mercoledì 30 settembre 2009

Afghanistan: la guerra di squadra

Lo si sapeva già da tempo, ma ieri il presidente USA Barack Obama al termine dell'incontro con il segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha voluto precisarlo ufficialmente "La guerra in Afghanistan non è una battaglia americana ma è una missione più vasta della Nato. E' e rimarrà un'impresa di squadra".
Con Rasmussen che ovviamente rassicurava Obama sul fatto che la NATO resterà nel Paese "fino a quando il lavoro non sarà finito".

Ma il "lavoro" si sta facendo sempre più duro per la "squadra"....anche oggi a Khost, nel sud ovest dell'Afghanistan, un'automobile imbottita di esplosivo è esplosa al passaggio di una pattuglia di soldati della NATO e si parla di diverse vittime fra i soldati.
Infatti secondo quanto raccontato dal capo della polizia del distretto di Khost, Wali Shah, uno dei "mezzi Nato sarebbe in fiamme" e nonostante "non ci siano informazioni precise" è certo che "ci siano vittime fra i soldati".

Per la NATO avere la meglio sui guerriglieri afghani sarà veramente un'impresa...


Money is the answer
da bamboccioni alla riscossa - 29 Settembre 2009

“Che cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?”. Se lo chiedeva - all’indomani dell’ultima strage di soldati italiani - anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro (che pure, quando stava al governo, aveva votato per continuare la “missione di pace”, senza fiatare).

Un interrogativo che in questi giorni, in queste settimane, si devono essere posto molti italiani. Anche perchè a otto anni dallo scoppio del conflitto - conflitto che per alcuni è guerra al terrorismo; per altri una pura e semplice invasione - i più manco si ricordano cosa ci siamo andati a fare a Kabul. Sempre che lo abbiano mai saputo.

Bene. Le risposte a questa benedetta domanda - “Che cosa ci facciamo ancora in Afghanistan?” - sono state tante. Politici, giornalisti e opinionisti di arte varia ci si sono dedicati per giorni tra prime pagine di giornali e prime serate tivù. Dicendo tutto e il contrario di tutto. Ma oggi Curzio Maltese - giornalista e firma di punta di “Repubblica” - è riuscito a dire qualcosa di più e di diverso.

Spiegando che... pace e democrazia e terrorismo c’entravano e c’entrano fino a un certo punto. E che molto, invece, c’entrano le armi. Armi che le aziende tricolori vendono copiosamente. Tanto ai nostri soldati. Quanto - e per quanto faccia male, è bene farlo sapere in giro - a ribelli, insorgenti o resistenti (comunque, insomma, li si voglia chiamare).

Maltese parte da un numero che pochi conoscono. E scrive:

Una settimana prima della strage di Kabul, lo studio ricerche del congresso Usa aveva stilato il rapporto annuale sul commercio d’armi, con una buona notizia per l’industria militare italiana, tornata la seconda esportatrice del mondo. Primi, naturalmente, gli Stati Uniti, con 37,8 miliardi di dollari; staccata l’Italia con 3,7 miliardi, ma pur sempre davanti alla Russia e al resto del mondo.

Ecco, allora, osserva il giornalista di “Repubblica” che:

Le missioni militari nel mondo spesso si rivelano un doppio affare. Aumentano le commesse militari nei Paesi occidentali, ma soprattutto fanno espandere la domanda nei Paesi mediorientali, africani e in genere del Terzo mondo, dove si dirige il settanta per cento del mercato.

Qualche esempio. Maltese ne cita due. Con tanto di nomi, o meglio è il caso di dire di cognomi. Primo:

Prendete il simbolo stesso dell’arma italiana, la pistola Beretta. In Iraq la usano tanto i soldati americani e italiani, quanto i terroristi di Al Qaeda. Quattro anni fa l’esercito americano ne trovò scatoloni interi in un arsenale di terroristi. (…) In teoria non si potrebbero vendere armi non solo ai terroristi, com’è ovvio, ma anche a molti Paesi belligeranti e non, sparsi per il mondo. Ma i sistemi per aggirare l’embargo sono moltissimi, noti eppure non controllati, come la vendita a pezzi da assemblare (…)

E secondo (esempio):

Le nostre mine antiuomo (…) sono state trovate in una ventina di nazioni. A cominciare dall’Afghanistan, la nazione più minata della Terra. I Talibani usano materiali di mine russe e italiane per comporre gli esplosivi degli attentati kamikaze.

Attentati come quello che ha ucciso i nostri soldati? Sì, esatto. Ma di tutto questo - all’indomani della strage di Kabul - quasi non si è parlato. E non lo si è fatto, secondo il giornalista di “Repubblica”, per una ragione molto semplice: “(…) quando si parla di ritiro delle truppe in Iraq e Afghanistan, si parla di perdite di miliardi di commesse militari per l’industria bellica.

Lo sa Berlusconi, amico personale di Guido Beretta. Lo sa Barack Obama, molto prudente sulla questione. Gli ultimi presidenti, candidati alla presidenza e primi ministri che hanno annunciato ritiri dal fronte e tagli alle spese militari, sono morti giovani“.

Tutto vero? Tutto faso? Difficile dire. Quel che è certo è che il “j’accuse” di Maltese è finito non in qualche angolino in fondo al giornale. Ma direttamente in uno spazio grosso come una cartolina dell’inserto di oggi (”il Venerdì” di Repubblica). E chissà: se fossero esiste - chessò - delle pagine locali distribuite solo su Marte, magari queste poche righe sulle ragioni di Guerra&Pagine sarebbero state confinate lì. In compenso - domenica scorsa - sempre Repubblica, ma in prima pagina, ospitava un fondo firmato dal suo fondatore, Eugenio Scalfari.

Titolo eloquente: “Come e perché restare a Kabul”. E giudizi tranchant sui politici italiani più propensi al ritiro: “Bossi vuole che i soldati italiani tornino a casa. Anche Di Pietro ha inalberato lo slogan del ritiro. L’anima populista dell’opposizione. Senza capire che questi slogan puramente velleitari non fanno che aumentare i rischi per i nostri militari: se la presenza italiana in Afghanistan diventasse incerta, gli assalti dei terroristi si concentrerebbero contro il nostro contingente per affrettarne la partenza”.

Forse: che parlare di ritiro è pericoloso, lo sanno bene anche a “Repubblica”.

P.S. L’articolo di Curzio Maltese - “Non esportiamo democrazia. Ma armi sì”, Venerdì di Repubblica, 25 settembre 2009 - non è ancora disponibile on line. Dovrebbe esserlo - come tutti gli articoli di “Repubblica” - a qualche giorno dalla pubblicazione. E allora, lo metteremo on line.


Strage. Massacro. Inferno. Reagire.

di Angelo Miotto - Peacereporter - 18 Settembre 2009

Quali sono le parole che vengono iniettate negli occhi della platea di lettori, del pubblico.

Strage. Massacro. Inferno. Reagire. Chi si ferma in edicola a comperare un quotidiano e scorre veloce i titoli a caratteri cubitali dei nostri quotidiani può provare a chiudere gli occhi: nel buio vedrà quelle parole ritornare.

Alla vigilia della manifestazione che non c'è più, domani, per la libertà di stampa spostata al 3 ottobre per i militari morti a Kabul, viene da riflettere su come vengono scelte le parole da chi la stampa la costruisce quotidianamente. Osservazioni critiche – ognuno sceglie di scrivere e pubblicare come meglio ritiene, ci mancherebbe – che però hanno a che vedere con quali sono le parole che vengono iniettate negli occhi della platea di lettori, del pubblico.

Scala mobile, metropolitana gialla di milano. Sono tutti in fila pazienti per arrivare alla banchina sotterranea. Hanno tutti in mano una free-press popolare. Il titolo: STRAGE INFINITA, tutto maiuscolo. La parola inferno torna, ha un immaginario perfetto per evocare lo scoppio, le fiamme, il dolore. Ma c'è qualche cosa che non funziona e non solo il giorno dopo l'attentato di Kabul.

Ricordo i funerali delle vittime di Nassirya, il vialone romano che portava alla basilica, tutto addobbato con bandierine italiane, la predica politica di Camillo Ruini, il vessilo italico stampato in fretta e furia per addobbare tutti i balconi che si affacciavano sul percorso. “Eroi”, la parola che tornava sempre più spesso e che torna ancora oggi.

Il comunicato del sindacato dei giornalisti che ha pompato per settimane una manifestazione e che si ritrae per cordoglio. Scelta discutibile, ma il testo del comunicato ha un valore in sé, per le parole scelte. “Con profondo rispetto verso i caduti, nell’espressione di un’autentica, permanente volontà di pace quale condizione indispensabile di una informazione libera e plurale capace di rappresentare degnamente i valori della convivenza civile, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana, ha deciso, di rinviare ad altra data la manifestazione per la libertà di stampa programmata a Roma per sabato prossimo. In un momento tragico come questo ci stringiamo attoniti accanto ai nostri morti in Afghanistan. Sono morti dell’Italia che paga oggi un pesante tributo nella frontiera della sicurezza internazionale e della lotta al terrorismo. Il nostro rispettoso pensiero va subito ai soldati caduti, alle loro famiglie,alle Forze Armate che, in un Paese martoriato, rappresentano la nostra comunità in ossequio a risoluzioni dell’Onu, in una complicata ricerca di una via di uscita dell’Afghanistan dal terrore verso la democrazia”.

C'è qualche cosa che non torna: ci sono due modi soli di scrivere un messaggio come questo. Quello in cui si dice: spostiamo per lutto. Punto e basta, retorico e d'occasione se si vuole. Oppure si devono calibrare le parole, perché in quel messaggio non c'è solo l'aspetto umano, ma ci si spinge sul fattore politico.

E allora non si capisce come razionalmente si possa mettere insieme una missione di “pace” con la permanente volontà di pace, non si capisce perché parlare della frontiera di sicurezza internazionale e della lotta al terrorismo, come avrebbe potuto ben scrivere il ghost writer dell'ex presidente Bush, più che un sindacato di categoria.

I giornali, i titoli, il cubitale che inevitabilmente oggi ritorna. Le parole, il significato delle parole, hanno solo due modi di impiego: quello rispettoso del pensiero che esprimono, come se fossero un ideogramma che si scolpisce nelle caselle che abbiamo imparato a decodificare fin dall'infanzia. Oppure la perdita di significato per cattivo utilizzo, per logoramento, per mistificazione, per sciattoneria, o per spettacolarismo. E, viste le immagini che hanno accompagnato la notizia dell'attentato con cadaveri, feriti, distruzione, non si capisce perché voler far volare l'iperbole letteraria.

C'è un altro motivo, cinico, che porta all'orgasmo di mezzi, parole, strutture verbali ed enfasi spinta. Il caso mediatico, già grave, molto grave, già doloroso per chi lo ha vissuto, già significativo anche a livello politico e sociale, diventa una leva che cerca di spingere l'emozione, lo stupore, la compassione.

La notizia si droga, è dopata e così regge e deve reggere almeno – oggi lo sappiamo- fino a lunedì e ai funerali di Stato. Certo, ci sono gli editoriali, le analisi e i commenti. Ma quelle parole tornano negli occhi: strage, massacro, inferno, reagire. Mentre scorrono sulla rete attentati, bombardamenti e morti di fame, che di caratteri cubitali non vedranno nemmeno l'ombra.


Spettacolarizzare l'innocenza

di Paolo Pergolizzi* - Peacereporter - 21 Settembre 2009

I media mettono i bambini in primo piano ai funerali dei parà uccisi

Figli che piangono sulle bare dei padri uccisi in combattimento, con il basco rosso da parà in testa mentre sussurrano, "papà è lì", di fronte al feretro che arriva all'aeroporto di Ciampino e, addirittura, che fanno il saluto militare alle esequie dei loro padri.

Assistiamo in questi giorni, in occasione del ritorno in patria delle salme e dei funerali di Stato per i soldati morti a Kabul, alla spettacolarizzazione del dolore dei bambini che sbarca, con un flusso ininterrotto di immagini, su televisioni, giornali e quotidiani on-line. Non so se è la prima volta che accade ma, a memoria, non ricordo un utilizzo così massiccio dei volti dell'infanzia, in occasioni istituzionali, per evocare il dramma della guerra e della perdita dei loro genitori.

La spettacolarizzazione del dolore dei bambini era avvenuta a Gaza, dove avevamo visto i corpi straziati e uccisi dei bimbi palestinesi e il loro terrore. Ma lì era un'altra cosa. I piccini, in quel caso, erano vittime. Qui sono testimoni di uno strazio e di una perdita, non so quanto consapevole alla loro età. Gli articoli toccanti e lacrimevoli si sprecano, nella descrizione di quanto siano teneri questi bambini che accarezzano il feretro del loro genitore o corrono sulla pista di Ciampino.

