mercoledì 31 dicembre 2008

Buon 2009...

Predizioni per il 2009
di Sharon Astyk - 15 Dicembre 2008
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DOMENICO D'AMICO
Di questo scrivo un po' in anticipo, quest'anno - mancano un paio di settimane ai "Giorni dell'Indipendenza" [1], e prevedo un bel po' di clamore quando le consuete previsioni di fine anno cominceranno a bombardarci. Così ho pensato di tagliare la testa al toro e di fare le mie adesso.

Ma prima: come mi è andata l'anno passato? (Guardate, solo perché l'anno scorso ne ho imbroccata qualcuna giusta non vuol dire che dobbiate prendere per oro colato tutto quello che dico - Non credo mica che quello che mi esce dalle chiappe sia sempre la verità assoluta, e di certo non dovreste crederci nemmeno voi ;-))

Quest'anno l'ho chiamato "Hic Sunt Leones" sostenendo che è la situazione in cui ci ritroviamo quando le carte geografiche che danno un senso al nostro mondo diventano inaffidabili. Credo di averci azzeccato abbastanza - credo che in molti non si rendano conto di quanto grande sia questa inaffidabilità, di quanto il funzionamento dell'economia, il nostro ecosistema, la nostra cultura siano completamente differenti da quello che ci è stato insegnato. Penso che tutti possiamo vedere come gli stessi esperti si sentano smarriti, non perché siano stupidi, ma solo perché non sono capaci di operare fuori dalla mappa. Quello che ci raccontiamo plasma la nostra percezione del mondo - e la narrazione comunemente accettata ha ostacolato la nostra comprensione delle cose.
Queste erano le mie previsioni per il 2008, le mie annotazioni e la loro verifica.
1. Quest'anno le parole "picco della produzione di petrolio" andranno alla grande, ma quest'uso massiccio non si accompagnerà a una profonda o articolata comprensione del loro significato. Nel senso che "picco di produzione" sarà usato a scopi politici, non necessariamente commendevoli.-- Qui ci ho preso. Mentre il prezzo del greggio saliva, la CNN e il resto dei grossi media sembravano non averne mai abbastanza dei testimonial del PdP, tipo Simmons e Kunstler. Ma naturalmente per quei media era impossibile generare nel pubblico una comprensione abbastanza approfondita da fargli capire che il Picco di Produzione non è svanito nel nulla solo perché i prezzi sono crollati, anzi, che a lungo termine quel crollo è la probabile conferma che il picco l'abbiamo superato.
2. Entro la fine dell'anno avrà inizio l'accaparramento di vettovaglie e attrezzatura di sopravvivenza, in stile panico da fine millennio.-- Nel settore equipaggiamento le cose non sono state drammatiche come alla vigilia del 2000, anche se gli ordini di stufe a legna e bici elettriche sono andati alle stelle. Ma la cosa notevole è stata la ressa per accaparrarsi le confezioni di riso dei discount, come è successo in primavera. Sfortunatamente temo che la cosa si ripeterà, anche se per altre ragioni. Anche qui ci ho preso.
3. I neocon non usciranno di scena tanto docilmente - dovremo aspettarci almeno una grossa sorpresa. Voglia D-o che non richieda la parola "nuculare" [2] o qualche suo derivato.-- Ritengo che qui ci abbia azzeccato al 50% - credo che l'escalation con la Russia sia stata in effetti l'ultimo tentativo dei neocon di farsi passare come l'ancora di salvezza in un mondo ostile (con l'Alaska a fare da Terra di Nessuno), ma è andata meglio di quanto temessi.
4. Hillary non vincerà le elezioni del 2008. E ad onta delle email che continua a mandarmi un sacco di gente, preannunciandone il successo, nemmeno Ron Paul.-- Azzeccato.
5. L'economia se la vedrà brutta. Eh, qui sono proprio in minoranza..-- Azzeccato.
6. Molti di noi si accorgeranno di essere presi più sul serio del previsto. Certo sempre meno sul serio del divorzio di qualche celebrità, comunque.-- È andata proprio così, almeno per me - non conosco le reazioni di John Michael Greer, Kunstler o Orlov [3], ma per me è stata sorprendente l'attenzione verso le mie predizioni, e la scarsità di gente che ha pensato che esagerassi, anche se magari lo facevo, stando ai rilevamenti di un'affiliata ABC. Ma ovviamente anche la serietà ha i suoi limiti - se è vero che sono in pochi a criticare l'ideologia dominante, è anche perché sono in pochi a occuparsene.
7. Vedremo rivolte per il cibo in ancora più paesi, e ancora più fame. L'idea dei "Victory Garden" [4] non sembrerà più così bizzarra.-- Eh già! Quest'anno 31 nazioni hanno già avuto qualche forma di rivolta per il cibo, e la lista si allunga. E Michael Pollan ha scritto "Farmer in Chief" [Coltivatore in Capo] e l'idea dell'Orto della Casa Bianca imperversa in rete [5].
8. Si comincerà a riconsiderare la mattana del bio-diesel - ma troppo tardi per impedirla.-- Come volevasi dimostrare... Naturalmente il crollo del prezzo del petrolio fa la sua parte, ma anche prima di questo abbiamo visto finalmente aprirsi un dibattito serio sul concetto di bio-carburante, in Europa almeno.
9. Vedremo almeno una immagine (o più) di gente disperata che abbandona la propria città, non avendo altra scelta. E molte immagini di sfratti.-- Mi sono sbagliato solo nella prima parte di questa previsione, e nemmeno del tutto. La gente se ne andava da Houston, e frotte di persone si aggiravano a Memphis e Atlanta, in cerca di benzina... Ma non ho percepito una risonanza alla Katrina o da 11 settembre - i media erano distratti, e non c'è stato l'evento iconico che mi aspettavo. Per il resto, ci ho preso.
10. "La Fine del Mondo per Come lo Conosciamo" (ammettendo che arrivi) verrà rinviata abbastanza a lungo da permettere l'uscita del mio libro, in autunno, così da ammortizzare almeno il mio anticipo e non dare al mio editore un motivo per farmi causa ;-).-- Non ne sono sicura, ma credo che a quest'ora abbiano già recuperato il mio anticipo (tutti i quattromila), e l'editore non è nemmeno fallito. Chissà, potrei addirittura guadagnarci qualcosa!D'accordo, d'accordo, vogliamo parlare dell'anno che verrà?
Pur ritenendo che sia stato nel 2008 che ci si è accorti di più che qualcosa stava andando storto, devo mettermi di nuovo in minoranza (non proprio una forte, ma abbastanza) affermando che il 2009 sarà l'anno in cui diremo che la situazione è "al collasso". Non credo che sfangheremo l'anno senza che ci siano, in quasi tutto il mondo, radicali e strutturali cambiamenti nello stile di vita. Vorrei chiamarlo, citando "Il Secondo Avvento" di Yeats, "l'Anno di 'è giunta finalmente la sua ora'" [6].
Cosa intendo per collasso? Usiamo spesso questa parola, ma sul suo significato è facile equivocare. Intendo che è probabile che gli Stati Uniti vadano incontro a un collasso finanziario in stile Grande Depressione - disoccupazione dilagante, masse di persone che affrontano la fame, il freddo e la mancanza di assistenza medica, la disarticolazione di servizi che consideriamo ormai diritti acquisiti, e la percezione che il sistema non è più in grado di funzionare. Non sto dicendo che ci daremo da un giorno all'altro al cannibalismo - anzi, credo che ci accorgeremo di riuscire a cavarcela sorprendentemente bene in questa situazione di collasso, per quanto grave.
Negli scorsi anni sono stata piuttosto faceta nei miei pronostici - quest'anno mi è impossibile. Spero davvero di sbagliarmi. E spero che prenderete decisioni basate sul vostro giudizio, non sul mio. Queste sono previsioni, il risultato di analisi e intuizioni, e qualche volta la cosa mi riesce bene. Ma non sto dicendo che ogni parola che mi esce di bocca (o dalla tastiera) sia la verità, tanto meno che dobbiate prenderla come tale. Sono parole avute gratis in rete - pensate a quanto le avete pagate e valutatele di conseguenza.
1. Un certo grado di normalità reggerà fino a primavera inoltrata o all'inizio dell'estate, più che altro grazie alle speranze legate alla presidenza Obama. Ma entro la fine dell'estate 2009 l'insieme della perdita di posti di lavoro, credito e reddito, provocherà una crisi economica che farà sembrare rosea la situazione attuale. Con una prevista perdita fino a un milione di posti di lavoro al mese, arriveremo al punto in cui l'economia, per come la concepiamo adesso, non potrà più funzionare - avremo oggi l'equivalente delle file per il pane e dei broker che vendono mele per strada, [come nella Grande Depressione].
2. Molti dei progetti di investimento in infrastrutture che oggi vengono proposti non andranno mai in porto, e molti nemmeno vedranno un inizio, perché lo stato non sarà in grado di ottenere il credito per finanziarli. Il prezzo della globalizzazione sarà salato, in termini di ridotta disponibilità di fondi e risorse – e ad onta di quelli che credono che continueremo a costruire con un collasso in corso, questo non accadrà. Negli USA ci sarà qualche variazione sul tema New Deal Verde, altre nazioni continueranno a lavorare su infrastrutture ecosostenibili, ma molti di noi dovranno continuare a convivere con infrastrutture fatiscenti costruite per gente che ha a disposizione molta energia a basso costo. I progetti di maggior successo saranno programmi di piccole dimensioni, a livello locale, capaci di distribuire risorse il più diffusamente possibile.Prego perché abbiamo l'intelligenza di soprassedere su altre questioni e occuparci della creazione di un qualche tipo di sistema sanitario, uno che ammortizzi la contingenza. In caso contrario siamo davvero fregati - l'ultimissima cosa che ci possiamo permettere è un'assistenza sanitaria come quella di oggi nel contesto di un'economia inoperante. Sfortunatamente prevedo che non affronteremo il problema, ma prego Dio di sbagliarmi.
3. Il 2009 sarà l'anno in cui i più appassionati attivisti del problema climatico (e non escludo me stessa) saranno costretti ad ammettere che dovrà prima gelare l'inferno (e l'inferno invece scotta sempre di più) perché riusciamo a prevenire l'aumento di 2º della temperatura del pianeta. Troppo pochi, troppo tardi, ecco. Questo non significa che dobbiamo mollare - la differenza tra emissioni incontrollate e controllate è comunque una questione di vita o di morte per milioni di persone - ma che, con orrore, rammarico e dolore, l'insieme di una nostra sempre maggiore consapevolezza dello stato attuale del clima e della situazione economica ci spingerà a operare a partire dalla constatazione che il mondo che lasceremo ai nostri figli sarà più degradato di quanto sperassimo, e la nostra eredità più povera e striminzita.
4. Il 2008 sarà probabilmente l'anno del Picco di Produzione a livello mondiale, ma per un po' non ce ne renderemo conto. La consapevolezza sarà una bastonata tra capo e collo, perché saremo già impantanati nelle spire della nostra crisi economica, energetica e climatica. La mancanza di investimenti nell'anno prossimo comporterà che, alla fine dei conti, sempre più petrolio resterà inestratto, il che per il clima sarà positivo, ma scomodo per il nostro obbiettivo di un'economia basata su energie rinnovabili. A lungo termine, in ogni caso, il Picco si avventerà a mordere le nostre chiappe collettive.
5. Il minore accesso a cibo, beni e servizi quest'anno diventerà una realtà. In parte questo si dovrà agli esercizi che chiuderanno - dovremo fare più strada per avere quello che ci serve. In parte sarà dovuto al fallimento dei fornitori, provocato dalla bancarotta delle banche commerciali. Inoltre potrebbero esserci disservizi nel campo di spedizioni e trasporti. Altre difficoltà deriveranno dall'aumento di domanda per generi di nicchia che, finora, vengono prodotti in piccola quantità per un numero ridotto di fanatici dell'ecosostenibile, ma che adesso si scopriranno di diffusa utilità. Potrebbe intervenire la deflazione - coltivatori che non potranno fare il raccolto perché il guadagno sarà inferiore alla spesa, e il collegamento tra chi possiede i beni e chi ne ha bisogno rischierebbe di spezzarsi del tutto. E nel frattempo, altri milioni di americani si troveranno a scegliere tra un paio di scarpe nuove e una visita medica.
6. Molti americani conosceranno un drastico taglio nei servizi sociali e negli ammortizzatori sociali. I fondi di molti stati e di molti programmi locali si volatilizzeranno e basta. La disoccupazione diventerà galoppante, e il governo federale dovrà venir meno ad alcuni dei suoi impegni anche solo per impedire agli affamati di riempire le strade. Nel frattempo i solchi non saranno arati, l'immondizia non verrà raccolta, e le classi saranno di 40 alunni e più (con asilo accorpato), con una scuola di tre o quattro giorni alla settimana.
7. Gli stati mancheranno alla grande i loro impegni finanziari nei confronti dei paesi poveri, e in tutto il mondo le persone che meno hanno arrecato danni all'ambiente moriranno di fame sempre di più. Non sarà un evento inevitabile, ma i paesi ricchi affermeranno di sì.
8. Finalmente affronteremo il problema della crisi degli alloggi, ma il valore decrescente degli immobili renderà l'iniziativa improduttiva. Ogni volta che abbasseremo i prezzi delle case al livello della situazione reale, questa ci sfuggirà da sotto i piedi. Molti di quelli che riceveranno aiuto finiranno per essere sfrattati di nuovo (come già succede) e altri semplicemente non vedranno alcuno scopo nel continuare a pagare il mutuo visto che, proprio per la loro situazione, sarebbero qualificati per un alleggerimento del mutuo stesso (come già succede). Alla resa dei conti, la questione probabilmente si risolverà da sola, magari attraverso in qualche tipo di piano redistributivo che riassegni a un mutuo minimo le abitazioni sequestrate, se i sequestri di case porteranno giù con sé abbastanza banche da rendere fattibile per la gente smettere di pagare mutui che sono di fatto inesigibili, o magari ci saranno disordini che porteranno la gente a a riappropriarsi delle case. Non propendo per l'una o l'altra soluzione, e non credo che la faccenda si concluderà col 2009.
9. Per la fine dell'anno, il dibattito se il collasso ci sia stato o stia per arrivare continuerà accanito, almeno per chi potrà permettersi di mantenersi collegato alla rete. Non ci sarà nessun accordo sulla definizione di collasso, moltissimi continueranno con la loro vita, solo con un tono minore, mentre altri sperimenteranno perdite davvero tragiche e apocalittiche. Alcuni accuseranno le vittime di essere pigre, stupide, superflue e inutili, non importa il loro numero. Altri si guarderanno attorno chiedendosi: "Come ho fatto a non capire che tutto questo era inevitabile?" Parecchi saranno costretti a rendersi conto che i poveri non sono un abisso di pigrizia ed egoismo, quando toccherà a loro diventare poveri. Comprenderemo la situazione in cui ci troviamo solo in retrospettiva, col senno di poi - i nostri figli avranno per quest'esperienza una definizione migliore della nostra, confusa dalla molteplicità di punti di vista. Per intanto, ogni volta che le cose peggioreranno i più fra noi penseranno che si sia toccato il fondo, che le cose si siano "normalizzate", finché diventerà difficile ricordare quali fossero le nostre antiche aspettative.
10. Tutto questo è terribile, ma la realtà è che non tutto cadrà a pezzi. Qui negli Stati Uniti la vita sarà dura e deprimente, ma ci saranno anche passi avanti. La gente tapperà i buchi e riprenderà a remare. Si scoprirà che per la gente comune trovare il modo di cavarsela è sempre stato più facile di quanto pensino gli opinionisti - è per questo che ha smesso di fare shopping nonostante tutti li implorassero di continuare a spendere. Andranno a vivere coi parenti, coltiveranno orti e lasceranno le loro case sovrastimate, o combatteranno per tenersele. Molti per questo soffriranno, e tanto, ma un numero sorprendente di persone si adeguerà a situazioni che, finora avrebbe considerato invivibili. Terranno duro, talvolta addirittura amando la loro nuova esistenza. Vedremo atti di grande eroismo e forza morale, così come atti di profondo egoismo e malvagità. Perderemo tantissimo - ma scopriremo anche che in molti di noi c'è di più di quello che pensavamo, che possediamo più spirito di sopportazione, più coraggio, più generosità di quanto credessimo.Un Buon Anno in anticipo a tutti voi. Che in voi la saggezza superi i meriti, e che conosciate nel prossimo, in questi tempi difficili, solo il meglio.
Note del traduttore
[1] Si tratta di indipendenza alimentare, principalmente. L'autore si riferisce a un'espressione di Carla Emery (usata nel suo libro "Encyclopedia of Country Living") per definire il periodo in cui le famiglie si sostentavano con quello che producevano nei loro orti e campi. Attualmente i Giorni dell'Indipendenza sono stati rilanciati, nel contesto della crisi (anche ideologica) che stanno attraversando gli Stati Uniti, per diffondere sempre di più le idee di consumo locale, riduzione della produzione di rifiuti, "urban farming", e in genere quello che si potrebbe accostare al concetto di decrescita. Il sito da cui è tratto questo articolo ha anche promulgato una "Indipendence Days Challenge": i blogger che vi aderiscono fanno la cronaca dei risultati che ottengono (ad esempio nella produzione e nel trattamento del cibo) all'interno dell'ottica "indipendentistica".
[2] Celebre strafalcione di George W. Bush ("nukular" per "nuclear").
[3] Alri intellettuali che, come Sharon Astyk, dibattono di problemi energetici e produttivi nella prospettiva di un'incombente crisi di scarsità. Comedonchisciotte ha pubblicato diversi interventi di Kunstler.
[4] Si tratta della coltivazione in aree urbane e suburbane, diffusa dallo stato nei paesi anglosassoni nel corso delle Guerre Mondiali per sopperire alla carenza di generi alimentari nel periodo bellico. Quello dei Victory Garden è una sorta di emblema del movimento "frugalista" di cui l'autore fa parte.
[5] Quella di Michael Pollan [http://www.commondreams.org/view/2008/10/10-13] è una lettera aperta al neo-presidente Obama sulle tematiche cibo-energia. L'Orto della Casa Bianca è quello di Eleanor Roosevelt, a sostegno dell'iniziativa dei Liberty Garden (vedi nota precedente).[6] Occorre sottolineare che la citazione di Yeats non ha nulla di pedante. La poesia, col suo tono apocalittico e profetico da catastrofe incombente, negli USA è popolarissima e citatissima.



