domenica 30 novembre 2008

Le sabbie mobili thailandesi

Con l’occupazione nei giorni scorsi dei due aeroporti di Bangkok il movimento PAD (People’s Alliance for Democracy) ha decisamente innalzato il livello del suo scontro con il governo guidato da Somchai Wongsawat - cognato del media tycoon Thaksin Shinawatra a sua volta premier dal 2001 al 2006, quando e’ stato deposto da un incruento colpo di stato militare –, dimostrando ancora una volta di godere dell’appoggio di parte delle Forze Armate e della polizia, che hanno di fatto permesso a qualche migliaia di militanti del PAD di prendere possesso dei due aeroporti, sigillando anche un perimetro di 3 Km intorno all’aeroporto internazionale di Suvarnabhumi con camion, auto, filo spinato e pneumatici, formando cosi’ dei veri e propri posti di blocco.
Idem accade intorno a quello di Don Meuang.

Gia’ piu’ di 100.000 tra turisti e uomini di affari, non solo stranieri, sono bloccati a Bangkok ormai da giorni, anche se qualche aereo della compagnia aerea di bandiera Thai Airways e alcuni jet privati sono riusciti a decollare dall’aeroporto militare di U-Tapao, situato a circa 150 Km da Bangkok.
Sono riusciti finora a partire solo poche centinaia tra le migliaia di pellegrini musulmani in partenza o transito da Bangkok per Ryad in occasione delle festivita’ dell’Haij.
Ma la cifra delle persone bloccate a Bangkok e’ destinata a raddoppiare, se non a triplicare, nei prossimi giorni se non si trova presto una soluzione che permetta di utilizzare altri aeroporti sparsi nel Paese per i voli internazionali cancellati da Suvarnabhumi.

E con quest’ultima dimostrazione di forza da parte del PAD, il governo ha perso anche la sua sede provvisoria situata all’interno del semi dismesso aeroporto di Don Mueang, dove da 3 mesi e’ costretto a riunirsi visto che la sua sede ufficiale, la Government House, e’ occupata dal PAD fin dal 26 agosto scorso.
Ora infatti il governo e’ costretto a riunirsi a Chiang Mai, una cittadina nel nord del Paese.

Ma non sembra essere in vista a breve una soluzione per questo caos politico-sociale-istituzionale che sta gia’ costando milioni di euro ogni giorno, soprattutto al settore del turismo e all’export.
E nessuno sembra finora volersi assumere alcuna responsabilita’ nel prendere iniziative volte a porre fine ad una situazione che, oltre ai due aeroporti bloccati, vede appunto un governo che deve riunirsi in segreto nel nord del Paese, un Parlamento che non puo’ lavorare per via del blocco esterno attuato dal PAD che impedisce ai parlamentari di entrare in aula, una polizia che non gode del consenso necessario per poter intervenire liberamente nello sgombero dei due aeroporti e un esercito che sta a guardare e non vuole agire ne’ in supporto alla polizia ne’ tantomeno per attuare un golpe.

Qualche giorno fa il governo ha emanato un decreto che dichiara le aree intorno ai due aeroporti in stato d’emergenza dando l’incarico alla polizia di sgombrare gli occupanti, ma senza usare da subito le maniere forti, con l’appoggio di unita’ della Marina e dell’Aeronautica ma non dell’Esercito, tenuto fuori dal gioco.
Evidenziando con cio’ le tensioni crescenti tra il premier Somchai e il capo dell’esercito Gen. Anupong Paochinda e alimentando inoltre le voci di un imminente golpe dell’esercito, subito smentito seccamente dal suo portavoce.

Ma finora la polizia non e’ ancora intervenuta e il suo capo e’ stato percio’ rimosso. Mentre il PAD non accetta alcun tipo di negoziato se prima il premier non si dimette.
Dal suo canto pero' il premier ha piu’ volte dichiarato di non avere alcuna intenzione di dimettersi, avendo gia’ da tempo rifiutato “l’invito” del generale Anupong a sciogliere il Parlamento e a indire nuove elezioni.
D’altronde lo stesso PAD aveva rifiutato un analogo “invito” di Anupong a sgombrare i due aeroporti.

Sembra quindi di assistere a una partita di poker in cui ognuno dei giocatori – governo, polizia, esercito, PAD, opposizione parlamentare e sistema giudiziario – rilancia all’infinito senza che si arrivi mai al momento in cui si devono mostrare le carte che si hanno in mano.

Ma nel frattempo la Thailandia sta perdendo milioni di euro ogni giorno e ha gia’ perso la sua immagine di Paese accogliente, stabile e con istituzioni funzionanti.
E sono gia’ migliaia le persone che hanno cancellato le loro programmate vacanze in Thailandia proprio mentre sta per iniziare il periodo di alta stagione turistica.

Ma nessuno sembra prestare la minima attenzione a tutto cio’, orgoglio e improvvisazione stanno prevalendo su razionalita’ e logica. E va ricordato che molti tra i militanti del PAD lavorano nel settore turistico e nel suo indotto.

La comunita’ internazionale ha gia’ richiesto al governo provvedimenti immediati per sgombrare i due aeroporti, ma l’inettitudine del governo sembra nascondere la sua intenzione di voler prendere tempo in maniera tale da mettere sempre piu’ in cattiva luce l’immagine del PAD, che comunque gia’ da tempo non gode piu’ dello stesso appoggio e consenso popolare di qualche mese fa.