E' cronaca, d'accordo. Sono occasioni pubbliche, istituzionali, cerimonie di Stato. Tuttavia, un sospetto emerge. Non è che i mass media stanno spettacolarizzando il dolore di queste piccole creature? Quante copie fa vendere l'immagine del povero Simone, con i suoi occhioni verdi spalancati e stupefatti, con il basco amaranto del papà in testa? E' un'immagine contro o a favore della guerra che, di fatto, i nostri soldati stanno oramai combattendo in Afghanistan? Io non lo so. Ognuno utilizzerà quelle immagini a modo suo.

Tuttavia, anche se fosse solo cronaca, qualche problema, noi giornalisti, ce lo dovremmo porre. Se non altro per rispetto al codice deontologico e alla Carta di Treviso, sottoscritta dalla nostra categoria, quando dice che «la tutela della personalità del minore si estende anche a fatti che non siano specificamente reati in modo che sia tutelata la specificità del minore come persona in divenire, prevalendo su tutto il suo interesse ad un regolare processo di maturazione che potrebbe essere profondamente disturbato o deviato da spettacolarizzazioni del suo caso di vita. Particolare attenzione andrà posta per evitare possibili strumentalizzazioni da parte degli adulti portati a rappresentare e a far prevalere esclusivamente il proprio interesse».

E' giusto che questi piccini entrino a contatto con il mistero della morte e partecipino ai funerali dei loro padri. E' meno giusto, forse, che tutto questo venga spettacolarizzato dai mass media.

*Giornalista di 'Libertà' di Piacenza


Afghanistan: com’è e come ce lo racconta La Russa

di Giancarlo Chetoni - http://byebyeunclesam.files.wordpress.com - 25 Settembre 2009

L’Afghanistan ha un’estensione di 647.500 kmq, quasi due volte l’Italia, confina con Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Cina e Pakistan. La frontiera in comune solo con quest’ultimo Paese è di 2.640 km. Un’enormità.

Il Kosovo ha un’area di 10.887 km. Per la sua “stabilizzazione” in una condizione geopolitica – ormai pressoché definitiva – di narcostato dalla seconda metà del 1999, ottenuta con 78 giorni di bombardamenti aerei, segnata da residue tensioni etniche tra albanesi e serbi, USA-NATO-ONU-EULEX hanno impiegato sul terreno fino ad oggi un numero fluttuante di scarponi che non è mai sceso sotto i 12.000 e ha raggiunto un picco di 14.500.

L’Abruzzo occupa un’area di 10.794 km. Stiamo usando gli stessi riferimenti che il generale Fabio Mini adopera nelle sue conferenze in giro per l’Italia dopo essere stato tagliato fuori non solo da Rai e Mediaset ma anche da La Repubblica che in qualche rara occasione gli ha consentito nel corso del 2008 di farci capire come stavano le cose al Comando Operativo Interforze di Centocelle ed in Afghanistan.

Ecco cosa dice l’ex comandante KFOR-NATO messo brutalmente da parte dal Popolo della Libertà di Martino per aver voluto eseguire solo “ordini scritti” e pensionato dall’Ulivo di Parisi: “Non siamo mai riusciti a sigillare completamente i confini tra Albania e Kosovo, non vedo come possano riuscirci gli americani lungo i confini Af-Pak, specie nei 650 km delle zone tribali sotto la sovranità formale di Islamabad”.
Un confine poroso, porosissimo.

In territorio pakistano ex ufficiali e sottoufficiali dell’ISI addestrano, quale che sia il governo al potere nel loro Paese, almeno 3.500-4.000 pashtun all’anno, sufficienti a coprire le perdite in combattimento in Afghanistan attingendo reclute da un serbatoio potenzialmente stimato di 250.000 uomini delle regioni centrali autonome di età compresa tra i 16 ed i 45 anni.

I dati “geografici” citati fanno immediatamente capire perché il controllo militare dell’Afghanistan sarebbe un obbiettivo strategico totalmente fuori portata per la coalizione Enduring Freedom-ISAF anche in condizioni di una ritrovata normalizzazione del quadro politico-organizzativo-economico del Paese.

Per il generale Mini, la guerriglia mujaheddin ha messo in campo nel 2008 7.000-7.500 combattenti e stima che siano aumentati a 10.000 nel corso dei primi otto mesi del 2009.
Un dato che non convince, a naso, per difetto.

Per altro non esiste, ad oggi, a distanza di quasi otto anni dall’intervento USA in Aghanistan, un solo documento ufficiale del Pentagono che quantifichi una stima sia degli “insorti” pashtun che delle milizie mujaheddin né si conosce un solo articolo pubblicato sulla materia da giornali americani od europei.

Siamo riusciti a darci su questo clamoroso buco di informazione la seguente spiegazione: il sostegno a Paesi “amici” o l’aggressione mascherata da operazioni di polizia internazionale, di peacekeeping/enforcing – funzioni che spesso si sovrappongono – finanziate dalla cosiddetta Comunità Internazionale con la flagrante complicità delle Segreterie Generali dell’ONU nei punti caldi dell’Africa e dell’Asia, stanno logorando, come effetto non previsto, a livello economico, militare e politico USA ed Europa.

Forze numericamente esigue, profondamente motivate, radicate sul territorio, che si vettovagliano e combattono a costi estremamente contenuti costituiscono oggi un modello vincente sia sul campo che in quello dell’economia di guerra del XXI° secolo.

In Afghanistan uno scarpone “tricolore” assorbe – al netto dell’incremento di spesa di 52 milioni di euro all’anno per la gestione dei soli quattro Tornado IDS – risorse per 450 euro (530 dollari) al giorno e cresce con l’aumento numerico e qualitativo dei mezzi terrestri ed aerei adibiti a protezione, sorveglianza, contrasto ed attacco.

L’”insorto” afghano si nutre, si rifornisce di proiettili in calibro 7.62×33 per il suo vecchio AK47, di cariche di lancio RPG e combatte, e bene, con non più 4-5 dollari nell’arco delle 24 ore, anche se il generale Castellano ci racconta qualche barzelletta che verrebbe voglia di perdonargli per l’ingenuità con cui sciorina paghe per i “ribelli” di 300-600 dollari al mese e compensi di 1.500 dollari per chi si fa saltare in aria.

Aiuta il pashtun il diverso livello di civiltà che lo distingue dall’aggressore, la fede nel suo Dio, la frugalità, l’esperienza maturata in combattimento e l’orografia.
L’80 % dell’Afghanistan è montagna dai 700 ai 3.000 metri d’altitudine.
Nel Paese delle Montagne il rapporto di costi di guerra tra Oriente ed Occidente è di 1:100.

L’insostenibilità di un’occupazione di lungo periodo, al di là dei risultati che si potranno ottenere sul campo, di USA ed Europa non può non essere immediatamente percepibile.
Insomma, dopo una costosissima usura materiale e psicologica ed una colossale perdita di credibilità politica l’Occidente dovrà, volente o nolente, togliere le tende, rinunciare all’occupazione militare dell’ Afghanistan.

Per capovolgere a suo vantaggio il conflitto al militante afghano basterebbe disporre di qualche centinaio di Sam 18 (spalleggiabili) e di un migliaio di lanciatori Kornet E od equivalenti, cinesi, pakistani, iraniani, non ha importanza.

Basterebbe il contenuto di 10-12 contenitori da 40″ distribuiti a dorso di mulo per far correre a rotta di collo all’imbarco aereo od alla fuga in colonna ISAF ed Enduring Freedom, personale militare e civile di West RC e PRT 11. Ambasciatore Sequi in rappresentanza di Italia-UE compreso.
Tra i mujaheddin ci sono capacità d’uso, magari un po’ ingiallite, e mani che hanno già impugnato i Fim 92 Stinger per abbattere 300 velivoli ad ala fissa o rotante dell’Armata Rossa.

Se in Kosovo per mantenere “ordine e sicurezza” serve mantenere pronto al combattimento 1 militare/kmq, in Afghanistan – con la presenza di sette ceppi linguistici ed otto diverse etnie, un passato ed un presente segnato da sanguinosi episodi di guerra civile, pesanti scontri tribali, rivolte armate ed una statualità inesistente – va da sé che anche 500.000 militari USA-NATO sarebbero del tutto insufficienti a garantire la “pacificazione”.

Nonostante gli sforzi degli “istruttori” dell’Arma dei Carabinieri, in Italia ed in Afghanistan, il livello di preparazione tecnica e di disposizione al combattimento dell’elitè di esercito e polizia afghana a tutt’oggi rimane fortemente inadatto per affrontare la “guerriglia” in campo aperto.

Secondo la rivista Navires & Histoire n° 56, dall’1 ottobre 2001 al 6 luglio 2009 Enduring Freedom ha avuto 983 caduti (di cui 33 suicidi) e 8.831 tra amputati e feriti, ISAF-NATO rispettivamente 632 e 5.814. Nello stesso periodo di tempo, sono morti per cause dirette ed indirette causate dalla “missione di pace” 84.473 tra “civili”, “ribelli”, militari e militarizzati afghani.

Intanto Napolitano, il capo del Consiglio Supremo di Difesa, e La Russa, Ministro della Difesa della Repubblica delle Banane – in odor di combutta con Fini contro Berlusconi a quanto si sussurra – alleggeriscono di brutto il portafoglio degli italiani perbene recitando un mantra di manfrine.


Afghanistan, ''rischio fallimento''

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 22 settembre 2009

Lo afferma il comandante supremo delle truppe alleate nel paese, chiedendo più soldati

L'Occidente rischia di perdere la guerra in Afghanistan. A scriverlo, nel lungo rapporto indirizzato al Pentagono, è il generale statunitense Stanley McChrystal, comandante delle truppe alleate in Afghanistan.
Ecco alcuni interessanti estratti del testo, pubblicato ieri dal Washington Post.

Un anno per rovesciare le sorti del conflitto. La situazione in Afghanistan è seria; né il successo né il fallimento possono essere dati per scontati. Anche se grandi sforzi e sacrifici hanno prodotto dei progressi, molti indicatori suggeriscono che la situazione generale si sta deteriorando. Stiamo fronteggiano non solo una dura e crescente resistenza; c'è anche una crisi di fiducia tra gli afgani - sia verso il loro governo che verso la comunità internazionale - che mina la nostra credibilità e rafforza gli insorti. Se nei prossimi 12 mesi non riusciamo a prendere l'iniziativa e a fermare lo slancio degli insorti rischiamo di trovarci in una situazione per la quale non sarà più possibile sconfiggere l'insurrezione.

Finora Isaf e governo afgano hanno fallito. Concentrati nella protezione delle nostre stesse truppe, abbiamo operato in maniera tale da distanziarci dalla popolazione e con tattiche che causano vittime civili e inutili danni collaterali. Gli insorti non possono sconfiggerci militarmente; ma noi possiamo sconfiggere noi stessi. (...) La debolezza delle istituzioni statali, la malefatte, la corruzione e gli abusi di potere da parte delle autorità e gli errori della stessa Isaf hanno dato poche ragioni agli afgani per sostenere il loro governo. Questo, assieme alla mancanza di opportunità economiche ed educative, ha creato un terreno fertile per l'insurrezione. A peggiorare la situazione c'è la naturale avversione degli afgani agli interventi stranieri e la tradizionale indipendenza delle etnie afgane, in particolare dei Pashtun, dal governo centrale.

Concentrarsi sulla popolazione. Questo è un momento importante, decisivo di questa guerra. Gli afgani sono frustrati dopo otto anni senza prove dei progressi che erano stati loro anticipati. La pazienza sta per finire, sia in Afghanistan che nei nostri paesi. (...)Il nostro obiettivo deve diventare la popolazione afgana. Essa può essere una fonte di informazioni e un argine all'insurrezione, ma può anche fornire un tacito o concreto sostegno agli insorti. (...) Per sconfiggere l'insurrezione non basta sottrarle combattenti e comandanti: bisogna sottrarle il sostegno e il controllo della popolazione. Per farlo Isaf deve aiutare il governo afgano a guadagnarsi la fiducia della popolazione.

I talebani hanno un ampio vantaggio. Gli insorti combattono da anni una 'guerra silenziosa' per controllare la popolazione. Questo sforzo ha reso possibile l'instaurazione di 'governi ombra' in una significativa porzione del paese: nominano governatori ombra, amministrano la giustizia, raccolgono tasse e arruolano combattenti, dicendosi protettori della popolazione nei confronti del governo corrotto, delle forze straniere, della criminalità e dei potenti locali, e difensori dell'identità afgana e musulmana dalle minacce straniere. Insomma, gli insorti forniscono alla popolazione le principali funzioni di governo e anche una narrativa nazionale e religiosa.