Pesci selvatici e le melodie delle foreste andaluse
di Daniele Luttazzi - http://www.danieleluttazzi.it/ - 3o Dicembre 2008

Penso sia un titolo migliore di Interviste recenti 2009, ma potrei sbagliarmi. ( "Ma potrei sbagliarmi": non sarebbe bello se ogni discorso del papa terminasse così? )Ho mandato una copia di queste interviste recenti ai pensionati che hanno perso tutto nel crack Parmalat e quei pensionati adesso dicono:-Almeno ho una copia di queste interviste recenti.-Se invece siete giovani, ma non volete ancora lasciare il Paese, buona fortuna con le grandi opportunità educative che il Mercato vi offre, per esempio imparare quanti flaconcini di coca riuscite a infilarvi su per il culo.

Un romantico 2009!

Cosa pensi del ruolo che i satiristi hanno assunto oggi in Italia? Del fatto che siete diventati ‘punti di riferimento’ (politico) per la gente? La ritieni una situazione inevitabile data la contingenza storico-politica? Come vivi questa grande attribuzione di responsabilità da parte della gente? Come ti poni rispetto al fatto che molta parte del tuo pubblico ti vede più come un punto di riferimento politico che non come un artista satirico?
La nostra credibilità è dovuta al fatto che abbiamo detto certe cose in tv fregandocene della conseguenze in termini di convenienza economica: restare in tv facendo i paraculi era molto più vantaggioso. Essere un artista satirico e essere un punto di riferimento politico è inevitabile in generale, e non c’è affatto contraddizione fra le due cose. La responsabilità non me la dà la gente, me la dà la mia arte. Fa parte di questa responsabilità non strumentalizzare la gente e il loro consenso. Quanto ai politici italiani, hanno mentito ripetutamente e spudoratamente, hanno mostrato di difendere all’unisono gli interessi della propria casta, hanno rivelato la loro mediocrità diffusa. La gente si è rotta le scatole. E ci hai fatto caso? In Italia, ogni volta che scoppia uno scandalo, tutti lo sapevano già da tempo. Che razza di Paese!

L’8 luglio di quest’anno, in piazza Navona a Roma si è tenuto il “no Cav Day”. Qui hanno dato espressione del loro pensiero anche alcuni comici attraverso la satira. Per esempio erano presenti Grillo e la Guzzanti. Perché tu non c’eri?
Perché la piazza favorisce il populismo. Non mi piace ingenerare equivoci: è il mio modo di rispettare il pubblico. La satira dev’essere contro il potere. Anche contro quello della satira. A teatro, le intenzioni dell’artista sono limpide. In piazza, in una manifestazione partitica, no. Guai al pubblico che si mette a guardare ai satirici come a cavalieri senza macchia e senza paura, e guai ai satirici che finiscono per crederci.

Si passa senza soluzione di continuità [per citare solo dei due poli della faccenda] dalle imitazioni del Bagaglino ai comizi in piazza di Beppe Grillo. In mezzo, modulazioni di queste tipologia. Per quale motivo è accaduto tutto ciò? È una trasformazione solo italiana o un fenomeno globale?
La satira pare scomparsa perché non è più ammessa in tv nella forma libera che le è propria. In questo modo le tolgono impatto. E’ un fenomeno solo italiano, che rende il nostro Paese una provincia asfittica e poco democratica. La satira in tv fa picchi di ascolto, ma non la si vuole. Quindi il problema è politico.

Le profezie di Guy Debord a proposito della Società dello spettacolo si avverano sotto i nostri occhi: il governo si occupa della «percezione» delle cose da parte dei cittadini più che della sostanza materiale, dei bisogni, dei fatti. L’invenzione dell’«emergenza sicurezza» è un caso lampante. Come pensi ci si debba muovere in questo scenario?
Come suggeriva Debord: con pratiche di vita alternative.


C’è necessariamente contraddizione tra satira e impegno civile/politico attivo?
La satira è politica, dato che esprime una critica dell’esistente. E nasce politica: Aristofane attaccava il demagogo Cleone e il partito dei democratici, che volevano la guerra. Chi dice che la satira non deve fare politica vuole solo censurare la satira. Esprime un punto di vista, quindi è faziosa. Uno può fare benissimo satira e candidarsi al senato: in America, lo ha fatto Al Franken. Ed è stato eletto. Una volta intrapresa la carriera politica, però, ha giustamente abbandonato gli spettacoli satirici.

Del panorama satirico tedesco mi ha colpito il fatto che molti cabarettisti che fanno satira politica ritengono che la satira non possa essere più che gehobene Unterhaltung, intrattenimento di livello. I cabarettisti tedeschi sono tendenzialmente scettici circa la possibilità di poter incidere con la propria satira sulla realtà; molti di loro concepiscono il mezzo televisivo essenzialmente come moltiplicatore, come strumento pubblicitario per attrarre la gente a teatro. Il divario rispetto alla situazione italiana, in particolare per quanto riguarda il valore e il potere che nel nostro paese alla satira è attribuito (nel bene e nel male) è incolmabile.
Il loro scetticismo ha forse un’origine storica: Karl Kraus non ha fermato Hitler; ma, anche così, la loro è una visione molto angusta della potenza satirica. I suoi effetti sono culturali e riverberano sulle generazioni a venire. Ma devi avere dentro una rabbia vera, sennò fai solo del “colore” sull’attualità: non dai fastidio a nessuno, anzi sei perfetto per il marketing.

L’ottima salute (in quanto a causticità e aggressività) di cui gode la satira in Italia non può prescindere dal collasso socio-politico del paese? La satira deve in altre parole tendere al suo annullamento? Una società sana non ha bisogno di satira?
La satira esisterà finchè esisterà l’umanità, con tutte le sue contraddizioni. La “società sana” è un’utopia nazista.

Qual è l’obiettivo del tuo ‘fare satira’? Difendere / rafforzare la democrazia? Affinare lo spirito critico della gente?
L’obiettivo della satira è esprimere un punto di vista in modo divertente. Divertente per chi la fa. Se il pubblico ride, tanto meglio, ma non è un criterio per giudicare la bontà della satira: ogni risata dell’autore contiene una piccola verità umana; a volte la verità fa male e non tutti sono disposti a riderne. Il pericolo per chi fa satira è ritenere che sei sul palco a dire la verità: questo abbaglio ti trasforma in un predicatore, in un leader di masse, in una persona di potere. L’arte ti abbandona.

