mercoledì 31 agosto 2011

Libia - update

Mentre il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) rivendica oggi "il diritto di uccidere" Gheddafi, dopo aver dato ieri alle truppe lealiste un ultimatum per arrendersi entro sabato, la Nato continua a bombardare pesantemente la zona di Sirte.

Ma Gheddafi, attraverso il suo portavoce Ibrahim Moussa, ha già risposto picche sostenendo che un governo legittimo non può e non deve mai arrendersi a una banda di criminali.



Sette punti sulla guerra contro la Libia
di Domenico Losurdo - http://domenicolosurdo.blogspot.com - 27 Agosto 2011

Ormai persino i ciechi possono essere in grado di vedere e di capire quello che sta avvenendo in Libia:

1. E’ in atto una guerra promossa e scatenata dalla Nato. Tale verità finisce col filtrare sugli stessi organi di «informazione» borghesi. Su «La Stampa» del 25 agosto Lucia Annunziata scrive: è una guerra «tutta “esterna”, cioè fatta dalle forze Nato»; è il «sistema occidentale, che ha promosso la guerra contro Gheddafi».

Una vignetta dell’«International Herald Tribune» del 24 agosto ci fa vedere «ribelli» che esultano, ma stando comodamente a cavallo di un aereo che porta impresso lo stemma della Nato.

2. Si tratta di una guerra preparata da lungo tempo. Il «Sunday Mirror» del 20 marzo ha rivelato che già «tre settimane» prima della risoluzione dell’Onu erano all’opera in Libia «centinaia» di soldati britannici, inquadrati in uno dei corpi militari più sofisticati e più temuti del mondo (SAS).

Rivelazioni o ammissioni analoghe si possono leggere sull’«International Herald Tribune» del 31 marzo, a proposito della presenza di «piccoli gruppi della Cia» e di «un’ampia forza occidentale in azione nell’ombra», sempre «prima dello scoppio delle ostilità il 19 marzo».

3. Questa guerra non ha nulla a che fare con la protezione dei diritti umani. Nell’articolo già citato, Lucia Annunziata osserva angosciata: «La Nato che ha raggiunto la vittoria non è la stessa entità che ha avviato la guerra». Nel frattempo, l’Occidente è gravemente indebolito dalla crisi economica; riuscirà a mantenere il controllo su un continente che sempre più avverte il richiamo delle «nazioni non occidentali» e in particolare della Cina?

D’altro canto, lo stesso quotidiano che ospita l’articolo di Annunziata, «La Stampa», si apre il 26 agosto con un titolo a tutta pagina: «Nuova Libia, sfida Italia-Francia». Per chi ancora non avesse compreso di che tipo di sfida si tratta, l’editoriale di Paolo Baroni (Duello all’ultimo affare) chiarisce: dall’inizio delle operazioni belliche, caratterizzate dal frenetico attivismo di Sarkozy, «si è subito capito che la guerra contro il Colonnello si sarebbe trasformata in un conflitto di tutt’altro tipo: Guerra economica, con un nuovo avversario, l’Italia ovviamente».

4. Promossa per motivi abietti, la guerra viene condotta in modo criminale. Mi limito solo ad alcuni dettagli ripresi da un quotidiano insospettabile. L’«International Herald Tribune» del 26 agosto, con un articolo di K. Fahim e R. Gladstone riporta: «In un accampamento al centro di Tripoli sono stati ritrovati i corpi crivellati di proiettili di più 30 combattenti pro-Gheddafi.

Almeno due erano legati con manette di plastica, e ciò lascia pensare che abbiano subito un’esecuzione. Di questi morti cinque sono stati trovati in un ospedale da campo; uno era su un’ambulanza, steso su una barella e allacciato con una cinghia e con una flebo intravenosa ancora al suo braccio».

5. Barbara come tutte le guerre coloniali, l’attuale guerra contro la Libia dimostra l’ulteriore imbarbarimento dell’imperialismo. In passato innumerevoli sono stati i tentativi della Cia di assassinare Fidel Castro, ma questi tentativi erano condotti in segreto, con un senso se non di vergogna, comunque di timore per le possibili reazioni dell’opinione pubblica internazionale.

Oggi, invece, assassinare Gheddafi o altri capi di Stato sgraditi all’Occidente è un diritto proclamato apertamente. Il «Corriere della Sera» del 26 agosto 2011 titola trionfalmente: «Caccia a Gheddafi e ai figli casa per casa». Mentre scrivo, i Tornados britannici, avvalendosi anche della collaborazione e delle informazioni fornite dalla Francia, sono impegnati a bombardare Sirte e a sterminare un’intera famiglia.

6. Non meno barbara della guerra, è stata ed è la campagna di disinformazione. Senza alcun senso del pudore, la Nato ha martellato sistematicamente la menzogna secondo cui le sue operazioni belliche miravano solo alla protezione dei civili! E la stampa, la «libera» stampa occidentale?

A suo tempo essa ha pubblicato con evidenza la «notizia», secondo cui Gheddafi riempiva i suoi soldati di viagra in modo che più agevolmente potessero commettere stupri di massa. Questa «notizia» cadeva rapidamente nel ridicolo, ed ecco allora un’altra «notizia», secondo cui i soldati libici sparano sui bambini.

Non viene addotta alcuna prova, non c’è alcun riferimento a tempi e a luoghi determinati, alcun rinvio a questa o a quella fonte: l’importante è criminalizzare il nemico da annientare.

7. A suo tempo Mussolini presentò l’aggressione fascista contro l’Etiopia come una campagna per liberare quel paese dalla piaga della schiavitù; oggi la Nato presenta la sua aggressione contro la Libia come una campagna per la diffusione della democrazia.

A suo tempo Mussolini non si stancava di tuonare contro l’imperatore etiopico Hailè Selassié quale «Negus dei negrieri»; oggi la Nato esprime il suo disprezzo per Gheddafi «il dittatore». Come non cambia la natura guerrafondaia dell’imperialismo, così le sue tecniche di manipolazione rivelano significativi elementi di continuità.

Al fine di chiarire chi oggi realmente esercita la dittatura a livello planetario, piuttosto che Marx o Lenin, voglio citare Immanuel Kant. Nello scritto del 1798 (Il conflitto delle facoltà), egli scrive: «Cos'è un monarca assoluto? E' colui che quando comanda: “la guerra deve essere”, la guerra in effetti segue».

Argomentando in tal modo, Kant prendeva di mira in particolare l’Inghilterra del suo tempo, senza lasciarsi ingannare dalle forme «liberali» di quel paese. E’ una lezione di cui far tesoro: i «monarchi assoluti» del nostro tempo, i tiranni e dittatori planetari del nostro tempo siedono a Washington, a Bruxelles e nelle più importanti capitali occidentali.


E' NATO il ribelle a tre punte
di Nicoletta Forcheri - http://mercatoliberotestimonianze.blogspot.com - 30 Agosto 2011

Voglio trasmettere attraverso di voi un messaggio alle madri e alle mogli dei piloti francesi che ci bombardano. I vostri mariti non operano per proteggere i civili: uccidono il mio popolo e i nostri bambini, per soddisfare Sarko che crede che più uccide libici più guadagna voti alle elezioni (Aisha Gheddafi, giugno 2011 su France 24)
Qualcuno lancia salsa di pomodoro al criminale Rasmussen Segretario Generale della NATO:

Nell’imposizione di una no fly zone con la balla mondiale che Gheddafi avrebbe bombardato la propria gente, è la NATO che si sta macchiando di enormi crimini contro l’umanità. In questa intervista ad ABC News, all’inizio dei bombardamenti NATO, il secondogenito dichiara che la NATO sostiene le milizie armate e i terroristi.


Pappagalla: Obama ha dato un ultimatum molto chiaro a Gheddafi di effettuare un cessate il fuoco ma gli attacchi continuano e gli USA non possono avere un atteggiamento attendista mentre un leader dice che non avrà nessuna pietà.

Saif Al Gheddafi: Il nostro popolo è accorso a Bengasi per liberarlo dalle milizie armate e dai gangster. Se gli USA vogliono liberare il popolo che vadano a Benghasi per liberare il popolo dalle milizie e dai terroristi.

Pappagalla: Adesso ci sono attacchi contro la Libia dal cielo, Gheddafi si metterà in disparte?

Saif: In disparte dove? C’è un enorme equivoco, tutto il paese è riunito contro i terroristi e le milizie armate, Voi con l’attacco sostenete i terroristi e le milizie armate.

Pappagalla: Avete l’intenzione di attaccare voli commerciali intorno al Mediterraneo o altri bersagli?

Saif: No, non sono i nostri bersagli, l’unico nostro bersaglio è quello di aiutare il nostro popolo in Libia, a Bengasi che stanno vivendo un incubo, senza alcuna libertà, non hanno niente sotto il giogo delle milizie armate. Se gli USA vogliono aiutarci non hanno che andare lì a combatterli, oppure lasciare che il popolo libico vada a combatterli.
Queste milizie armate e terroristi di cui parla Saif, sono proprio quelle che la stampa mainstream o imbarcata chiama ‘ribelli’, e che aiutano la NATO - le forze speciali francesi e britanniche - a occupare il paese, mettendolo a sangue e a fuoco, sterminando la popolazione civile, bombardando le infrastrutture civili mentre dietro alle quinte i globalisti preparano la spartizione del bottino: privatizzazione della banca centrale libica dopo il bombardamento della Zecca, e revisione dei contratti di produzione con le multinazionali, in chiave post-Mattei.

Non è la NATO che aiuterebbe i cosiddetti 'ribelli, sono i ribelli/terroristi che fanno il lavoro sporco sul terreno, mentre la NATO bombarda dal cielo per spianare la strada alla comparsa dei ribelli. Prendendo di mira i civili.

Thierry Meyssan del Reseau Voltaire nella sua intervista telefonica del 21 agosto scorso dall'hotel Rixos ci ha descritto il metodo, prima che i ribelli procedessero all'epurazione sul terreno di tutto un quartiere:

"Ogni volta sono le forze della NATO che arrivano con gli elicotteri Apaches e mitragliano tutti. Nessuno può resistere al suolo di fronte a degli elicotteri Apaches che bombardano; è impossibile. Quindi non sono i ribelli che fanno il lavoro militare, è una stronzata questa! E' la NATO che fa tutto. Dopo si ritirano, poi arrivano i 'ribelli' per fare delle comparse. Ed è quello che le radiotv diffondono a ripetizione".
Ma le comparse si sono trasformate in stermini di civili non appena i ribelli si sono sentiti abbastanza protetti dai numeri per potere procedere imperterriti. Secondo l'inviato francese Matthieu Mabin, in un attacco di verità alla televisione France 24 il 26 agosto scorso, spiega come i ribelli hanno proceduto a degli stermini di massa di intere famiglie di piccoli funzionari del regime nel quartiere di Abou Slim:

« Non si tratta tanto di combattimenti quanto di un vero e proprio braccaggio degli ultimi fedeli del colonnello Gheddafi, o piuttosto degli artigiani del sistema Gheddafi, piccoli funzionari che servivano direttamento lo Stato, raggruppati in questo quartiere di Abou Slim, negli edifici e che non hanno avuto la risorsa per poter scappare, per scampare alla punizione dei ribelli. (...) I nostri colleghi giunti ora dall'ospedale principale di Tripoli, hanno visto tutta la notte e stamane arrivare numerosissimi feriti da armi di fuoco e tra di loro persone anziane, donne e persino bambini. Il CNT è rimasto del tutto muto su questi avvenimenti, non vi è stata alcuna richiesta di arrendersi."