Per vincere ci vogliono anche più truppe. La nostra campagna in Afghanistan è storicamente stata caratterizzata da una scarsità di risorse e così è ancora oggi. La missione Isaf ha bisogno di più risorse e più truppe, di un incremento delle capacità e dell'efficacia delle sue forze. Senza questo incremento si rischia una guerra più lunga, con maggiori perdite e, in ultimo, una critica perdita di sostegno politico. (...) Lo scopo della missione Isaf è sconfiggere l'insurrezione, far sì che essa non costituisca più una minaccia al governo afgano. Questo non arriverà né in tempi brevi né in maniera facile. E' realistico aspettarsi un aumento delle perdite tra gli afgani e la coalizione.


Una guerra rischiosa e costosa

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 17 Settembre 2009

La guerra in Afghanistan, quella iniziata il 7 ottobre 2001, ha provocato la morte di 21 soldati italiani, 1.400 soldati alleati, 6 mila soldati e poliziotti afgani, circa 25 mila guerriglieri talebani e quasi 11 mila civili afgani (di cui oltre 3 mila vittima degli attacchi talebani e almeno 7 mila uccisi dalle truppe alleate - più di 3 mila civili morirono nei soli bombardamenti aerei del 2001-2002). In totale, quindi, almeno 43 mila vite umane sono state stroncate in otto anni di guerra.

La spedizione militare in Afghanistan è costata finora ai contribuenti italiani oltre due miliardi e mezzo di euro. All'inizio la missione aveva un costo annuo medio di circa 300 milioni di euro, ma oggi - con il progressivo invio di più uomini e mezzi - supera ampiamente il mezzo miliardo (il che significa quasi un milione e mezzo di euro al giorno).
Per la tanto propagandata ricostruzione dell'Afghanistan, l'Italia ha speso finora circa 40 milioni di euro.

Distruggere o ricostruire? Queste cifre, che su scala maggiore sono le stesse per gli Stati Uniti e gli altri alleati, sono il frutto della strategia adottata dalla Nato in Afghanistan, soprattutto negli ultimi anni. Nel dicembre 2007 il capo del Pentagono, Robert Gates, dichiarò che in Afghanistan “la Nato deve spostare la sua attenzione dall’obiettivo primario della ricostruzione a quello di condurre una classica controinsurrezione”.

E così è stato. Si è deciso che prima bisognava vincere la guerra e sconfiggere i talebani, e solo poi ricostruire il paese. “Come nella seconda guerra mondiale – spiegava recentemente nel dibattito di Firenze l’analista militare Gianandrea Gaiani – prima si sconfissero i nazisti, poi si ricostruì l’Europa con il piano Marshall”.

“Io non condivido questa sequenza, prima la sicurezza e poi ricostruzione”, gli aveva ribattuto il generale Fabio Mini, ex comandante delle truppe Nato in Kosovo. “Oggi la sicurezza in Afghanistan non è assicurata da nessuno, tanto meno dalle forze militari straniere. Controllare il territorio significa avere il consenso della gente. Noi non potremo mai avere sicurezza fino a quando non sarà garantita la sopravvivenza agli afgani. C’è bisogno di ricostruire l’Afghanistan, anzi, di lasciarlo costruire a chi ha le forze: ai civili. Lasciamo perdere i militari”.

I rischi per i soldati. Fino a tre anni fa le truppe italiane schierate in Afghanistan erano concentrate a Kabul, dove la situazione era ancora molto tranquilla, e non svolgevano azioni di combattimento - se si escludono le forze speciali della Task Force 45 impegnate nell'operazione segreta ‘Sarissa'.

Dall'estate del 2006, con spostamento del contingente stato nelle regioni più ‘calde' dell'ovest, sono iniziati i primi scontri con i guerriglieri talebani, ufficialmente solo ‘difensivi'. Dal gennaio 2009 le truppe italiane, mutate nella loro composizione (non più alpini e bersaglieri ma solo parà della Folgore), cresciute di numero (quasi 3 mila) e dotate di mezzi più aggressivi (carri armati ed elicotteri da combattimenti), hanno ufficialmente iniziato le azioni ‘offensive' penetrando in zone controllate dai talebani (Farah e Badghis).

Da allora i soldati italiani sono quotidianamente impegnati in azioni di combattimento e in vere e proprie battaglie nelle quali hanno ucciso centinaia di guerriglieri.
Anche le truppe rimaste a presidiare Kabul, ormai accerchiata e infiltrata dai talebani, si sono trovate esposte a imboscate e attacchi, sia fuori che dentro la capitale.


Per cosa sono morti?

di Enrico Piovesana - Peacereporter - 17 Settembre 2009

Era partito per fare la guerra, per dare il suo aiuto alla sua terra. Gli avevano dato le mostrine e le stelle e il consiglio di vender cara la pelle. (...) Ora che è morto la patria si gloria d'un altro eroe alla memoria. Ma lei che lo amava, aspettava il ritorno d'un soldato vivo. D'un eroe morto che ne farà se accanto, nel letto, le è rimasta la gloria d'una medaglia alla memoria.
(Fabrizio De André, La ballata dell'eroe)

L'Italia piange i suoi soldati morti a Kabul in un attentato della guerriglia talebana.
Peacereporter dedica loro, e alle loro famiglie, questi versi di Fabrizio De Andrè.

Per cosa sono morti?
Per difendere la pace, la libertà, la democrazia in Afghanistan e la sicurezza internazionale come dicono i nostri politici? No.

Non per la pace, perché i nostri soldati in Afghanistan stanno facendo la guerra.
Non per la libertà, perché i nostri soldati stanno occupando quel paese.
Non per la democrazia, perché i nostri soldati proteggono un governo-fantoccio che non ha nulla di democratico.

Non per la sicurezza internazionale, perché i nostri soldati stanno combattendo contro gli afgani, non contro il terrorismo islamico internazionale: a questo, semmai, stanno fornendo un pretesto per odiare e attaccare l'Occidente e anche il nostro paese.
E allora per cosa sono morti?

La risposta l'ha data il generale Fabio Mini, ex comandante del contingente Nato in Kosovo, intervenendo la scorsa settimana a un dibattito sull'Afghanistan tenutosi a Firenze e organizzato da Peacereporter:
"Ufficialmente lo scopo fondamentale, il center of gravity, della missione non è la ricostruzione, o la pacificazione né la democrazia: è la salvaguardia della coesione della Nato in un momento di crisi della stessa. Questo è lo scopo dichiarato, scritto nei documenti ufficiali della missione Isaf.

La Nato è in Afghanistan esclusivamente per dimostrare che è coesa: lo scopo è essere insieme. Ecco perché gli Stati Uniti chiedono soldati in più: ma pensate davvero che manchino loro le forze per far da soli? Credete davvero che i nostri soldati o i lituani siano importanti? No!

L'importante è che nessuno si sottragga a un impegno Nato. Ecco perché vengono chiesti continuamente uomini agli alleati".
"Agli infami, vigliacchi aggressori che hanno colpito ancora nella maniera più subdola diciamo con convinzione che non ci fermeremo", avverte il ministro della Difesa, Ignazio La Russa.

E' stravagante definire ‘vigliacchi' uomini che sacrificano la propria vita per uccidere il nemico. Forse questo giudizio andrebbe riservato ai piloti alleati che da mille piedi di altitudine sganciano bombe che fanno strage di talebani e civili, sapendo di non poter essere né visti né colpiti.

Anche chiamare ‘aggressori' i guerriglieri talebani che colpiscono le truppe d'occupazione Nato è curioso. Siamo noi che abbiamo aggredito loro invadendo il loro Paese.
"Non ci fermeremo", conclude La Russa in tono bellicoso. Altri soldati italiani dovranno quindi sacrificare le loro vite e stroncare quelle di altri afgani, combattenti e non.

Da maggio, per la cronaca, le truppe italiane hanno "neutralizzato" almeno cinquecento "nemici" nelle battaglie combattute nell'ovest dell'Afghanistan con il massiccio impiego di carri cingolati ed elicotteri da combattimento. E presto, come annunciato, anche con le bombe sganciate dai nostri Tornado.

Secondo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, bisogna "conquistare il cuore degli afgani per fare terra bruciata di ogni complicità e omertà verso i terroristi".

Ma finché l'occupazione e la guerra continueranno, con le stragi di civili, i rastrellamenti, la distruzione dei villaggi, la terra bruciata si allargherà attorno ai nostri soldati e la guerriglia afgana diventerà sempre più popolare.

La rabbia e il dolore di chi, a causa delle truppe occidentali, perde un familiare, la casa, una parte del corpo o semplicemente la libertà e la dignità, non fanno che portare acqua al mulino del "nemico". Un nemico che, infatti, più la guerra va avanti, più si rafforza e guadagna consensi.


Vittime da curare o da interrogare?

di Massimo Garatti - Peacereporter - 17 Settembre 2009

Mentre si piangono i morti italiani, un chirurgo di Emergency a Kabul racconta che fine fanno i feriti afgani

Non si capisce il perché. O forse il perché è ben chiaro, ma è troppo ripugnante per crederci.

In una città come Kabul, di quattro milioni e passa di abitanti, durante eventi violenti come quello di oggi non esiste la minima possibilità di coordinare le risorse di chi fa attività sanitaria e si occupa di feriti civili, perché buona parte dei pazienti viene trasferita con mezzi militari nell'unico ospedale militare della città: le zone colpite vengono infatti cordonate da militari afgani e di ISAF e alle ambulanze civili non è nemmeno permesso entrare.

Ai rappresentanti dello stesso Ministero della Sanità afgano è stato impedito oggi di entrare nell'Ospedale militare di Kabul e, quindi, solo il ministero della Difesa ha potuto render conto del numero delle vittime civili

Dopo il tragico attentato di oggi, oltre a piangere la morte di alcuni ragazzi italiani, dovremmo piangere la morte e il pessimo trattamento ricevuto da alcune decine di pazienti afgani che sono stati forzatamente trasferiti ed ammassati nella struttura sanitaria dell'esercito, che solo in occasioni come questa si ricorda che può trattare anche civili.

Se la motivazione fosse la possibilità di garantire un trattamento migliore, lo si potrebbe comprendere: purtroppo la motivazione vera e non troppo nascosta è che così i pazienti possono essere "interrogati meglio". Nell'Afghanistan democratico, non è tanto importante quanto sei ferito ma quanto sei utile alle indagini.

Il Centro chirurgico di Emergency a Kabul riceve quotidianamente decine di feriti che vengono da tutte le province vicine, ma quando una bomba esplode a 500 metri dall'ospedale, ai pazienti viene reso impossibile esercitare il proprio diritto ad essere curati: per motivi che chi fa attività sanitaria, come me, trova difficile comprendere.


I caduti in Afghanistan e il cuoco di Giulio Cesare
di Franco Cardini - www.francocardini.net - 24 Settembre 2009

a chiunque abbia tempo e voglia di combattere per un’altra causa persa.

Cari Amici,

se lo domandava molto tempo fa il vecchio Bertolt Brecht: Giulio Cesare ha conquistato tutta la Gallia: ma non aveva nemmeno un cuoco? Gli fece eco, anni piu radi, il nostro Lucio Dalla in Itaca: “Capitano, che hai negli occhi – il tuo splendido destino – pensi mai al marinaio – a cui mancan pane e vino? – Capitano, che hai trovato – principesse in ogni porto, - pensi mai al rematore – che sua moglie crede morte?”.

E’ una bella canzone, questa di Dalla: un po’ vecchia ormai, ma adatta a chi corre l’avventura in paesi lontani. Chissà se la conoscono, i nostri parà in Afghanistan. Fra l’altro, farebbe molto al caso loro: e al nostro.

Lo dico perché anch’io ho seguito, il 20 aprile, il rientro dei nostri ragazzi caduti. Sono un vecchio ex ufficiale d’aeronautica, i parà li conosco e li amo. Quelli, poi, avrebbero potuto per età essere miei figli. E avrei potuto essere nonno di Simone Valente, il bambino di due anni figlio del sergente maggiore Roberto: uno dei cinque tornati a casa forse proprio secondo la descrizione di un altro nostro poeta e musicista, Fabrizio de André, le salme avvolte nelle bandiere “legate strette perché sembrassero intere”.

I politici e i loro gregari gestori dei mass media, che – ne siano consapevoli o no – ce li hanno sulla coscienza, si sono sgolati chiamandoli “vittime”, “eroi”, “martiri”. No: niente di tutto ciò. Un soldato che cade durante un combattimento o un incidente di guerra è, appunto, un caduto: non è una “vittima”, perché tale appellativo spetta agli inermi, agli indifesi che avrebbero dovuto restare estranei ai fatti d’arme, laddove i soldati stanno in uniforme e in armi perché di tali fatti sono coprotagonisti.