Credi che la satira abbia anche una funzione di valvola di sfogo o di conforto? O al contrario contribuisce ad aumentare il disagio?
La satira nasce dalla rabbia, ma non è mai consolatoria. Induce alla conversione e all’azione. Il disagio che aumenta è solo quello dei parrucconi.

Il linguaggio della satira è espressivo al punto che può infastidire chi lo ascolta. Ciò, a volte, crea un effetto di rigetto su una determinata fascia di pubblico. La gente, quindi, deve essere preparata per poter comprendere la satira?
La satira è un gusto. Il gusto per la libertà di pensiero. In Italia siamo regrediti al punto che la gente dev’essere preparata alla libertà di pensiero? Certo, secoli di Vaticano non aiutano. E comunque la satira mica può piacere a tutti: i suoi bersagli, ad esempio, non ridono. Lo scandalo della satira non è nei termini indecenti, ma nel fatto che la sua libertà espressiva corrode i nostri pregiudizi. I pregiudizi rassicurano. La satira no.

Come mai secondo te, da un po' di anni in Italia le informazioni si hanno più dai comici che non nei telegiornali e sui giornali?
Questo è un luogo comune. Ci sono tanti giornalisti formidabili che onorano la propria professione. Vediamo però di continuo giornali e telegiornali fare propaganda: edulcorano o cassano o mistificano le notizie. La satira, nel commentare i fatti, li ricorda. E così il grosso pubblico, che non legge i giornali, apprende le notizie dalla satira! Ma la satira è uno stormo di piccioni. Da qui l’attenzione.

Quale credi sia il potere della satira? A tuo avviso quali risvolti concreti ha o può avere la critica della satira? La satira può ‘cambiare il mondo’? (o, come tu hai domandato ad altri autori satirici, la satira può agire sulla Storia? Se sì, come? Se no, perché?)
La satira è innanzitutto arte: in quanto tale, agisce sulla Storia offrendo all’umanità uno sguardo rinnovato sul mondo; per questo, fin dai tempi di Aristofane, la satira è contro il potere, di cui riesce ad annullare la natura mortifera mantenendo viva nel nostro immaginario quella sana oscillazione fra sacro e profano che chiamiamo dubbio. L’effetto concreto della satira è quello della liberazione dell’individuo dai pregiudizi inculcati in lui dai marketing politici, culturali, economici, religiosi. Il potere si accorge che questo va contro i suoi interessi e ti tappa la bocca. E’ sempre stato così ed è un ottimo motivo per continuare a farla. Dove è possibile. ( Il mio sottoscala. )

Negli Usa hanno eletto Obama e i media magnificano l’evento, come se i guasti del passato fossero definitivamente alle spalle e ci attendesse una rinascita generale. Come minimo occidentale. Forse addirittura planetaria. Ti associ anche tu all’euforia generale?
L’euforia generale è dovuta soprattutto al cambiamento che Obama ha promesso. A settembre ero a New York da Letterman il pomeriggio che ha intervistato Obama. Ero in prima fila, Obama era a cinque metri da me, me lo sono studiato bene. Dopo la sua prima risposta il pubblico era già in visibilio: Obama non dice nulla di diverso da quello che i democratici USA hanno sempre detto, ma sa dirlo in maniera avvincente. E con meno ambiguità rispetto a una Hillary. E’ ancora presto per giudicare. Le questioni cruciali, come si sa, saranno la politica estera ( ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan, rilancio della diplomazia e delle relazioni internazionali ) e la politica economica (new deal, fine della speculazione finanziaria ). Non ci resta che aspettare.

Adesso un passo indietro. Torniamo al famigerato “editto bulgaro”. Biagi ha fatto in tempo a rientrare in Rai, Santoro ha recuperato stabilmente il suo spazio; com’è che tu sei ancora fuori?
Perché sono un cane sciolto. L’Italia è divisa in clan che si spartiscono il potere. Se non appartieni a nessuno di essi, ti fanno fuori in due secondi.

E come lo si vive questo ostracismo? Al di là dell’orgoglio per non essere scesi a compromessi, viene mai il dubbio che alla fine non ne valga la pena?
Ma la satira è un’arte! Gli artisti non ragionano in termini di convenienza materiale: obbediscono alla loro musa. I greci la sapevano lunga. Va da sé che la mordacchia alla satira, oltre a essere anticostituzionale, è insopportabile. I bacchettoni mi fanno schifo. Chi ne giustifica le azioni censorie, ancora di più.

Di nuovo il presente. L’unico aspetto positivo della crisi in cui stiamo sprofondando è che ha messo in luce, come non mai, i vizi e le contraddizioni del capitalismo, specialmente di quello finanziario. La tua impressione quale è?
Il capitalismo troverà il modo di proseguire nello sfruttamento. E’ il suo mestiere. Fra qualche decina d’anni, però, la crisi ambientale romperà il giocattolo: quello capitalistico è un modello insostenibile.

Si sta avviando un vero ripensamento dello schema nevrotico “nasci produci consuma crepa”, oppure c’è solo il rammarico per non poter continuare a inebriarsi con lo shopping, eventualmente con la carta di credito e i pagamenti ”in comode rate”?
La decrescita è una necessità. A poco a poco diventerà un sapere di tutti.

Che aspettative hai da parte del tuo pubblico, e come sono cambiate, se sono cambiate, nel corso del tempo?
Scrivo e recito cose che fanno ridere me. Quando il pubblico si rivolge a te come a un guru senza macchia, o come a un leader che è lì a indicarti la verità e la via, sbaglia e gli va detto. In questo Paese, i demagoghi attecchiscono troppo facilmente, coi risultati che vediamo e da cui la storia del secolo scorso pare non averci immunizzato. Il mio punto di riferimento è Lenny Bruce. Diceva:” Io faccio parte della corruzione che metto alla berlina.” Un atteggiamento molto più sano.

Lenny Bruce è uno dei tuoi personaggi di riferimento.
Lenny Bruce ha rinnovato il genere del monologo satirico, che negli USA ha una lunga tradizione. Bruce diceva sempre: “la realtà è ciò che è, non ciò che dovrebbe essere”. Nello scarto fra le due cose si situa la risata satirica. Prendete ad esempio la campagna pubblicitaria del Partito Democratico. Era perfetta. Mancava solo il prodotto.

Con «Barracuda» sei stato il primo a portare nella televisione italiana il talk show sul modello di David Letterman. Poi in tanti hanno provato a copiare quel programma, attenuando i contenuti o trasformando l’intervista in salotto televisivo. C’è ancora spazio per la televisione intelligente?
La televisione è tutta intelligente. Ma c’è una intelligenza al servizio della libertà artistica, e una (preponderante) al servizio del potere. Negli USA, i media controllano il potere, da noi è il contrario. Ecco perché non c’è più spazio per chi è libero. Essere liberi significa non essere ricattabili. In Italia, che è una rete di clan, essere liberi è un difetto per il sistema e così il senso della dignità personale è in vendita al miglior offerente. In questo momento c'è la fila per vendersi. Fine del pudore. Dove non c'è più pudore, c'è solo potere. Film consigliato: Salò di Pasolini.

Fabrizio Cicchitto in un’intervista rilasciata a il Giornale del 17 marzo 2001 dichiarò: “La trasmissione Satyricon è un’autentica operazione politica pensata e montata da due settori che costruiscono un pezzo (non tutta) della sinistra post-comunista. […] il loro modo di combattere è appunto quello della criminalizzazione dell’avversario per via mediatica-giudiziaria”. Quasi tutta la destra era d’accordo sul fatto che lei, Marco Travaglio e l’allora direttore di Raidue Carlo Freccero aveste tentato di sabotare la campagna elettorale, proprio attraverso la presentazione del contenuto del libro e proponendo la famosa intervista a Paolo Borsellino. Cosa puoi dire in proposito?
Che è una balla. Ho letto il libro e ho invitato l’autore, tutto qui. Autore che, non va dimenticato, all’epoca nessuno conosceva. Per la prima volta introdussi in Rai il tema tabù “Berlusconi”, che nessun giornalista tv aveva osato affrontare. Sono libertà che non ti perdonano, come si è visto. Quanto a Cicchitto, era iscritto alla P2 di Gelli, una formazione eversiva. Dovrebbe avere il pudore di vergognarsene in eterno e tacere per sempre. Se un giornalista racconta i misfatti di Berlusconi, la colpa deve ricadere su Berlusconi, non sul giornalista. Per inciso: avendo sostenuto la tesi del complotto, Bruno Vespa è stato querelato per diffamazione dall’ex- presidente Rai Zaccaria e ha perso la causa.

Durante le vicende sull’editto Bulgaro, nonostante tu fossi stato uno dei tre nominati, non ti sei esposto molto. Le testate riportano davvero solo tue rare dichiarazioni. Per quale motivo decidesti di sottrarti alla stampa?
I fatti erano evidenti, non c’era bisogno di aggiungere altro. Né mi abbasso a replicare alle fetecchie. Tutti hanno visto il loro gioco sporco: prima ti tolgono di mezzo con la censura, poi ti intimano di non fare la vittima. E chi ha detto niente? Bastardi.

In «Decameron», il tuo programma andato in onda su La7 lo scorso anno, prima che decidessero di chiuderlo con una scusa, sei stato tra i pochissimi a parlare senza eufemismi ipocriti o omissioni delle violenze della polizia al G8 di Genova del 2001. Anche in quel caso, la verità è stata estromessa dai grandi media, è trapelata solo grazie all’insistenza di chi ha lavorato per far sapere a tutti quello che era successo. È solo un’eccezione o un caso emblematico che allude alla possibilità che i media indipendenti riescano a costruire senso comune, anche nel silenzio dei grandi media?
E con lo sketch “Missione di pace” ho denunciato l’ipocrisia guerrafondaia del neonato PD. E’ una libertà che dà fastidio perché ricorda al pubblico come sarebbe bello se fosse sempre così. Insistere è un’ottima tattica.

Il festival TTV di Riccione ti ha dato il suo premio tv per Decameron. Che cosa significa per te, visto che in tv è durato poco...?
Decameron sarebbe durato di più, se non l’avessero soffocato di notte con un cuscino. Il significato del premio è questo: la satira è più forte dei cuscini. Ma il pericolo resta: che i nuovi comici si auto-censurino per evitare grane. Prendi Gesù. 33 anni a raccontar parabole. Non sapeva neanche una barzelletta? L’hanno fatto fuori comunque.

Secondo Dario Fo, il programma sarebbe stato chiuso invece per i contenuti a proposito della puntata numero 6 sull'enciclica in preparazione da parte di Benedetto XVI. Ci puoi dire qualcosa a riguardo?
Ho registrato il monologo sull’enciclica venerdì pomeriggio, come sempre alla presenza di funzionari di La7. La sera stessa, a mezzanotte e 4 minuti, il direttore Campo Dall’Orto mi invia un sms per dirmi che sospendeva il programma per via della battuta su Ferrara nella puntata precedente (già replicata tre volte). Sabato mattina alle 7 sono in auto per recarmi al montaggio della sesta puntata e leggo l’sms. Repubblica e Corriere avevano già una pagina dedicata alla notizia. Ho lanciato in aria un anatema candomblè e adesso La7 è spacciata.

Come ti spieghi questa tempestività, da una parte della censura e dall’altra nel dare la notizia ai media prima di avere una tua replica a riguardo?
Me lo spiego col fatto che il sistema funziona.

Di cosa parla il tour Decameron?
Temi scabrosi, argomenti polemici e risate feroci: un antidoto alla comicità tranquilla che la tv commerciale e la Rai hanno ormai imposto agli italiani come modello, la comicità che ha lo scopo di rassicurare e intontire con i suoi parossismi prevedibilissimi. Tutta merda che mi sono già mangiato da un pezzo.