Detto cio’, e’ una situazione complicata il cui stallo non puo’ protrarsi all’infinito. Qualcuno prima o poi dovra’ dare il la’ e mostrare le carte agli altri giocatori.
L’unico che finora ha rivelato chiaramente le sue intenzioni e’ l’ex premier Thaksin Shinawatra che vuole assolutamente tornare in patria dal suo auto-esilio e diventare nuovamente primo ministro.

Si e’ gia’ appellato al Re Bhumibol chiedendo il “perdono Reale” per evitare cosi’ di scontare una condanna di due anni per frode fiscale.
Ma facendo cio’ ha coinvolto direttamente la Casa Reale - neutrale secondo la Costituzione – nell’agone politico e sono risaputi i suoi non eccellenti rapporti con il Re.
E’ inoltre intervenuto chiedendo al PAD di sgombrare i due aeroporti e ha avvertito l’Esercito a non tentare alcun golpe altrimenti questa volta i suoi sostenitori – i militanti dell’UDD, United Front of Democracy Against Dictatorship, che si sono gia’ scontrati piu’ volte con quelli del PAD e che hanno occupato un’importante piazza di Bangkok promettendo di restarvi finche’ il PAD non lascera’ i due aeroporti – vi si opporranno anche con la forza.

E mentre nei prossimi giorni la Corte Costituzionale dovra’ decidere se sciogliere o meno per frode elettorale il partito di maggioranza relativa - il PPP, People’s Power Party, nato dalle ceneri del disciolto Thai Rak Thai fondato da Thaksin – provocando automaticamente le dimissioni del governo, non si puo’ prevedere con certezza quale sbocco prendera’ l’attuale situazione di caos istituzionale, quasi tendente all’anarchia, e che facilmente puo’ precipitare in scontri armati con pesanti spargimenti di sangue a 360 gradi.

La speranza e’ che tutti gli attori principali facciano presto un passo indietro contemporaneamente, si siedano intorno a un tavolo e vi rimangano fino a quando non viene raggiunta una soluzione di compromesso, accettabile per tutti ma soprattutto capace di tirare fuori il Paese dalle sabbie mobili che lo stanno lentamente sommergendo.

giovedì 27 novembre 2008

La penosa fine della “sinistra”


Qui di seguito una serie di articoli sul tragico stato in cui versa ormai da tempo la cosiddetta sinistra, ancor piu’ evidente dopo la vittoria dell’ex deputato di Rifondazione Comunista Vladimiro Guadagno in arte Luxuria, osannata dagli zombie di RC e del suo megafono Liberazione come una vera e propria rivoluzione sociale.

Un cocktail di schifo e tristezza e’ assolutamente d’obbligo in questo caso.



Lussuriosi comunisti

di Alessio Mannino – Movimento Zero – 27 Novembre 2008


Rassegnatisi alla dittatura del mercato, i comunisti in cachemire si sono convertiti alla dittatura dell'auditel. Vladimiro Guadagno, il trans in arte Vladimir Luxuria, trombato (o trombata) senza godimento alle ultime elezioni, ha vinto quelle dell'Isola dei Famosi. Rifondazione Comunista, scomparsa dal parlamento assieme ai compagni di Diliberto e ai Verdi pistacchio di Pecoraro Scanio, si è presa la sua rivincita.


Donna Bertinotti si è commossa, il direttore di Liberazione, Piero Sansonetti, l'ha paragonata a Obama, il segretario del partito Paolo Ferrero vuole candidarla alle europee. E tutta la grande stampa italiana si è accodata nell'esaltare o nel ridicolizzare il televoto del reality con foglia di fico "progressista".


A noi non frega assolutamente niente. Ma qualche riga la scriviamo comunque solo per ricordare a quanti, fra gerarchetti e adepti dei partiti, cianciano di "politica", di "valori", di "etica", di "democrazia". Questa è la politica italiana, specchio della televisione: baruffe sul nulla, spiate, gossip, voyeurismo. Questi sono i valori: la visibilità ottenuta con tutti i mezzi, dando spettacolo di sè fino agli estremi orifizi.


Questa l'etica: non averne alcuna, l'importante è il voto (anche televisivo e premiato, come sempre, da un premio in denaro). Questa la democrazia: uno show in cui ognuno è personaggio da commedia, un anno nel ruolo di politico, l'altro in quello di saltimbanco del piccolo schermo.


Fortuna che qualche comunista con un po' di sale in zucca è rimasto. Come Norma Rangeri, che sul Manifesto di oggi scriveva: "Non c'è bisogno di scomodare i sacri testi (le note di Giorgio Agamben a «I commentari della società dello spettacolo» di Debord) per convincersi di come «nella piccola borghesia planetaria, nella cui forma lo spettacolo ha realizzato parodisticamente il progetto marxiano di una società senza classi, le diverse identità che hanno segnato la tragicommedia della storia universale, stanno esposte e raccolte in una fantasmagorica vacuità».


Gli italiani stanno vivendo da quasi un ventennio l'egemonia sociale, prima ancora che elettorale, di un berlusconismo, che riceve sempre nuove conferme da una classe politica di sinistra affollata di uomini, donne e transessuali convinti di cavalcare una tigre che se li è già mangiati. (...) La povera Luxuria (in senso lato vista la sontuosa vincita) è entrata nello show come un volantino stampato («parlerò di problemi sociali e politici»), e ne è uscita come una donnetta da ballatoio. Il massimo della popolarità lo ha infatti raggiunto con la spiata di un flirt tra una bella argentina (Belen Rodriguez) e un rubacuori del jet-set (Rossano Rubicondi), marito di Ivana Trump".


La sinistra è morta. Le è rimasta solo la lussuria del tubo catodico.



