è ancora sufficiente per soddisfare le esigenze primarie di tutti gli abitanti di Gaza. E le medicine sono ancora troppo scarse.

Ma il dialogo tra Israele e Hamas proseguirà nei prossimi giorni, sempre con la mediazione dell’Egitto, e verterà sulla liberazione del soldato Gilad Shalit - sequestrato due anni fa da Hamas - da cui dipenderà la riapertura anche del valico di Rafah e la liberazione di molti palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.

Se la tregua delle armi reggerà e se ci sarà uno scambio di prigionieri è ancora tutto da vedere, ma in caso di esito positivo una cosa però è certa. In Medio Oriente, se si vuole, si riesce a parlare e a negoziare. E senza gli USA di mezzo, ormai sempre più ininfluenti nell'area.


Chi può «parlare» con Hamas
di Maurizio Blondet – Effedieffe – 20 Giugno 2008

La tregua fra Israele e Hamas sarà quel che sarà (restano nelle galere sionista 12 mila palestinesi, in detenzione amministrativa cioè senza processo, nè accusa, nè difesa legale, soggetti a trattamenti brutali), ma ci insegna una cosa: Israele si dà il diritto – quando le fa comodo – di «parlare» coi nemici, mentre nega a tutti noialtri il diritto di «parlare» coi nemici suoi.
Contro D’Alema, quando era ministro degli Esteri, la lobby ha scatenato tutta una campagna mediatica, perchè aveva incontrato un ministro di Hamas.
La visita di Ahmadinejad a Roma (al vertice FAO) è stata tutta un’intimazione a «non parlare» con il «nuovo Hitler».
La Nirenstein ha replicato che Israele, nel caso, non ha «parlato con Hamas», ma con l’Egitto – che effettivamente ha fatto da mediatore al cessate il fuoco.
La capziosità rabbinica non annulla il fatto oggettivo. Anzi lo ingigantisce. Perchè in tal modo, Israele ha esplicitamente umiliato il mediatore tradizionale nel Medio Oriente, che è anche la superpotenza e il suo migliore alleato: gli Stati Uniti.
«Non si parla coi nemici d’Israele» è la direttiva disastrosa che Bush ha imposta alla politica estera USA. Bush ha imposto a tutti gli occidentali di troncare ogni contatto con l’Iran, e il principio di trattare con la Siria solo in termini di minaccia di annichilamento.
Che ciò corrisponda alle inclinazioni personali del peggior presidente della storia americana, è probabile. Ma che lo faccia perchè Israele lo vuole, è evidente.
Israele sta vietando anche ai candidati presidenziali di «parlare» con i suoi nemici; essi devono accorrere davanti all’AIPAC (il braccio politico della lobby) a giurare che «non parlerannno» nè con Hamas nè con Teheran, nè con Hezbollah, nè con Damasco.
Barak Obama, per aver lasciato intendere di essere pronto a parlare con Ahmadinejad, ha dovuto profondersi in scuse e impegnarsi a non «parlare» mai con nessun «nemico», a continuare insomma la politica di Bush.
L’effetto devastante di questa politica per il prestigio americano è sotto gli occhi di chi vuol vedere.
Il rifiuto di ogni contatto con i «terroristi» e i nemici di Israele aveva lo scopo di isolarli, di punirli, di danneggiarli economicamente, di negare loro ogni voce ed ogni luogo in cui far sentire le loro ragioni. Ad essere isolata e a non aver voce in capitolo, oggi, è Washington (1).
E’ stato l’Egitto a «parlare» con Hamas? Sia pure. Ma l’Egitto è un Paese «alleato ed amico» degli USA, ed ha condotto la mediazione senza il placet della Casa Bianca, anzi contro.
Non solo la Casa Bianca è stata scavalcata, ma è stata, diciamo, disobbedita. Senza conseguenze, perchè ciò piaceva ad Israele.
La stessa cosa sta accadendo coi «colloqui di pace indiretti» che avvengono fra Israele e Siria attraverso la mediazione della Turchia.
Israele ha buoni rapporti col regime turco e i suoi generali dunmeh (criptogiudei); ma anche la Siria accetta la mediazione di Ankara per la consolidata neutralità turca nelle vicende del Medio Oriente e perchè – a dirla tutta – è il solo canale che resta a Damasco di far valere il suo evidente intento, quello di normalizzare i suoi rapporti con gli Stati moderati della regione.
Persino gli analisti neocon ammettono che la Siria non è una «naturale» alleata di Hezbollah nè di Teheran, e lo è diventata solo per scongiurare l’isolamento cui l’ha condannata la politica di Bush; ma obbligano l’America, e anche i futuri presidenti, a «non parlare con» i nemici (2).
L’unica diplomazia che consentono alla superpotenza loro serva è la minaccia, e niente di meno che la minaccia nucleare.
Poche settimane prima, è stato il Katar – minuscolo emirato, «amico» degli USA – ad ottenere la fine del conflitto interno del Libano, invitando tutte le parti libanesi a Doha, compreso Hezbollah con cui «è vietato parlare».
Gli USA non hanno partecipato ai colloqui; sono stati pregati di starne alla larga dallo stesso blocco libanese filo-americano, che non vuole però apparire troppo soggetto agli americani.