Berlusconi ora gioca a fare il cavaliere evocando immagini di padri costituenti che duellavano verbalmente con eleganza di fioretto. Cerca, si dice, di rifarsi l'immagine per un futuro al Quirinale. Ma perché gli italiani credono alle sue bugie? La nostra malattia è una memoria straordinariamente corta?
Le scienze cognitive hanno scoperto che gli elettori non votano i programmi elettorali, ma una visione del mondo. Quella di Berlusconi è molto ben definita: il padre autoritario. Il PD non ne ha nessuna, si sposta al centro. E così perde. La destra non ha bisogno di spostarsi al centro per vincere le elezioni. E’ un problema di framing. Da 30 anni, coi suoi media, Berlusconi sta promuovendo il suo modello. La paura del terrorismo e quella per l’extracomunitario, così come la strumentalizzazione dei temi etici, servono a rinforzare il modello del padre autoritario. Il PD deve ancora cominciare a elaborare il proprio, che dovrebbe essere alternativo. Nel frattempo va a rimorchio della terminologia della destra. Quando il PD parla di “sgravi fiscali”, ad esempio, rinforza il modello della destra, che usa quella terminologia perché considera le tasse un peso. Nel modello alternativo (che il PD neanche sta immaginando) le tasse sono una protezione per il futuro dei nostri figli. Se tagli le tasse, i diritti tuoi e dei dei tuoi figli (sanità, scuola, pensione) diventano servizi a pagamento. Non c’è più giustizia sociale. Effetto domino: col taglio delle tasse, di fatto la destra decurta i fondi per i programmi sociali che si prendono cura della gente. Lo stesso dicasi delle privatizzazioni. Sono bravi quelli, o allocchi questi? Entrambe le cose. Il modello alternativo è pieno di idee migliori, ma il PD le ha abbandonate: adesso è eccitante come un catalogo di sementi.

Il tipo di cultura politica incarnata da Berlusconi è ormai diffusa e pervasiva. Che immagine ne hai? Come ci si difende?
Frequentando persone che non si siano lasciate corrompere dai soldi che il berlusconismo elargisce con dovizia ai servi. La risposta deve essere collettiva. L’arte ( non solo quella satirica ) aiuta a formare le coscienze e a tenerle deste. Ha tempi più lunghi, ma è inesorabile.

Perché nessuno si ribella quando, poco prima delle elezioni, Dell'Utri dichiara in un'intervista che Mangano è un eroe di Stato?
Perché il framing elaborato da Berlusconi attraverso i suoi media è diventato ambiente. Se una cornice è forte, i fatti vengono ignorati.

Hai fiducia in internet?
Internet venne ideato come tecnologia a scopi militari e conserva qualche vizio dell’origine. Ad esempio è un panopticon ancor più micidiale di quello ipotizzato da Bentham e ricordato da Foucault; più micidiale perché con internet i sorvegliati sono contemporaneamente i sorveglianti. Anche per questo motivo, internet favorisce il pensiero dietrologico. Ed è molto più evidente, adesso, una relazione già emersa con l’avvento della tv: la tecnologia elettronica condiziona il modo con cui il pensiero esplora il reale. Non mi stupisce il successo web di demagoghi populisti come Grillo. L’internet dei social network poi è un ipnotico potentissimo. Solo la crisi economica ha un po’ risvegliato le coscienze: erano talmente intorpidite che c’è voluto il crack MONDIALE delle borse, per risvegliarle. Internet è utile solo per le nicchie: se sei un fan di Takato Yamamoto, grazie a internet hai tutte le info che ti servono in proposito, più l’elenco delle gallerie d’arte dove puoi acquistare i suoi lavori. Sei un appassionato di idee nuove e bizzarre? Ecco Boingboing.net. Ti piace aggirarti su spiagge nudiste con dei palloncini colorati legati al pisello? Clicca http://www.partitomonarchico.org/

Fai spesso riferimento alle “perversioni” più varie. Come nasce questo interesse? C’è un rapporto tra perversione e satira?
In ogni perversione c’è un elemento meccanico che la rende comica. Il tutto ha a che fare con l’impulso di morte di cui parlava Freud. La risata annulla la morte: ridi perché sei vivo.

E la pornografia? È offensiva? Utile? E, prima ancora, cosa, per te, è pornografico?La vera pornografia è la violenza. Va sottolineato come, in una democrazia, quella contro la violenza (sia essa pensiero, parola, opera o omissione) sia l’unica censura davvero necessaria. Come dice padre Zanotelli, la guerra dovrebbe essere un tabù come l'incesto. Lo stesso vale per i rigurgiti xenofobi e razzisti. Prendi Borghezio. Ne ho conosciuti di razzisti, ma mai di questo voltaggio. Le idee violente sono già giudicate dalla storia. Ad esempio fascismo e nazismo: una volta al potere, cancellano la democrazia. Non possono essere riammesse nel campo argomentativo.

Secondo te, come mai la xenofobia ha preso piede così fortemente nella società italiana?
Al capitale convengono le leggi speciali. La propaganda spinge alla xenofobia anche per questo. Al governo ci finisce così una figura di padre autoritario. La parte offensiva di tutto l’andazzo è che il padre autoritario ci tratta da bambini che devono essere accuditi, non da adulti responsabili. Temo però che alla regressione culturale del Paese corrisponda una regressione psicologica: a molti italiani non piace essere adulti responsabili. Preferiscono delegare al capo, e poi trattarlo da capro espiatorio. E’ una specie di piorrea spirituale. Sentitevi pur liberi di usare queste frasi per comporre una canzone di protesta.

Il quarto rapporto sulla secolarizzazione italiana, che a giorni verrà presentato dalla Cgil nuovi diritti con Critica Liberale dice che l'Italia è sempre meno un Paese di cattolici praticanti. Eppure in questi giorni il governo parla di fare un "tagliando alla 194", si vorrebbe ripristinare il divieto di diagnosi preimpianto che le sentenze hanno detto incostituzionale e via di questo passo. Come la vedi?La Chiesa pratica il voto di scambio: appoggia i governi se le danno qualcosa. La lista dei suoi desiderata è lunga; e fatta apposta per indurre in tentazione il politico bramoso di voti e di potere. Alla Chiesa fa gola uno Stato in cui peccati e reati coincidono: il suo modello è quindi l’Islam. La Chiesa vuole mettere becco nelle vicende dello Stato italiano? Prima deve pagare il biglietto d’ingresso: deve pagare le tasse. L’8 per mille è una cuccagna fraudolenta. E' incredibile a che bassezze si arriva, pur di essere i rappresentanti di Cristo in terra! La religione è una ideologia, ovvero una forma di potere. Esercita un controllo sociale. Lo fa nei modi che purtroppo conosciamo: plagiando le coscienze col catechismo e muovendo azioni di lobbying sulla politica. Gli interessi economici in gioco sono enormi. Se si considera che Cristo non ha mai fondato la Chiesa cattolica, come mistificazione è notevole.

Che ne pensi di chi, come Giovanardi o Ferrara, tira in ballo l'eugenetica quando si tratta di selezione degli embrioni per evitare la trasmissione di malattie genetiche?
L’eugenetica è una imposizione praticata da uno Stato. La scelta dei genitori riguardo alla prole si chiama senso di responsabilità. Spetta forse a Giovanardi o a Ferrara decidere sui tuoi figli? No, e se lo dici non sei certo nazista, come Giovanardi e Ferrara insinuano coi loro ragionamenti del menga.

E chi, come Roccella, ora sottosegretaria alla Salute, scrive di Ru-486 chiamandola "kill pill " o "veleno per feti "?
La destra usa i temi etici e le definizioni a effetto per rinforzare il proprio modello di potere, che è quello del padre autoritario. Legge 194 e RU-486 sono una sfida diretta a tale modello. Il padre autoritario dice:-Se le donne possono gestire da sé le gravidanze indesiderate, quando mai impareranno la lezione?- Nessuno impone ai cattolici di servirsi della RU-486 o dell’aborto.

Sei favorevole alla ricerca di nuovi tipi di energia? E nel tuo quotidiano cosa fai per salvare l’ambiente?
Evito gli sprechi. Così i miei vicini possono dissipare liberamente.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Un nuovo monologo teatrale. E rileggere Histoire d’O, un classico che mi ha sorretto nei miei momenti più bui.

Che cosa ti fa incazzare di più in Italia o nel mondo?
I soprusi del potente sul debole. Soprusi che oggi sono sistema: il pensiero unico reazionario e guerrafondaio sta governando il mondo col precariato di massa, le politiche antisociali e le speculazioni finanziarie. E’ la peste attuale, cui alludo col mio Decameron. La peste del Boccaccio segnò la fine del medioevo e l’inizio del Rinascimento. Auguriamocelo.

Che ne pensi del Berlusconi 4?
Quello che penso di chi l’ha votato. E di chi ha fatto una campagna elettorale disastrosa. Come ho detto al Financial Times, “ in the last 20 years Italian TV (both Rai and Mediaset) has been giving shape to a propagandistic framing of right-wing values: God, Family, Fatherland. We are in a permanent electoral campaign grounded on fear and xenophobia. Tv is constantly promoting right-wing values and trying to shape the country’s mentality both through news and entertainment. The Italian Left ignores the virtues of counter-framing and that's why it has lost the elections. Left-wing values ( civil rights, solidarity, peace ) have been lost and must be recovered. “ Lasciamolo in inglese, così Veltroni deve farselo tradurre nel loft. Il loft della Left, il left loft. Negli anni, il fronte neutralista ( “ Non si deve demonizzare Berlusconi” ) si è esteso. Con che bei risultati, si è visto. La strategia politica di Veltroni è molto simile a quella di uno che non ce l’ha. Nel frattempo, andiamo tutti in Iraq, prima che lo rovinino.

Visto che nel 2001 era arrivato l'editto bulgaro, quali possibilità ci sono ora per te di tornare in tv?
Inesistenti. I politici usano la tv come vetrina per il proprio marketing. Che ci sia qualcuno a suggerire dubbi gli scoccia parecchio e non lo permetteranno più. Io però non faccio satira perché voglio andare in tv. Vado in tv per fare la mia satira. Per starci dovrei cambiare seguendo i dettami del padrone? E’ un ricatto inaccettabile. Pazienza: passerò i prossimi anni al sud, fra gli immigrati clandestini che coltivano lampadine nel Tavoliere. Sapevi che il raccolto delle lampadine è notturno? Si vedono meglio.

Com’è stata l’infanzia di Daniele Fabbri? E la sua educazione?
Infanzia serena, piacevolissima, ricca di stimoli alla fantasia. A Santarcangelo di Romagna, negli anni 60, la generazione dei miei genitori sperimentava a scuola tecniche innovative di insegnamento che attingevano a piene mani dalle arti: letteratura, musica, pittura, cinema. Imparavi a nutrire il tuo spirito col meglio. A quattro anni sapevo già leggere e scrivere. Dalla prima elementare saltai alla terza. A 13 anni realizzai il mio primo cartone animato. Al ginnasio perfezionai il mio ruolo di secchione dalle battute micidiali. A 18 anni fondai un gruppo pop new-wave: cantavo le mie canzoni e suonavo le tastiere. All’università ( medicina ) capii come va il mondo ( baronie, raccomandazioni, coltellate alle spalle ) e decisi di tornare al mio ruolo di secchione dalle battute micidiali.

Quanto ha influito la vita di paese, di un paese come Santarcangelo?
A Santarcangelo c’è gente arguta, dalla battuta pronta: devi essere all’altezza. C’è un aneddoto famoso. Un giorno la proprietaria del bar Centrale dice a un cliente anziano che aveva la patta aperta:-Frisoni, avete il morto sulla porta.- E lui subito:-Sarà morto, ma non di fame.- Gente così. Per non parlare degli artisti: Raffaello Baldini, Nino Pedretti, Flavio Nicolini, Tonino Guerra, Federico Moroni. E del festival del teatro in piazza con Dario Fo, Gaber, Bolek Polivka, Jerzy Stuhr, l'Odin. La scuola di Bornaccino. La stamperia artigiana di mio zio Alfonso Marchi. Antonioni che gira Deserto rosso abitando con la Vitti a Santarcangelo. Zvanòun che recita nella scena del ballo del Gattopardo. Vespignani. Cose mitiche.

Hai sempre pensato che saresti diventato famoso?
Non così tanto. :-)

Qual è secondo te il compito di un uomo di cultura nel mondo di oggi?
Quello di sempre: trasmettere la propria curiosità.

E’ stata riportata sull’ Independent on Sunday una ricerca fatta dall’università canadese del Western Ontario in cui analizzando il senso dello humour in duemila gemelli inglesi e in altrettanti gemelli americani è emerso che quelli inglesi hanno una sorta di “base genetica”, di attitudine innata, ma che questa risulti essere associabile a problemi di depressione e ansia, forse semplicemente perché il porsi più quesiti e l’essere più acuti pone davanti alla cruda realtà, tu cosa ne pensi?
L’umorista non è depresso, è malinconico, come ogni artista. Perché è sensibile alla bellezza, e sa che questa bellezza finirà.

Pensi che ritornerai in tv?
E’ ovvio. Sono sempre in agguato. Come c’è una breccia, mi ci infilo.

martedì 30 dicembre 2008

Il terrorismo israeliano

Proseguono senza sosta i bombardamenti aerei israeliani su Gaza, con un bilancio finora di circa 400 morti e 1700 feriti secondo l'agenzia di stampa palestinese Maan.