Vladimiro Guadagno fra cachemire e realtà

di Massimo Gramellini – 26 Novembre 2008


Nel 2008 i comunisti sparirono dal Parlamento, ma conquistarono l’Isola dei Famosi. Sempre di battaglie per la sopravvivenza si tratta. La parola Isola, che nell’immaginario rosso evocava un libro di Amendola e la Cuba di Fidel, d’ora in poi si assocerà a una spiaggia dell’Honduras illuminata dal sole delle telecamere. Lì la trans companera Vladimir Luxuria ha realizzato il comunismo in un solo reality, dopo aver messo in fuga il marito fedifrago di Ivana Trump, simbolo del capitalismo parassitario. (Per chi non lo sapesse - io, per esempio, fino a poco fa - Luxuria svelò la tresca di quel tipo con una concorrente, ergendosi di fatto a custode dell’istituto matrimoniale).


È commovente l’entusiasmo con cui la sinistra di sinistra ha accolto la vittoria della sua ex parlamentare in un gioco televisivo. Si sprecano i richiami alla portata storica dell’evento. Il paragone più modesto l’ha fatto Liberazione: «Vladimir come Obama».

E Obama come Denny Mendes, la miss Italia nera che ha reso possibile tutto il resto.


Luxuria copre il vuoto di fatuità lasciato da Bertinotti, pur essendo meno superficiale del narciso in cachemire. Ma sono i compagni di partito a renderle un pessimo servizio, attribuendo al suo successo dei significati progressisti che non ha. Se è da snob demonizzare i reality, i quali ottemperano alla funzione essenziale di offrire una doccia tiepida al cervello spossato da una giornata di lavoro, è da gente fuori dal mondo scambiare il televoto per un messaggio sociale. Non lo avrebbe fatto neanche Amendola. Neanche Fidel. Esagero: neanche Simona Ventura.



Qualcuno era comunista

di Michele Brambilla – Il Giornale – 26 Novembre 2008


«Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa. Qualcuno era comunista perché... era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana, e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo, per cambiare veramente la vita». Ieri qualcuno ha scoperto di essere stato comunista per aspettare il giorno del trionfo non della classe operaia, ma di Vladimir Luxuria all’Isola dei Famosi.


Qualcuno è stato comunista per leggere su Liberazione, «giornale comunista », il titolo in prima pagina «Forza Vladimir, hai vinto tu», e poi parole come queste: «Ha fatto diventare la sua scelta di vita come una bandiera di libertà. (...). Luxuria, partecipando e trionfando all’Isola, ha spiegato a milioni emilioni di italiani che la realtà è diversa e che anche questa realtà deve godere degli stessi diritti della presunta maggioranza. Vladimir come Obama? È un po’ esagerato, ma fatecelo dire».


Qualcuno era comunista, diceva ancora Gaber nel suo celebre monologo, «perché vedeva la Russia come una promessa». Ieri ero a Bologna, città che amo come un sogno di giovinezza, e mi sono sorpreso nel vedere che c’è ancora una via Yuri Gagarin. Il 12 aprile del1961 fu il primo essere umano ad aver esplorato lo spazio; fu il simbolo dell’umanità nuova, un mito di progresso, l’avanguardia degli oppressi finalmente liberati.


Dev’essere davvero beffardo, il destino, se ha voluto che alla fine l’unica vittoria del comunismo portasse comunque il nome di un russo: che però è quello di un foggiano che si chiamava Vladimiro, e ora si fa chiamare Vladimir.


«Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio»: ma ieri si è scoperto che perfino Gramsci non era poi così ateo, ed è morto baciando un’immaginetta di Gesù Bambino. Che giornata nera, per chi è stato comunista. Nemmeno noi, che comunisti non lo siamo stati mai, ci sentiamo di fare i maramaldi.


Il comunismo lo abbiamo avversato: ma anche ritenuto una cosa seria. Era stato un sogno per milioni di operai e contadini curvi sulle loro fatiche. «Ormai il sogno si è rattrappito», finiva Gaber, «due miserie in un corpo solo». Quello di un transgender che vince un reality.



Destra e sinistra fanno a gara a chi è più miserabile

di Gianfranco La Grassa – 27 Novembre 2008


Destra e sinistra fanno a gara a chi è più miserabile e scervellato. La sinistra – e quella detta “estrema” è sempre più la peggiore – si è ormai persa dietro alla vittoria di Luxuria all’Isola dei famosi. Riporto dal fogliaccio che si chiama Liberazione: “Ha fatto diventare la sua scelta di vita come una bandiera di libertà…..Luxuria, partecipando e trionfando all’Isola, ha spiegato a milioni e milioni di italiani che la realtà è diversa e che anche questa realtà deve godere degli stessi diritti della presunta maggioranza [immagino sia quella degli eterosessuali che, con buona pace dell’articolista, sono ancora una maggioranza non presunta; e per di più piuttosto consistente, ancor più di quella del Governo contro cui si battono simili dementi; ndr]. Vladimir come Obama? E’ un po’ esagerato, ma fatecelo dire”.


Noi pensavamo che milioni e milioni di lavoratori e oppressi (non solo italiani) avessero sognato, forse troppo a lungo, per merito della Rivoluzione d’Ottobre, di quella cinese, della presa del potere di Fidel a Cuba, della vittoria dei vietnamiti sul più potente esercito del mondo, ecc. Adesso sappiamo che questi eventi erano solo una copia sbiadita – tutt’al più mosse preparatorie – della grande e decisiva vittoria della “transessualità” nell’isola dei famosi, (tele)guidata da un “capo rivoluzionario” quale Simona Ventura, che distacca di parecchie lunghezze Lenin, Mao, Fidel, il Che, Ho-chi-min e Giap.