Non è né un “martire”, né un “eroe” perché, al di là della retorica facile perché gratuita, tali termini spettano a chi in qualche modo ha compiuto qualcosa di straordinario e di esemplare. E i cinque parà, strettamente parlando, non sono caduti nemmeno nell’adempimento del loro dovere, in quanto erano in Afghanistan per una loro libera volontaria scelta.

Essi sono caduti nell’esercizio delle loro funzioni, facendo il loro lavoro: in una circostanza tragica, ma che faceva parte purtroppo della loro condizione professionale. E che ne facesse parte ciascuno di loro lo sapeva benissimo. Poiché il loro lavoro aveva ed ha una valenza pubblica, onoriamoli. Ma non infanghiamone la memoria contaminandola con la retorica. Per un soldato, la morte – lo diceva benissimo José Antonio Primo de Rivera, che lo provò con i fatti – “è un atto di servizio”.

Ecco perché è grottesco che il ministro La Russa dichiari che quei parà sono morti “per la Patria”. In Italia, se si vuol restare fedeli alla costituzione le armi s’imbracciano soltanto per difendersi; e il teorema della “difesa preventiva”, secondo il quale l’occupazione dell’Afghanistan servirebbe a tutelare le nostre città e le nostre case dalla possibilità di attacchi terroristici, prima di essere infame e ridicolo.

La guerra al terrorismo si fa con l’intelligence, con l’infiltrazione e soprattutto con l’eliminazione delle ragioni sociali e politiche suscettibili di far guadagnare simpatie ai terroristi: non con i bombardamenti aerei e con i carri armati.

L’occupazione dell’Afghanistan ha avuto tra le sue conseguenze quella di diffondere a macchia d’olio il terrorismo e la simpatia per esso. Lorsignori hanno mandato i nostri soldati a morire per far piacere alla superpotenza statunitense e nel nome di un demenziale teorema geopolitico; ed essi hanno accettato il rischio, al di là delle varianti personali, perche cio faceva parte della loro condizione professionale.

Il che non vuol affatto dire che i nostri ragazzi siano morti invano: al contrario. Quando a troppi italiani sarà caduto dagli occhi il malefico velo della propaganda che ora intralcia loro la vista, apparirà chiaro che quelle vite sacrificate sono state altrettanti passi sulla via della pace e della giustizia: la quale passa per forza attraverso il riconoscimento che l’avventura in Afghanistan e stata tanto infame quanto assurda.

E non è meno grottesco Umberto Bossi, quando ammettendo di aver votato per mandare in Afghanistan i nostri soldati, precisa che non aveva alcuna intenzione di “mandarli a morire”. Non so se Ella abbia fatto il soldato e ignoro quanto Ella sappia di storia, Signor Ministro: ma lasci che Le confidi in un orecchio un piccolo segreto. In guerra ci si muore.

D’altronde, la gaffe di Bossi è comprensibile. Ma proprio questo la rende più repellente. Le guerre in Iraq e in Afghanistan, come troppi conflitti che oggi insanguinano il mondo dalla Palestina all’Africa, vedono confrontarsi forze armate “regolari” e superarmate contro avversari in condizione militarmente inferiore, a parte le vittime civili e i caduti sotto “fuoco amico” e a causa di “danni collaterali”, che in genere si degnano appena di una distratta menzione.

E’ sottinteso che molti pensano che, in una guerra del genere, i “nostri” data la loro superiorita militare siano invulnerabili e che il morire tocchi solo agli altri. Così come nessuno storico si è mai piegato sui problemi e magari i dolori del cuoco di Cesare, che pure era in fondo un uomo come lui e come noi, assistiamo oggi a una terribile ingiustizia, che aggiunge all’orrore del sangue versato l’offesa del disprezzo e della noncuranza.

Dei nostri cinque parà, anche se a pochi giorni dal loro sacrificio essi stanno gia purtroppo entrando nell’oblio (sono queste le regole della societa-spettacolo), finché facevano notizia ci hanno detto tutto: ne abbiamo visti i volti, ne abbiamo letti i profili biografici, ne conosciamo i nomi e quelli delle loro mogli, delle loro fidanzate, dei loro figli. Qualcuno di loro avrebbe forse preferito un po’ piu di riserbo, di silenzio: di pudicizia. Ma in fondo è forse giusto che sia stato così: erano soldati del nostro esercito, gente nostra. I prossimi, gli affini, i familiari ci sono ovviamente e naturalmente sempre piu cari di chi ci sta piu lontano.

Ma non sarebbe né umano, né cristiano continuar a ignorare le vittime degli “altri”, a tenere nell’ombra e nel silenzio quelli “dell’altra parte” (se è un’altra parte: e non lo e, perche con loro non siamo in guerra, e comunque perche condividiamo con loro la condizione umana, la vera patria comune): come le decine di poveri afghani, fra cui donne vecchi e bambini, trucidati non troppi giorni fa da un barbaro disumano e inutile attacco aereo mentre cercavano di alleviar la loro miseria drenando un po’ di benzina da un camion sventrato. Era “complicita col terrorismo”, quel povero gesto?

Era un “atto di guerra”, d’una guerra non dichiarata, quella strage barbarica, che teneva dietro a un numero ormai spaventosamente alto di analoghe stragi tutte impunite?

Ed è umano, è degno della “nostra civiltà occidentale”, continuar a trattare come dei semplici numeri tutti i poveri morti che giornalmente affollano le cronache distratte di quelle guerre lontane – in Afghanistan come in Iraq, come in Palestina, come in Africa, come nel sud-est asiatico, come nell’America latina, anzi che sovente vengono taciuti del tutto perche “non fanno notizia”?

Ecco: umanità e giustizia vogliono che anch’essi facciano al contrario notizia; che cessino di essere aridi e anonimi numeri su un bollettino o su una statistica. Perche pesano sulla nostra coscienza. E sono un peso intollerabile soprattutto per noi che all’insensata e infame avventura afghana siamo sempre stati contrari, e nondimeno non siamo riusciti a fermarla.

Mi chiedo: esiste chi possa raccogliere queste righe e farle proprie? Ed esiste in Italia un giornale che abbia il coraggio di dedicar alle vittime afgane innocenti ogni giorno cinque brevi necrologie, tante quanti erano i nostri parà caduti?

Sarebbe necessario e doveroso specchiarsi in quei volti, imparar a fare i conti con chi è morto anche per colpa del nostro silenzio e della nostra acquiescenza; con quelli della cui uccisione siamo stati complici, e lo abbiamo fatto a cuor leggero perché erano “lontani”, perche erano “diversi”, perche non hanno nessuno che li difenda e ne rivendichi la memoria e il rispetto.

Dovremmo meditare sulle loro sembianze e sulla loro vite spezzate, noialtri che non riusciamo a opporci abbastanza efficacemente alle canaglie nostrane, ai mascalzoni che con arroganza ci vanno ripetendo che invadere un paese altrui e bombardare degli inermi da duemila metri è un normalissimo – e perfino “eroico” - atto di guerra per quanto la guerra non sia dichiarata, mentre difendere la propria terra con le armi di cui dispone un popolo che non ha né aerei, né elicotteri, né missili aria terra, né mezzi corazzati, è un atto “infame” e “vile”.

Il vostro sarebbe disposto a questo tipo di testimonianza?

Saluti.


Io, aspirante apolide, non ho sulla coscienza la morte di quei soldati
di Massimo Fini - www.massimofini.it - 27 Settembre 2009

Egregio dottor Fini, lei è sempre stato filotalebano e quindi sarà contento del ‘colpaccio ’ messo a segno contro i nostri soldati. Lei non è degno di essere italiano.
Giorgio Gaggini, Firenze


La accontenterei subito se ci fosse la possibilità, come in epoche più libere, di dismettere la nazionalità. Mi farei apolide formalmente, quale di fatto sono stato in questo Paese che non mi ha dato niente, non mi ha riconosciuto niente e dove ho subito ogni sorta di soprusi.

Del resto sono a metà russo e se dovessi proprio scegliere preferirei essere mezzo russo piuttosto che mezzo italiano. Non mi pare che, dall’Unità in poi ci sia troppo di che essere orgogliosi. Siamo stati i primi e gli unici europei a usare le armi chimiche contro una popolazione di poveracci. In due guerre mondiali abbiamo cambiato due volte alleanze.

Nella seconda non dovevamo allearci con chi ci siamo alleati ma non dovevamo nemmeno, al momento del dunque, in una lotta per la vita e per la morte, pugnalare l’alleato alla schiena e, per sopramercato, celebrare l’8 settembre, la giornata della vergogna, del ‘tutti a casa’, come una sorta di festa nazionale. Italiano sarà lei.

Io non difendo i Talebani in quanto tali, in loro difendo il diritto elementare di un popolo, o di parte di esso, a resistere all’occupazione dello straniero e il pricipio, sottoscritto solennemente a Helsinki nel 1955 da quasi tutti i Paesi del mondo, all’autodeterminazione dei popoli.

Dei nostri soldati morti non io, che contro quelle guerra mi sono sempre battuto, ma altri, quelli che vediamo ogni giorno in Tv propalare menzogne, dovrebbero sentire un peso sulla coscienza.

martedì 29 settembre 2009

Il mestiere delle banche

Le banche, si sa, sono al centro dei pensieri di molti cittadini del globo. Soprattutto da un anno a questa parte.

E ieri si è avuta un'altra conferma di quanto le banche saranno sempre più al centro dei nostri pensieri, con il commovente messaggio lanciato dal governatore della Banca Centrale Europea (BCE), Jean-Claude Trichet, alle banche europee.

Trichet ha iniziato disquisendo sull'uscita dalla crisi dell'intera economia europea, specificando comunque che non è ancora arrivato il momento ma che "a un certo punto le exit strategy dovranno essere implementate. La Bce ha una exit strategy, che sarà messa in campo al momento opportuno".
Bravo Trichet, ma di che si tratta?

E qui entra nello specifico "Nel caso della Bce l'uscita si riferisce in particolare al ritiro delle misure eccezionali messe in campo per contenere le minacce alla stabilità del sistema finanziario della zona euro e per sostenere il flusso di credito alle imprese e alle famiglie, oltre e al di sopra di quello che si sarebbe potuto ottenere solo attraverso una politica di riduzione dei tassi di interesse".
Certamente...

Peccato che poi lo stesso Trichet riconosca che "L'espansione monetaria e del credito continua a decelerare. La ripresa nei prestiti alle imprese è in ritardo e penso che resterà debole nelle prossime settimane. È per contrastare questo scenario che il consiglio dei Governatori considera appropriato l'attuale livello dei tassi".
E quindi? Dove vuole andare a parare?

Ma ecco la perla da lacrime agli occhi "Noi continuiamo a ripetere alle banche che quello che stiamo facendo non lo facciamo per i loro begli occhi, ma perchè loro riescono a svolgere il proprio mestiere. Fate il vostro lavoro per finanziare l'economia reale e soprattutto le piccole e medie imprese".
Sì sì, certo...

Finalmente Trichet chiosa e svela dove vuole arrivare veramente "Dunque diciamo alle banche che se hanno bisogno di più capitali devono utilizzare quanto accantonato dai vari governi per questo fine. Finora solo il 55% del capitale accantonato per le ricapitalizzazioni è stato utilizzato, ma il 45% no. Appare chiaro che attualmente la ragione principale delle persistenti difficoltà nel settore del credito è legata al fatto che la crescita dell'economia è diminuita moltissimo e dunque la domanda è molto meno dinamica rispetto al passato. Comunque il 77% della domanda di credito nell'ultimo periodo ha avuto esito positivo da parte delle banche, mentre solo nel 12% dei casi la risposta è stata no. Questo vuol dire che l'erogazione del credito tutto sommato funziona".

Quindi ricapitolando: prima Trichet afferma che "La ripresa nei prestiti alle imprese è in ritardo e penso che resterà debole nelle prossime settimane", poi finge di lamentarsi esortando le banche a fare il proprio lavoro di erogatrici del credito e infine però si smaschera affermando che "l'erogazione del credito tutto sommato funziona" ma che comunque il tempo stringe, l'exit strategy sta per arrivare e quindi le banche si devono sbrigare a utilizzare il 45% restante del capitale accantonato dai vari governi europei.

E per farne cosa poi? Ma per ricapitalizzare ulteriormente, non certo per erogare credito alle piccole e medie imprese.
Perchè questo è il vero "mestiere delle banche" che intendono Trichet e affini.