Si dice ora che Israele abbia acceduto a tregue con Hamas e Siria solo per assicurarsi il fianco in vista di un suo attacco unilaterale all’Iran (3).
Ma questo dimostra ancora di più il fatto: tutti gli attori dell’area, e persino Israele, sono capacissimi di fare accordi, trovare soluzioni mediate e «parlarsi», senza l’arbitrato e la tutela di Washington.
Anzi, tanto meglio se non s’intromette l’America, a fare la israeliana più di Israele per eccesso di zelo – e di servilismo alla lobby.
In tutti questi casi, Washington è rimasto a fare da ridicolo terzo incomodo; le sue potenti navi da guerra ad incrociare su e giù per l’area, a mostrare i suoi inutili muscoli come un incredibile Hulk dell’ottusità diplomatica e dell’insignificanza politica.
E l’erosione del prestigio americano, la sua indebolita influenza sull’area petrolifera che ha di fatto egemonizzato per sessant’anni, ha effetti immediati.
Lo Stato-cliente degli USA per eccellenza, l’Arabia Saudita, non solo ha risposto «no» alle implorazioni di Washington di aumentare l’estrazione petrolifera per far abbassare il prezzo del barile; quest’anno, per la prima volta a memoria d’uomo, Ryad ha deciso di acquistare armamento russo – e non USA – per 4 miliardi di dollari.
Ormai è Washington che appare dipendente dai sauditi (per il petrolio), più che l’inverso: e se pur fosse apparenza, essa è sostanza in politica internazionale.
Persino Nuri al-Maliki, il capo del governo-fantoccio dell’Iraq che gli USA tengono sotto occupazione – e la cui soggezione di fatto è comprovata dall’accordo ineguale con gli USA che ha perpetuato ad infinitum la permanenza di basi americane, e che ha ridato accesso alle «Sorelle» occidentali al business petrolifero, che Saddam nazionalizzò – si permette gesti di insubordinazione.
Al-Maliki va ripetutamente in visita a Teheran, a «parlare» con Ahmadinejad. Ha assicurato ufficialmente che «non consentirà l’uso del territorio iracheno per attacchi contro l’Iran».
Ha minacciato vocalmente di chiedere agli americani di togliere il disturbo dall’anno prossimo, quando spirerà il mandato ONU che ha legalizzato l’invasione.
I professori Walt e Mearsheimer sono stati trattati come sappiamo in USA, per aver illustrato come la lobby israeliana distorca la politica estera USA in modo negativo agli interessi americani. Oggi l’accusa appare perfino troppo bonaria: non solo, per compiacere la lobby, Washington ha danneggiato la sua posizione e prestigio in Medio Oriente, ma si è svuotata, dissanguata, ridotta al lumicino storico.
Ed ora che è esaurita e sull’orlo di una crisi epocale, deve assistere al fatto che Israele «parla» coi nemici, con cui gli USA non si permettono di «parlare».
Non è la prima volta che Sion ha «consumato» grandi potenze storiche, per poi passare ad altre da dissanguare: per la Russia, l’ha raccontato Solgenitsin nel suo grande e censuratissimo studio, «Due secoli insieme».
Essere troppo servili a Sion fa molto male.
Andrebbe ricordato ai governi europei, a cominciare dai nostri noachici che sul Campidoglio hanno alzato la stella di Davide.
E anche ai greci, che – come abbiamo appreso – hanno concesso il loro spazio aereo per le fanatiche esercitazioni di almeno cento F-16 ed F-15 israeliani intenti a provare e riprovare l’attacco all’Iran da lunga distanza.
Siamo rimasti gli ultimi ad obbedire agli americo-israeliani, in questa parte del mondo, e come abbiamo visto, ciò non ha mai giovato.
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1) Sreeram Chaulia, «Middle East serves US some humble pie», Asia Times, 20 giugno 2008. Sreeram Chaulia è analista di affari internazionali alla Maxwell School of Citizenship, Syracuse University, New York.
2) John McCain «è un clone di George Bush», ha detto Harry Reid, capo della maggioranza democratica al Senato. Per questo McCain ha ricevuto una «standing ovation» alla riunione dell’AIPAC (America Israeli Publica Affairs Committee), dove – con le parole di Uri Avneri – «settemila funzionari ebrei da tutti gli Stati Uniti sono giunti insieme per accettare l’obbedienza della èlite di Washington al gran completo, che è venuta a trascinarsi ai suoi piedi. Tutti e tre i candidati presidenziali hanno tenuto discorsi, superandosi l’un l’altro in adulazione. Trecento senatori e membri del Congresso affollavano i corridoi. Chiunque voglia essere eletto o rieletto è venuto per vedere ed essere visto». Quanto a Barak Obama, «ha recuperato dal cesto dei rifiuti lo slogan dismesso, «Gerusalemme indivisa, Capitale di Israele per l’eternità... Solo la destra israeliana (e giudaico-americana) usa ancora questo slogan». (Uri Avneri, «Obama, Israel and AIPAC», Counterpunch, 9 giugno 2008.
3) Michael Gordn, Eric Schmitt, «US says exercises by Israel seemed directed at Iran», New York Times, 20 giugno 2008.