E tutto cio' nel silenzio tombale dei vari leader mondiali.


Qui di seguito si affronta il tema della violenza insita nel popolo israeliano e dei vari significati della parola terrorismo.


Come i leader israeliani uccidono in cambio di voti

di Gilad Atzmon - http://palestinethinktank.com - 29 Dicembre 2008
Traduzione di Gianluca Freda

Per capire l’ultima devastante spedizione omicida degli israeliani contro Gaza bisogna comprendere a fondo l’identità israeliana e il suo odio innato verso chiunque non sia ebreo, l’odio verso gli arabi in particolare. Questo odio è contenuto nel curriculum israeliano, viene predicato dai leader politici e sottinteso dalle loro azioni. E’ veicolato da categorie culturali, perfino all’interno della cosiddetta “sinistra israeliana”.

Sono cresciuto in Israele negli anni ’70, gli individui della mia generazione oggi sono in Israele a capo dell’esercito, della politica, dell’economia, della cultura e delle arti. Siamo stati abituati a pensare che “un arabo buono è un arabo morto”. Qualche settimana prima che entrassi a far parte della IDF [le Forze di Difesa Israeliane, NdT] nei primi anni ’80, il generale Raphael Eitan, all’epoca capo di stato maggiore, annunciò che gli arabi erano come “scarafaggi imprigionati in una bottiglia”. La fece franca, così come la fece franca dopo l’assassinio di migliaia di civili libanesi durante la prima guerra del Libano. In una parola, gli israeliani riescono sempre ad ammazzare la gente e passarla liscia.

Fortunatamente, e per ragioni che tuttora sfuggono alla mia comprensione, a un certo punto mi risvegliai da questo mortifero sogno ebraico. A un certo punto me ne andai dallo stato degli ebrei, evasi dal dilagare dell’odio ebraico, diventai oppositore dello stato ebraico e di ogni altra forma di politica ebraica. In tutti i modi, sono fortemente convinto che sia mio dovere primario informare chiunque desideri ascoltarmi di cosa abbiamo contro.

Se il sionismo mirava a trasformare gli ebrei, e se pensava che “donandogli un proprio stato” li avrebbe resi simili a qualunque altro popolo, allora ha miseramente fallito. La barbarie israeliana, quale abbiamo potuto osservarla questa settimana e in infinite occasioni precedenti, va ben al di là della bestialità pura e semplice. E’ l’uccidere per il gusto di uccidere. Ed è indiscriminata.

Poche persone in occidente si rendono conto di una realtà devastante: che ammazzare gli arabi, e i palestinesi in particolare, è una ricetta politica israeliana di grande efficacia. Gli israeliani sono in realtà un popolo confuso. Per quanto insistano a vedere se stessi come una nazione in cerca di “Shalom” (1), in realtà amano essere guidati da politici che abbiano alle spalle un impressionante curriculum di massacri ingiustificati. Che si tratti di Sharon, Rabin, Begin, Shamir o Ben Gurion, gli israeliani vogliono che i loro “leader democraticamente eletti” siano falchi bellicosi, con le mani grondanti sangue e con alle spalle un solido background di crimini contro l’umanità.

Manca qualche settimana alle elezioni in Israele e sembra che tanto il candidato di Kadima, il ministro degli esteri Tzipi Livni, quanto il candidato laburista, il ministro della difesa Ehud Barak, si trovino molto indietro nelle preferenze rispetto al candidato del Likud, il noto falco Benjamin “Bibi” Netanyahu. Livni e Barak hanno bisogno della loro piccola guerra. Devono dimostrare agli israeliani che sanno come gestire uno sterminio di massa.

Sia Livni che Barak devono offrire all’elettore israeliano un’esibizione di devastante carneficina, così che gli israeliani possano aver fiducia nella loro leadership. E’ la loro unica possibilità contro Netanyahu. In pratica, Livni e Barak stanno lanciando tonnellate di bombe sui civili palestinesi, sulle scuole e sugli ospedali perché questo è esattamente ciò che gli israeliani vogliono vedere.

Sfortunatamente, gli israeliani non sono conosciuti per la loro pietà o per la loro compassione. Al contrario sono appagati dalla ritorsione e dalla vendetta, gioiscono della loro stessa brutalità senza limiti. Quando all’ex comandante in capo delle Forze Aeree Israeliane, Dan Halutz, fu chiesto che cosa si provasse a sganciare una bomba su un quartiere di Gaza densamente popolato, la sua risposta fu breve e precisa: “Si prova una leggera turbolenza sull’ala destra”. La freddezza omicida di Halutz fu sufficiente a garantirgli la promozione a capo di stato maggiore della IDF poco tempo dopo. Fu il generale Halutz a guidare l’esercito israeliano nella seconda guerra del Libano, fu lui a perpetrare la distruzione delle infrastrutture libanesi e di ampie zone di Beirut.

A quanto sembra, nella politica israeliana il sangue degli arabi si traduce in voti. Ovviamente sarebbe molto ragionevole incriminare Livni, Barak e l’attuale capo di stato maggiore della IDF, Ashkenazi, per omicidio di primo grado, crimini contro l’umanità e per la palese infrazione delle Convenzioni di Ginevra. Ma è molto più comprensibile tenere conto del fatto che Israele è una “democrazia”. Livni, Barak e Ashkenazi stanno dando al popolo israeliano ciò che vuole: si chiama sangue arabo e deve essere fornito in abbondanti quantità. Questa ininterrotta pratica omicida condotta dai politici israeliani riflette le attitudini del popolo israeliano nel suo insieme piuttosto che quelle di un manipolo di politici e generali. Abbiamo a che fare con una società barbarica, guidata, sul piano politico, da inclinazioni sanguinarie e assassine. Non può esservi dubbio, non c’è posto per questa gente fra le nazioni.

Perché gli israeliani siano un popolo così lontano da qualsiasi nozione di umanità è una bella domanda. Gli studiosi della natura umana più generosi ed ingenui potrebbero sostenere che la Shoah abbia lasciato un’enorme cicatrice nell’animo degli israeliani. Ciò potrebbe spiegare perché gli israeliani coltivino tale ricordo in modo ossessivo, con il sostegno dei loro fratelli e sorelle della Diaspora. Gli israeliani dicono “mai più” e ciò che vogliono dire è che non dovrà più esserci una nuova Auschwitz, il che in qualche modo li fa sentire legittimati a punire i palestinesi per i crimini commessi dai nazisti. I più realistici tra noi non credono più a questa tesi. Oggi iniziano ad ammettere che è più che probabile che gli israeliani siano così incredibilmente brutali perché semplicemente è questo che sono. E’ qualcosa che va oltre la razionalità e le teorizzazioni pseudo-analitiche. Essi affermano: “Questo è ciò che gli israeliani sono e non c’è più nulla da fare”. I realistici arrivano perfino ad ammettere che uccidere sia il modo in cui gli israeliani interpretano il significato dell’essere ebrei. Con tristezza, molti di noi sono arrivati ad ammettere che non esiste un sistema di valori laici alternativo con cui gli ebrei possano sostituire la pulsione ebraica all’omicidio. Lo stato ebraico sta lì a dimostrare che l’autonomia nazionale ebraica è un concetto inumano.

Sono cresciuto nell’Israele degli anni dopo il 1967. Sono stato allevato nel culto della mitica vittoria israeliana, siamo stati abituati ad adorare l’”israeliano che combatte in posizione di svantaggio”, l’eroico plotone che punta il suo Uzi automatico verso gli arabi e riesce a sconfiggere quattro eserciti in soli sei giorni.

Mi ci sono voluti due decenni di troppo per capire che l’”israeliano che combatte svantaggiato” era in realtà un maestro dello sterminio indiscriminato. Barak era uno di quegli eroi del 1967, un maestro dell’assassinio indiscriminato. A quanto sembra, l’esecutivo israeliano ha appena approvato un progetto per il più massiccio attacco contro Gaza dal 1967. Livni ha più o meno la mia età e, a giudicare dalle notizie, ha interiorizzato quel messaggio. Ora si sta costruendo le necessarie credenziali come assassina indiscriminata. Sia Barak che la Livni stanno conducendo Israele in una campagna elettorale di sterminio. Il sangue degli arabi e dei palestinesi è il carburante della politica israeliana.

Potrei suggerire a Barak e alla Livni che non è detto che ciò li aiuti nei sondaggi. Netanyahu è un falco autentico e genuino. Non ha bisogno di atteggiarsi ad assassino e, per quanto io possa disprezzarlo, non ha ancora condotto Israele in una guerra. Probabilmente egli capisce meglio di loro che cosa sia il potere della deterrenza.

(1) Non bisogna confondere “Shalom” con “pace” o con “Salam”. “Pace” e “Salam” esprimono riconciliazione e compromesso, mentre “Shalom” significa sicurezza per il popolo ebraico a spese del territorio circostante.



Gaza. È terrorismo. È strage. Si può raccontare il crimine
di Pino Cabras - Megachip - 30 Dicembre 2008

Nei giorni dell’atroce strage di Gaza l’orrore si condensa inevitabilmente sulle immagini e le voci delle vittime. Tanti piccoli tasselli che non riescono a ricomporre ancora il quadro della tragedia. Capire e riflettere in mezzo a tanta sciagura è difficile. Ma dobbiamo farlo, per ricostruire i fatti e il contesto.

Dopo anni di occupazione, l’11 settembre 2005, l’esercito israeliano ammainò la bandiera a Gaza, non appena fu completato il rapido sgombero delle colonie ebraiche sulla Striscia, troppo costose da tenere. Lunghe colonne di mezzi militari si allontanavano. Era il disimpegno unilaterale di Ariel Sharon: nessun riconoscimento politico che mettesse alla pari gli interlocutori palestinesi. Gli israeliani salutavano, ma non se ne andavano. Il mare e il cielo erano interamente sotto controllo israeliano. E che controllo.

In mare, la misera marineria palestinese non aveva più diritto a pescare nemmeno sulla battigia. Nessun molo funzionante, nemmeno per commerciare un po’ di derrate alimentari fresche.
In cielo, nel corso degli ultimi tre anni non si contano le azioni di bombardamento. In cielo, soprattutto, i jet con la stella di David hanno volato di proposito e di continuo a velocità supersonica, specie di notte, per creare insopportabili rumori. Un trauma senza posa che non ha risparmiato i bambini.

In terra, tutto il confine con Israele era una barriera chiusa e impenetrabile. Non bastava lo sfiato esiguo del confine con l’Egitto a trasformare questo territorio in qualcosa di diverso da una prigione. Serrato in via definitiva il passaggio di Karni, da cui potevano entrare le importazioni palestinesi sbarcate nel vicinissimo porto israeliano di Ashdod, pochi chilometri a nord, i palestinesi dovevano affidarsi ai porti egiziani di Port Said o Alessandria, a 200 chilometri l’uno, a 400 l’altro, con costi insostenibili per una popolazione già stremata. Questa era Gaza resa libera. La più grande prigione del mondo, un popolo intero, un milione e mezzo di persone. E più di ogni altra prigione, piena di innocenti.

Quando nel 2005 ci fu il “ritiro” unilaterale, uno sguardo spassionato alle circostanze avrebbe permesso di capire al volo che quello non era un refolo di speranza, ma la base per un aggravarsi della situazione. Sarebbe bastato rileggersi l’intervista concessa il 6 ottobre 2004 al quotidiano «Haaretz» da Dov Weisglass, braccio destro di Sharon, quando dichiarò che il cosiddetto piano di disimpegno da Gaza (che prevedeva anche la costruzione del muro in Cisgiordania) era solo una manovra diversiva intesa a fornire a Israele «una quantità di formaldeide sufficiente affinché non ci sia un processo politico con i palestinesi».

Un mese dopo, moriva Yasser Arafat, il padre della patria, presidente dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese. Gli esponenti della classe dirigente laica di al-Fatah, fino ad allora tenuta insieme dal carisma di Arafat, apparivano ormai nudi nei loro terribili difetti. Avevano rubato a man bassa e si costruivano ville palladiane in mezzo alla miseria dei Territori occupati, mentre non avevano risultati tangibili da offrire come frutto della loro negoziazione continuamente soverchiata dal pugno di ferro del governo israeliano e mestamente instradata verso un percepito collaborazionismo.