FT: dai risparmiatori fiducia in picchiata nelle banche
da www.valori.it - 28 Settembre 2009

La fiducia dei risparmiatori nelle banche vacilla sempre di più. E non è ormai inusuale vedere molte persone preferire agli istituti di credito gli investimenti immobiliari o le società finanziarie indipendenti. A riferirlo è un sondaggio pubblicato dal Financial Times, che ha fotografato le condizioni attuali del rapporto tra cittadini e banche, fatto di grande incertezza.


A dispetto della crisi finanziaria, molte persone negli Stati Uniti, in Francia, Germania, Italia e Spagna non hanno modificato le proprie scelte di investimento, né il livello di rischi assunti negli ultimi due anni. Ma la maggior parte di loro ha sottolineato di fare affidamento solo sul proprio “intuito” nelle decisioni riguardanti i risparmi. Ai partecipanti al sondaggio è stato chiesto anche, al contrario, quali siano gli istituti nei quali ripongano meno fiducia, e la risposta è stata netta: le banche e gli adviser delle società immobiliari.


Il quotidiano sottolinea anche come sia ai minimi storici la credibilità dei governi, soprattutto per quanto riguarda la loro capacità di garantire protezione agli investitori. Per quanto riguarda le scelte di questi ultimi, la maggior parte degli intervistati in Italia e Francia ha dichiarato di preferire il mercato immobiliare, mentre i classici conti correnti sono la prima scelta in Germania, Gran Bretagna e Spagna. Negli Usa, invece, l’opinione è divisa tra gli stessi conti correnti e le partecipazioni azionarie.


Inoltre, mentre la maggior parte dei risparmiatori europei non ha modificato i propri orientamenti dopo la crisi, tre americani su dieci, il 25% dei francesi e dei tedeschi, e un quinto degli italiani e degli inglesi ha spiegato di preferire attività finanziarie meno rischiose rispetto al passato.


La maggior parte degli intervistati del Regno Unito, metà dei francesi e una quota importante di italiani, spagnoli, tedeschi e americani mantiene comunque gran parte dei propri risparmi nelle banche o nelle società immobiliari.



GB, Darling annuncia la fine dei “bonus automatici” nelle banche
da www.valori.it - 28 Settembre 2009

Il Cancelliere allo Scacchiere inglese, Alistair Darling, ha lanciato un nuovo attacco ai bonus delle principali banche britanniche. A queste ultime è stato imputato infatti un comportamento fatto di «avidità e spregiudicatezza». Darling incontrerà a breve i dirigenti dei quattro più grandi istituti di credito del Regno Unito, ai quali chiederà un cambiamento immediato nelle politiche di remunerazione dei manager. A riferirlo è il suo stesso ufficio.


«Voglio rassicurare il Paese e avvertire le banche che non potranno più tornare al business as usual», spiegherà oggi Darling alla conferenza annuale del Partito laburista inglese, secondo le indiscrezioni sul suo discorso riportate questa mattina dall’agenzia Bloomberg. «Introdurremo una legislazione apposita - proseguono gli stralci dell’intervento - che segnerà definitivamente la fine della cultura della spregiudicatezza, e imporrà punti di riferimento di breve termine sui pagamenti. Significherà la fine dei “bonus automatici”».


Il primo ministro Gordon Brown appoggia il Cancelliere nella sua offensiva, convinto che una mossa d’impatto contro la pratica dei premi facili nelle banche possa avere un importante impatto elettorale. Nel prossimo giugno, infatti, il Labour dovrà confrontarsi con i conservatori inglesi, che appaiono in vantaggio, con il governo attuale alle prese con la peggiore crisi dai tempi del dopoguerra.



Credit Suisse, possibili bonus da 1,2 miliardi di euro in primavera
da www.valori.it - 24 Settembre 2009

Circa trecento banchieri e dirigenti di Credit Suisse sono in attesa di ricevere bonus in azioni pari alla cifra stratosferica di 1,9 miliardi di franchi svizzeri (1,2 miliardi di euro). I pagamenti fanno parte di un piano di incentivi istituito quasi cinque anni fa, quando l’istituto di credito faticava a trattenere alcuni manager nel proprio organigramma.


Ai dipendenti che saranno premiati verrà riconosciuta una cifra che sarà compresa tra un quinto e la metà dello stipendio percepito nel corso del 2005, sulla base di un programma che, a suo tempo, fu criticato dagli stessi manager della banca. Non si trattava di una perplessità etica, tuttavia, bensì di un malumore derivante dalla lunghezza del piano, e quindi dal vedersi costretti a non poter lasciare liberamente Credit Suisse.


I premi saranno attribuiti alla fine di marzo del 2010, e secondo una stima del Financial Times, potrebbero arrivare ad essere pari a 6,36 milioni di franchi svizzeri (4,2 milioni di euro) per ciascun dirigente. La cifra, tuttavia, potrà variare in funzione della quotazione del titolo in Borsa: la stima del quotidiano è basata infatti sull’attuale prezzo di mercato, pari a 57,6 franchi ad azione. Va detto, infatti, che qualora il titolo dovesse crollare sotto quota 30 franchi, i dirigenti non riceverebbero alcun bonus.



Crisi: negli Usa hanno salvato solamente le grandi banche
di Filippo Ghira - www.rinascita.info - 26 Settembre 2009

In questo momento si deve tenere conto che le condizioni della finanza internazionale sono peggiori di quelle all’inizio della crisi. Questo perché ha vinto anzi ha stravinto, in Europa come negli Usa, il principio “certe banche sono troppo grandi per fallire”.

A giudizio dell’economista Marco Vitale, intervenuto al convegno sulla crisi finanziaria promosso dalla Fondazione Courmayeur e dal Centro Nazionale Prevenzione e Difesa Sociale, questo è stato l’effetto più significativo di una crisi scatenata dalle speculazione di banche che alla fine si sono viste premiate con sovvenzioni pubbliche.

Così oggi si assiste al fatto incredibile di una razionalizzazione del mercato nella quale le grandi banche, ridotte di numero anche in seguito a fusioni, sono per questo diventate più grandi e più potenti e, quel che è peggio, si trovano ad essere pure protette dalla possibile concorrenza.

Con tanti saluti al Libero Mercato e alla concorrenza, sta emergendo un oligopolio di colossi finanziari che sono sopravvissuti alla crisi. Un fatto emblematico è il fallimento negli Stati Uniti di tante piccole banche travolte dalla recessione seppure prive di colpe nella speculazione che nel 2008 aveva affossato i mercati.

A giudizio di Vitale, il marcio sta nel manico ossia nel fatto che non si vuole e non si può intervenire a rimuovere le vere cause della crisi finanziaria. In altre parole non c’è nessun governo o nessuna autorità di controllo che voglia intervenire per impedire alle banche di speculare o più semplicemmente di investire senza disporre delle risorse necessarie ma ricorrendo ad un indebitamento a volte mostruoso.

Oltretutto si sta compiendo un nuovo grande errore. Quello di credere che la soluzione si trovi nel rimettere mano agli organi regolatori e dando loro più potere, senza però voler affrontare i problemi di fondo. Nello specifico negli Stati Uniti, l’azione degli organi regolatori “è stata così miserabile perché tale doveva essere”.

Le sue carenze infatti “erano funzionali ad una concezione economica e ad una precisa politica che è sottostante agli interessi che dominano la vita politica americana”. La vecchia tesi marxiana, perfettamente condivisibile, per la quale le isituzioni politiche altro non sono che una sovrastruttura dei rapporti di potere economici di una società e che esse non possono minimamente pensare di metterne in discussione i presupposti.

Barack Obama, portato alla Casa Bianca dai voti del ceto medio Usa inferocito con le banche che avevano messo per strada centinaia di migliaia di cittadini non più in grado di pagare le rate del mutuo, con le stesse banche considerate troppo vicine ai repubblicani, ha fatto le stesse cose che aveva fatto George Bush.

Lasciata fallire la Lehman Brothers, che era indifendibile, ha però salvato banche come la Goldman Sachs, Morgan Stanley ed American Express, dimostrando così che cambierà pure il presidente ma non cambia la sudditanza della politica nei riguardi delle banche. Con la beffa che, nonostante gli impegni presi in tal senso, una banca come la Goldman Sachs, nel cuore di Romano Prodi e di Mario Draghi, una volta rimessasi in sesto, grazie agli aiuti pubblici, ha ripreso a versare ai propri manager dei premi (o bonus) miliardari, permettendosi pure di replicare a muso duro allo stesso Obama che aveva espresso tutte le sue riserve in merito.

Ma quello che vale per gli Usa vale anche per l’Europa. Prendendo ad esempio il caso svizzero, Vitali si è domandato, conoscendo perfettanente la risposta, se un governo, come quello elvetico, può sorvegliare una banca come la UBS, il primo istituto della Confederazione, che ha un bilancio sei volte più grande di quello dello Stato. E la risposta non può che essere negativa.



Cambiamo la droga di Bernanke
di Greg Palast - www.gregpalast.com - 22 Settembre 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di P.P.

Provo ancora un brivido quando riesco a mettere le mani su un documento confidenziale con la scritta ‘Casa Bianca, Washington’ sull’intestazione. Anche quando – come quello che sto guardando ora – riguarda un argomento noioso : il summit del G-20 di questa settimana.

Ma il contenuto della lettera mi ha svegliato, e potrebbe tenermi sveglio per il resto della notte.

La lettera di 6 pagine dalla Casa Bianca, datata 3 settembre, è stata mandata ai 20 capi di stato che si incontreranno questo giovedì a Pittsburgh. Dopo qualche iniziale diplo-blabla, il nostro ‘sherpa’ del Presidente per il summit, Michael Froman, compie una piccola danza della vittoria, annunciando che la recessione è stata sconfitta. ‘Il mercato globale delle azioni è risalito del 35 % dalla fine di marzo’, scrive Froman. In altre parole, il mercato azionario sta su e tutto va bene.

Sebbene riconosca che quest’anno l’economia sia andata all’inferno, l’assistente e ambasciatore di Obama al G-20 sembra fare il pappagallo all’esuberanza irrazionale del capo della Federal Reserve Ben Bernanke che la settimana scorsa aveva dichiarato che ‘la recessione è molto probabilmente finita’. Tutto ciò che mancava nella dichiarazione di Bernanke era uno striscione, ‘MISSIONE COMPIUTA’.

E i francesi sono furiosi. La lettera della Casa Bianca ai leader del G-20 era una risposta ad una missiva diplomatica confidenziale dal capo dell’Unione Europea Fredrik Reinfeldt scritta un giorno prima a "Monsieur le Président" Obama.

Abbiamo anche la nota confidenziale di Reinfeldt. In essa, il presidente della UE dice che, nonostante il felice discorso di Bernanke, "la crise n'est pas terminée (la crisi non è finita) e che (continuando la traduzione) il mercato del lavoro continuerà a soffrire le conseguenze di una debole capacità di produzione nei mesi a venire’. Questo è gergo diplomatico per dire Cosa diavolo si sta fumando Bernanke ?

Posso ricordarle Monsieur le Président, che il mese scorso 216,000 americani hanno perso il loro lavoro, portando la perdita totale dal momento della sua inaugurazione a circa sette milioni. In crescita.

Il Wall Street Journal ha anch’esso una copia della lettera della Casa Bianca, anche se non l’hanno pubblicata (io l’ho fatto: leggetela qui, con il messaggio della UE e la nostra traduzione). Il Journal la vende come la Casa Bianca avrebbe voluto: ‘Grandi cambiamenti nella politica economica globale’ per produrre ‘una crescita duratura’. Obama prende il controllo! Ciò che manca nel rapporto del Journal è che il piano di Obama strangola in maniera sottile ma sostanziale le richieste europee di far tirare la cinghia all’industria finanziaria e, più importante ancora, rimbalza la preoccupazione della UE sulla lotta alla disoccupazione.

I capi dell’Europa sono spaventati, coscienti del fatto che l’amministrazione Obama fermerà prematuramente lo stimolo fiscale e monetario. L’Europa chiede che gli USA continuino a pompare l’economia, sotto un programma mondiale salva-culi coordinato internazionalmente.

Come Reinfeldt dice nel suo appello alla Casa Bianca, ‘è essenziale che i capi di stato e di governo, a questo summit, continuino a implementare le misure di politica economica che hanno adottato’ e non agire unilateralmente. ‘Delle exit strategies (devono) esere implementate in maniera coordinata’. Traducendo dal diplomatique: se voi USA fermate lo stimolo fiscale e monetario ora, l’Europa ed il pianeta vanno a picco. L’America con esso.