Da varie fonti autorevoli, è stato appurato che molti di questi ribelli provengono da Derna, centro mondiale libico di addestramento di alqaedisti, rifocillati e addestrati dalla CIA - è oramai un segreto di Pulcinella che al qaeda significa in arabo 'banca dati' e che probabilmente è stata un'invenzione della CIA.

Pepe Escobar rivela il 27 agosto scorso a RT, televisione russa, parlando dal Brasile che il comandante militare in capo di Tripoli appena nominato è Abdul Hakim Ballaji, un elemento proveniente da Al Qaeda, che ha organizzato l'offensiva dei berberi di sabato scorso a Tripoli, lavorando in connessione con le persone di Misurata, la NATO, le forze speciali del Qatar, britanniche e francesi.

Nel 1999 lo troviamo addestrato in Afghanistan come parte di Al Qaeda, parte del gruppo dei salafiti jihadisti libici, amico di Zarkawi, arrestato in Malesia, torturato a Bangkok in una prigione speciale, inviato in Libia, liberato nel 2010 dopo avere firmato un impegno di abbandono delle armi.


E mentre le tv di mezzo mondo parlano di rischio di disastro umanitario a Tripoli per mancanza di acqua e di altri servizi di base, Pepe Escobar conferma che la la distruzione delle infrastrutture civili è opera della NATO, fatto logico visto che la NATO è al soldo di quelle multinazionali/banche che poi le ricostruiranno, come già messo in risalto in altro articolo in riferimento a notizie di Pravda.net (cfr. http://mercatoliberotestimonianze.blogspot.com/2011/08/la-nato-ha-colpito-lacquedotto-libico.html ).

Persino i media ufficiali come Il Sole 24 ore ne hanno parlato pubblicando un articolo a marzo su tali voci persistenti (cfr. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-03-21/reportage-ribelli-islamici-tolleranti-231527_PRN.shtml) e descrivendo Abdul Hakim al Hasadi, capo della 'rivolta' proveniente da Derna, come ex prigioniero di Guantanamo secondo il regime di Gheddafi ma secondo le sue stesse dichiarazioni:

«Non sono mai stato a Guantanamo. Sono stato catturato nel 2002 a Peshawar in Pakistan, mentre tornavo dall'Afghanistan dove combattevo contro l'invasione straniera. Sono stato consegnato agli americani, detenuto qualche mese a Islamabad, consegnato in Libia, e scarcerato nel 2008».

Il Sole continua: Il più celebre detenuto libico di Guantanamo (a cui alludeva il regime ma che non sembra avere legami con Hasadi) è Sufiyan al-Koumi, accusato di essere stato l'autista di Bin Laden, e liberato nel settembre del 2010 grazie all'iniziativa "reform and repent" dal figlio di Gheddafi, Saif al-Islam. Allora centinaia di combattenti del Libyan Islamic Fighting Group (LIFG) furono liberati dopo aver rinunciato alla lotta armata contro il regime (nel 2000 si erano già rifiutati di unirsi alla jihad globale di al-Qaeda). Derna è sempre stata una città ribelle, una spina del fianco per il Rais, che ha cercato , invano, di sottometterla. Tra il 1995 e il 1996 inviò le sue forze speciali nella città. Nei combattimenti contro l'LIFG morirono quasi 100 persone.
Anche il London Daily Telegraph, ha confermato quanto detto dai 'complottisti', il 25 marzo 2011:
“Il comandante in capo dei ribelli ammette che i suoi soldati hanno dei nessi con al-Qaeda: Abdel-Hakim al-Hasidi, il leader libico ribelle, ha dichiarato che i jihadisti che hanno combattuto contro le truppe alleate in Iraq adesso sono sul fronte in prima linea nella battaglia contro il regime di Muammar Gheddafi”.
(cfr. http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/africaandindianocean/libya/8407047/Libyan-rebel-commander-admits-his-fighters-have-al-Qaeda-links.html ). Oppure il Wall Street Journal, che titolava il 3 aprile scorso, “Ex-Mujahedeen aiutano i ribelli libici” http://online.wsj.com/article/SB10001424052748703712504576237042432212406.html In un articolo di Tarpley intitolato Uomini di Al Qaeda pedine dell'insurrezione CIA dalla Libia allo Yemen (cfr. http://tarpley.net/2011/04/03/al-qaeda-pawns-of-cia-insurrection-from-libya-to-yemen/) si descrivono i 4 componenti di detta 'insurrezione':

1. le tribu monarchiste e razziste Harabi e Obeidat del corridoio Benghazi-Derna-Tobruk dalla cultura dell'oscurantista ordine Senussi, messi in auge dai britannici in chiave anti italiana: sotto quella monarchia fantoccio la Libia era diventata uno dei paesi più poveri al mondo. Simili al KKC, tali tribù odiano la tribù pro gheddafi Fezzan del sudovest della Libia, dalla pelle scura e hanno già effettuato massacri di neri.


2. CIA, Alqaeda "fondata come la Legione araba della CIA contro l'URSS dal vide direttore CIA dell'epoca Robert Gates, l'attuale Ministro della Difesa in Afghanistan nel 1981-1982."


3. CIA: "il Fronte di salvezza nazionale libico, basato prima in Sudan e poi nella Virginia del Nord, che invia l'uomo Khalifa Hifter per condurre la rivolta militare, e per coprire la presenza dei tipi di Alqaeda"

4. Il quarto componente è fornito dai francesi che "hanno organizzato la defezione del socio di Gheddafi, Nouri Mesmari, a primavera, come riportato da
Maghreb Confidential. Una cricca di generali attorno a Mesmari aiutò a fomentare gli ammutinamenti militari contro Gheddafi nel nordest della Libia."

Lo scopo quindi sarà quello di creare una sorta di emirato con un Re fantoccio il quale già sta salivando all'idea di riprendere il potere (cfr.
http://libya360.wordpress.com/2011/08/27/exiled-libyan-monarchy-shamelessly-admit-their-role-in-fomenting-war-in-libya/):

La monarchia libica di Idris, con sede a Bengasi, fu messa al trono dagli USA e dai britannici negli anni '50 per controllare gli interessi economici e militari in Nord Africa. Nel 1952 la Libia sotto la guida di Re Idris registrava tra le condizioni di vita più misere del piante.

La monarchia Idris è stata rovesciata in una rivoluzione senza spargimento di sangue guidata da Gheddafi nel 1969, che portò allo smantellmento della basa aerea americana Wheelus, la massima base militare degli USA fuori dal paese in quell'epoca, e all'evacuazione delle forze armate britanniche di stanza in Libia. Le società petrolifere occidentali furono all'epoca nazionalizzate.


La rivolta libica, che è stata descritta da molti come un movimento occidentale per la democrazia, è stata simboleggiata da una bandiera tricolore che è in realtà la bandiera della monarchia Idris, repressiva e dittatoriale. All'inizio del conflitto elementi ribelli in Bengasi brandivano immagini del Re Idris.

Se da una parte non è vero che tutti i ribelli sono monarchici, è ciononostante importante evidenziare la storia della monarchia libica rovesciata, l'influenza di Bengasi e i rapporti con l'occidente. Non è soprendente che la monarchia in esilio Idris abbia svolto e svolga un ruolo dietro al conflitto.

In stretta collaborazione con i suoi vecchi alleati della NATO nel tentativo di riconquistare lo status perduto in Libia e 'ritornare alla democrazia' come lo dichiara il principe Idris senza vergogna alla CNN.


Queste le folle che inneggiavano a Gheddafi a giugno 2011:

Questi alcuni dei crimini contro l'umanità della NATO: Bombardato un quartiere a Zliten, l'8 agosto, presi di mira dalla NATO 2 edifici agricoli con l'uccisione di 85 civili di cui 33 bambini dove la NATO ha preso di mira per ben due volte le stesse case, la seconda volta quando erano accorsi gli aiuti per soccorrere i feriti, di cui numerosi bambini, del primo bombardamento.

Il colonnello Roland Lavoie, portavoce militare ufficiale della NATO ha confermato il bombardamento a Zliten l'8 agosto alle 11,45 e alle 2,34 del 9 agosto.

Un altro dei tanti crimini contro l'umanità della NATO sono i missili a un ospedale il 5 agosto sempre a Zliten uccidento 50 bambini: http://tv.globalresearch.ca/2011/08/nato-missiles-target-libyan-hospital-kill-50-children Aisha Gheddafi, figlia di Gheddafi e avvocatessa trentacinquenne in una intervista alla televisione francese recente, prima che la sua casa venisse saccheggiata dai ribelli dice con le lacrime agli occhi che non si sarebbe mai aspettata i bombardamenti dai francesi, dove ha perso un fratello e un figlio di 5 mesi.

"E' mio padre che ci rimonta il morale. La nostra famiglia è piu unita che mai. La cosa che non capirete mai è che mio padre è un simbolo per il suo popolo, una guida". Apertamente antiamericana con le lacrime agli occhi dice:

"La Francia, ci ho studiato l'ho amata per i suoi odori la sua luce il suo popolo generoso ma mai avrei immaginato che un giorno questo paese avrebbe ucciso mio fratello e la mia famiglia. Voglio trasmettere attraverso di voi un messaggio alle madri e alle mogli dei piloti francesi che ci bombardano. I vostri mariti non operano per proteggere i civili: uccidono il mio popolo e i nostri bambini, per soddisfare Sarko che crede che più uccide libici più guadagna voti alle elezioni".
Afferma poi che suo padre vuole negoziare con i ribelli nonostante siano prossimi ad Alqaeda. Pur di fermare lo spargimento di sangue "siamo pronti a scendere a patti con il diavolo, i ribelli armati". Voleva attaccare la NATO in giustizia per crimini di guerra, questo prima che scomparisse nel nulla, nella fuga dai ribelli.