sabato 21 giugno 2008

La e-elemosina di Tremonti

Tremonti qualche giorno fa ha presentato, tra le pieghe della manovra finanziaria triennale, un provvedimento che secondo lui servirà a risolvere i problemi primari di un milione circa di anziani più poveri.
La carta sociale, una carta prepagata assegnata dal Ministero del Tesoro del valore di 400 euro all’anno con cui i nostri vecchietti indigenti potranno pagarsi la spesa e le varie bollette.

Tremonti assicura che ci saranno sconti garantiti dal settore privato (meno 10%) sugli acquisti effettuati con la carta e sulla bolletta elettrica (meno 20%).
Il costo totale per le finanze pubbliche di questa ridicola operazione è di 500 milioni all’anno e nelle tasche dei futuri “beneficiari” arriveranno meno di 40 euro al mese in più per darsi alle spese più folli.

Si tratta insomma dell'ennesima demagogica quanto inutile operazione da pezzenti.


La geniale miseria di Tremonti
di Galapagos – Il Manifesto – 20 Giugno 2008

L'effetto più evidente della globalizzazione è riscontrabile nell'ampliamento della forbice tra ricchi e poveri: sempre più ricchi i già ricchi, sempre più indigenti, i poveri. Nei paesi industrializzati, lo indicano chiaramente le statistiche, mediamente una cittadino su sette vive al di sotto della soglia di povertà.

Certo, si tratta di una povertà relativa, almeno se confrontata con quella dei paesi che molti si ostinano a chiamare del «Terzo mondo». Anche se relativa, però, è pur sempre povertà. E come tale provoca sofferenze, anche psicologiche, e privazioni materiali.