L’ambasciatore di Obama dice Non! Invece scrive che ad ogni nazione dovrebbe essere concesso di ‘rilassare’ gli sforzi anti recessione ‘ad un ritmo appropriato alle circostanze di ogni economia’. In altre parole, ‘Europa, sono fatti tuoi!’. Con buona pace di Obama al confronto con Roosevelt.

Tecnicamente il conflitto politico tra Obama e il piano della UE riflette una grande distanza sulla risposta ad una domanda cruciale: di chi è la recessione? Per Obama e Bernanke, questa è una recessione dei banchieri e quindi, essendo ‘le scosse del mercato diminuite significativamente’, per usare le parole dell’epistola della Casa Bianca, allora Happy Days Are Here Again [“I giorni feilici sono tornati”. N.d.r.]. Ma, se questa recessione è dei lavoratori di tutto il mondo che stanno perdendo il loro lavoro e i risparmi di una vita, allora è sempre Buddy, Can You Spare a Dime [“Amico risparmia qualche soldo”, N.d.r.].

Se Bernanke e Obama fossero veramente preoccupati di salvare posti di lavoro, avrebbero chiesto alle banche piene di bottino predato ai contribuenti di prestare questi fondi ai consumatori e al mondo degli affari. La Cina lo ha fatto, ordinando alle sue banche di aumentare il credito.

E gente, lo hanno fatto, espandendo il credito di un mastodontico 30%, sparando l’economia cinese fuori dalla recessione in una crescita a due cifre. Ma l’amministrazione Obama ha preso la direzione opposta. La lettera della Casa Bianca al G-20 chiede di aumentare lentamente le riserve bancarie, e questo può solo far si che un mercato del credito già stretto si stringa ancora.

Non è che la Casa Bianca ignori completamente la perdita di posti di lavoro. La lettera degli USA suggerisce che ‘il G-20 dovrebbe impegnarsi per…il supporto ai disoccupati’. Potete immaginarvi gli europei, che già hanno generosi contributi alla disoccupazione – la maggior parte dei quali senza limiti di tempo – diventare viola su questo punto. L’avara estensione del sussidio di disoccupazione compiuta sotto il piano di stimolo è già in scadenza senza nessuna proposta di continuare ad aiutare le vittime senza lavoro della recessione.

Gli europei sono così carini quando sono arrabbiati, quando stringono i loro piccoli pugni. Obama presume di poterli ignorare. la UE, un tempo il pezzo grosso del G-7, ha visto il suo status di membro diluirsi nel G-20, dove le potenze del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) stanno flettendo i loro muscoli. Ma gli europei hanno una cosa o due da insegnare agli americani sull’economia del tramonto di un impero.

Forse le differenze sono culturali, non economiche; agli europei manca l’ottimismo del ‘si può fare’ del Destino Manifesto dell’America.

Così, per dare agli ospiti un assaggio dello spirito del yes-we-can, Obama dovrebbe invitare i 93700 senza lavoro di Pittsburgh all’incontro del G-20 per celebrare la salita del 35% del mercato azionario.

Oppure – mio suggerimento – cambiare i farmaci di Bernanke.

lunedì 28 settembre 2009

Il gioco delle parti: l'Iran preannuncia e l'Occidente si scandalizza...

E' veramente stupefacente il gioco delle parti a cui si sta assistendo in questi giorni tra Iran e Occidente.

Una settimana fa con una lettera inviata all'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (Aiea), l'Iran aveva fatto sapere di aver cominciato la costruzione a Qom, circa 150 km a sud-ovest di Teheran, di un secondo impianto di arricchimento dell'uranio.

Venerdì però Obama indice una drammatica conferenza stampa nel bel mezzo del G20, come se l'avesse appreso in quel preciso momento...4 giorni dopo la lettera iraniana all'Aiea....
Mentre il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Hassan Ghashghavi, dichiarava che "La nuova centrale non viola alcuna legge internazionale: i paesi occidentali si consegnano a commenti che non sono realisti", garantendo che questo secondo sito nucleare sarà messo sotto controllo dell’Aiea, con la quale fisserà una data per le ispezioni.

Ma il gioco continua.
Un paio di giorni fa la televisione iraniana in lingua araba, Al Alam, e il canale televisivo iraniano in lingua inglese Press Tv avevano annunciato una nuova serie di esercitazioni militari.

Infatti due nuovi missili a corto raggio sono stati lanciati ieri nella prima giornata di un programma di esercitazioni dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, mentre oggi i test sono proseguiti con il lancio di due missili a lungo raggio, lo Shahab 3 e Sejil, che con una gittata di 2000 Km sarebbero in grado di raggiungere Israele e le basi americane del Golfo.
Va comunque ricordato che lo Shahab 3 era stato già testato in passato.

Si attendono già le reazioni indignate, stupite e scandalizzate dell'Occidente, ma il solito portavoce del ministero degli Esteri iraniano ha subito smorzato l'intera questione "Sono esercitazioni di routine, hanno solo un fine deterrente e non hanno nulla a che vedere con le tensioni sul programma nucleare iraniano".

E' comunque "spettacolare" la prima dichiarazione del ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner "Il riconoscimento da parte dell’Iran della costruzione di una seconda centrale nucleare a Qom ha chiarito la situazione, ma occorre che Washington, Parigi e Londra continuino a dare prova di risolutezza e fermezza".

Ma certo...la Total non vuole altro....così come l'ENI, Gazprom, Sinopec, Royal Dutch Shell etc etc....


Ahmadinejad trova l'America

di Luca Mazzuccato - Altrenotizie - 27 Settembre 2009

Il Palazzo di Vetro, in questa prima Assemblea Generale dell'era Obama, ha avuto un protagonista assoluto: Mahmoud Ahmadinejad. In un'intervista esclusiva per la CBS, Kouric cerca di mettere alle strette il presidente iraniano, che si difende contrattaccando. Poche ore dopo, la notizia dell'esistenza di nuove centrifughe segrete smentisce le sue dichiarazioni e precipita l'Iran in guai seri.

Per essere il presidente di un paese dove non esiste (più) libertà di stampa, Ahmadinejad dimostra di conoscere qualche trucco e riesce a tratti quasi a cavarsela anche di fronte all'esperta giornalista della CBS, che un anno fa aveva fatto a pezzi Sarah Palin, rendendola lo zimbello degli Stati Uniti. Ahmadinejad si difende dalle accuse della Couric, ricordando le tragedie dell'Iraq, dell'Afghanistan e della Palestina e ricordando che, a conti fatti, neanche in America le cose vanno a gonfie vele. Ma ancora una volta, il suo rifiuto di ammettere l'esistenza dell'Olocausto demolisce la sua credibilità di fronte al pubblico occidentale.

Rispondendo alle domande sulla durissima repressione seguita alle elezioni in Iran, con migliaia di arresti, torture e diversi assassinii di oppositori politici, Ahmadinejad non batte ciglio. Couric gli mostra una foto di Neda, la ragazza ammazzata in diretta durante una manifestazione pacifica contro i brogli nelle elezioni e gli legge le testimonianze di cittadini iraniani torturati. Il presidente si dice dispiaciuto per la morte di Neda, rifiuta le accuse di brogli e di torture e, anzi, denuncia il fatto che i disordini siano stati creati ad arte dai governi occidentali per metterlo in difficoltà. Infine contrattacca, ricordando alla CBS che il numero di cittadini uccisi ogni giorno negli Stati Uniti è di molto superiore al numero di morti durante gli scontri a Teheran.

Ha fatto scalpore la notizia che, fra pochi giorni, due delegazioni ufficiali da Washington e da Teheran s’incontreranno per discutere dei rapporti bilaterali tra i due paesi, per la prima volta in trent'anni. Couric va subito al sodo, chiedendo conferma al presidente iraniano riguardo alla sua recente dichiarazione, nella quale sostiene che il programma nucleare iraniano è parte integrante delle trattative. Ahmadinejad conferma questo fatto e, a sorpresa, si dice disponibile ad acquistare il combustibile nucleare se qualcuno glielo venderà (ringraziando Putin).

Couric prosegue chiedendo perché l'Iran non lasci entrare gli ispettori dell'ONU nelle sue centrali, ma Ahmadinejad contesta questo fatto, citando l'ultima ispezione di Settembre, in cui l'AIEA ammette la piena collaborazione dell'Iran e la natura pacifica del programma nucleare. Peccato che, poche ore dopo l'intervista alla CBS, in un annuncio scoop al G20, Obama, Sarkozy e Brown mostrino le prove di una centrale di arricchimento finora rimasta segreta e Ahmadinejad, costretto a confermarne l'esistenza, vanifichi di fatto le prove di dialogo e porti a far precipitare la crisi in un nuovo drammatico capitolo.

Riguardo all'accusa di bloccare le ispezioni, secondo Ahmadinejad “ci sono paesi che hanno diecimila testate nucleari e le hanno persino usate in passato. Non credete che siano i paesi come l'America a dover essere ispezionati, invece di paesi che non ne posseggono? Inoltre, c'è una legge internazionale e dev'essere valida per tutti”, aggiunge riferendosi ad Israele.

Couric fa notare che il programma nucleare iraniano è particolarmente pericoloso, visto l'appoggio dell'Iran ai gruppi terroristici internazionali. Qui però Ahmadinejad ribalta l'accusa con disinvoltura: “E' chiaro quali stati favoriscono il terrorismo: i terroristi in Afghanistan e in Iraq sono più potenti ora o prima dell'invasione degli USA e della NATO? Persino la produzione di droghe illegali è quadruplicata. Dal giorno in cui gli Stati Uniti sono sbarcati in Iraq, centinaia di migliaia di persone sono morte: chi è quindi il terrorista qui? A Gaza a Gennaio sono morte tremilatrecento persone sotto tonnellate di bombe. Chi è il terrorista?” Fin qui, poco da obiettare, ma Ahmadinejad si spinge oltre, tirando fuori la sua carta preferita, quella dell'Olocausto, e si chiede perché i palestinesi debbano soffrire per colpa di azioni compiute da governi europei sessant'anni fa” aggiungendo che “il mito dell'Olocausto è stato trasformato in un'arma dalle sue stesse vittime per coprire le proprie azioni terroristiche”.

Infine, Couric chiede conto ad Ahmadinejad della sua dichiarazione che definisce “l'Olocausto una menzogna basata su una rivendicazione mitologica e indimostrabile” e, mostrandogli una foto di Auschwitz, gli domanda se pensa si tratti di un fotomontaggio. Ahmadinejad si lancia in una lunga digressione sul concetto di mito; quindi ammette che, anche se l'Olocausto fosse accaduto, “perché insistere su questo fatto quando nella Seconda Guerra Mondiale morirono sessanta milioni di persone? Non sappiamo cosa successe sessant'anni fa, però sappiamo di preciso che è un pretesto per occupare la Palestina”. Incalzato per alcuni minuti dalla Couric, il presidente iraniano si rifiuta di ammettere che l'Olocausto sia veramente esistito, “mentre tutti, anche in America, si rifiutano di discutere del genocidio in Palestina per mano del regime sionista.” Detto da chi non riconosce l’orrore della Shoah, è davvero paradossale.


L'Iran è da considerare leale
di Scott Ritter - The Guardian - 25 Settembre 2009

Introduzione di Pino Cabras - Megachip - 27 Settembre 2009

Il pensiero unico dell'Occidente si è scatenato. Il solenne Obama che vuole rendere obsolete le armi nucleari rivela altrettanto solennemente che invece l'Iran fa rapidi passi avanti per averle. Si sono distinti nei toni allarmistici contro Teheran i titoli e gli editoriali de «la Repubblica».

E anche il neonato «Il Fatto Quotidiano», sebbene dica di staccarsi dal “pensiero unico”, ha presto rivelato il suo punto debole: ossia l'imbarazzante povertà delle sue pagine internazionali, troppo pigre e apologetiche, incapaci di una critica basata sui fatti nei confronti della complessa politica obamiana.

Perciò vi proponiamo un documento di straordinaria lucidità. È l'articolo scritto per «The Guardian» da Scott Ritter, l'uomo che tra il 1991 e il 1998 fu il capo degli ispettori Onu in Iraq. Ritter è uno dei massimi esperti in materia di controllo delle armi nucleari, ed è anche il personaggio che, appena nel 2003 iniziò l'invasione dell'Iraq, ebbe a dire profeticamente: «gli Stati Uniti se ne andranno dall'Iraq con la coda tra le gambe, sconfitti. È una guerra che non possiamo vincere».