I rapporti con Gheddafi tra schizofrenia, menzogne e geopolitica
di Giacomo Gabellini* - www.eurasia-rivista.org - 31 Agosto 2011

I titoli entusiastici con cui i principali organi d’informazione hanno riportato la presunta, imminente caduta dell’ultraquarantennale regime di Tripoli si inseriscono perfettamente nella tradizionale disomogeneità che ha caratterizzato la natura dei rapporti intrattenuti da Stati Uniti ed Europa con il colonnello Gheddafi.

Nell’arco degli ultimi vent’anni a Gheddafi è stata attribuita la responsabilità dell’azione terroristica del 5 aprile 1986 alla discoteca La Belle di Berlino, dell’attentato del 21 dicembre 1988 al Boeing 747 esploso sui cieli di Lockerbie di quello che il 19 settembre 1989 colpì il DC 10 francese mentre sorvolava il deserto del Téneré in Niger.

Tali azioni, pur rientranti in una lotta combattuta a suon di azioni poco ortodosse commesse da entrambi gli schieramenti (furono americani i missili che piovvero sul palazzo residenziale di Tripoli il 15 aprile del 1986), valsero a Gheddafi il titolo di mandante supremo del terrorismo internazionale oltre all’embargo commerciale alla Libia.

Su Gheddafi pesava l’appoggio alla causa palestinese, la nazionalizzazione dei campi della British Petroleum (1971) e degli impianti petroliferi della OXY (1972) e l’aver sfidato apertamente la lobby petrolifera.

La Libia subì l’isolamento internazionale fino al 2003, quando Gheddafi tornò nelle grazie dei governanti europei risarcendo i parenti delle vittime degli attentati degli anni ’80 e aprendo l’economia libica agli investitori stranieri.

Nel settembre 2003 il Capo del Governo spagnolo José Maria Aznar fu il primo a rompere gli indugi recandosi a Tripoli per farsi garante degli interessi degli investitori iberici che si accingevano a far affluire corpose iniezioni di denaro e capitali in Libia.

Il 25 settembre dell’anno seguente fu il turno di Tony Blair, che atterrò a Tripoli per sovraintendere a una concessione petrolifera del valore di 200 milioni di dollari che il regime di Gheddafi aveva accordato alla Royal Dutch Shell.

Nell’aprile del 2004 Gheddafi raggiunse Bruxelles dove incontrò il Presidente della Commissione Europea Romano Prodi, il quale considerò fieramente l’evento come “Il risultato di cinque anni di discussioni tra me e Gheddafi”.

Sei mesi dopo Silvio Berlusconi presenziò all’inaugurazione di un oleodotto italo – libico , nel corso della quale non esitò a descrivere Gheddafi come “Grande amico di tutta l’Italia”, riferendosi evidentemente agli affari che l’ENI aveva concluso in Libia in relazione allo sfruttamento del giacimento Western Desert e al potenziamento del gasdotto Greenstream che garantiva l’afflusso annuale di 8 miliardi di metri cubi di gas ai terminali siciliani.

Nell’ottobre dello stesso anno il Cancelliere tedesco Gerhard Schroeder raggiunse Gheddafi per partecipare alle trattative che si conclusero con l’assegnazione dei diritti di trivellazione di alcune aree del deserto libico alla compagnia Wintershall.

Gheddafi era conscio del fatto che concedendo qualche apertura alle pesanti pressioni internazionali si sarebbe visto riconosciuto quel ruolo di interlocutore credibile capace di attirare quegli investimenti di cui la Libia aveva urgente bisogno.

Gli fu sufficiente annunciare lo smantellamento dell’arsenale biologico di cui disponeva e rinunciare pubblicamente allo sviluppo dell’energia nucleare per favorire l’archiviazione generale delle colpe che gli erano state attribuite in passato.

L’Italia, i cui interessi in Libia risalgono al 1911, ha sempre mantenuto uno stretto legame con il regime di Muhammar Gheddafi.

Furono libici i fondi che nel 1976 furono versati nelle casse di una FIAT regolarmente bisognosa di liquidità per mantenersi attiva sul mercato italiano e internazionale.

I dati risalenti ai primi mesi del 2011 rivelavano invece che la Libia era il quinto tra i paesi fornitori dell’Italia coprendo oltre il 4% delle importazioni totali, mentre il mercato italiano costituiva circa il 17% delle importazioni libiche, con un interscambio complessivo stimato nel 2010 di circa 12 miliardi di euro.

La Libia era il primo fornitore di greggio e il terzo fornitore di gas per l’Italia, così come quest’ultima era il terzo Paese investitore tra quelli europei (petrolio escluso) e il quinto a livello mondiale.

L’importanza che il mercato libico rivestiva per il nostro Paese era dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di un numero esorbitante di aziende italiane.

Fin dai tempi di Enrico Mattei l’ENI fu una delle principali compagnie estrattive di petrolio e gas operanti in Libia e aveva ottenuto da Gheddafi i diritti di sfruttamento dei giacimenti fino al 2045.

La Libyan Investment Authority possedeva il 2% circa di Finmeccanica, con la quale era stata sviluppata una cooperazione paritetica altamente strategica inerente il settore dei trasporti, dell’aerospazio e dell’energia.

Ansaldo Sts, AgustaWestland e Selex, società controllate da Finmeccanica, si erano aggiudicate contratti per un giro di affari che superava il miliardo di euro nel potenziamento del sistema ferroviario e nell’elicotteristica.

Impregilo aveva vinto i bandi relativi alla costruzione di tre poli universitari e alla realizzazione di numerose opere infrastrutturali a Tripoli e Misurata.

La Libyan Investment Authority e la Central Bank of Libya avevano acquisito quote del colosso finanziario Unicredit sufficienti per collocarsi al primo posto tra gli azionisti.

Aziende come Alitalia, Telecom, Anas ed Edison avevano anch’esse ottenuto ricchi contratti in Libia.

Come è noto, non era solo il governo di Roma a mantenere cospicui rapporti diplomatici e commerciali con Tripoli, ma anche quelli di quasi tutti i principali paesi europei.

Gli stessi Stati Uniti si erano gettati alle spalle le vecchie tensioni favorendo una distensione dei rapporti culminata con una lettera in cui il Presidente George W. Bush auspicava una “Normalizzazione dei legami politici, economici, commerciali e culturali” con il regime di Gheddafi.

La Libia rimaneva, alla prova dei fatti, un paese non indebitato e detentore di vaste riserve valutarie che necessitava della modernizzazione delle infrastrutture.

Era in possesso insomma di tutte le credenziali per attirare gli interessi dei grandi paesi industrializzati.

Il punto nodale rimane però il petrolio.

La Libia, collocandosi al nono posto tra i paesi produttori, detiene riserve petrolifere stimate in 36 miliardi di barili.

Il fatto poi che gran parte dei giacimenti si situi a poco più di 1500 metri di profondità rende particolarmente economiche le operazioni estrattive.

Se l’ENI era riuscita ad attestarsi su posizioni di dominio, un ruolo comunque rilevante in Libia erano riuscite a ritagliarselo le aziende Total (Francia), Repsol (Spagna) e OMV (Austria).

Le compagnie europee avevano quindi guadagnato cospicue posizioni di vantaggio rispetto alle proprie concorrenti statunitensi, condizionate dall’embargo disposto a suo tempo dal Presidente Ronald Reagan nei riguardi della Libia.

Non è tuttavia unicamente il petrolio l’argomento che sta alla base della recente campagna di discredito ripristinata nei confronti di Gheddafi da quegli stessi paesi che fino a pochi mesi prima non avevano esitato a concludere affari più che redditizi con il regime di Tripoli.

Le ragioni dell’attacco della NATO alla Libia preliminarmente approvato in sede ONU e ammantato da false e ipocrite considerazioni di natura umanitaria vertono sul riassetto degli equilibri che reggono quella particolare regione scossa da consistenti tumulti popolari.

Agli storici dissidi tra la Tripolitania e la Cirenaica sono andati a sovrapporsi le tensioni interne al regime, spaccato in due fazioni che si contendevano il predominio.

Dalle frizioni interne alla Libia è scaturito un conflitto a bassa intensità che molti osservatori hanno istantaneamente accostato a quelli tunisino ed egiziano ignorando le enormi differenze che attestavano la particolarità specifica dell’affaire libico.

A differenza di Tunisia ed Egitto, la rivolta di Libia apparve fin dall’inizio scarsamente omogenea e rivelò il reale gradimento popolare di cui godeva il regime di Gheddafi.

I bombardamenti targati NATO giunsero sulla Libia per evitare che Gheddafi assestasse il colpo definitivo alle tribù che avevano animato la rivolta.

Tribù salutate entusiasticamente come forze democratiche dai principali organi informativi occidentali mentre si accingevano a sventolare antichi vessilli inneggianti alla monarchia filo britannica di Re Idris abbattuta proprio da Gheddafi.

Tribù che una volta decaduto il minimo comun denominatore che ha reso possibile la loro coesione costituito dalla condivisa ostilità nei confronti di Gheddafi riprenderanno a combattersi tra loro innescando una guerra civile affine a quelle che hanno martoriato per interi decenni le popolazioni dell’Africa nera.

Tribù che uno studio condotto dall’accademia militare di West Point nel dicembre del 2007 riguardante il segmento spaziale che da Bengasi, passando per Darna, si estende fino a Tobruk ha rivelato esser parzialmente composte da un numero esorbitante di terroristi che avevano combattuto in Afghanistan e in Iraq contro le medesime forze d’occupazione da cui hanno recentemente ricevuto forniture di armi ed equipaggiamenti.

Tribù gravitanti attorno al nucleo etnico Harabi, pesantemente legato alle frange integraliste direttamente coinvolte nella guerriglia sudanese, i cui principali esponenti sono l’attuale Segretario del Consiglio Nazionale Libico Mustafa Abdul Jalil e Comandante dell’Esercito Nazionale di Liberazione Libico Abdul Fatah Younis, ucciso alla fine di luglio.

Il fatto, inoltre, che l’addestramento delle milizie islamiche che hanno sconvolto il Sudan, provocato la dura repressione del governo di Khartoum che ha a sua volta funto da trampolino di lancio per l’emissione di un mandato di cattura nei confronti del Generale Omar Hassan Al Bashir e per la secessione del Sudan del Sud, sia stato svolto da Israele conferisce un fattore determinante nel minare la presunta spontaneità che numerosi osservatori hanno sostenuto essere alla base delle rivolte.

Tribù che contribuiranno a scatenare quella geopolitica del caos propugnata dagli Stati Uniti perché funzionale ai loro interessi strategici, che nel caso specifico coincidono con la destabilizzazione di un turbolento paese ricco di petrolio mantenuto sufficientemente saldo da Muhammar Gheddafi per quattro decenni consecutivi.