Di fronte ad una simile degenerazione a questo punto anche morale, ma soprattutto cerebrale, va ormai detto senza mezzi termini che questa sinistra non merita solo la sconfitta elettorale, ma dovrebbe per decenza essere eliminata in radice.


Quello che è ancor più scandaloso è l’offerta fatta a Luxuria da Ferrero di un seggio al Parlamento europeo (rifiutato dall’interessata, almeno per il momento). Ferrero significa la maggioranza di Rifondazione; per di più quella parte che si pretende ancora comunista e che ha avuto l’appoggio delle frange estreme (del cosiddetto Ernesto), oggi divisesi a loro volta “regolarmente” in due minimi tronconi. Sono lieto di aver sempre considerato Ferrero nulla più che un demagogo populista, un parolaio pseudo-rivoluzionario, mentre altri volevano considerarlo comunque il “meno peggiore”.


E’ esattamente la stupidità di coloro che pensano al “meno peggio” ad aver fatto degradare la situazione, rendendola sempre peggiore da cinquant’anni a questa parte. Bisogna capire che viene il momento in cui è proprio il “meno peggio” a dover essere combattuto e, quando possibile, annientato se si vuol risalire la china; è un principio tattico-strategico elementare, che purtroppo “ultrasinistri” chiacchieroni e inutili non capiscono minimamente. Per questo, stiamo andando a rotoli.


Se a sinistra s’ode uno squillo, subito risponde la destra, invidiosa e preoccupata di essere da meno. Oggi s’inventano in base a “fonti citate” quali “testimoni diretti” che Gramsci si è convertito in punto di morte. La notizia parte sempre dalla Chiesa, da un Vescovo che cita una suora (defunta) e altre fonti anch’esse sparite (oltre ad essere già state confutate in tempi passati). O forse, invece, abbiamo perso l’orientamento temporale, forse Gramsci è morto d’infarto quando ha saputo della vittoria di Luxuria.


No, ho aperto Google (la “bibbia”) e non c’è nulla da fare: è morto oltre settant’anni fa, nel 1937. A questa distanza di tempo, saltano fuori testimoni diretti che l’hanno visto baciare l’effigie di S. Teresa di Lisieux, farsi portare quella di Gesù bambino, l’hanno sentito chiedere i sacramenti, ecc.


Intendiamoci bene: a me non frega nulla di ciò che un pensatore e rivoluzionario è o fa in quanto soggetto empirico, concreto, durante la sua vita quotidiana, personale. Non ho mai creduto alle fesserie del “personale è politico”; l’hanno sostenuto i soliti asini di sinistra, arrivati non a caso ai livelli di pochezza intellettuale odierna. Mi interessa ciò che il pensatore ha detto, che il capo rivoluzionario ha fatto; e quindi mi interessano semmai gli effetti del suo pensiero e della sua azione. Inoltre, so valutare bene la differenza tra la lettera di ciò che è stato detto e gli stimoli che un pensiero è ancora in grado di fornire, qualora venga reinterpretato e ripensato alla luce della nuova epoca in cui vive e agisce chi lo ripensa.


Ho già dato, ad esempio, dimostrazione della più alta disistima nei confronti degli ottusi bestioni ossificati pseudomarxisti che si rivolgono a Marx come fosse un contemporaneo. Non mi interessa però sapere se tale pensatore e rivoluzionario trattasse bene o male moglie e figlie (tema su cui hanno inzuppato il pane certe femministe sceeeeeme), se fosse un tipo da invitare a cena o da tenersene alla larga per evitare litigi.


Di conseguenza, se pure Gramsci si fosse convertito, non cambierei in nulla il mio giudizio su di lui e continuerei a riproporlo per quello che ha scritto, rivisto però – e assai ampiamente – alla luce degli eventi e processi odierni. Tuttavia la citazione, a settantun’anni dalla morte, di testimoni “diretti” di una sua (questa volta, si, è il caso di dire presunta) conversione – senza che ci sia lo straccio di un documento scritto che la provi – si qualifica quale semplice operazione di sciacallaggio, che la dice lunga sulla moralità e sull’intelligenza di chi la compie.


Pure a destra, dunque, la cialtroneria e la bassezza sono le stesse della sinistra e meriterebbero la stessa punizione. Viviamo veramente in un’epoca di vergogna assoluta. E’ venuto meno anche quello che era tutto sommato un “decoro borghese”.


Non so come siamo potuti cadere così in basso; e vorrei che storici – ma seri, documentati – mi dicessero se è esistito un altro periodo di così grande disonestà intellettuale (e non solo intellettuale); ma soprattutto di così grande imbecillità.


Comunque, cari presunti “intellettuali” e politici di destra e sinistra, fate schifo. E’ veramente dura vivere nello stesso vostro mondo, respirare la vostra stessa aria, o quasi.

Per fortuna si sono levate voci di dissenso; e alcune anche ben incazzate. La speranza sopravvive; basterebbe fare una bella pulizia delle cellule cancerogene.


Occorrerebbero però tempi brevi; cercasi urgentemente “Il Gran Chirurgo”! E ritornare allo spirito di: “Pietà l’è morta”.

mercoledì 26 novembre 2008

CIA, Al Qaeda, UCK, eroina: un intreccio inestricabile

Un paio di articoli sull’evolversi della situazione in Kosovo dopo l’unilaterale dichiarazione d’indipendenza del febbraio scorso.