Per contro cresceva nella popolazione il prestigio del "Movimento di Resistenza Islamico". Il suo acronimo arabo, Hamas, significa “zelo, entusiasmo”. I dirigenti di Hamas conducevano una vita frugale, intanto che in mezzo alle rovine tessevano reti di solidarietà materiale, una sorta di welfare residuale, ma infinitamente più credibile del disastro in cui sprofondava l’Anp.

Fu così che nel gennaio 2006 Hamas vinse le elezioni parlamentari palestinesi, con 76 seggi della camera su 132, mentre al-Fatah ne prese 43. Una vittoria autentica ed elettoralmente pulita, ma anche una variabile che nei calcoli delle potenze coinvolte non si considerava accettabile. Quando la democrazia ha due pesi e due misure.

Ancora Dov Weisglass, stavolta in veste di coordinatore di una squadra di governo che comprendeva anche i capoccioni delle forze armate e incaricata delle azioni anti-Hamas, commentò così subito dopo le elezioni l’intento di avviare una crudele stretta economica all’Autorità palestinese: «è come andare dal dietista: i palestinesi dimagriranno un bel po’, ma non moriranno mica». I presenti, tra cui Tzipi Livni, scoppiarono a ridere (vedi Gideon Levy, “As the Hamas team laughs”, «Haaretz», 19 febbraio 2006).

Weissglass in fondo è uno spiritoso. Nella famosa intervista ad «Haaretz» del 2004 aveva ben rimarcato quanta formaldeide servisse per imbalsamare le velleità di un accordo di pace: «noi abbiamo istruito il mondo, affinché capisca che non c’è nessuno con cui trattare. E abbiamo ricevuto un attestato... [che non c’è nessuno con cui trattare]. L’attestato sarà revocato solamente quando la Palestina diventerà come la Finlandia». La versione moderna delle calende greche, per chi osasse ancora vagheggiare due popoli in due stati.

I palestinesi della grande prigione non sono diventati finlandesi. Hanno subito fino in fondo la dieta, giorno dopo giorno. Nonostante la difficile tregua, la vite si stringeva sempre di più, venivano fatti passare sempre meno camion di aiuti, e nulla usciva dal campo della disperazione concentrata.

Gaza è il caso più disgraziato. Ma anche in Cisgiordania non si scherza. Il governo israeliano ha disposto la chiusura di decine di organizzazioni caritatevoli. La scusa è tagliare qualsiasi flusso che possa favorire Hamas. Quel che accade in realtà è la desertificazione di tutti i corpi intermedi, di tutte le formazioni sociali in seno alla popolazione palestinese, per lasciare spazio solo all’emergenza umanitaria in mano altrui. Magari in mano all’Onu, purché non rompa le scatole come faceva con Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, un ebreo cui è ormai vietato entrare in Terra Santa per aver espresso forti critiche sulla politica di occupazione israeliana.

Al solito, di fronte a vicende di guerra, i media occidentali più importanti manipolano pesantemente le notizie. Sono complici di quelle classi dirigenti che – dopo l’11 settembre - hanno fatto di tutto per distruggere un ordinamento giuridico internazionale che ammetteva norme non basate sul solo diritto di potenza, inquinare i punti di riferimento concettuali per la definizione di ciò che è aggressione o tirannia o resistenza, mentre potenti interessi imperialistici condizionano l’economia – vicina a un baratro finanziario – entro la gabbia delle priorità militari. Gli Stati Uniti non stanno sollevando alcuna obiezione, rispetto all’ennesima azione scellerata del governo israeliano. Ma anche le voci europee sono flebilissime.

Ernesto Balducci, quando nel 1991 scorreva il bollettino delle vittime nella Guerra del Golfo notava che a fronte di qualche centinaio di americani, c’erano centinaia di migliaia di morti iracheni: non più una guerra codificata dalla ragione e dal diritto, ma una strage. Credo che anche oggi la parola strage sia la più adatta a descrivere la scena di Gaza. Un’immane strage.

Fra i responsabili dell’eccidio c’è il ministro della difesa israeliano, l’ex premier Ehud Barak. Giustifica anche lui tutta questa ferocia pianificata in nome della lotta al terrorismo.
Pur essendo la parola ‘terrorismo’ una delle più usate nella politica degli ultimi anni, la sua definizione non ha affatto interpretazioni univoche. In molte occasioni i vertici di capi di stato e di governo hanno trovato difficoltà quasi insormontabili quando hanno cercato una definizione minima comune.

Se si ragiona un po’ sulla questione, si scoprono tante sfumature che sottostanno alle definizioni polimorfe di un fenomeno sfuggente. A stento troverete fattispecie ben delineate, mentre vi imbatterete più spesso in parole che si adatterebbero tranquillamente alla descrizione di certi atti di guerra e di spionaggio che invece sono coperti da una qualche vernice di legalità.
Dimenticate per un minuto i bersagli di solito segnalati da politici e mass media, scordate l’iconografia di un gruppo di kamikaze che si auto-organizza. Troppo facile.

Provate invece a pensare a certe azioni fatte con la copertura di eserciti, Stati, organizzazioni non governative, servizi, multinazionali della security imparentate con il mondo dello spionaggio. Saranno diversi i gradi di visibilità della copertura dei governi, ma vedrete che quelle definizioni tornano indietro come un boomerang.

La prima grande ondata di attacchi aerei in Iraq nel 2003 venne chiamata «Shock and Awe». Non è facile tradurre questa espressione in due parole, per la densità di richiami che contiene. Normalmente i giornali italiani tradussero “colpisci e terrorizza”, “colpisci e sgomenta”, per mantenere la forza icastica dell’espressione e approssimarsi comunque al significato. Ma è interessante perdere un po’ dell’effetto per cogliere i significati di un’altra possibile traduzione: “sconvolgi e induci in soggezione”. Si coglie così non tanto la furia cieca del fanatico rozzo, quanto la risolutezza metallica del fanatico freddo, che distilla la ‘strategia della tensione’ in un blitzkrieg.

Quante volte ritorna l’espressione ‘Terrorismo di Stato’ e di ‘Stato terrorista’, nella Grozny annientata dai carri armati russi, nel Libano devastato dall’aviazione israeliana, nelle lotte di potere in Pakistan, nella memoria degli anni di piombo italiani? A ogni buon conto, l’organo neocon italiano, «Il Foglio», ha plaudito anche stavolta in prima pagina alla rivendicata “strategia shock and awe”.

Cos’è dunque il terrorismo? Il terrorismo non è solo una questione di terroristi. In un certo senso ce lo dicono anche le Convenzioni di Ginevra. Anche se non definiscono la nozione di “terrorismo”, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 si riferiscono a “misure di terrorismo” e ad “atti di terrorismo”.

L’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra in modo esplicito vieta che la popolazione civile venga fatta oggetto di «pene collettive, come pure [di] qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo». La vicenda di Gaza è un caso lampante di pena collettiva inflitta alla popolazione. E gli ultimatum che dicono “stiamo per bombardarvi”, lungi dal significare “vogliamo salvarvi la vita, spostatevi” sono atti d’intimidazione e induzione del terrore. Come stupirsi delle parole non prevenute di Richard Falk, pronunciate nel 2007, quando ancora l’assedio di Gaza non era giunto alle punte di crudeltà più recenti?

Falk dichiarava: «È forse un’esagerazione irresponsabile associare il trattamento dei palestinesi alle pratiche di atrocità collettiva dei nazisti? Non credo. I recenti sviluppi a Gaza sono particolarmente inquietanti perché esprimono in modo sconvolgente un’intenzione deliberata da parte di Israele e dei suoi alleati di sottoporre una comunità umana nella sua interezza a condizioni di massima crudeltà che ne mettono in pericolo la vita. La suggestione che questo modello di comportamento sia un olocausto in erba rappresenta un appello disperatissimo ai governi del mondo e all’opinione pubblica internazionale affinché agiscano d’urgenza per impedire che queste attuali tendenze al genocidio finiscano in una tragedia collettiva».

L’articolo 4 del Secondo Protocollo Aggiuntivo delle Convenzioni di Ginevra stabilisce che contro tutte «le persone che non partecipano direttamente o non partecipano più alle ostilità […] siano proibiti in ogni tempo e in ogni luogo […] atti di terrorismo». Ancora una volta, senza arrivare alle definizioni “teologiche” di terrorismo, quelle della Guerra al Terrorismo per intenderci, il diritto internazionale ha cercato di codificare fattispecie precise. In entrambi i disposti delle Convenzioni di Ginevra si enfatizza che né singoli individui né la popolazione civile in quanto tale possono essere fatti oggetto di punizioni collettive che, fra l’altro, indurrebbero in essa una condizione di terrore.

Questo concetto si rafforza nel Primo Protocollo Aggiuntivo, laddove, all’articolo 51, è stabilito che «sia la popolazione civile che le persone civili non dovranno essere oggetto di attacchi» e che «sono vietati gli atti o minacce di violenza, il cui scopo principale sia di diffondere il terrore fra la popolazione civile.»

Qualche azzeccagarbugli del diritto umanitario proverà a confondere le acque, giocando fra le definizioni di politica interna e internazionale degli interventi militari. Ma il disposto ricompare quasi alla lettera nel Secondo Protocollo Aggiuntivo: la qualificazione del conflitto come internazionale o interno non ha grande rilevanza.

La strage di Gaza è una misura di terrorismo. Un atto di terrorismo. Affermare che si volevano colpire i soldati di Hamas è una giustificazione sottile come la carta velina. I poveri poliziotti massacrati nel giorno del loro giuramento non erano certo persone che “partecipano direttamente alle ostilità”. Erano parte di una fragile infrastruttura di sicurezza interna del territorio. Fragile come il miraggio del misero stipendio– cosa rara in un luogo in cui ormai tutti sono disoccupati - che forse li allontanava dallo spettro della denutrizione toccata in sorte ai loro connazionali. In tutto e per tutto vittime civili anche i poliziotti morti, come i bambini morti nelle macerie delle scuole.

Che l’obiettivo fosse distruggere qualsiasi dimensione civile dei territori, lo dimostra in modo flagrante la disintegrazione dell’Università. Che si aggiunge alle devastazioni inflitte anni addietro a tutte le infrastrutture palestinesi. Sono rimasti i forni, senza elettricità e senza pane.

Nelle indecenti corrispondenze di molti giornali e telegiornali si asseconda il concetto che l’incursione delle forze armate israeliane servirà a distruggere la percezione di utilità di Hamas nella popolazione civile. Ridurre tutti alla disperazione per rovesciare Hamas, insomma.

Di fronte a questo intendimento, ci basta rispolverare la definizione ufficiale di “terrorismo” adottata dal Dipartimento della Difesa Usa: «Il terrorismo è l’uso calcolato della violenza o della minaccia di violenza per indurre paura, intesa a coartare o intimidire stati o società nonché al perseguimento di obiettivi che sono generalmente politici, religiosi e ideologici».

Non vi piace? Volete quella dell’Fbi? Eccola: «Il terrorismo è l’uso illegale della forza o della violenza a danno di persone o proprietà per intimidire o coartare un governo, la popolazione civile o un loro segmento, seguendo obiettivi politici o sociali».

Definizioni troppo americane? Torniamo in Europa, allora. La Decisione quadro sulla lotta contro il terrorismo, adottata dal Consiglio Europeo il 13 giugno 2002 lo definiva come «ogni atto terroristico commesso, da uno o più individui, contro uno o più Stati, intenzionalmente, o tale da arrecare pregiudizio a un’organizzazione internazionale o a uno Stato. Deve trattarsi di atti terroristici commessi con l’intenzione di minacciare la popolazione e di ledere gravemente o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali di uno Stato (omicidi, lesioni personali, cattura di ostaggi, ricatti, fabbricazione d’armi, attentati fatti eseguire da terzi, minaccia di porre in atto simili azioni …).».

Ecco, sfumiamo i termini statuali dei soggetti, andiamo agli atti concreti. Siamo lì. Siamo nell’ambito di fattispecie che definiscono forme di azione violenta e illegale, tali da mettere in pericolo la popolazione civile, e quindi indurre una condizione di “terrore” diffuso così da ottenere alcuni risultati di tipo politico.

Possiamo certo riconoscere questa definizione anche a carico di chi lancia i razzi Kassam, che lo spudorato corrispondente del Tg1 definisce missili, ma che sono poco più che delle catapulte, dagli effetti drammatici ma strategicamente trascurabili. Ma perché non riconoscerla a carico di chi invece – tranne le sue bombe atomiche – ha usato sinora tutto il resto di un armamentario spaventoso e senza proporzione?