Il reale punto di svolta nell’economia della guerra civile libico è però coinciso con la richiesta avanzata dal Presidente venezuelano Hugo Chavez relativa al rimpatrio dell’oro depositato nei forzieri di Londra, per adempiere il quale la Gran Bretagna si è vista costretta ad intervenire molto più massicciamente di quanto non avesse fatto finora a sostegno dei ribelli.

Nell’arco del suo lungo mandato Gheddafi aveva accumulato corpose riserve auree (si tratta di quasi 150 tonnellate di metallo) di cui la Gran Bretagna ha attualmente urgente bisogno per far fronte alla mossa di Chavez che ha fatto lievitare cospicuamente il valore all’oncia del metallo giallo.

Il Primo Ministro David Cameron ha quindi deciso di sciogliere le ultime riserve relative e di insinuare la diretta presenza britannica nel conflitto, scelta obbligata dettata dalla necessità di ottenere l’oro necessario da restituire al Venezuela evitando di sospingere alle stelle il valore della materia prima in questione e di esporre il paese al reale rischio di fallimento.

Malgrado ciò, l’intraprendenza degli aggressori europei finirà inesorabilmente per urtare contro uno nuova Suez (crisi del 1956) predisposta ancora una volta dagli Stati Uniti al fine di mandare in frantumi i loro ultimi residui colonialisti.

L’installazione di nuove basi nel cuore del Maghreb atte a rafforzare il contingente Africom si congiungerà con il rafforzamento della guerriglia islamica addestrata da Israele dando vita a una sinergia capace di proiettare l’influenza statunitense verso sud, nelle zone interessate dalla penetrazione cinese.

Mentre il paese finirà per trasformarsi in una nuova Somalia affacciata sul Mediterraneo, il saccheggio delle ricchezze naturali libiche procederà senza intoppi.

Intanto la demonizzazione del “tiranno” Gheddafi procede senza soste, con scomuniche e anatemi pronunciati da quegli stessi soggetti che in altre non lontane fasi politiche non avevano scorto alcun problema nel trattare con Tripoli e nel ricevere Gheddafi con gli onori normalmente riservati ai grandi leader.

Dopo le menzogne sui bombardamenti sulla folla che secondo numerose fonti erano stati eseguiti dall’esercito libico su ordine del regime di Tripoli e prontamente smentite dai rilevamenti satellitari russi si era passati alle montature relative alle fantomatiche fosse comuni in cui le forze governative avrebbero sepolto i corpi dei “manifestanti” preliminarmente trucidati.

Come Niculae Ceausescu era stato additato come responsabile del falso carnaio di Timisoara per mezzo di cadaveri debitamente disseppelliti e agitati dai suoi oppositori come vittime del regime, Muhammar Gheddafi è stato condannato senza appello come responsabile delle stragi di Tripoli con l’ausilio di un’analoga metodologia mistificatoria.

Gheddafi, in sostanza, non è più il credibile interlocutore di qualche anno fa ma è tornato ad essere il vecchio terrorista della discoteca La Belle, del Boeing di Lockerbie e del DC 10 sul deserto del Téneré che in procinto di cadere – malgrado siano mesi che la sua fine è reiteratamente stata data come imminente – avrebbe ordinato alle forze rimastegli fedeli di aprire il fuoco sui bambini.

Questa la versione dei ribelli, ripresa e riportata da tutti i principali quotidiani e telegiornali europei e statunitensi che ogni giorno di più dimostrano di aver ereditato il testimone di propugnatori della retorica di guerra che fin dai tempi delle Guerre Puniche ha regolarmente distorto la realtà con le più colossali menzogne e mistificazioni.

* Giacomo Gabellini è collaboratore di Conflitti & Strategie


Gli Usa e Gheddafi

di Michele Paris - Altrenotizie - 29 Agosto 2011

Mentre i “ribelli” libici settimana scorsa facevano il loro ingresso a Tripoli grazie ai massicci bombardamenti NATO contro le forze fedeli a Muammar Gheddafi, una nuova serie di documenti riservati veniva pubblicata da Wikileaks, molti dei quali riguardanti proprio i rapporti tra gli Stati Uniti e il regime del rais.

Un rapporto quello tra Washington e Tripoli fondato fino a pochi mesi fa su una stretta collaborazione tra i rispettivi governi, nonostante i dubbi di fondo mai completamente dissipati circa l’affidabilità del colonnello.

Tra i più accesi sostenitori dell’aggressione contro la Libia negli Stati Uniti spicca il senatore dell’Arizona John McCain, già sfidante repubblicano di Barack Obama durante le presidenziali del 2008.

Il veterano della guerra in Vietnam, nel corso di varie interviste ai media d’oltreoceano in questi mesi, ha descritto Gheddafi come “uno dei più sanguinari dittatori sulla terra”, mentre ha più volte criticato l’amministrazione Obama per non essere intervenuta in maniera ancora più aggressiva, così da rovesciare rapidamente il regime libico.

Lo stesso McCain, in realtà, poco più di due anni fa sedeva in una tenda a Tripoli discutendo della partnership tra USA e Libia con lo stesso Gheddafi e il figlio Muatassim, promettendo di adoperarsi per far giungere all’allora alleato nordafricano gli armamenti desiderati.

Il suddetto incontro ad alto livello nella capitale libica - andato in scena il 14 agosto 2009 - è descritto in un cablo confidenziale redatto dall’ambasciata americana a Tripoli cinque giorni più tardi.

Oltre a John McCain, facevano parte della trasferta in Libia, tra gli altri, anche i senatori repubblicani Lindsey Graham (Sud Carolina) e Susan Collins (Maine) e l’indipendente ex democratico Joe Lieberman (Connecticut).

In un’atmosfera estremamente cordiale, McCain ribadiva l’eccellente stato delle relazioni tra i due paesi, sottolineando il “drastico cambiamento nei rapporti avvenuto negli ultimi cinque anni”.

Da parte sua, il senatore Lieberman elogiava il mantenimento della promessa fatta da Gheddafi di abbandonare il programma per la produzione di armi di distruzione di massa e di rinunciare all’appoggio al terrorismo internazionale.

Lo stesso candidato alla vice-presidenza USA nel 2000 descriveva la Libia come un importante alleato nella lotta al terrore, affermando che i “nemici comuni rendono un’amicizia più solida”.

I “nemici comuni” di cui parlava Lieberman altro non sono che i gruppi integralisti islamici tenuti a bada dal regime di Gheddafi e i cui affiliati fanno parte oggi delle forze “ribelli” sostenute dall’Occidente.

La presenza nel governo di transizione di militanti libici è testimoniata dalla riluttanza di alcuni paesi a riconoscerlo come rappresentante legittimo della Libia, come ad esempio l’Algeria.

In una recente intervista alla Reuters, una fonte interna al governo algerino ha infatti rivelato che alcuni militanti islamici consegnati da Algeri a Gheddafi sarebbero fuggiti per unirsi ai “ribelli”. A detta dello stesso anonimo funzionario algerino, uno di questi islamici sarebbe addirittura apparso su Al Jazeera mentre “parlava in nome del governo di transizione” di Bengasi.

Sempre nel corso dello stesso meeting, Muatassim Gheddafi, allora consigliere del padre per la sicurezza nazionale, esprimeva a sua volta soddisfazione per la visita degli autorevoli politici americani, pur lamentando la mancanza di “garanzie relative alla sicurezza” del suo paese da parte degli Stati Uniti.

La richiesta, già fatta il precedente mese di aprile al Segretario di Stato, Hillary Clinton, riguardava principalmente la fornitura di armamenti americani “letali e non letali”, per i quali McCain affermava di volersi impegnare in prima persona per accelerare i tempi di consegna, sia presso il Congresso che con il numero uno del Pentagono, Robert Gates.

La collaborazione tra i due paesi comprendeva anche l’addestramento di personale libico nelle accademie militari americane. La formazione garantita da Washington agli ufficiali di Gheddafi s’inseriva nella partnership costruita con la Libia in funzione anti-terroristica dopo lo sdoganamento del regime da parte dell’amministrazione Bush.

Il ruolo di Tripoli in nord Africa, senza scrupolo alcuno per i metodi repressivi del rais, era appunto quello di soffocare le cellule legate ad Al-Qaeda, come conferma un altro cablo del febbraio 2009, nel quale l’ambasciata americana elogiava Gheddafi per aver “smantellato una rete in Libia orientale che inviava volontari a combattere in Algeria e in Iraq” e stava progettando attacchi terroristici in Libia.

In un cablo dell’aprile 2009 si parla poi dei preparativi per una imminente visita a Washington di Muatassim Gheddafi che sarebbe stata l’occasione per “incontrare il potenziale futuro leader della Libia”.

Il ruolo del quinto figlio del rais all’interno dell’apparato della sicurezza del regime risultava di importanza cruciale e il suo appoggio veniva perciò valutato indispensabile dal governo americano per promuovere a Tripoli i propri interessi.

L’apprezzamento del governo americano per il regime di Gheddafi riguardava anche le aperture fatte negli ultimi anni al capitale straniero. Un documento del 10 febbraio 2009 ricorda come la “Libia ha approvato numerose leggi e regolamentazioni tese a migliorare l’ambiente degli affari e per attrarre investimenti esteri”.

Gli sforzi, tuttavia, sembravano avere solo un “modesto successo”, anche se le compagnie internazionali stavano tornando a fare affari in Libia, soprattutto dopo la soppressione delle sanzioni ONU nel 2003.

Le opportunità a disposizione delle compagnie energetiche e di costruzioni in Libia sono al centro di molti altri cablogrammi trasmessi al Dipartimento di Stato dall’ambasciata USA a Tripoli. In alcuni di essi emerge però anche una certa persistente diffidenza nei confronti di Gheddafi, mai visto fino in fondo come un serio partner per l’Occidente.

A suscitare preoccupazioni non sono mai state in ogni caso le violazioni dei diritti umani o il soffocamento del dissenso, bensì la minaccia di estrarre condizioni meno favorevoli alle compagnie occidentali operanti nel paese nordafricano - come quelle, descritte in un cablo del 26 ottobre 2007, imposte all’ENI in occasione dell’estensione delle concessioni per l’estrazione di gas e petrolio che stavano per scadere - o i rapporti sempre più stretti che Gheddafi stava coltivando con Russia e Cina.

Questi ed altri documenti già pubblicati nei mesi scorsi da Wikileaks contribuiscono dunque a smascherare le pretese dei governi coinvolti nel rovesciamento del regime di Tripoli di agire per la promozione della democrazia e per proteggere i civili.