Per contrastare l'emarginazione, molti paesi anziché ricorrere a politiche di integrazione, preferiscono la soluzione più antica del mondo: la carità. Nel paese più ricco e potente del mondo - gli Stati uniti - l'obolo si chiama «Food stamp»: è un buono acquisto da 100 dollari al mese destinato, come contributo all'acquisto di cibo, ai molto poveri. Attualmente ne sono «elargiti» 26 milioni. Visto che la popolazione Usa supera i 300 milioni, questo significa che circa 12 cittadini su 100 hanno bisogno di un obolo mensile per poter sopravvivere. Recentemente ci sono state molte proteste: l'aumento dei generi alimentari ha reso insufficiente la somma elargita: 100 dollari al mese, poco più di 70 euro al mese. Ovvero 1.200 dollari l'anno, l'equivalente di 850 euro.

Secondo molti esperti, sarebbe necessario raddoppiare l'importo del food stamp. Ma servirebbero troppi soldi, rispondono gli uomini di Bush. In realtà quei 100 dollari al mese moltiplicati per i cittadini che li percepiscono comportano una spesa inferiore ai 30 miliardi di dollari l'anno. Non pochi, ma nulla se confrontato con la spesa per la difesa (600 miliardi l'anno) e la spesa pubblica complessiva che supera i 4 mila miliardi di dollari.

Tremonti che è uomo di mondo e conosce molto bene la realtà statunitense ha fatto una pensata: importare in Italia il food stamp. Un assegno (probabilmente una carta di credito prepagata) che sarà elargita a 1,2 milioni di molto poveri. La pensata geniale è di associare questo obolo alla Robin Hood tax, un tassa che colpirà le imprese più «odiate» dagli italiani: compagnie petrolifere, banche e assicurazioni. Però, importando dagli Usa il buono pasto per i poveri, il governo Berlusconi è stato un po' stitico: non 75 euro al mese come negli Usa, ma appena 40.

Come dire 1,33 euro al giorno, neppure un cappucino e cornetto. E questo nonostante la platea dei beneficiari sia molto più limitata: 1,2 milioni di cittadini molto poveri, secondo i calcoli del governo. Che ha aggiunto: i soldi potranno essere utilizzati per acquistare da mangiare o per pagare le bollette. C'è da dubitare che con 480 euro l'anno (per una spesa complessiva che supererà di poco i 500 milioni di euro) si possano pagare molte bollette di luce, gas, riscaldamento, telefono e nettezza urbana, abbonamento alla tv.

Il proverbio dice: «A caval donato non si guarda in bocca». D'altra parte anche il centro sinistra non era stato molto generoso con i molto poveri. La tecnica era stata sempre quella della regalia a quelli che con una brutto termine sono definiti «incapienti».

Forse qualcuno si vergognerà nel ricevere la carta di credito prepagata, ma sicuramente saranno in molti a benedirla. Tutto bene, allora? Non proprio. Quello che proprio non va è l'ideologia del provvedimento di stampo liberista. Per i poveri la cosa necessaria sono i servizi. Ma sul fronte di questi trasferimenti il governo è pronto ad abbattere la mannaia in primo luogo sui fondi agli enti locali. E vedrete che i 400 euro l'anno non copriranno gli aumenti che a livello locale saranno approvati per far fronte ai tagli.

venerdì 20 giugno 2008

Thailandia: un altro golpe in vista?

Da circa un mese si susseguono senza sosta a Bangkok le manifestazioni organizzate dal movimento d’opposizione al governo denominato PAD (People’s Alliance for Democracy), che già due anni fa aveva inscenato una serie organizzata di sit-in e manifestazioni contro l’allora governo guidato dal magnate delle telecomunicazioni Thaksin Shinawatra e che erano poi culminate con l’incruento colpo di Stato militare del settembre 2006, costringendo l’ex premier Shinawatra all’esilio londinese.
Ora l'obbiettivo delle proteste è il nuovo governo di coalizione guidato da Samak Sundaravej formatosi dopo le elezioni politiche dello scorso Dicembre vinte dal PPP (People’s Power Party), il partito nato dalle ceneri del TRT (Thai Rak Thai) di Shinawatra, disciolto un anno fa dalla Corte Suprema in seguito ad accuse di frode elettorale.