Questa critica dura e senza sconti alle classi dirigenti israeliane e ai loro alleati significa avere la volontà o la velleità di distruggere Israele? No, è la semplice opposizione alla ‘normale’ e spregiudicata politica di potenza di uno Stato guerresco contemporaneo. Uno Stato che – al pari degli altri Stati – non deve essere considerato in odore di santità né pervaso da fumi demoniaci, ma semplicemente valutato con tutto l’arsenale della critica razionale, per quello che fa e che progetta, per il potere che ha e per lo scontro che il suo potere genera.
Relativizziamo, anche in questo caso.

Il processo di costruzione di Israele come nazione non si è risparmiato indicibili crudeltà e ingiustizie, ma è stato così anche per gli Stati-nazione più forti che conosciamo. La Francia che passa per guerre civili e religiose e accresce la sua economia a spese delle colonie, la Spagna della "limpieza de la sangre" e della Conquista, gli Stati Uniti con la Nuova Frontiera che schiaccia i nativi, la Russia che edifica un impero con impressionanti democidi, la Germania che prende le misure del mondo con enormi massacri e genocidi, la Cina che calpesta le minoranze, la stessa nostra Italia che si unifica con grandi tributi di sangue e dove Cristo è più o meno sempre fermo a Eboli.

Dietro tante epopee nazionali c’è un terribile bagno di sangue, che dovrebbe spingere a non demonizzare, ma semplicemente a riconoscere il crimine quando esso si manifesta con tanta capacità di devastazione. In questo caso, oltre al diritto alla vita delle persone, oltre al diritto del popolo palestinese, oltre al diritto internazionale, è in gioco la pace a livello globale, per l’insieme di relazioni che si disputano nello scenario mediorientale. Cui si aggiunge la pericolosissima tradizionale unilateralità del governo israeliano, ancora una volta “pares non recognoscens”, ora in una polveriera più sconvolta.

E, per come si stanno comportando i mass media, è in gioco la possibilità di raccontare ancora delle verità sulla barbarie.
Denunciare la strage di Gaza con una capacità di esecrazione equivalente a quella consumata per la strage di Mumbai. Si può?

Contrastare subito le aggressioni, adesso, non con invisibili autocritiche “a babbo morto”, come è avvenuto per l’aggressione della Georgia all’Ossetia del Sud. Si può?
Non lasciar passare in cavalleria terrificanti crimini di guerra, come si è fatto per Bush che candidamente ha ammesso che la devastazione dell’Iraq è nata da falsi pretesti. Si può? Si può farlo ora?

Raccontare che i razzi Kassam di questi giorni non c’entrano nulla, perché anche «Haaretz» riferisce che l’attacco era pianificato da mesi e mesi. Si può?
Se non si fa disinformazione, si può.


“IL GOVERNO ISRAELIANO E' UN PERICOLO PER LA PACE NEL MONDO”

Solidarietà al popolo palestinese

L'assalto sanguinoso, e vile, di Israele contro la popolazione della striscia di Gaza è una vergogna per la comunità internazionale che ha permesso che avvenisse e che non ha fatto nulla per impedirlo e per fermarlo.
La stampa occidentale descrive gli eventi con la stessa, intollerabile faziosità con cui raccontò l'aggressione georgiana contro l'Ossetia del Sud, lo scorso agosto.

Vorrei che si ricordasse che la Russia fu condannata dal Parlamento Europeo per reazione "sproporzionata". Cosa firmeranno adesso i parlamentari europei che allora firmarono quella condanna? Se ne rimarranno in silenzio?

La mia solidarietà piena va al popolo palestinese, Popolo martire.

Il governo israeliano, con questo ennesimo massacro, dimostra di essere un pericolo per la pace del mondo. E, come accade sovente agli stupidi, finisce per essere un pericolo per se stesso, come tutti coloro che ignorano non solo la legge internazionale, ma anche la storia dei popoli.

Giulietto Chiesa

parlamentare europeo


A Gaza è un lento morire in vano ascolto
di Vittorio Arrigoni -
http://guerrillaradio.iobloggo.com/ - 30 Dicembre 2008

Nell'aria acre odore di zolfo, nel cielo lampi intermezzano fragorosi boati.
Ormai le mie orecchie sono sorde dalle esplosioni e i miei occhi aridi di lacrime dinnanzi ai cadaveri.

Mi trovo dinnanzi all'ospedale di Al Shifa,
il principale di Gaza, ed è appena giunta la terribile minaccia che Israele avrebbe deciso di bombardare la nuova ala in costruzione.
Non sarebbe una novità, ieri è stato bombardato l'ospedale Wea'm.
Insieme ad un deposito di medicinali a Rafah,
l'università islamica (distrutta),
e diverse moschee sparse per tutta la striscia.
Oltre a decine di installazioni CIVILI.

Pare che non trovando più obbiettivi "sensibili",
l'aviazione e la marina militare si diletti nel bersagliare luoghi sacri, scuole e ospedali.

E' un 11 settembre ad ogni ora, ogni minuto, da queste parti,
e il domani è sempre una nuovo giorno di lutto, sempre uguale.
Si avvertono gli elicotteri e gli aerei costantemente in volo,
quando vedi il lampo, sei già spacciato,
è troppo tardi per mettersi in salvo.

Non ci sono bunker antibombe in tutta la Striscia,
nessun posto è al sicuro.

Non riesco a contattare più amici a Rafah,
neanche quelli che abitano a Nord di Gaza city,
spero perchè le linee sono intasate.
Ci spero.
Sono 60 ore che non chiudo occhio,
come me, tutti i gazawi.

Ieri io e altri 3 compagni dell'ISM abbiamo trascorso tutta la nottata all'ospedale di al Awda del campo profughi di Jabalia. Ci siamo andati perchè temevamo la tanto paventata incursione di terra che poi non si è verificata.
Ma i carri armati israeliani stazionano pronti lungo il confine tutto il confine della Striscia,
il loro cingoli affamati di corpi pare si metteranno in funerea marcia questa di notte.

Verso le 23:30 una bomba è precipitata a circa 800 metri dall'ospedale,
l'onda d'urto a mandato in frammenti diversi vetri delle finestre, ferendo i feriti.
Un' ambulanza si è recata sul posto, hanno tirato giù una moschea, fortunatamente vuota a quell'ora.
Sfortunatamente, anche se non di sfortuna ma di volontà criminale e terroristica di compiere stragi di civili,
la bomba israeliana ha distrutto anche l'edificio adiacente alla moschea, distruggendolo.

Abbiamo visto tirare fuori dalle macerie i corpicini di sei sorelline.
5 sono morte, una è gravissima.

Hanno adagiato le bambine sull'asfalto cabonizzato,
e sembravano bamboline rotte, buttate via perchè inservibili.
Non è un errore, è volontario cinico orrore.

Siamo a quota 320 morti,
più di un migliaio i feriti,
secondo un dottore di Shifa il 60% è destinato a morire nelle prossime ore,
nei prossimi giorni di una lunga agonia.

Decine sono i dispersi,
negli ospedali donne disperate cercano i mariti, i figli,
da due giorni, spesso invano.
E' uno spettacolo macabro all'obitorio.
Un infermiere mi ha detto che una donna palestinese dopo ore di ricerca fra i pezzi di cadaveri all'obitorio,
ha riconosciuto suo marito da una mano amputata.
Tutto quello che di suo marito è rimasto,
e la fede ancora al dito dell'amore eterno che si erano ripromessi.

Di una casa abitata da due famiglie,
è rimasto ben poco dei corpi umani.
Ai parenti hanno mostrato un mezzo busto,
e tre gambe.

Proprio in questo momento una delle nostre barche del Free Gaza Movement sta lasciando il porto di Larnaca in Cipro. Ho parlato coi miei amici a bordo. Eroici, hanno ammassato medicinali un pò in ogni dove sull'imbarcazione.
Dovrebbe approdare al porto di Gaza domani verso le 0800 am.
Sempre che il porto esista ancora dopo quest'altra notte di costanti bombardamenti.
Starò in contatto con loro tutto questo tempo.

Qualcuno fermi questo incubo.
Rimanere in silenzio significa supportare il genocidio in corso.
Urlate la vostra indignazione, in ogni capitale del mondo "civile",
in ogni città, in ogni piazza,
sovrastate le nostre urla di dolore e terrore.

C'è una parte di umanità che sta morendo in pietoso ascolto.

Vik in Gaza

lunedì 29 dicembre 2008

Le bolle col buco

Qualche altro articolo su cio' che ci aspetta nel 2009.

Misure anti-crisi: in ordine sparso contro lo tsunami
di Mario Braconi - Altrenotizie - 29 Dicembre 2008

L’Italia è in recessione. Le stime OCSE prevedono che il prodotto interno italiano decrescerà dello 0,4% nel 2008 e dell’1% nel 2009. Nel nostro Paese ben 400.000 persone perderanno il lavoro, mentre il tasso di disoccupazione toccherà l’8% (oggi è il 6,9%).
Ad aggravare la preoccupazione dei cittadini, lo spettacolo di un’Europa concorde nel riconoscere il fallimento del mercato, eppure incapace di attuare misure unitarie o almeno fortemente coordinate contro la crisi.
L’Ecofin del 2 dicembre scorso, infatti, si è concluso con una dichiarazione piuttosto generica che, oltre a stabilire un tetto per gli interventi dei governi (200 miliardi di euro, ovvero l’1,5% - circa - del Prodotto Interno Lordo UE), contiene affermazioni piuttosto ovvie (ad esempio “gli stimoli fiscali a breve termine devono essere coerenti con strategie di bilancio a medio termine prudenti”; gli interventi “aumenteranno temporaneamente i deficit pubblici”).
La Francia e (meno prevedibilmente) la Gran Bretagna, da versanti politici opposti, costituiscono la nuova avanguardia keynesiana, favorevole ad un intervento massiccio dello Stato nel rilancio dell’economia, anche a costo di un peggioramento temporaneo dei conti pubblici.
Se Sarkozy ha licenziato un pacchetto da 26 miliardi di euro e, senza falsi pudori, ha annunciato ai colleghi che il rapporto tra deficit/PIL con ogni probabilità sarà superiore al prescritto 4%, Mr. Brown ha messo sul piatto ben 20 miliardi di sterline per sostenere l’economia, pari all’1% del prodotto interno lordo del paese.
In un discorso che ha tenuto a New York a novembre il Primo Ministro britannico ha esplicitamente evocato Sir John Maynard Keynes, ricordando come, alla fine degli anni Venti, le proposte del grande economista britannico furono liquidate dall’allora Ministro dell’Economia con una sentenza composta di tre, durissime, parole: “Inflazione, stravaganza, fallimento”.
Se Francia e Gran Bretagna assomigliano un po’ alle allegre cicale della favola di Esopo, la Cancelliera tedesca Angela Merkel sembra confinata al ruolo della formica guastafeste. Che i tedeschi restino piuttosto freddi di fronte alle insistenze degli altri due Paesi a fare di più è comprensibile: infatti, anche dopo aver messo a disposizione 32 miliardi di euro per combattere la recessione (1,3% del Prodotto Interno Lordo), il governo tedesco quest’anno presenterà un bilancio pubblico in pareggio (cosa che non accadeva da quasi 40 anni) e vuole difendere ad ogni costo questo importante risultato.
Ma la questione dell’entità dell’impegno finanziario forse non è il cuore del problema: se infatti, a margine dell’incontro del 12 dicembre, la Cancelliera ha dichiarato di appoggiare il piano Barroso (il che vuol dire che aumenterà l’entità dell’intervento), la frattura che separa la Germania dagli altri due partner è di carattere filosofico: i tedeschi, forse per motivi legati alla loro storia, non amano gli interventi in “deficit spending”, privilegiando invece un approccio orientato alla stabilità macroeconomica di lungo periodo.
E’ indicativo il commento tranchant rilasciato dal Ministro tedesco delle Finanze al settimanale NewsWeek a proposito della riduzione dell’IVA decisa dal governo Brown: “Con il suo piano di rilancio da 24 miliardi di euro, il Governo Brown aumenterà il debito a un tale livello che ci vorrà una generazione per ripianarlo”.
A proposito di “deficit spending”, la riduzione dell’IVA britannica (dal 17,5% al 15%, soglia minima per tutti i Paesi della Unione Europea), da cui il Cancelliere dello scacchiere Alistair Darling si attende effetti positivi per 12,5 miliardi di sterline, non piace per niente nemmeno agli amici francesi, convinti che “altre misure, come quelle di insistere sull'innovazione e sulla ricerca siano più efficaci per le nostre economie”.
Aggiungiamo sommessamente che, se da un lato la manovra sull’IVA è semplice da agire, ha il difetto di avvantaggiare indifferentemente tutti i cittadini indipendentemente dal reddito. In ogni caso, va dato atto a Darling di aver finanziato le misure anti-crisi con una stangata sui redditi più elevati: per chi guadagna oltre 150.000 sterline l’anno, a partire da aprile 2011, l’aliquota passerà infatti da 40 a 45%.
Per quanto riguarda l’Italia, possiamo dire che (a parole) era partita benissimo, annunciando un piano da 80 miliardi (16 novembre) e che poi si è un po’ persa per strada.
A forza di continue revisioni al ribasso, il valore del decreto anti-crisi è sceso fino a 6 miliardi di euro, per poi, miracolosamente, trasformarsi in un intervento a costo zero, cioè senza impatto sulle casse dello Stato: anzi, secondo un interessante studio dell’economista Tito Boeri, il valore assoluto delle misure di sostegno messe in campo (social card, bonus, misure a favore dei mutuatari…) sarebbe addirittura inferiore a quello delle coperture reperite, il che produrrebbe un profitto netto di circa 400 milioni di euro per il governo: insomma, lo Stato guadagna anche sugli interventi di incentivo all’economia.
E’ sempre interessante rilevare come il nostro Paese, nelle mani dell’innegabile “genio finanziario-creativo” di Giulio Tremonti, si muova sempre in controtendenza rispetto al resto del mondo. Se dappertutto si incentivano i cittadini a investire nell’efficienza energetica, noi li bastoniamo con provvedimenti retroattivi (salvo poi tornare indietro); mentre altri Paesi, come la Gran Bretagna, mettono in campo enormi quantità di risorse abbassando le tasse in modo veloce (sia pur con i distinguo di cui sopra) salvo poi ritrovare la copertura con un aumento delle aliquote sui redditi più alti a crisi superata, ecco che noi finanziamo le misure anticrisi aumentando le tasse.
Il lavoro di Boeri dimostra ad esempio come il costo complessivo del bonus famiglia, del contratto di servizio con Trenitalia e del contributo interessi sui mutui (3.230 milioni di euro) venga integralmente coperto con aumenti di tasse (imposte sulla rivalutazioni immobili, voce che peraltro include anticipazioni di entrate che si vedranno solo in futuro, più i due celeberrimi provvedimenti assurti all’onore delle cronache: l’aumento IVA sulla pay-tv “non berlusconiana” e la tassa sul porno).
Senza considerare che bonus e social card, pur avendo il merito di produrre una lieve ed assai imperfetta redistribuzione del reddito a favore delle fasce più povere della popolazione (il limite di età finisce per escludere i giovani dai benefici del provvedimento), produrranno un enorme iperlavoro burocratico in grado di limitarne fortemente i benefici. Ed, in ogni caso, ridistribuire va bene, ma non è quello lo scopo di una misura di stimolo economico.
Concludendo, fa sorridere l’ironica situazione dell’Italia, che in questo frangente si trova allineata al partito del rigore di Angela Merkel e quindi contrapposta a Gran Bretagna e Francia: solo che la Cancelliera è contraria ad eccessi di spesa per uno schietto senso di responsabilità nei confronti delle generazioni future, cosa che dovrebbe animare ogni politico con la P maiuscola, quale che siano le sue idee.
Tremonti, dopo anni di spese pazze, è diventato più sobrio di un trappista solo per un motivo di mercato: se gli spread sui BTP italiani continuano a crescere (oggi pagano circa 1,5% in più rispetto agli equivalenti Bund tedeschi) il carico di interessi rischia di mandare fuori controllo il budget di cassa, innescando una caduta dei prezzi dei titoli ed un conseguente ulteriore aumento dei tassi: una pericolosissima reazione a catena. Forse Sacconi non sarà un grande comunicatore, ma certo in queste condizioni il rischio di bancarotta non è poi così remoto. Voce dal sen fuggita…