Da Washington a Londra, da Parigi a Roma, fino a pochi mesi fa si faceva a gara per corteggiare il dittatore Gheddafi e il suo entourage, nel tentativo di garantire alle proprie corporation lucrosi affari e l’accesso a quelle ingenti risorse petrolifere libiche che queste ultime si apprestano ora a spartirsi sotto la supervisione di un regime più docile verso gli interessi occidentali.


Libia, futuro incerto

di Christian Elia - Peacereporter - 30 Agosto 2011

Intervista al generale Fabio Mini, ex comandante delle forze Nato in Kosovo

Fabio Mini è generale dell'esercito in ausiliaria. Tra i vari incarichi della sua carriera militare, è stato Capo di Stato Maggiore del Comando Nato del Sud Europa e Comandante della Missione internazionale in Kosovo.

Ha scritto e curato numerosi libri, collabora con Università e Centri di studi italiani e stranieri, scrive su alcune delle più importanti testate italiane.

PeaceReporter lo ha intervistato per capire meglio, in queste drammatiche ore in Libia, la situazione attuale dell'intervento della Nato, che continua anche mentre tutti parlano solo dei ribelli e dei fedelissimi di Gheddafi.

Il mandato della Nato, all'inizio delle operazioni, pareva chiaro: impedire massacri di civili, interponendosi tra i ribelli e i lealisti. In questo momento pare che il mandato sia andato molto oltre. Che ne pensa?
Il mandato, effettivamente, era quello di proteggere i civili. Solo che era talmente ambiguo e sibillino che restava aperto a tutte le interpretazioni possibili. Se ci si fosse attenuti alla lettera del mandato, sarebbe stato impossibile sviluppare un'azione militare. Era chiaro dal principio che il mandato vero, chiesto soprattutto dalla Francia, era quello di proteggere gli insorti, non tutti i civili.

Tra le file di Gheddafi ce n'erano tanti, che lavoravano per lui o che lo sostenevano, che si aspettavano protezione della Nato. Era impossibile. La Nato, all'inizio, ha giocato molto a ridurre al minimo il proprio coinvolgimento.

E' convenuto, nelle prime settimane, interpretare in modo restrittivo il mandato, quindi proteggendo esclusivamente i civili non combattenti. Ed è un'ipocrisia, perché in queste situazioni non si possono distinguere per davvero quelli che combattono da quelli che sono da proteggere.

Una serie di scrupoli che la Nato non ha mai mostrato nei Balcani o in Afghanistan, dove conduce un'operazione che se ne frega altamente dei civili. In Libia tutti speravano che grazie agli affari Gheddafi fosse ancora l'interlocutore, anche perché l'impreparazione degli insorti poteva far immaginare un tracollo imminente dei rivoltosi.

Non è andata così e questo gioco al ribasso della Nato ha causato la degenerazione, giorno dopo giorno, della situazione sul terreno. In ritardo il mandato è stato interpretato come doveva essere: aiutare la Libia e gli insorti a liberarsi di Gheddafi.

Questa tipologia d'intervento, attendista e senza un coinvolgimento diretto sul terreno nei combattimenti, potrà diventare un modello per la Nato? Mettendo i governi al riparo, più o meno, dalle opinioni pubbliche interne degli Stati membri?
Questo modello d'intervento si è già ripetuto. In Kosovo, nel 1999. La differenza è che all'epoca l'appoggio alle milizie albanesi dell'Uck era stato pianificato prima, con il supporto degli sponsor internazionali come la Gran Bretagna , gli Usa e la Germania. Avevano organizzato le fanterie ben prima dell'avvio delle operazioni militari della Nato. In Libia, invece, ci si è mossi in senso contrario.

Prima si è puntato a risolvere tutto con i bombardamenti aerei, senza avere mai la reale intenzione d'intervenire via terra, lasciando questo aspetto ai ribelli. Elemento già complesso in una situazione normale, figuriamoci in tempi di crisi. Oggi inorridiamo di fronte ai massacri, commessi da entrambe le parti, ma sono frutto di questo mancato coordinamento tra le azioni aeree e quelle terrestri.

Questo è stato un grosso limite dell'operazione Nato in Libia. Sia a livello strategico che operativo. Hanno aspettato che si delineasse la situazione sul terreno, aspettando che al fronte in Cirenaica si aprisse anche il fronte dall'altra parte, verso il confine con la Tunisia e dalle montagne.

In un sistema tribale, complesso, come quello libico, sarebbe servita una mediazione diplomatica sul terreno che è mancata lasciando la situazione nel caos. Se qualcosa non va, la colpa è di questa deficienza operativa.

Si aspetta, nelle prossime settimane, un attacco alla Siria sulla stessa falsariga di quello libico?
Un eventuale intervento in Siria è una situazione completamente differente. Anche in Siria c'è un'insurrezione, ma che sconvolgerebbe equilibri regionali e internazionali molto più complessi di quelli libici.

Se l'appoggio non è stato chiaro e veloce in Libia, dove poteva essere circoscritto, figurarsi in Siria. Intervenire in Siria, adesso, significherebbe non cogliere fino in fondo le implicazioni della situazione. Si aprirebbe una crisi ben più drammatica di quella libica.

Il punto adesso non è quello di valutare un intervento militare aereo o di terra, ma quello di convincere il governo di Damasco a rinunciare all'uso della forza nei confronti dei propri cittadini.

Un cambio di regime, al buio, ma è un rischio che bisogna correre. Altrimenti si ottiene uno stallo, pronto a esplodere in poco tempo. Conto sulla volontà, in particolare della Lega Araba, di influire diplomaticamente in questa situazione. Senza Assad, magari, per evitare discorsi surreali come quello di un Gheddafi che ancora si offre come mediatore della situazione libica.

Che idea si è fatto dei tre italiani ritrovati in Libia? Mercenari, spie o cos'altro?
Di questa vicenda so poco, ma sembra una storia davvero poco chiara. Le categorie alle quali possono appartenere sono tante. Mettiamola così: non mi stupirei affatto se in Libia ci fossero degli agenti dei nostri servizi di sicurezza e di intelligence. E' il loro mestiere, c'è poco da essere ingenui. Sono interessi nazionali legittimi.

Se invece fossero interessi di qualcuno privato, non sarebbe la stessa cosa. Un'azienda, per esempio. In quel caso sarebbe una stortura. In questi momenti, in situazioni come la Libia, ci sono agenti doppi e tripli. E' la realtà.

In Egitto e in Tunisia le rivoluzioni si sono appoggiate, come elemento di garanzia, all'esercito. Situazione totalmente differente in Libia. Che succederà in un Paese così strategico?
Un esercito classico, in Libia, non è mai esistito. Esisteva un embrione di esercito, che serviva a qualcuno per fare il servizio militare, per dare una parvenza di esercito da parata. Le armi venivano comprate per bande e brigate, assoldate dal regime e da Gheddafi, per i suoi interessi privati. Lui credeva che coincidessero con quelli del Paese, ma erano solo i suoi di interessi. Infatti si è dissolto di fronte agli insorti.

E' rimasto vivo l'assemblaggio delle bande e degli accoliti, addestrati per la guerra del Ciad, tenute in vita per i disegni politici panafricani. Guardie personali, come dimostrano i figli di Gheddafi, che li trattano come dipendenti personali. Non esisteva un esercito come istituzione del Paese. Per Gheddafi lo Stato era lui.

L'attuale situazione con gli insorti non presenta alcuna prospettiva positiva. Non sono forze armate oggi e non lo saranno in futuro. Continueranno a ragionare per interessi tribali e di fazioni. Rispondono a capi diversi con interessi diversi. Anche con risorse differenti: alcuni controllano il petrolio, altri i porti.

Il caos è evitabile solo con una leadership collettiva consolidata. Prospettiva lontana, sono pessimista. E il pessimista è l'ottimista con l'esperienza. Questa situazione non finisce con Gheddafi, ma con i figli di Gheddafi. E quando finirà, cominceranno le lotte intestine per il potere.

Considero questo periodo di crisi molto lungo, servirà un forte sostegno internazionale. Se sarò smentito sarò il più felice degli uomini, ma mi aspetto il peggio. Chi vorrà aiutare la Libia dovrà saperlo fare senza pensare solo agli interessi di bottega.


Libia: petrolio di sangue - Intervista a Massimo Fini

da www.beppegrillo.it - 31 Agosto 2011

"Mi pare con tutta evidenza che alcune democrazie occidentali abbiano voluto eliminare Gheddafi per poter mettere mano e sul petrolio della Libia e sul fatto che adesso c’è questo nuovo sport delle democrazie occidentali, cioè quello di distruggere i paesi per poi partecipare al business della ricostruzione.

È quello che è avvenuto in Serbia, in Iraq e anche in Afganistan, anche se lì hanno più difficoltà, perché i talebani gli distruggono ciò che cercano di ricostruire." Massimo Fini



Guerra, cosa si sarebbe dovuto fare e non si è fatto

di Marinella Correggia - www.radiocittaperta.it - 30 Agosto 2011

Mentre gli alleati locali della Nato (i cosiddetti ribelli) qualificano di "atto di aggressione" l'accoglienza che l'Algeria avrebbe dato a moglie e alcuni figli e nipoti di Gheddafi, e mentre tutte le foto della famiglia sterminata dalla Nato in luglio a Sorman e diventata un simbolo dei crimini di guerra sono sparite dagli hotel e sono state sostituite dalla bandiera monarchica, e mentre a Tripoli NON si contano i morti degli ultimi giorni (sotto i bombardamenti che hanno spianato la strada agli alleati locali, e per l'eliminazione fisica di lavoratori africani con il pretesto che erano "mercenari", e con l'epurazione di libici vicini all'ex regime e di quelli in precedenza fuggiti dall'Est), e mentre nessuno conterà mai i morti civili di 20.000 raid aerei condotti da piloti mercenari occidentali (mercenari, visto che appoggiavano una fazione libica) sulla base di un mandato Onu per proteggere i civili stessi, e meno che mai nessuno conterà i morti fra i soldati, nel tiro al piccione dai cieli, e mentre l'Italia NON accoglierà e mentre prosegue una medioevale caccia all'uomo degna del miglior far west (di nuovo il "wanted" sulla porta del saloon, ha ricordato il presidente del Venezuela) adesso mi rendo conto che l'unica cosa utile da fare in tutti i modi sarebbe stata una campagna A MARZO per appoggiare la proposta di Chavez e dei paesi dell'Alba, accettata dalla Libia: MEDIAZIONE FRA LE PARTI E INVIO DI OSSERVATORI ONU i quali avrebbero visto che non c'erano affatto i diecimila morti fra i manifestanti (mesi dopo, Amnesty International parlava di 209 morti accertati, su entrambi i fronti visto che molti poliziotti e custodi erano stati uccisi dai manifestanti) togliendo la scusa per l'intervento. Invece non si è fatto.