Ma poche settimane dopo la formazione del nuovo governo Shinawatra è ritornato in patria promettendo di non interessarsi più di politica ma di avere solo intenzione di difendersi in prima persona nei processi che lo vedono imputato di frode fiscale.

Il nuovo governo però ha dato fin da subito la chiara impressione di avere come obiettivo principale della sua azione quello di cambiare assolutamente la nuova Costituzione, voluta dalla giunta militare golpista e approvata con un referendum popolare solo meno di un anno fa.
Ma vuole cambiarne alcuni particolari articoli per poter eliminare la Commissione che si occupa di verificare i patrimoni dei membri del governo, creata dalla giunta con lo scopo di congelare i beni di Thaksin, e per cambiare le norme che regolano lo scioglimento dei partiti per frode elettorale.

In sintesi, il governo vuole cambiare la Costituzione per salvare Thaksin dai processi e il PPP da un nuovo scioglimento, visto che nelle prossime settimane la Corte Suprema dovrà pronunciarsi in merito.

Queste sono fondamentalmente le cause delle proteste del PAD che vede nel nuovo governo un pupazzo nelle mani di Thaksin e che ha promesso di continuare le sue manifestazioni finché non otterrà le dimissioni del governo.

L’incognita però è il comportamento che adotteranno alla fine la polizia e i militari. Finora ci sono stati alcuni momenti di tensione ma né la polizia né l’esercito sono mai intervenuti per disperdere i militanti del PAD, che oltre a sfilare per le vie di Bangkok hanno anche installato un accampamento fisso di fronte al palazzo che ospita gli uffici dell’ONU, nel pieno centro di Bangkok, causando ovvi problemi di viabilità anche per i membri della famiglia reale, che però hanno accettato di buon grado di modificare i propri itinerari.

Sembra comunque che il PAD oltre ai buoni rapporti con il sovrano, goda ancora di appoggi importanti nelle forze di polizia e nell’esercito, anche se il nuovo capo dell’esercito il generale Anupong Paochinda era stato compagno di banco di Shinawatra nella scuola cadetti.

In queste ore è in corso a Bangkok un’imponente manifestazione intorno al palazzo del governo, che è stata battezzata dal PAD “Il D-day della resa di conti”. E si parla di circa 50.000 manifestanti.
Infatti ai militanti del PAD si sono aggiunti anche i sindacati e i contadini giunti da varie parti della Thailandia, perché naturalmente le motivazioni politiche di cui sopra si sono intrecciate ai gravi problemi economici di cui sta soffrendo il Paese - inflazione, grossi rincari dei prezzi dei beni di prima necessità e della benzina - e che al governo non sembrano proprio interessare più di tanto.

Quindi sono ore decisive per la sorte del governo ma anche per l’unità e la compattezza delle forze armate e di polizia.
E le opzioni possibili per uscire da questo impasse sono le dimissioni del premier, la repressione violenta della manifestazione da parte della polizia con conseguenze imprevedibili o l’ennesimo colpo di Stato. Il diciannovesimo dal 1932.

giovedì 19 giugno 2008

Mugabe non molla

Il 27 Giugno si terrà in Zimbabwe il ballottaggio per le elezioni presidenziali tra Robert Mugabe e Morgan Tsvangirai, a tre mesi dalle elezioni che hanno visto il partito di Mugabe - lo Zanu-Pf - perdere per la prima volta dopo quasi 30 anni di dominio assoluto in Parlamento e Tsvangirai prevalere di poco su Mugabe al primo turno.

Ma qualche giorno fa Mugabe aveva dichiarato che mai e poi mai il partito dell'Mdc, guidato da Tsvangirai, sarebbe andato al potere e che se perderà la presidenza i suoi supporter, soprattutto i veterani della guerra d’indipendenza, avrebbero combattuto fino alla morte pur di non consegnare il Paese nelle mani dell'opposizione e delle potenze occidentali.

Il clima pre-ballottaggio si fa quindi sempre più pesante e solo oggi sono stati ritrovati i cadaveri di 4 membri del movimento giovanile dell'Mdc, portando a circa 70 il numero dei militanti del partito d’opposizione uccisi negli ultimi tre mesi.