La storia continua a ripetersi nelle stesse forme…


Il Kosovo come l’Afghanistan, dice la CIA
di Simone Santini – clarissa.it – 25 Novembre 2008

La Central Intelligence Agency rende pubblico un rapporto e lancia l’allarme. Secondo i servizi segreti americani, gli estremisti del Kosovo sono pronti ad innalzare il livello dello scontro e a sferrare attacchi terroristici non solo contro Belgrado e le autorità serbe (i nemici di sempre), ma il loro “sguardo si è esteso più ad Ovest, su Washington e Bruxelles”, ovvero contro i funzionari dell’amministrazione internazionale (UNMIK) che mantiene il compito della gestione amministrativa sulla provincia dalla fine della guerra nel 1999.

Il rapporto rivela ancora che gruppi terroristici, “cellule dormienti”, si stanno attivando. “Appartengono a un gruppo di fondamentalisti islamici e, in quanto tali, hanno come unico scopo quello di attaccare tutti i ‘non credenti’. Ci sono le prove che i componenti facevano parte dell’UCK, che a sua volta aveva contatti con Al Qaeda”. Ma non basta. Le autorità kosovare, le stesse che hanno proclamato unilateralmente l’indipendenza della provincia lo scorso febbraio, e che nel corso degli anni hanno protetto tali frange, da cui esse stesse provengono, potrebbero aver perso il polso della situazione tanto che “la situazione potrebbe essere fuori dal loro controllo”, al punto da prospettarsi un inquietante “scenario da Afghanistan” (1).

Il rapporto non giunge in un momento qualunque, ma proprio nel mezzo dei negoziati che stanno riconfigurando la missione internazionale dell’UNMIK ed il passaggio di poteri dalle Nazioni Unite all’Unione Europea con la nuova missione denominata Eulex. Se la Ue e la Serbia hanno trovato l’accordo sullo status giuridico della nuova amministrazione civile che, pur con alcune ambiguità, si muoverà nel solco della Risoluzione 1244-ONU che cristallizzò una situazione di fatto e che non prevede la possibilità di una secessione indipendentista del Kosovo, Pristina ha da subito rigettato gli accordi e dichiarato che su tali basi la missione Eulex non verrà mai accettata.

Il rapporto americano potrebbe dunque avere connotazioni politiche piuttosto che di intelligence, tanto più che la presenza di estremisti islamici nei Balcani legati ad Al Qaeda è risalente nel tempo ed affonda le radici, ancor prima che in Kosovo, in Bosnia dall’inizio degli anni ’90, con implicazioni di cui i servizi americani sono ben a conoscenza.

Il giornalista investigativo tedesco Jurgen Elsässer nel suo volume “Come la Jihad è arrivata in Europa” illustra in maniera esemplare i rapporti tra i guerriglieri islamici e i servizi di intelligence occidentali e fornisce le prove del loro utilizzo nella ex Jugoslavia. Nel corso di una intervista, a proposito del suo lavoro Elsässer dice: “Faccio nuova luce sulle manipolazioni dei servizi segreti. Altri libri avevano già sottolineato la presenza nei Balcani di Osama Bin Laden, ma gli autori avevano presentato i combattenti musulmani come nemici dell’occidente. Le informazioni che ho raccolto da molteplici fonti dimostrano che questi jihadisti sono marionette nelle mani dell’Occidente, e non, come si pretende, nemici. […] Ho studiato la figura di Al Zawahiri, il braccio destro di Bin Laden, che era il capo delle operazioni nei Balcani.

Agl’inizi degli anni ’90 aveva percorso in lungo e in largo gli Stati Uniti in compagnia di un agente dell’US Special Command per raccogliere fondi destinati alla Jihad; l’uomo sapeva perfettamente che la raccolta di fondi era un’attività sostenuta dagli Stati Uniti. […] La rete terroristica creata dai servizi segreti americano e britannico durante la guerra civile in Bosnia, e più tardi in Kosovo, ha rappresentato un serbatoio di militanti, che troviamo poi implicati negli attacchi di New York, Madrid e Londra. […] Dopo la fine della guerra in Afghanistan, Osama Bin Laden ha reclutato questi jihadisti militanti. Era il suo lavoro: è stato lui che li ha addestrati, con il parziale sostegno della CIA, e li ha mandati in Bosnia. Gli americani hanno tollerato il legame tra il presidente Izetbegovic e Bin Laden. Due anni più tardi, nel 1994, gli americani hanno cominciato a inviare armi, in un’operazione clandestina comune con l’Iran. Dopo il trattato di Dayton, nel novembre 1995, CIA e Pentagono hanno reclutato i migliori jihadisti che avevano combattuto in Bosnia” (2).

Qualunque giornalista investigativo che gratti appena sulla superficie, scopre in Kosovo i palesi legami tra infiltrazioni terroristiche islamiche, l’UCK (L’Esercito di Liberazione del Kosovo) - che dopo la vittoria della NATO nel ‘99 ha preso il controllo politico della regione, ed ogni tipo di traffico criminale, in primo luogo droga ed armi. È il caso di Riccardo Iacona che nel suo reportage “La guerra infinita” trasmesso a settembre su Rai3, ha illustrato i meccanismi attraverso cui la Jihad è entrata in Kosovo portando un integralismo fino ad allora sconosciuto ai kosovaro-albanesi e sfruttando la protezione (in stile mafioso) delle strutture già dell’UCK, e con i soldi degli “enti caritatevoli” islamici, in particolare sauditi. Il parallelismo con l’Afghanistan negli anni ’80 è evidente: un crogiuolo di interessi illeciti e un modus operandi pressoché identico a quello che originò la guerriglia che combatté l’invasione sovietica: finanziamenti sauditi, fondamentalismo religioso, coordinamento ed addestramento da parte dei servizi occidentali (in particolare, all’epoca, la CIA, in collaborazione con l’Isi, i servizi pakistani), traffico di stupefacenti.