Dopo che un giorno il Manifesto forse solo casualmente non mi aveva pubblicato un pezzo su appunto questa iniziativa venezuelana (e anzi aveva pubblicato un pezzo di Wallerstein in cui praticamente qualificava di idiota il povero Chavez), agli inizi di marzo, sdegnata mi sono allontanata da loro non scrivendo quasi più in merito. Idiota. Occorreva insistere.

Se il Manifesto - l'unico quotidiano che dal 1991 è sempre stato contro le guerre - avesse fatto una simile campagna, dicendo qualcosa ogni giorno in merito, appoggiato da altri media alternativi e trascinando per esempio gli antiguerra superstiti che non sapevano che fare, l'iniziativa di Chavez avrebbe avuto qualche chance, come chiedeva Fidel ai paesi e ai popoli del mondo.

Un'altra guerra, e niente di efficace da parte dei pacifisti. Che comunque non esistono più. Non parlerei più di pacifisti; meglio usare il termine "oppositori alla guerra". Arci, Acli, Cgil e componenti (mai un minuto di sciopero contro nessuna guerra dal 1991 in avanti), Tavola della Pace, per non dire di Attac Francia, dei vari aderenti di di punta al Forum Sociale Mondiale, dei vari Sullo, delle Ong varie e di chi aveva sempre altre urgenze umanitarie da seguire. Urgenze più urgenti dei massacri della Nato e dei loro alleati libici.

All'ipocrita Marcia Perugia Assisi che si svolgerà il 25 settembre avrei voglia di andare con un cartello: "Libia. Il silenzio dei pacifisti ha ucciso". Molti del "movimento" e della "società civile" adesso arriveranno, a fare il business umanitario laggiù, parallelamente al business della ricostruzione e del petrolio.

Vincono sempre gli scrocconi di guerra che sono tanti e su tutti i fronti. Ce n'è di che voler stracciare il passaporto e non rifarlo.

martedì 30 agosto 2011

Manovre a U

Una serie di articoli sull'infinita gestazione di questa maledetta manovra da 45,5 miliardi - anche se con le modifiche di ieri ne mancherebbero all'appello già 4 - di cui nessuno vuole veramente assumersi la responsabilità, a partire proprio dal cosiddetto premier.

Da qui i continui e contraddittori cambiamenti delle misure, in un via vai incredibile di proposte e controproposte in senso opposto da parte del governo e della sua maggioranza.

Una manovra infinita...


Il porcellum delle manovre
di Mario Deaglio - La Stampa - 30 Agosto 2011

Le notizie sul contenuto della manovra-bis sono state diffuse, per puro caso, quasi contemporaneamente al comunicato dell’Istat sulla fiducia dei consumatori, che si colloca a un livello bassissimo. Se si rifacesse l’indagine oggi, è facile immaginare che il livello sarebbe più basso ancora.

Nelle stesse ore, il Fondo monetario internazionale, senza conoscere il contenuto della manovrabis, aveva sostanzialmente dimezzato le già basse stime sulla crescita dell’Italia. Se dovesse rifare i calcoli oggi, ci collocherebbe ancora più in basso.

Negli anni d’oro della Prima Repubblica, c’erano almeno 50-70 parlamentari di tutti i partiti che sapevano «leggere» i conti pubblici.

Oggi, se va bene, i parlamentari non analfabeti in materia si contano sulle dita di una mano e i politici, per rimediare al proprio analfabetismo, si devono affidare a ministri che sono tecnici prima che politici.

Questa manovra-bis è il frutto della generale riduzione del livello di competenza e dell’aumento del livello di pressappochismo del mondo politico.

È uno sforzo da dilettanti, messo assieme in un paio di settimane, senza adeguati supporti tecnici, esclusivamente per rispondere a una pressante richiesta europea.

È una manovra messa a punto in riunioni private, il risultato di continui patteggiamenti senza riguardo per il quadro complessivo. È il «porcellum» delle manovre; così come la legge elettorale ha ingabbiato la vita politica italiana, i provvedimenti resi noti ieri sera rischiano di uccidere qualsiasi stimolo alla crescita.

Chi ha stilato il testo della manovra-bis non ha calcolato la dimensione giuridica: togliere dal calcolo delle pensioni gli anni di università riscattati significa appropriarsi di un versamento già effettuato dai lavoratori.

Proporre un percorso costituzionale per la riduzione del numero dei parlamentari e l’abolizione delle province (che, se va bene, richiederà un paio d’anni, ossia più della durata della legislatura) significa prendere in giro il cittadino, che, già al minimo della fiducia come consumatore lo è probabilmente anche come elettore.

La manovra-bis non sembra poggiare su alcuna previsione di crescita, su alcuna valutazione dei contraccolpi, in termini di riduzione della domanda, che le nuove misure certamente provocheranno.

Dall’esterno si ha la sensazione di assistere ad una sorta di «mercato delle vacche»: la Lega vuole a tutti i costi che non si tocchino le pensioni e in cambio di varie concessioni su altri punti. La politica più rozza prevale sull’economia. Gli italiani lavoratori, consumatori ed elettori - avevano la legittima aspettativa di meritarsi qualcosa di più.


Manovra, il terzo pasticcio
di Carlo Musilli - Altrenotizie - 29 Agosto 2011

Fin qui abbiamo scherzato. Dopo la manovra varata a luglio e il decretone di Ferragosto da 45,5 miliardi, ecco arrivare una bella pioggia di emendamenti. Al termine di un conclave durato più di sette ore, dal comignolo della reggia di Arcore è arrivata la fumata bianca.

Berlusconi e Bossi - ma soprattutto Tremonti - hanno raggiunto un accordo sulle modifiche da apportare alla manovra bis, quella che ci dovrebbe consentire di arrivare al pareggio di bilancio nel 2013, rispettando così gli ordini impartiti dalla Bce.

Tecnicamente, si tratta delle correzioni a un provvedimento a sua volta correttivo. Nei fatti, si tratta di una nuova proposta che non ha nulla a che fare né col testo di partenza, né con la babele di ipotesi alternative buttate lì a casaccio nelle ultime due settimane. Terza manovra, terzo pasticcio.

I punti più importanti hanno a che vedere con il contributo di solidarietà e con le pensioni. La supertassa scompare magicamente, portandosi dietro i 3,8 miliardi che avrebbe garantito alle casse dello Stato. Al suo posto è in arrivo una nuova stretta sull'evasione e un secco taglio alle agevolazioni per le cooperative. Basterà? Staremo a vedere.

Su questo fronte, in ogni caso, è il Cavaliere a cantare vittoria. L'addizionale Irpef era indubbiamente una misura iniqua (perché colpiva praticamente solo i lavoratori dipendenti), ma soprattutto infliggeva una ferita mortale all'immagine che Berlusconi ha voluto costruire di sé negli ultimi 17 anni. Il paladino del liberismo proprio non poteva permettersela.

Per togliere di mezzo questo abominio, negli ultimi giorni era stata gettata in campo una girandola di idee piuttosto fantasiose. Alla fine sembrava certo che la supertassa sarebbe stata sostituita dall'aggiunta di un punto sull'aliquota Iva più alta (20%). Ma così non è stato, per la gioia dei commercianti e dell'oceano di partite Iva italiche.

A spuntarla è stato Tremonti, che si è tenuto l'asso dell'Iva nella manica, pronto ad usarlo quando arriverà il momento della delega fiscale. Per questo bisogna far attenzione a parlare di una Via XX Settembre commissariata dal premier e dal senatùr. Il superministro opera nell'ombra, ma opera.

Quanto alle pensioni, la soluzione raggiunta è un capolavoro del compromesso. La Lega - granitica oppositrice di qualsiasi nuovo intervento in fatto di previdenza - ha salvato la faccia. Ma da chi non lavora più i quattrini arriveranno, e nemmeno pochi. Il trucco sta nell'aver colpito le pensioni di anzianità per via indiretta.

In sostanza, i requisiti necessari ad ottenere l'assegno saranno calcolati senza più tener conto degli anni spesi all'università o per il servizio militare. Anni che comunque torneranno buoni per stabilire l'ammontare della pensione.

Altro capitolo spinoso è quello degli Enti locali. Oggi i Comuni hanno dato vita a una manifestazione da Star Trek, riuscendo a portare in piazza sindaci di qualsiasi partito. Ma sono stati accontentati solo in parte.

Se infatti si salveranno i micro-municipi (era previsto l'accorpamento di quelli sotto i 3 mila abitanti), nel complesso i tagli agli Enti locali (9,5 miliardi in due anni) sono stati ridotti di soli due miliardi.

Una decisione che sa tanto di contentino e che probabilmente non eviterà alle amministrazioni territoriali l'incubo di non poter più garantire ai cittadini neanche i servizi minimi, dagli asili nido ai trasporti pubblici.

Una strada ancora più tortuosa è quella imboccata dalle Province, che saranno abolite tramite una legge costituzionale che conterrà anche il dimezzamento dei parlamentari. Ora, per varare una modifica alla Carta - a voler immaginare che si vada avanti a spada tratta - ci vogliono come minimo nove mesi.

In questo caso il Parlamento dovrebbe per giunta esprimersi con una maggioranza di due terzi a favore di una misura che ha già bocciato (non più di un mese fa) e di un'altra che rischia di bruciargli la poltrona sotto le natiche. Sembra fantascienza, ma al momento è forse più corretto definirla demagogia.

Da questo terzo pasticcio sorgono almeno due problemi macroscopici. Il primo ha prosaicamente a che fare con la moneta sonante. Com'è facile notare, gli emendamenti trattano per lo più di provvedimenti da cancellare. Come si può parlare allora di saldi invariati? Dove li troviamo 45,5 miliardi in due anni?

Dalla maggioranza garantiscono che i conti tornano, ma non essendoci delle stime certe sui gettiti che i singoli interventi produrranno, non possono esserne poi così sicuri. Il guaio è che probabilmente anche a Bruxelles verranno dubbi di questo tipo. E non è scontato che il placet dato alla manovra del 12 agosto sia esteso anche alla sua nuova versione stravolta.

Il secondo problema riguarda il futuro del nostro Paese. Ieri il Fondo monetario internazionale ha tagliato le previsioni di crescita per l'economia italiana su 2011 e 2012. E noi abbiamo sprecato la terza occasione in due mesi per varare una qualsiasi misura a favore dell'occupazione e dello sviluppo delle imprese.

Le liberalizzazioni, ad esempio, potevano essere approvate a costo zero. Bastava volerlo, invece niente. E, purtroppo per noi, l'occhio dei mercati riesce a vedere più lontano della politica.


La manovra cambia ma

di Matteo Bartocci - Il Manifesto - 30 Agosto 2011

Pdl e Lega annullano le spinte contrapposte e si affidano a Tremonti. Approvate più tasse per le coop. Fiducia inevitabile anche al senato.