A ciò si aggiungono poi i numerosi arresti effettuati tra le fila dell’Mdc, a cominciare dallo stesso Tsvangirai che è già stato arrestato e rilasciato varie volte nelle ultime settimane. Infine, la TV di Stato Zbc non sarà più accessibile all’Mdc per la sua campagna elettorale.

Si sta perciò stringendo il cerchio intorno all’Mdc e al suo leader Tsvangirai, anche se oggi il presidente sudafricano Mbeki ha chiesto a Mugabe di annullare il secondo turno delle elezioni presidenziali e di formare un governo di coalizione con l’Mdc.

Ma Mugabe non accetterà mai questa proposta, giunta ormai troppo tardi, avendo già deciso di mantenere il potere a tutti i costi.


Zimbabwe, campagna insanguinata
di Luca Galassi – Peacereporter – 19 Giugno 2008

Infuria in Zimbabwe la campagna di intimidazione, violenza e repressione ai danni del partito di opposizione Movement for Democratic Change (Mdc), il cui leader, Morgan Tsvangirai sfiderà l'attuale presidente Robert Mugabe al ballottaggio del 27 giugno. I corpi di quattro attivisti del Mdc sono stati trovati nei pressi della capitale dopo che erano stati rapiti la settimana scorsa.

Settanta persone uccise. Il portavoce del movimento di opposizione Mdc, Nelson Chamisa, ha spiegato: "Quattro membri del nostro movimento giovanile sono stati sequestrati da giovani della Zanu-Pf (il partito di Mugabe) armati di bastoni e fruste. I loro corpi sono stati ritrovati oggi a circa 25 chilometri dalla capitale. Pensiamo che siano stati picchiati a morte". Anche il cadavere della moglie del sindaco di Harare, membro dell'opposizione, sarebbe stato rinvenuto carbonizzato. L'Mdc ha denunciato che almeno 70 dei suoi sostenitori sono stati uccisi e 25 mila sfollati dalle loro case. E' di oggi la notizia che all'opposizione verrà vietata la propaganda elettorale sulla televisione di Stato, la Zbc. Il ministro della Giustizia, Patrick Chinamasa, ha detto che la decisione è stata presa perchè la copertura internazionale delle elezioni favorisce l'Mdc a danno del partito di governo, lo Zanu-PF.

Governo di coalizione? Il clima di violenza è stato denunciato con decisione dal segretario generale dell'Onu Ban Ki-Moon, mentre si sta sfaldando anche il fronte dei vecchi alleati di Mugabe: durissimi contro di lui, tra gli altri, il leader dell'Anc, il partito leader sudafricano, Jacob Zuma, il premier kenyano Raila Odinga ed il capo degli osservatori del parlamento panafricano Marwik Khumaio. Intanto, il presidente sudafricano Thabo Mkeki continua a cercare una mediazione. Mbeki ha lanciato un appello a Mugabe perchè il secondo turno delle elezioni presidenziali venga annullato, invitandolo a formare un governo di coalizione con Tsvangirai. Secondo la stampa sudafricana Mbeki "è convinto che il secondo turno non risolverà la crisi dello Zimbabwe" ma anzi, se possibile, la aggraverà. Una fonte vicina al presidente sudafricano ha detto ai giornali che Mbeki "preferirebbe piuttosto un accordo di spartizione del potere come in Kenya, piuttosto che andare al ballottaggio". Oggi il segretario di stato Usa presiederà a New York una riunione informale del Consiglio di sicurezza dell'Onu sullo Zimbabwe, in seguito alla quale tuttavia non è previsto alcun documento finale.

Il segretario generale dell'Mdc, Tendai Biti, arrestato la scorta settimana di ritorno dal Sudafrica, dovrà comparire nuovamente in corte, dopo l'udienza di ieri nella quale è stato condotto di fronte ai magistrati con le manette ai piedi, per rispondere dell'accusa di tradimento. L'Mdc sostiene che il suo arresto sia un'ulteriore intimidazione politica e ha annunciato che ne richiederà il rilascio su cauzione.