Nessun organo d'informazione ha dato sufficiente risalto alle attuali ponderate considerazioni di Ritter sull'Iran, che nulla concedono, come è suo costume, alla propaganda – e agli errori – di quelli che battono la grancassa delle sanzioni. Ricordiamo che gli stessi meccanismi di allarme che oggi sono a carico del regime iraniano furono acriticamente usati al tempo dell'inizio della campagna irachena. Oggi come allora le pagine internazionali sono un guazzabuglio di allarmi atomici gonfiati, di esagerazioni su voci inattendibili di Bin Laden e altre armi psicologiche che creano un clima di paura e di distrazione (e nessuno così si lamenta se il G20 non fa nulla contro gli squali dell'alta finanza).

Ezio Mauro, Antonio Padellaro: il giornalismo d'inchiesta dovrebbe essere usato anche fuori da questi confini nazionali. Passate le Alpi, ve la danno a bere. La lettura di Ritter è un buon antidoto.

Keeping Iran honest

di Scott Ritter – The Guardian

La centrale nucleare segreta dell'Iran innescherà un nuovo ciclo di ispezioni dell'AIEA e porterà a un periodo di ancora maggiore trasparenza.

È stato davvero un momento di alta drammaticità. Barack Obama, fresco reduce dal suo cimentarsi a fare la storia nell'ospitare il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, si è preso una pausa dalle sue funzioni al vertice economico del G20 a Pittsburgh per annunciare l'esistenza di un impianto nucleare segreto e non notificato in Iran, che non risultava coerente con un programma nucleare a scopi pacifici, sottolineando la conclusione che «l'Iran sta violando le regole che tutti i paesi devono seguire».

Obama, appoggiato da Gordon Brown e Nicolas Sarkozy, ha minacciato dure sanzioni contro l'Iran qualora non si conformasse pienamente ai suoi obblighi riguardanti il controllo internazionale del suo programma nucleare, che al momento attuale sta per essere definito da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia come l'obbligo di sospensione immediata di tutte le attività di arricchimento nucleare.

La struttura in questione, che si rivela sia localizzata presso una installazione militare segreta iraniana fuori dalla città santa di Qom e in grado di ospitare fino a 3mila centrifughe, usate per arricchire l'uranio, è stata per qualche tempo controllata dai servizi di intelligence degli Stati Uniti e altre nazioni. Ma non è stato che lunedi che l'AIEA è venuta a sapere della sua esistenza, basandosi non su un qualsiasi "scoop" d'intelligence fornito dagli USA, ma proprio su una spontanea notificazione da parte dell'Iran. Le azioni dell'Iran hanno forzato la mano degli Stati Uniti, spingendo Obama all'affrettata conferenza stampa di venerdì mattina.

Attenzione alle campagne mediatiche con motivazioni politiche. Mentre in superficie l'intervento drammatico di Obama sembrava sensato, il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. Le "regole" che l'Iran è accusato di aver violato non sono vaghe, bensì scandite in termini chiari. Ai sensi dell'articolo 42 dell'accordo di salvaguardia dell'Iran, e del Codice 3.1 della parte generale degli accordi sussidiari (altresì noto come il "protocollo aggiuntivo") di tale accordo, l'Iran ha l'obbligo di informare l'AIEA di qualsiasi decisione volta a costruire un impianto che ospiti centrifughe operative, e di fornire informazioni sul progetto preliminare di tale impianto, anche se il materiale nucleare non fosse stato introdotto. Questo avvierebbe un processo di accesso complementare e di ispezioni di verifica della progettazione da parte dell'AIEA.

Questo accordo è stato firmato dall'Iran nel dicembre del 2004. Tuttavia, poiché il "protocollo aggiuntivo" non è stato ratificato dal parlamento iraniano, e come tale non è giuridicamente vincolante, l'Iran ha interpretato la sua attuazione come su base volontaria, e pertanto ha accettato di rispettare queste nuove misure, più come misura di rafforzamento della fiducia che in qualità di un obbligo inderogabile.

Nel marzo del 2007, l'Iran ha sospeso l'applicazione del testo modificato del codice 3.1 della Parte generale degli accordi sussidiari riguardanti la rapida fornitura delle informazioni sui progetti. In questa maniera, l'Iran stava ritornando alle sue condizioni giuridicamente vincolanti dell'accordo di salvaguardia originario, che non richiedevano la dichiarazione iniziale sugli impianti con capacità nucleare prima dell'introduzione di materiale nucleare.

Anche se questa azione risulta comprensibilmente irritante per l'AIEA e per quegli Stati membri che desiderano una piena trasparenza da parte dell'Iran, non si può parlare in termini assoluti di violazioni da parte dell'Iran dei suoi obblighi derivanti dal trattato sulla non-proliferazione nucleare. Così, quando Obama ha annunciato che «l'Iran sta le regolviolando le regole che devono seguire tutte le nazioni», è in errore sia dal punto di vista tecnico sia da quello giuridico.

Ci sono molti modi di interpretare la decisione dell'Iran del marzo 2007, soprattutto alla luce delle rivelazioni di oggi. Occorre sottolineare che l'impianto di Qom cui si riferisce Obama non è un impianto per armi nucleari, ma semplicemente una centrale nucleare di arricchimento simile a quella che si trova nell'impianto notificato (e ispezionato) di Natanz.

L'impianto di Qom, se le descrizioni attuali sono accurate, non può produrre stock-base di alimentazione (esafluoruro di uranio, o UF6) utilizzato nel processo di arricchimento basato sulla centrifuga. Si tratta semplicemente di un altro impianto in cui l'UF6 può essere arricchito.

Perché è importante questa distinzione? Perché l'AIEA ha sottolineato, continuamente, che possiede un resoconto completo delle scorte di materiale nucleare dell'Iran. Non c'è stata alcuna diversione di materiale nucleare per l'impianto di Qom (dal momento che è in fase di costruzione). L'esistenza del presunto impianto di arricchimento di Qom non cambia in alcun modo il bilancio dei materiali nucleari presenti oggi all'interno dell'Iran.

In parole povere, l'Iran non è più vicino a produrre ipotetiche armi nucleari oggi di quanto non lo fosse prima dell'annuncio di Obama sulla struttura di Qom.

Si potrebbe adoperare l'argomento secondo cui l'esistenza di questo nuovo impianto dota l'Iran di una capacità di "autonomo sganciamento" nel produrre uranio altamente arricchito che potrebbe essere utilizzato nella fabbricazione di una bomba nucleare in una qualche fase successiva.

La dimensione della struttura di Qom, sospettata di essere in grado di ospitare 3mila centrifughe, non è ideale per attività di arricchimento su larga scala necessarie a produrre quantità significative di uranio bassamente arricchito di cui l'Iran avrebbe bisogno per far funzionare i suoi reattori nucleari in progetto.

In tal senso, si potrebbe sostenere che il suo unico vero scopo sia quello di riciclare rapidamente delle scorte di uranio bassamente arricchito in uranio altamente arricchito utilizzabile in un'arma nucleare. Il fatto che si riferisce che l'impianto di Qom sia situato dentro un'installazione militare iraniana non fa che rafforzare questo tipo di pensiero.

Ma questa interpretazione richiederebbe comunque la diversione di notevoli quantità di materiale nucleare fuori dal controllo degli ispettori dell'AIEA, qualcosa che sarebbe quasi immediatamente evidente. Qualsiasi deviazione significativa di materiale nucleare sarebbe una causa immediata di allarme, e ciò provocherebbe un'energica reazione internazionale, che includerebbe molto probabilmente un'azione militare contro la totalità delle infrastrutture nucleari iraniane conosciute.

Allo stesso modo, le 3mila centrifughe dell'impianto di Qom, anche quando iniziassero con il 5% delle scorte di uranio arricchito, dovrebbero operare per mesi prima di essere in grado di produrre abbastanza uranio altamente arricchito per un singolo dispositivo nucleare. In tutta franchezza, questo non costituisce una valida capacità di " autonomo sganciamento".

L'Iran, nella sua notificazione dell'impianto di arricchimento di Qom all'AIEA resa il 21 settembre, lo ha descritto come un “impianto pilota”. Dato che l'Iran ha già un "impianto pilota di arricchimento" in funzione presso la struttura notificata di Natanz, questa evidente duplicazione dello sforzo va nella direzione tanto di un programma parallelo di arricchimento nucleare a conduzione militare volto agli scopi più scellerati, quanto, più probabilmente, di un tentativo da parte dell'Iran di fornire profondità strategica e capacità di sopravvivenza al suo programma nucleare, a fronte di ripetute minacce di bombardare le infrastrutture nucleari pronunciate da USA e Israele.

Non dimenticate mai che gli scommettitori sportivi, davano 2:1 probabilità che Israele o gli Stati Uniti avrebbero bombardato gli impianti nucleari dell'Iran entro marzo 2007. Dopo aver l'asciato l'incarico, l'ex vice-presidente Dick Cheney ha ammesso che stava spingendo fortemente per un attacco militare contro l'Iran durante il periodo dell'amministrazione Bush. E il livello di retorica proveniente da Israele circa la sua intenzione di lanciare un attacco militare preventivo contro l'Iran è stato allarmante.

Mentre Obama potrebbe aver inviato segnali concilianti verso l'Iran in merito alla possibilità di riavvicinamento a seguito della sua elezione, nel novembre 2008, questo non era l'ambiente fronteggiato dall'Iran, quando aveva preso la decisione di ritirarsi dal suo impegno a notificare ogni nuovo impianto nucleare in costruzione . La necessità di creare un meccanismo di sopravvivenza economica di fronte alla minaccia reale di azione militare sia degli Stati Uniti sia di Israele è probabilmente la spiegazione più probabile che sta dietro la struttura di Qom.

La notificazione dell'Iran di questa struttura all'AIEA, che precede di diversi giorni l'annuncio di Obama, probabilmente è un riconoscimento da parte dell'Iran che questa duplicazione degli sforzi non è più rappresentativa di una politica avveduta da parte sua.

In ogni caso, l'impianto è ora fuori dalle ombre, e presto sarà sottoposto ad una vasta gamma di ispezioni dell'AIEA, rendendo discutibili le speculazioni circa le intenzioni nucleari dell'Iran. Inoltre l'Iran, nel notificare questa struttura, deve sapere che - poiché ha presumibilmente collocato delle centrifughe operative nell'impianto di Qom (anche se non è stato introdotto materiale nucleare) - ci sarà la necessità di fornire all'AIEA il pieno accesso alla capacità di produzione di centrifughe dell'Iran, in modo che un bilancio materiale possa essere acquisito per queste voci allo stesso modo.

Anziché rappresentare la punta di un iceberg in termini di scoperta di una segreta capacità di armi nucleari, l'emergere dell'esistenza dell'impianto di arricchimento di Qom potrebbe benissimo segnare l'avvio di un periodo di maggiore trasparenza da parte dell'Iran, che porti alla sua la piena adozione e attuazione del Protocollo aggiuntivo AIEA. Questo, più di ogni altra cosa, dovrebbe essere il risultato auspicato della "notificazione di Qom".

Gli appelli per sanzioni"paralizzanti" contro l'Iran da parte di Obama e Brown non sono certo le opzioni politiche più produttive a disposizione di questi due leader mondiali. Entrambi hanno espresso il desiderio di rafforzare il trattato di non-proliferazione nucleare.

L'azione dell'Iran, nel dichiarare l'esistenza della struttura di Qom, ha creato una finestra di opportunità per fare proprio questo, e dovrebbe essere sfruttata appieno nel quadro dei negoziati e delle ispezioni dell'AIEA, e non più per le spacconate e le minacce dei leader del mondo occidentale.


Iran, una lunga storia di armi

di Paolo Busoni - Peacereporter - 22 Settembre 2009

Lo storico militare Paolo Busoni ricostruisce gli ultimi quarant'anni di acquisti bellici del Paese più discusso del momento

Negli ultimi vent'anni l'Iran è stato in grado di raggiungere una buona autosufficienza in molti settori armieri. Lo ha fatto attingendo alle tecnologie che via via è riuscito a comperare, ma soprattutto tramite un imponente programma nazionale di reverse engineering, (la copia dal prodotto finito, ricostruendone i piani e i progetti) partito proprio dalla necessità di rimettere in funzione le armi comprate in Occidente ai tempi dello Shah.

Le origini. L'attuale complesso militare-industriale iraniano ha origini abbastanza lontane. Già dai primi anni Sessanta lo Shah Mohammad Reza Pahlavi, aveva creato una infrastruttura di industrie e centri di ricerca per la produzione di armi. Dopo la crisi petrolifera del '73, mettendo sul piatto la gran massa degli introiti petroliferi, l'Iran smise di essere solo un acquirente di armi ed iniziò a richiedere ai fornitori la possibilità di assemblare o produrre singole componenti dei sistemi d'arma.