Intesa nella maggioranza ma i conti non tornano. Niente super-tassa per i manager e i lavoratori privati. Il contributo di «solidarietà» resta su pensionati d'oro e dipendenti pubblici. In pensione più tardi chi studia o ha fatto il militare

Dopo sette ore di conclave a porte chiuse nella villa di Berlusconi ad Arcore, la maggioranza trova l'intesa sulle modifiche alla manovra. Un annuncio dato prudentemente in serata e a mercati chiusi.

Le spinte contrapposte di Pdl e Lega hanno di fatto annullato tutte le proposte di intervento più ambiziose circolate nei giorni scorsi.

L'aumento dell'Iva per ora non c'è. Si farà all'interno della delega fiscale (come voleva la Cisl). E sulle pensioni il governo cancella il riscatto di militare e laurea dal conteggio degli anni di lavoro necessari per l'uscita, resteranno utili solo ai fini dell'assegno. In sostanza, l'età effettiva della pensione per chi ha studiato o per gli attuali trentenni (ultimi a fare il servizio di leva) aumenterà da 1 a 5 anni.

Il lungo conclave tra Pdl, Lega e «responsabili» alla presenza di Berlusconi e Tremonti porta ad alcune modifiche importanti. Alcune rinviate alle calende greche e una di effetto immediato.

Sparisce definitivamente, infatti, il contributo di solidarietà sopra i 90mila euro per tutti i lavoratori privati (manager, calciatori, etc.). A questo punto, chissà perché, resta a carico solo dei parlamentari, dei pensionati d'oro e dei dipendenti pubblici (norme previste dalla manovra precedente). In sostanza, i redditi medio-alti pagano più tasse ma solo se lavorano per lo stato.

E' una cancellazione che placa la base sociale del centrodestra ma getta qualche ombra sui saldi della manovra. Il gettito atteso era di 3,8 miliardi nel triennio.

Una cifra che era già scritta sull'acqua perché calcolata sull'Irpef del 2008: ai tecnici del senato è bastato prendere le dichiarazioni del 2009 (primo anno della crisi) per ridurre gli introiti a 2,2 miliardi.

Il governo assicura che i soldi mancanti li prenderà da una maggiore tassazione delle coop e da una farraginosa e ancora sconosciuta proposta della Lega che tassa le società di comodo e l'elusione societaria.

La guerra tra Tremonti e le coop dura ormai da dieci anni. Se dovesse passare anche quest'ultima norma, di fatto le cooperative non avranno più nessuno sgravio fiscale. Le stime ufficiose parlano di 300 milioni di tasse in più, tante per questo tipo di società, poca cosa per lo stato.

Non va dimenticato, infatti, che le coop producono l'8% del Pil italiano e sono le uniche aziende ad aver aumentato l'occupazione in tempi di crisi (+5%).

Gli incentivi erano giustificati dalla loro struttura anomala (riconosciuta anche in Costituzione) che privilegia il finanziamento dei soci a quello del mercato e obbliga a reinvestire gli utili.

La maggior parte delle modifiche annunciate dal governo, invece, si vedrà alle calende greche. La prima e più importante: salta ancora una volta il taglio delle province. Si farà insieme al dimezzamento dei parlamentari con una legge costituzionale dall'iter lunghissimo e dall'esito parlamentare ancora più incerto.

Anche i piccoli comuni resteranno. Ma gratis, senza indennità né gettoni per assessori e consiglieri. Le loro «funzioni fondamentali» dovranno essere svolte in forma di unione a partire dal 2013, cioè da dopo le prossime elezioni.

Ancora misterioso, infine il presunto dimezzamento dei tagli agli enti locali. Calderoli annuncia minori tagli per 2 miliardi ma i conti non tornano. Nel decreto di agosto regioni, province e comuni contribuivano con 12,4 miliardi in meno in due anni (2012-2013) contro i 9,6 imposti a luglio.

I tagli dunque sembrano mitigati di poco e soprattutto restano immediati e prolungati su tre anni, fino al 2014. Dopo la bastonata, la maggioranza trova una «carotina»: il conferimento del 100% a comuni e regioni dell'evasione fiscale individuata (attualmente la compartecipazione era al 50%). Non è detto che basti e in ogni caso porta a meno gettito nelle casse dello stato.

Dal punto di vista politico, la manovra attenua gli scossoni di frondisti e malpancisti vari del Pdl senza scontentare la Lega. Una ricucitura politica che non prende in considerazione le proposte avanzate da Pd e «terzo polo» ed esclude allargamenti all'Udc. Il dialogo «bipartisan» sarà limitato alle riforme costituzionali.

Soprattutto, essendo scaduto il termine degli emendamenti, è chiaro che le modifiche saranno tutte presentate dal governo, che sicuramente chiederà la fiducia in entrambe le camere.

L'aleatorietà dell'intesa, infine, rende impossibile sapere se i saldi della manovra chiesti dall'Europa siano stati davvero rispettati. Le reazioni internazionali delle prossime ore saranno illuminanti.


Ma è solo un provvisorio compromesso

di Marcello Sorgi - La Stampa - 30 Agosto 2011

Sarà bene non lasciarsi impressionare dalla seconda riscrittura della manovra uscita ieri dal lungo vertice di Arcore tra Pdl e Lega: si tratta di un ennesimo provvisorio compromesso tra i due maggiori alleati di governo (e prima di tutto tra Berlusconi e Tremonti), destinato quasi certamente ad essere rimesso in discussione nel corso nell’iter parlamentare del decreto di Ferragosto.

Di qui al 13 ottobre, termine per la definitiva conversione in legge del testo, chissà quanti altri colpi di scena si preparano, mentre il centrodestra archivia lo scatto di reni decisionista di metà estate e torna all’eterno metodo italiano della trattativa infinita.

Nel merito, l’accordo sembra costruito per dare un contentino a tutti: esce l’odiato (da Berlusconi) contributo di solidarietà sui redditi oltre novantamila euro, si riducono, ma solo parzialmente, i discussi (da Lega e dissidenti Pdl) tagli agli enti locali, si rinviano, con la scusa di renderle più stringenti, le criticate (da tutti tranne Di Pietro) abolizioni delle Province, affidate a una norma costituzionale che non è detto vedrà la luce in questa legislatura.

Entrano un ritocco delle pensioni, che bisognerà vedere come Bossi riuscirà a digerire, dopo aver passato l’estate a spiegare ai suoi militanti che grazie a lui le pensioni erano salve, riduzioni di detrazioni fiscali miste a più stringenti controlli antielusione, che serviranno a far dire a Calderoli (anche se non è vero) che è passata la sua proposta di tassa antievasione.

Ma al di là dell’effetto annuncio, quando le nuove misure saranno dettagliate, di fronte a ulteriori reazioni di contribuenti che già pagano e verrebbero ulteriormente colpiti, da sommare alla protesta nazionale dei sindaci costretti dai tagli ad aumentare le tasse locali, non è affatto da escludere un’altra marcia indietro del governo.

O peggio, una volta creato allarme tra le più note categorie di evasori - sempre gli stessi, sempre perfettamente individuabili - dal miraggio della tassa antievasione potrebbe sortire, miracolosamente, nientemeno che un nuovo condono.

Infine, come voleva Tremonti, e al contrario di quel che chiedeva Berlusconi, che su questo punto non è stato accontentato, non si interviene sull’Iva. Non ci vorrà molto a capire - basterà qualche nuova sventola dei mercati - che anche questa nuova versione della manovra non basta. S’è fatto troppo poco e troppo tardi.

Politicamente, al di là delle solite uscite di propaganda per cui tutti si dichiarano contenti, è abbastanza chiaro che la Lega ha avuto sugli enti locali meno di quanto ha dovuto cedere sulle pensioni.

E che la lunga mediazione della scorsa settimana, ad opera del segretario Pdl Alfano, se è servita a qualcosa, ha portato a un risultato diverso da quello, abbastanza modesto, con cui si era conclusa.

Quanto a Berlusconi e Tremonti, dopo giorni in cui lo stato dei rapporti tra i due era tale che neppure si parlavano al telefono, in conclusione hanno dovuto abbozzare. E rendersi conto che in questa situazione, e con l’autunno che si prepara, come dicevano gli antichi, «simul stabunt, simul cadent».

Non rimane loro che puntellarsi a vicenda, per affrontare come possono i rovesci della crisi e le insidie di un comune declino. Non è detto che serva, ma non hanno alternative.


La manovra delle bollicine
di Massimo Giannini - La Repubblica - 30 Agosto 2011

Una volta tanto il presidente del Consiglio è stato di parola. "Ho messo da parte le bottiglie per brindare all'accordo", ha detto durante il vertice di maggioranza ad Arcore. Dopo oltre sette ore l'intesa è arrivata.

Ma dall'estenuante braccio di ferro di Villa San Martino è uscito esattamente quello che Berlusconi auspicava: una "manovra-champagne". All'apparenza, spumeggiante e piena di bollicine. Nella sostanza, sempre più inconsistente e piena di buchi.

La partita politica dentro il centrodestra si chiude con un esito chiarissimo. Ora tutti alzano i calici, fingendo di aver portato a casa il risultato.

La verità è ben diversa. L'unico vincitore è il Cavaliere, che ha messo in riga Tremonti e Bossi. "Non metto le mani nelle tasche degli italiani", aveva tuonato il premier. In nome di questo slogan da propaganda permanente, ha preteso e ottenuto la cancellazione del contributo di solidarietà sui redditi superiori ai 90 mila euro.

Così, almeno in parte, ha evitato quel bagno di sangue perpetrato soprattutto ai danni del ceto medio, che avrebbe avuto un costo elettorale per lui insopportabile.

Era l'unico obiettivo che gli stava a cuore. L'unico vessillo, psicologico e quasi ideologico, che voleva issare di fronte ai cittadini-elettori.

C'è riuscito. Ma ai danni dei suoi alleati. E anche ai danni del Paese. La "manovra-champagne" è solo un'altra, clamorosa occasione mancata. È confusa né più né meno di quelle che l'hanno preceduta. È altrettanto povera di senso e di struttura.

Soprattutto, è altrettanto ininfluente sul piano del sostegno alla crescita, per la quale non c'è una sola misura di stimolo. E dunque è altrettanto depressiva sul piano dei redditi, dei consumi, degli investimenti, dell'occupazione.

D'altra parte, non poteva non essere così. Tre manovre radicalmente diverse, affastellate in un mese e mezzo, sono il segno inequivocabile del caos totale che regna dentro una maggioranza pronta a tutto, pur di galleggiare e di sopravvivere a se stessa.