E quel parallelismo continua a fornire oggi i suoi frutti avvelenati. Il boom della produzione di oppio dopo l’invasione della NATO in Afghanistan, attraversando l’Asia centrale, ha il suo naturale sbocco proprio in Kosovo prima di invadere i mercati occidentali. E, se l’eroina, nel suo tragitto, trova qualche minimo ostacolo alle frontiere turche, ha la strada spianata una volta giunta nei Balcani, in cui il Kosovo rappresenta appunto lo snodo principale.

Di questi scenari è ben consapevole il generale italiano Fabio Mini, già comandante della missione NATO-KFOR in Kosovo nel periodo 2002-2003. Il generale ha dichiarato nel corso di una intervista al Corriere della Sera all’indomani della dichiarazione di indipendenza del Kosovo: “Il nuovo Stato conviene solo ai clan. Sarà un porto franco per il denaro che arriva dall’Est. L’indipendenza conviene a chi comanda: a Thaci [primo ministro kosovaro, ex comandante dell’UCK] che fa affari col petrolio, a Bexhet Pacolli [noto uomo d’affari] che ha bisogno d' un buco dove ficcare i soldi del suo mezzo impero, a Ramush Haradinaj [ex premier e comandante UCK] che è sotto processo all' Aja [in seguito assolto per insufficienza di prove dopo la morte in circostanze misteriose di alcuni testimoni chiave], ad Agim Ceku [altro ex premier e comandante UCK] che vuole diventare il generalissimo di se stesso... Del Kosovo indipendente, a questi non gliene frega niente. Come non gliene frega ai serbi. Quel che serve ai clan, d' una parte e dell' altra, è un posto in Europa che apra nuove banche. Un porto franco per il denaro che arriva dall' Est” (3).

Un simile scenario è la conseguenza diretta della guerra portata dalla NATO nei Balcani. Aldilà delle responsabilità e degli errori di uomini di Stato come Slobodan Milosevic, oggi possiamo ammettere che le sue affermazioni di lottare in Kosovo contro la penetrazione terroristica erano del tutto fondate. Anche un uomo sicuramente non sospettabile di complottismo come Paolo Mieli ha scritto: “Il presidente-fondatore del Tribunale dell' Aja, Antonio Cassese, a sorpresa ha duramente criticato la conduzione del processo a Milosevic da parte di Carla Del Ponte. La quale ha dovuto complimentarsi con lo stesso Milosevic per il modo pugnace con cui si difende. L' ex despota di Belgrado ha già messo in difficoltà molti testimoni. Ed è riuscito ad esibire un documento dell' Fbi (del dicembre 2001, cioè successivo all' attentato alle torri gemelle) in cui si parla di rapporti tra l' UCK, l' organizzazione di resistenza del Kosovo, e Al Qaeda, il gruppo terrorista che fa capo a Osama bin Laden” (4).

Ma è tutta la stampa internazionale, ed in particolare americana, ad essere perfettamente a conoscenza della situazione in Kosovo. Riporteremo, tra gli altri, solo un esempio tratto da un articolo di Michel Chossudovsky (5). Fin dal maggio 1999 il «Washington Times» scriveva: “Alcuni membri dell'Esercito di Liberazione del Kosovo che ha finanziato il suo sforzo bellico attraverso la vendita di eroina, sono stati addestrati in campi terroristi diretti dal fuggitivo internazionale Osama bin Laden, che è anche ricercato per gli attentati del 1998 a due ambasciate degli USA in Africa nei quali rimasero uccise 224 persone, inclusi 12 americani. Secondo rapporti dell'intelligence ottenuti di recente, i membri dell’UCK, adottati dall'amministrazione Clinton nei 41 giorni della campagna di bombardamenti della NATO per portare al tavolo delle trattative il presidente jugoslavo Slobodan Milosevic, sono stati addestrati in campi segreti in Afghanistan, Bosnia-Herzegovina ed altrove. I rapporti dimostrano anche che l’UCK ha arruolato terroristi islamici, membri dei Mujahideen, come soldati nel suo continuo conflitto contro la Serbia e che molti sono già stati portati di nascosto in Kosovo per unirsi alla lotta. […] I rapporti dell'intelligence documentano quello che viene descritto come un "collegamento" tra bin Laden, il milionario fuggitivo saudita, e l’UCK, compresa un'area comune di organizzazione a Tropoje, Albania, un centro per terroristi islamici. I rapporti dicono che l'organizzazione di bin Laden, nota come al-Qaeda, ha addestrato e sostenuto finanziariamente l’UCK”.

Alla luce di questi elementi appare evidente come i servizi segreti americani non solo fossero perfettamente a conoscenza da almeno quindici anni di cosa stesse avvenendo nei Balcani, ma hanno attivamente e scientificamente agito affinché tale situazione si determinasse, ovvero la creazione di una entità fantoccio, un narco-stato strutturato a vari livelli su elementi utilizzabili per ogni genere di lavoro sporco, oggi già centro nevralgico di traffici criminali a poche centinaia di chilometri dalle coste italiane, e domani possibile paradiso finanziario per il riciclaggio di denaro delle mafie di mezzo mondo.