La bolla piu' grande della storia
di Nouriel Roubini - La Stampa - 29 Dicembre 2008

Il sistema finanziario del mondo ricco si sta dirigendo verso un crollo. Per la prima volta in settant’anni si è avuto paura di una corsa indiscriminata a ritirare i depositi dalle banche, mentre il sistema bancario «ombra» - agenti, prestatori di mutui non bancari, strumenti strutturati di investimento, hedge funds, fondi monetari di mercato e società di private equity - sta correndo rischi sulle sue passività a breve termine.
Dal lato dell’economia reale, tutte le economie avanzate - che rappresentano il 55 per cento del Prodotto interno lordo globale - erano entrate in recessione anche prima del pesante shock finanziario iniziato alla fine dell’estate 2008. Di conseguenza, ci troviamo oggi di fronte a una recessione, a una crisi finanziaria severa e a una profonda crisi bancaria nelle economie avanzate.
I mercati emergenti hanno inizialmente subito le conseguenze di questa crisi solo quando gli investitori stranieri hanno cominciato a ritirare i loro investimenti. Poi il panico si è diffuso sui mercati di credito, monetari e valutari. Evidenziando così la vulnerabilità dei sistemi finanziari di molti Paesi in via di sviluppo e di settori aziendali che, di fronte all’espansione del credito, si sono indebitati a breve e in valute estere.
I più fragili sono stati i Paesi con un grande deficit di conto corrente e/o con un grande deficit fiscale e con forti debiti in valute estere a breve termine. Ma anche quelli con la migliore performance - come Brasile, Russia, India e Cina - sono adesso a rischio di un atterraggio brusco. Molti mercati emergenti stanno quindi rischiando una grave crisi finanziaria.
La crisi è stata causata dalla più grande bolla finanziaria e creditizia della storia, causata da un uso estremo della leva finanziaria. L’utilizzo della leva finanziaria e le bolle speculative non si sono limitati al mercato immobiliare americano, ma hanno caratterizzato il mercato immobiliare anche di altri Paesi. Inoltre, al di là del mercato immobiliare, in molti sistemi economici vi è stata un’eccessiva concessione di prestiti da parte di istituzioni finanziarie e di alcuni settori di impresa e della pubblica amministrazione.
Il risultato è che ora stanno esplodendo contemporaneamente una bolla immobiliare, una bolla dei mutui ipotecari, una bolla del mercato azionario e obbligazionario, una bolla del credito, una bolla delle materie prime, una bolla del private equity e degli hedge fund.
L’illusione che la contrazione economica negli Stati Uniti e nelle altre economie avanzate sarebbe stata profonda ma breve - una recessione cioè di sei mesi a V - è stata sostituita dalla certezza che la crisi sarebbe stata una lunga e protratta recessione a U, che può durare almeno due anni negli Stati Uniti e si avvicina ai due anni in gran parte dei Paesi nel resto del mondo. In più, dato il rischio crescente di un collasso del sistema finanziario globale, non si può neppure escludere la prospettiva di una recessione a forma di L della durata di una decina d’anni: come quella vissuta dal Giappone dopo il collasso della sua bolla immobiliare e azionaria.

Nouriel Roubini (Docente di Economia presso la New York University e presidente di RGE Monitor)



La Cina e la crisi finanziaria
di Andrew Hughes - Global Research - 17 Dicembre 2008
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Angela Corrias

Con le ondate di distruzione causate dal crollo finanziario globale è arrivato un significativo momento di riflessione obbligatoria. Se tale disastro ha investito il pianeta, quali lezioni si possono trarre per smantellare il meccanismo che lo ha causato in primo luogo?
I rimedi proposti dai governi in tutto il mondo non stanno funzionando come conferma ogni reale indicatore economico. L’eterna influenza corruttrice dei soldi nelle politiche e disegni del governo non ha fatto altro che garantire che qualunque metodo verrà usato per salvare l’economia dalla bocca della balena sarà come gocce di pioggia su un fiume. L’unico schiacciante fattore che non sembra venir preso in considerazione nell’equazione è che per tirarsi fuori dal pasticcio finanziario si ha bisogno di risorse finanziarie. Non quelle prese in prestito ma quelle risparmiate.
Qui è l’asso nella manica della Cina.
Gli Stati Uniti hanno un deficit finanziario reale di 53 trilioni di dollari che non potranno mai ripagare.L’Inghilterra è sulla buona strada nel distruggere la sua moneta e far crescere il suo debito e così è la Francia.La Cina, invece, è nella particolare condizione di avere 1.9 trilioni di dollari in riserve di moneta estera. Questo la mette in una posizione esclusiva rispetto al resto del mondo. Mentre quest’ultimo era impegnato nel consumare tutto quello che la Cina produceva, i Cinesi stavano accumulando un enorme cuscino di contante reale che adesso possono usare per deviare la concentrazione da un’economia che verte sull’esportazione a una che comincia a focalizzarsi sulla domanda interna.
I principi economici per una ripresa in Cina sono più evidenti che nel resto del mondo perché non c’è mai stato lo stesso consumo esagerato spinto dal credito che era la forza trainante per il PIL in tanti altri paesi. Persino su base individuale i risparmi familiari sono saliti a 382.7 miliardi di yuan rispetto al mese precedente (ottobre 2008).Il piano di stimolo di 585 miliardi di dollari della “Central Economic Work Conference” si rivolge a molte aree che sono essenziali nell’incrementare la domanda e il potere d’acquisto del consumatore interno.
Progetti per le abitazioni in città per famiglie a basso reddito, sussidi per le famiglie di campagna a basso reddito, fondi per l’assistenza sanitaria e l’educazione. La Cina sta anche sostenendo le industrie dell’acciaio, automobilistiche e delle telecomunicazioni abbassando le tasse e incoraggiando l’innovazione con sussidi per la ricerca e lo sviluppo. L’importazione di ferro grezzo sta aumentando e l’acciaio prodotto viene conservato per un utilizzo futuro. L’ultimo punto è importante perché presenta la Cina con un vantaggio nei costi di fabbricazione di base visto che la caduta dei prezzi nel trasporto e nella merce ha mostrato che essa ha costituito le sue riserve a prezzi da reparto delle occasioni.
Questo è investimento reale con denaro reale disponibile. La Cina ha risparmiato per i tempi di magra e, adesso che sono arrivati, può approfittare delle sue risorse. Ci vorrà del tempo per la Cina per risollevare la sua enorme economia ma almeno non si devono preoccupare di ripagare un debito impossibile da pagare al resto del mondo. Mentre tutti gli altri paesi stanno cercando disperatamente di formulare un piano di salvataggio alimentato da un incremento nel debito pubblico, la Cina non si deve preoccupare, e questo sarà il suo vantaggio principale.
L’investimento nel potere d’acquisto e nelle prospettive di occupazione della popolazione migliorando le infrastrutture del paese e offrendo agevolazioni fiscali e sussidi ripagherà molto di più che il buttare soldi in istituzioni finanziarie. Questo i Cinesi già lo sapevano e sapevano anche che è inutile nel risollevare una cattiva situazione. Il Poliziotto del mondo sarà pure occidentale, ma il maestro del mondo risiede ancora, come è stato per millenni, in Oriente.



Un analista: un terzo delle banche potrebbe crollare nel 2009
di Paul Joseph Watson - Prison Planet - 24 Dicembre 2008
tradotto per http://www.comedonchisciotte.org/ da ALCENERO

Ralph Silva ha dichiarato alla CNBC che migliaia di banche affronteranno un fallimento o saranno costrette a una fusione

L'analista finanziario Ralph Silva della TowerGroup ha detto alla CNBC questa mattina che si aspetta che non meno di un terzo delle banche fallirà nel 2009 e che qualcosa come un migliaio di banche potrebbe crollare se non partecipa a una fusione.
Silva ha detto che solo cinque o sei banche globali hanno sufficienti fondi per sopravvivere comodamente per tutto il 2009. "Il resto delle banche, il che vuol dire un migliaio di altre banche, non ha sufficiente denaro per superare il 2009", ha aggiunto Silva. "Nel 2009 vedremo scomparire un terzo delle banche dei paesi del G8, partecipando, volenti o nolenti, a una fusione, o sparendo completamente" ha detto.
L'analista ha previsto che piuttosto che lasciar fallire le banche, i governi le costringeranno a fondersi, citando l'esempio della Bradford e della Bingley in Gran Bretagna, cosa che porterà "a molte poche banche che saranno proprietarie di qualcosina in più".
Silva ha avvertito che le banche non saranno in grado di prestare denaro per tutto il 2009 perché saranno più preoccupate semplicemente a sopravvivere e ad essere capaci di pagare i loro dipendenti.