Berlusconi ha ridicolizzato Tremonti. Il ministro dell'Economia aveva annunciato una prima manovrina all'acqua di rose a giugno, spiegando che l'Italia era a posto sul debito e sul deficit.

Travolto dalla crisi europea e dall'ondata speculativa dei mercati, ha presentato una manovra-monstre da 45 miliardi a luglio, spiegando che "in cinque giorni tutto è cambiato". Si è presentato ad Arcore chiedendo che quel pacchetto d'emergenza non fosse toccato, per evitare guai con la Ue e traumi sugli spread.

Ebbene, quel pacchetto, al vertice di Arcore, non è stato "toccato": è stato totalmente distrutto. Della manovra tremontiana di luglio non resta quasi più nulla. Salta il contributo di solidarietà, saltano i pur risibili tagli ai costi della politica, salta la cancellazione dei piccoli comuni.

Berlusconi ha umiliato Bossi. La Lega pretendeva la supertassa sugli evasori fiscali e la salvaguardia delle pensioni "padane". Non ha spuntato niente. La maxi-patrimoniale si è annacquata in un più tollerante giro di vite sulle società di comodo alle quali i lavoratori autonomi intestano spesso appartamenti, auto di lusso e barche.

Quanto alla previdenza, il Senatur non solo non salva le camice verdi, ma deve incassare un intervento a sorpresa sulle pensioni di anzianità dalle quali, ai fini del calcolo, verranno scomputati gli anni riscattati per la laurea e il servizio militare.

Peggio di così, per il Carroccio, non poteva andare. A dispetto dei trionfalismi di Calderoli, ormai ridotto a un Forlani qualsiasi.

La partita economica sul risanamento, viceversa, si chiude con un esito assai meno chiaro. La rinuncia al contributo di solidarietà (congegnato in modo iniquo perché non teneva in alcun conto i carichi familiari e il cumulo dei redditi) attenua solo in parte il grave squilibrio della manovra, che resta comunque fortemente sbilanciata sul fronte delle tasse.

L'aumento delle aliquote Iva è solo rinviato alla delega fiscale e assistenziale. La riduzione di 2 miliardi dei tagli a comuni e regioni non impedirà l'aumento delle addizionali Irpef e l'abbattimento dei servizi sul territorio e del Welfare locale.

L'intervento sulla previdenza è solo un'altra "tassa sul pensionato", ed è lontano anni-luce dalla riforma che servirebbe al Paese per stabilizzare definitivamente la spesa, cioè il passaggio al sistema contributivo pro-rata per tutti.

Così riformulata, questa terza manovra berlusconiana è piena di buchi. Come si arrivi ai 45 miliardi promessi resta un mistero, ancora più insondabile di quanto non lo fosse già la seconda manovra tremontiana.

Quanto valgono le misure anti-elusione contro le società di comodo? Quanto frutteranno i maggiori poteri attributi ai comuni nella lotta all'evasione? Nessuno lo sa.

Le uniche certezze riguardano quelli che sicuramente pagheranno fino all'ultimo euro il costo di questo ennesimo compromesso al ribasso firmato dalla coalizione forzaleghista. Gli enti locali, per i quali restano tagli nell'ordine dei 7 miliardi.

I dipendenti pubblici, per i quali restano lo stop degli straordinari, il differimento del Tfr e il contributo di solidarietà, oltre tutto non più deducibile. E adesso anche le cooperative, per le quali si profila una drastica riduzione della fiscalità di vantaggio.

Un blocco sociale ed economico vasto, ma con un denominatore comune: non appartiene alla constituency elettorale del centrodestra. È stato "selezionato" per questo. E per questo merita lacrime e sangue.

Certo, da consumato spacciatore di merchandising politico, nella "sua" manovra Berlusconi ha voluto anche le bollicine. Il contributo di solidarietà solo per i parlamentari. La soppressione di tutte le province e il dimezzamento del numero dei parlamentari.

Misure che fanno un certo effetto mediatico e simbolico. Sono rigorosamente affidate a disegno di legge costituzionali (dunque non si faranno in questa legislatura, e quindi probabilmente non si faranno mai). Ma a sentirle annunciare, sembrano colpire al cuore la "casta" che il Cavaliere (pur facendone parte) finge di disprezzare.

Resta un problema, drammatico per il Paese, che misureremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni. La "manovra-champagne" la puoi far ingoiare a un po' di pubblico domestico, meno informato o male informato dai bollettini di Palazzo Grazioli.

Ma fuori dai confini della piccola Italia, purtroppo, è tutta un'altra storia. I finanzieri della business community, i tecnocrati della Bce e i partner dell'Unione Europea, sono la moderna "società degli apoti" di Prezzolini: loro non la bevono.



Montezemolo sull’asse Bologna-Cortina. La mappa dei poteri forti che lo appoggiano
di Emiliano Liuzzi - Il Fatto Quotidiano - 29 Agosto 2011

Dai parlamentari del Pdl in cerca di ricollocamento Mazzuca e Berselli, al re della sanità privata Sansavini e l'editore Andrea Riffeser: all'hotel Cristallo, nella capitale del Cadore, il presidente della Ferrari ha ricevuto la benedizione dei poteri forti. Purché resti a distanza dal Pd

Per un Montezemolo che ancora non ha deciso da che parte stare, c’è già chi ha deciso di stare dalla sua parte, soprattutto in quel grande ufficio di collocamento post-Berlusconi che è diventato il Pdl. Per le assunzioni prendere l’A27, uscire dopo Longarone e arrivare a Cortina d’Ampezzo.

È qui che ha trascorso le vacanze il fu cocco di Gianni Agnelli, tra passeggiate in bicicletta, feste private nelle ville di Rio Gere, e soprattutto sul palco di Cortina Incontra, sorta di Porta a Porta all’aperto, grande intuizione di Enrico Cisnetto, giornalista economico, già vicedirettore dell’Informazione e di Panorama, oggi editorialista, tra gli altri, di Messaggero, Foglio e del Gazzettino di Venezia.

Incontrare Montezemolo a Cortina non è stato difficile: se non Cisnetto o la passeggiata sul viale, è stata la festa l’altra sera dell’hotel Cristallo, 110 anni di attività interrotta da un lussuoso restyling. Qui c’erano tutti. Da Bologna, che sta a Cortina come Roma sta a Sabaudia, sono arrivati una lunga serie di aspiranti montezemoliani.

A guidare la lista un signore che fu nelle grazie di re Silvio, anche e soprattutto grazie all’amicizia comune con Bruno Vespa: si chiama Giancarlo Mazzuca, è giornalista, scrive sui giornali del gruppo Riffeser, è stato direttore del Resto del Carlino prima di diventare parlamentare del Pdl. Credenziali che non gli sono valse la candidatura a sindaco di Bologna.

Lo stesso Mazzuca non nasconde ancora oggi l’amarezza per la solenne bastonatura: sembrava il candidato ideale, si è visto sorpassare senza neanche accorgersene dal leghista Manes Bernardini. Oggi che il Pdl gli va stretto, Mazzuca si è buttato tra le braccia di Montezemolo.

E ha trascinato all’hotel Cristallo anche lo stato maggiore del gruppo di proprietà di Andrea Riffeser, un altro che in Emilia Romagna e in Toscana ha una grande fetta di potere e non è mai stato ostile nei confronti di Montezemolo.

Mazzuca non era il solo nella valle ampezzana. Con la sua Topolino nera, è arrivato da Bologna anche il coordinatore regionale Filippo Berselli. Senatore, già berlusconiano, anche lui in cerca di nuove esperienze di lavoro, Berselli non se la passa troppo bene dentro al Pdl. Avere un candidato della Lega nella sua Bologna imposto da Roma non gli è andato giù. Una candidato che poi ha riversato il peso della sconfitta su Berselli stesso.

A poco è servito bussare alla porta di Berlusconi: “Devo accontentare l’Umberto”, si è sentito rispondere Berselli. Che così si è goduto la sconfitta e oggi pensa all’ennesimo sbarco altrove (Berselli viene dal Movimento Sociale prima e da Alleanza Nazionale dopo) per tornare a riprendersi quel potere che con il tempo ha smarrito.

Grandi abbracci, sorrisi e sussurri. Così è scivolata via la serata. Alla quale ha fatto capolino Ettore Sansavini, un nome che in pochi conoscono, ma che è a capo del più grande gruppo sanitario privato, sede centrale a Cotignola, Ravenna, affari che spaziano in tutta Europa e nei Paesi emergenti. Una potenza economica e di potere, quella che ha costruito Sansavini, ragioniere nato a Lugo e capace di dialogare con tutti, dai comunisti ai ciellini.

La lista del potere si è chiusa con Diego Gianaroli membro del Cda della Sismer, società bolognese specializzata negli studi medici sulla riproduzione, Paolo Borgomanero,manager che si divide tra la casa di Bologna e quella di Miami, da sempre vicino a Montezemolo,

Giancarlo De Martis, ex presidente di Nomisma, Silvia Evangelisti, direttore di Arte Fiera, e infine l’ingegner Claudio Comani, ex membro del Cda di Atc e oggi indagato per corruzione nell’affare Civis (secondo l’accusa, avrebbe ricevuto 315mila euro da Piero Collina, presidente del Consorzio Cooperative Costruzioni).

Non dovessero bastare c’è il pianeta Fiat che, attraverso le parole scandite dall’amministratore delegato Sergio Marchionne, si è già espresso: lo appoggeremo senza se e senza ma.

Il dilemma di tutti non è se stare con Montezemolo, ma capire da che parte Montezemolo vorrà stare. Negli ultimi giorni il presidente della Ferrari continua a lanciarsi sfide con Pier Luigi Bersani, e questo a quelli che cercano un ricollocamento al centro e a destra, non può che far piacere.

Il segretario del Pd accusa Montezemolo di “farsi largo bombardando a destra e a sinistra” e dunque di non essere “utile al Paese”, tuonando contro il “terzismo” senza “spiegare da che parte sta”. E il presidente Ferrari che replica, piccato: “Tanti cittadini aspettano di sapere dove sta il Pd”.

Del resto, rincara Montezemolo, “molte voci si sono levate per migliorare in senso liberale la manovra, nel Pd tutto tace”. Parole mal accolte nel partito. Tanto che Dario Franceschini ha fatto ricorso a una sprezzante ironia: “Forse Montezemolo era distratto su qualche yacht”. E Bersani: “Sono i partiti con un padrone ad andare nel caos”.

Anche Piero Fassino, torinese e sindaco di Torino, che Montezemolo lo conosce da vicino almeno da trent’anni, la scorsa settimana al Meeting, quando un cronista gli ha chiesto cosa ne pensasse dell’ex presidente della Fiat in politica si è limitato a fare le spallucce.