Allora come interpretare il rapporto CIA sull’allarme terrorismo in Kosovo? Probabilmente è da annoverare nella specie degli avvertimenti o dei messaggi in codice, ma indirizzati verso chi e con quali obiettivi? Forse nei confronti dei negoziatori europei per influenzare le trattative o dell’ONU che tali accordi dovrà ratificare; forse verso le opposte fazioni di Pristina, dato che è in corso una sorta di lotta di potere interna ai vecchi comandanti dell’UCK, e qui gli obiettivi si perdono nell’inestricabile intreccio politico-affaristico-criminale che comanda a Pristina; oppure si vuole preparare il terreno per una ulteriore militarizzazione dell’area.

In ogni caso, nei giorni scorsi un attentato dimostrativo ha già colpito la presenza internazionale in Kosovo. Una bomba è scoppiata contro l’Ufficio Civile Internazionale della Ue a Pristina, mandando in frantumi le vetrate del palazzo ma senza provocare vittime (6). Nella già citata intervista al Corriere, il generale Mini, con illuminante lungimiranza, aveva avuto modo di dichiarare: “Le bombe non sono tipiche dei Balcani. Le hanno sempre messe personaggi venuti da fuori. Quando scoppiano, è il segnale che qualcuno sta ficcando il naso”.


(1) da Rinascita Balcanica, 19/11/2008
(2) da Red Voltaire, 15/06/2006
(3) da il Corriere della Sera, 16/02/2008
(4) da il Corriere della Sera, 15/04/2002
(5) Michel Chossudovsky, Kosovo: Usa e Ue appoggiano un processo politico legato al crimine organizzato, Global Research, 12/02/2008
(6) Rinascita Balcanica, 18/11/2008



Kosovo: lo status quo scricchiola con l’accordo Eulex

di Milo Drulovic e Simone Santini – clarissa.it – 19 Novembre 2008

È arrivato, contro molte aspettative, l’accordo tra Unione Europea e Serbia sulla missione Eulex, il cui compito sarà quello, dopo un passaggio di poteri, di sostituire l’UNMIK nell’amministrazione del Kosovo, la provincia che si dibatte tra autonomia ed indipendenza da Belgrado e per cui si combatté una lacerante guerra nel 1999, nel cuore dei Balcani e dell’Europa.

Da allora lo status del Kosovo è garantito dalla risoluzione 1244 dell’ONU, che prevedeva il dispiegamento di una autorità civile denominata UNMIK, con personale delle Nazioni Unite per i settori di polizia, giustizia e amministrazione civile, e della UE per la ricostruzione e sviluppo economico. L’UNMIK è coadiuvata da una forza di sicurezza (KFOR) composta da truppe NATO, circa 16mila soldati attualmente sotto il comando del generale italiano Giuseppe Emilio Gay.

Eulex(European Union Rule of Law Mission in Kosovo) sarà una struttura amministrativa europea di circa 2mila uomini, composta da forze di polizia, magistrati, avvocati e personale di dogana, che dovrebbe garantire la gestione amministrativa della provincia durante il periodo di transizione fino alla definizione finale dello status del Kosovo. Eulex erediterà dunque i compiti già svolti dalla UNMIK ma dovrebbe implementare anche funzioni che erano state previste nel 2007 dal piano del diplomatico finlandese Martti Ahtisaari, già negoziatore insieme al russo Viktor Cernomyrdin del trattato di pace tra Nato e Jugoslavia che mise fine alla guerra del ’99.

Proprio la natura e i compiti della Eulex sono stati oggetto di fortissime tensioni tra Unione Europea, Serbia, e Kosovo, auto-proclamatosi stato indipendente lo scorso febbraio. Infatti, nella definizione giuridica della missione Eulex si può nascondere il riconoscimento, o meno, della provincia quale entità statale di fatto.

La Risoluzione ONU-1244, pur decretando sul Kosovo un protettorato politico/militare, sanciva il riconoscimento della integrità territoriale della (ancora) Jugoslavia. Nella primavera dello scorso anno Ahtisaari presentava invece all’ONU un piano che prevedeva la sostanziale indipendenza di Pristina, pur dopo un periodo di transizione. Il piano fu bloccato, oltre che per la scontata opposizione della Serbia, dall’intervento energico della Russia in seno al Consiglio delle Nazioni Unite che minacciò la richiesta dell’integrale adozione della risoluzione 1244. Ed il problema sta proprio qui: quanto rivive nella missione Eulex del piano Ahtissari, e quanto rimane della risoluzione 1244 che addirittura prevedeva, dopo sei anni, il ritorno del controllo sul Kosovo da parte della Jugoslavia?

La Serbia aveva stabilito una condizione essenziale per l’accettazione dell’Eulex. La dichiarazione di neutralità della missione, ovvero che si restasse nell’ambito della risoluzione 1244. Tale condizione pare essere stata pienamente accolta. Pierre Mirel, responsabile per i Balcani occidentali della Commissione Europea, ha dichiarato che Eulex: “deve rimanere una missione neutrale e non aver alcun collegamento con il piano Ahtisaari”.

Pristina è insorta. Il premier Hashim Thaci ha dichiarato che se la missione avesse questa natura non potrebbe mai essere accettata dai kosovari perché lederebbe profondamente i loro interessi. Anzi, Eulex potrebbe essere la benvenuta solo in quanto missione in “rappresentanza” dell’Unione Europea all’interno di uno stato sovrano, quale è il Kosovo dopo la proclamata indipendenza. Ma aldilà delle parole altisonanti, ciò che preoccupa maggiormente Thaci è che nell’accordo accettato dai serbi si fa riferimento (com’è anche attualmente con l’UNMIK) alla creazione, nella regione kosovara ancora abitata dai serbi, di una entità amministrativa con funzioni di polizia in coordinamento con la missione internazionale ma il cui capo verrà designato dai comandanti dell’esercito serbo.