L'Iran degli anni Sessanta - Settanta era infatti fortemente impegnato in una corsa al riarmo tecnologico in aperta competizione con il vicino Iraq bahatista e - in prospettiva- con l'Arabia Saudita, cosicché l'industria armiera dell'Occidente (statunitense e britannica in primo luogo, ma anche tedesca e italiana) faceva ottimi affari con tutte le varie forze armate del regime.

Nel 1974, ad esempio, l'esercito iraniano riusciva non solo nell'acquisto, ma addirittura ad ottenere la coproduzione nei suoi stabilimenti del missile anticarro Tow: l'asso nella manica degli israeliani nella controffensiva dell'anno precedente durante la guerra dello Yom Kippur, quella che vide Israele sopravvivere ad un soverchiante attacco di carri armati egiziani e degli altri stati arabi. Il Tow, prodotto allora solo negli Usa, dalla Huges, non era ancora stato messo a disposizione di tutti gli eserciti della Nato, nonostante le loro strategia fosse appunto quella di prevenire un'ipotetica grande invasione di carri armati del Patto di Varsavia.

In quegli anni di inusitata 'corsa all'oro di Teheran' si assisteva a guerre commerciali tra alleati della Nato (Usa, Gran Bretagna e Italia) e addirittura tra società che potevano offrire lo stesso materiale: se da una parte l'italiana Agusta -tramite i buoni uffici di Vittorio Emanuele di Savoia, al quale -si dice- che lo Shah non potesse negare nulla- vendeva elicotteri costruiti su licenza Boeing e Bell, contemporaneamente la stessa Bell 'piazzava' all'Iran il Bell 214, una versione 'sviluppata' ad hoc per le 'esigenze' dell'esercito iraniano dell'UH1, lo Huey, l'elicottero-icona della guerra americana al Vietnam. Ma l'exploit in questa corsa alle vendite, fu quello dell'americana Grumman, che vendette allo Shah una ottantina di F14 Tomcat, (l'aereo del film Top gun), che rappresentava la punta di diamante dell'aviazione di marina Usa.

Fu una fornitura inusitata che non mancò di "offendere" altri acquirenti di materiali statunitensi. Gli israeliani infatti giudicavano il salto qualitativo della forza aerea iraniana troppo grosso e ottennero pertanto che gli Usa gli cedessero numerosi F15, l'equivalente terrestre. Si innescò così la reazione saudita, che spinse gli Usa a vendere alcuni F15 anche a quel paese e a fornirne altre decine -in ulteriore compensazione- alla stessa Israele.

1979, la rivoluzione - 1980-88, la guerra con l'Iraq. La rivoluzione del 1979 arrestò ogni fornitura e -fatto salvo il traffico di pezzi di ricambio oggetto dello scandalo Iran-Contras e poche altre triangolazioni- Teheran non ricevette altra tecnologia bellica Usa. La rivoluzione azzerò il vertice militare, in parte a causa della fuga delle gerarchie al seguito dello Shah in esilio, in parte per il processo di epurazione portato avanti dai Pasdaran, che di fatto diventarono la più importante tra le forze armate iraniane.

L'impellenza della guerra con l'Iraq (iniziata, dopo quasi un anno di forti tensioni, il 22 settembre 1980 e terminata -per sfinimento delle due parti- nell'agosto 1988) spinse il governo degli ayatollah a comprare qualsiasi cosa da chiunque fosse in grado di vendergli armi. Fecero affari d'oro i mercanti d'armi privati, ma anche le industrie cinesi, nord-coreane e sovietiche. La tecnologia che potevano offrire era più bassa rispetto alle precedenti forniture Occidentali, ma compatibile con le capacità tecniche e militari del nuovo Iran.

Era vitale opporre uno spiegamento di qualsiasi cosa (aerei, elicotteri, corazzati, artiglierie, mine e addirittura armi chimiche) che arrestasse l'avanzata di Saddam Hussein, che dall'altra parte rastrellava armi in Europa, Unione Sovietica e adesso anche negli Stati Uniti. Nonostante questo rapido susseguirsi di eventi dalla rivoluzione alla guerra il complesso militare industriale iraniano non fu completamente devastato e specie dopo la fine della guerra, sotto il governo Rafsanjani, ricevette un nuovo notevole impulso.

Oggi, non solo arricchimento dell'uranio. Alcune fonti di analisi, sia dei servizi segreti occidentali che di agenzie specializzate, assicurano che oggi l'Iran è in grado di autoprodurre gran parte delle artiglierie, dei veicoli corazzati e blindati e dell'armamento navale (inclusi mini sommergibili). Si è riscontrata inoltre la produzione di una buona quantità di componenti del settore aerospaziale, comprese le copie locali dello Stinger americano e dell'SA7 e SA18 sovietici, i pericolosissimi missili antiaerei spalleggiabili.

Ed ha destato un certo scalpore la recente uscita di una copia del sistema antiaereo pesante Hawk, radiato dagli Usa negli anni '90, ma ancora in uso in moltissimi paesi tra cui l'Italia. I maggiori investimenti sembrano concentrati nei settori missilistico, elettronico e della ricerca nucleare, che per loro stessa natura sono i più "sentiti" dai governi e dai media occidentali.

Tuttavia non sono da trascurare i risultati raggiunti nelle armi leggere, nelle artiglierie e nei razzi, come dimostrano la campagna di Israele contro Hezbollah del 2006 e qualche sequestro di navi dirette ad Hamas. Solo l'assenza pressoché assoluta ai saloni e alle fiere dell'export bellico impedisce di valutare pienamente le capacità di un conglomerato di imprese che rappresenta il 10-15 percento della struttura industriale del Paese. L'Iran armiero di oggi, non è sicuramente in grado di competere con l'Occidente e nemmeno con le realizzazioni più avanzate della Russia, ma realisticamente è al livello della media produzione cinese.


Iran, il business dell'embargo

di Marcello Brecciaroli - Peacereporter - 25 Settembre 2009

Il presidente russo Medvenev, in un'intervista rilasciata a margine dell'Assemblea Generale Onu, ha dichiarato: "Non penso che le sanzioni siano la via migliore per trattare con l'Iran", ma ha specificato che possono essere lecite se tutte le alternative falliscono.

Le resistenze russe, al pari di quelle cinesi, dipendono dagli enormi interessi economici che i due stati hanno in Iran: Gazprom, il colosso russo del gas, ha fiutato l'affare dei giacimenti iraniani abbandonati dalle europee Total e Royal Dutch Shell. In generale Russia e Cina stanno riempiendo tutti i vuoti lasciati dalle compagnie europee in ritirata (le statunitensi se ne sono andate del tutto già dal 1997).

Anche se Russia e Cina decidessero di adeguarsi in pieno alle sanzioni proposte dagli Stati Uniti, il che non sembra visto che la cinese Sinopec ha firmato nuovi accordi il 23 settembre, i ricavi attuali dell'Iran dalla vendita del petrolio oscillano tra i 50 e 60 miliardi di dollari all'anno. Si può considerare veramente "embargo" un provvedimento che permette commerci esteri per cifre del genere? Un tale fiume di denaro permette a Teheran di importare tutto ciò di cui ha bisogno e di avere risorse da investire nel suo programma nucleare.

Fino ad oggi, l'intento delle sanzioni è stato proibire alle aziende di sviluppare infrastrutture nel Paese, ma non di acquistarvi petrolio e rivendervi prodotti raffinati.
Questo ha permesso di bloccare la capacita estrattiva dell'Iran, senza dover rinunciare al miliardario commercio dei suoi prodotti.

Investire in Iran è dunque proibito. Le sanzioni internazionali, volute dagli Stati Uniti e ratificate dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, vietano investimenti per cifre superiori a 200 milioni di dollari sin dal 2008. E' una somma solo apparentemente alta: se si vuole costruire un impianto petrolifero, questa cifra basta si e no a esplorare il terreno.

Eppure lo stato persiano continua ad allocare licenze di estrazione: Royal Dutch Shell, Repsol, Total e la nostra Eni hanno contratti già stipulati, soprattutto nello sterminato giacimento off-shore "South Pars", il più grande del mondo. Il ministro iraniano del Petrolio ha dichiarato che sono oltre 60 i miliardi di dollari investiti nello sviluppo negli ultimi 4 anni. Queste compagnie però perderanno probabilmente le loro concessioni in quanto hanno dichiarato che non intendono investire ulteriormente nel paese.

L'italiana Eni, oltre a essere presente sull'area del South Pars, sfrutta anche il giacimento on-shore di Darquain (la quota Eni è del 60 percento): nel "Fact book 2008", pubblicato sul sito Eni, si annuncia che l'azienda sta realizzando un "upgrading" delle strutture che porterà la produzione da 100mila Barili/giorno a 160 mila barili/giorno entro il 2009. Gli investimenti sono finanziati con la formula "Buy-back" che consente di ripagare le spese con la cessione di una parte dei prodotti estratti.
Questa operazione, se verrà conclusa, rappresenterà una chiara violazione dei precetti delle sanzioni internazionali.

All' assemblea Generale delle Nazioni Unite, martedì scorso, l'amministratore delegato Eni, Paolo Scaroni, ha dichiarato che in Iran "abbiamo solo un vecchio progetto che andrà ad esaurirsi. Per il resto praticamente nulla". E' vero che L'Iran rappresenta una fetta minuscola della produzione globale dell'azienda (nel 2008, 1,797 milioni di barili/giorno), ma è quanto basta per far preoccupare gli Stati Uniti da cui, secondo Scaroni, "Non abbiamo mai ricevuto lamentele per i rapporti con Libia e Russia, la loro preoccupazione è l'Iran".

Già al tempo del primo pacchetto di sanzioni varato contro l'Iran, nel 2006, l'amministrazione americana aveva chiesto chiarimenti all'Eni per i suoi rapporti privilegiati con Teheran: al tempo Scaroni aveva dichiarato che "Non intendiamo fare nuovi contratti, ma non possiamo uscire, lo abbiamo spiegato anche a Bush, perderemmo dai 2 ai 3 miliardi".

L'Italia è il maggior partner commerciale europeo dell'Iran, nonostante il volume di affari sia in continuo calo: nel 2008, per adeguarsi alle sanzioni internazionali, i rapporti sono stati ridotti del 22 per cento.

Il governo iraniano sostiene che può andare avanti anche da solo, ma gli esperti ritengono che non disponga dei capitali sufficienti.
All'Assemblea dell'Onu è emerso un cambiamento di strategia: gli Stati Uniti vogliono proporre di estendere l'embargo anche al commercio di prodotti petroliferi. Questo chiuderebbe veramente i rubinetti di Teheran. Esponenti del Dipartimento di Stato Usa, come riportato dall'agenzia Dow Jones, ritengono che questa sarebbe la più potente alternativa ad un intervento militare.

Questa mossa però, per avere efficacia, deve essere presa al più presto: l'Iran sta costruendo nuove raffinerie che lo porteranno all'indipendenza dai prodotti raffinati esteri entro il 2012.


Ahmadinejad denuncia le “politiche inumane” di Israele, e io non mi scandalizzo

di Alessandra Colla - www.alessandracolla.net - 24 Settembre 2009

A quanto pare, stanotte all’Assemblea generale dell’Onu il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha detto fuori dai denti quello che molti pensano di Israele, e cioè che l’entità sionista è responsabile di «politiche inumane contro i palestinesi».

L’indignazione per questo fatto sarebbe stata tale e tanta da far uscire precipitosamente dall’aula i rappresentanti di Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Canada, Nuova Zelanda, Polonia, Danimarca, Lituania, Olanda e Slovacchia. Al loro posto, invece, sono rimasti la Svezia (presidente semestrale di turno), la Spagna, il Portogallo e la Finlandia — mi chiedo se nella prossima lista degli Stati-canaglia ci sarà un posticino anche per loro.

Nell’aula semivuota, il presidente Ahmadinejad non è stato tenero nemmeno con gli Stati Uniti, puntando il dito anche contro il sostegno americano alla politica israeliana: «Il regime del capitalismo sfrenato, che è iniquo in sé, è in un vicolo cieco e non riesce a muoversi. È venuta la fine per coloro che decidono che cosa sono la democrazia e la libertà, e fissano standard che loro stessi sono i primi a violare. Essi non potranno più essere giudici e boia. […] Come è possibile che i crimini commessi dagli occupanti [israeliani] contro donne e bambini indifesi, e la distruzione delle loro case, delle loro fattorie, dei loro ospedali e delle loro scuole, sia sostenuta indiscriminatamente da certi governi che allo stesso tempo sottopongono gli oppressi a un blocco che nega loro i bisogni fondamentali, come il cibo, l’acqua e le medicine, e porta al genocidio?».

Sembra che di queste parole ci si debba scandalizzare, se davvero si è gente per bene. Si vede che io sono per male, giacché proprio non ci riesco. Mea culpa.