E se a questo si abbina la disposizione secondo cui le entrate doganali saranno ad appannaggio delle comunità locali, e solo residualmente andranno a Pristina, ecco che nei territori serbo-kosovari potrebbe costituirsi un nucleo di governo autonomo e autosufficiente sganciato dal potere centrale kosovaro-albanese.

La posta in gioco in questa partita si fa dunque alta, e non priva di forti ambiguità su tutti i lati della scacchiera. Sul fronte europeo, se da un lato il ministro degli Esteri francese (la Francia è presidente di turno della UE), Bernard Kouchner, preme sui kosovari dichiarando essere “molto strano che la missione venga rifiutata da coloro che di una tale missione hanno più bisogno”, la presidente della delegazione europea per l’Europa Sud Orientale, Doris Pack, dice: “la missione Eulex implementa il piano Ahtisaari ma non pregiudica lo Status del Kosovo perché rispetta innanzitutto la risoluzione ONU 1244”, ovvero lega insieme due statuizioni oggettivamente inconciliabili mettendo in allarme i serbi.

Il presidente Tadic si è infatti affrettato a precisare che “ci troviamo ancora in quella fase in cui le nostre proposte per la riconfigurazione della missione internazionale sono state accettate, ma su garanzia delle dichiarazioni dei funzionari e dei rappresentanti dell’UE. Tuttavia, fin quando non avremmo delle garanzie scritte, non esisterà nessun accordo”.

Ai serbi non sfugge infatti che oltre l’approvazione europea, per partire l’Eulex necessiterà del via libera dell’Onu, ed in tale sede potrebbero essere fatte anche modifiche non marginali. A Belgrado ricordano bene quando nelle trattative di Rambouillet, nel 1999, venne inserito all’ultimo momento negli accordi una clausola che prevedeva la possibilità di ingresso delle truppe Nato su tutto il territorio jugoslavo (non solo in Kosovo) con una giurisdizione che di fatto svuotava il Paese di sovranità, e ciò allo scopo di ricevere un NO alle trattative da parte di Belgrado che aprisse la strada all’intervento armato.

Ma l’opposizione serba non si fida nemmeno del presidente Tadic, che ha recentemente prospettato “la partizione del Kosovo su linee etniche se tutte le altre opzioni dovessero fallire”, ovvero la divisione in due del Kosovo, il nord serbo che dovrebbe tornare sotto Belgrado ed il sud albanese indipendente. In fondo la missione Eulex potrebbe rappresentare, in nuce, proprio tale situazione. Prioritario per Tadic non è infatti tanto il destino del Kosovo, quanto l’ingresso della Serbia nella Unione Europea, considerato elemento strategico per il futuro del paese. Per questo l’ex premier Kostunica, ora all’opposizione, ha voluto precisare non senza celare diffidenza e polemica che “se siamo tutti dell’idea che il Kosovo è Serbia, dobbiamo difendere la posizione che la Serbia farà parte dell’UE solo con Kosovo e Metohija”, ovvero la parte occidentale del Kosovo, ricca di monasteri greco-ortodossi, considerata la culla della civiltà slava-ortodossa.

Ma differenze e possibili doppi giochi non mancano neppure sul lato kosovaro-albanese. I due uomini forti di Pristina vengono entrambi dall’Uck, la guerriglia che combatté in armi contro Belgrado per l’indipendenza, e su cui non sono mancate le accuse, da parte di istituzioni internazionali come l’interpol, di traffici criminali, e che ora possono considerarsi come fratelli/coltelli appartenenti a fazioni contrapposte.

L’attuale premier Hashim Thaci fonda il suo potere sull’appoggio americano e protegge gli estremisti islamici insediati nella vallata di Drenica. Ancora più colorito il passato dell’ex premier Ramush Haradinaj, che ha la sua roccaforte nel Kosmet e dove vengono registrati i maggiori flussi di traffici illeciti in direzione Montenegro ed Albania.

Haradinaj è rientrato in patria nell’aprile del 2008 dopo essere stato assolto dal Tribunale dell’Aja, che lo giudicava per crimini di guerra, per insufficienza di prove. In realtà gran parte dei suoi accusatori e testimoni a sfavore erano stati fatti sparire o avevano nel frattempo ritrattato le accuse. Haradinaj si era dimesso da premier e consegnato spontaneamente alla giustizia internazionale per affrontare il processo.

Ora che è di nuovo al posto di comando, sono molti a domandarsi quali forme prenderà la lotta per il potere a Pristina.
Nella fase di transizione tra UNMIK ed Eulex si dovrà tenere conto di tutti questi elementi.

martedì 25 novembre 2008

Somalia: ieri pescatori, oggi pirati

Qui di seguito si riflette sul fenomeno della pirateria somala, in costante ascesa negli ultimi mesi sia per mezzi dispiegati che per obbiettivi raggiunti.


La terza guerra antiterrorismo è iniziata
di Alessandro Cislin - Galatea European Magazine - Dicembre 2008

Il silenzio è quasi assoluto, ma dopo l’Afganistan e l’Iraq c’è un’altra guerra che è stata dichiarata nel nome della lotta al terrorismo. E’ quella contro la pirateria somala che imperversa sul Golfo di Aden, che spalanca i mari asiatici alle flotte europee del Mediterraneo. Un conflitto preparato dagli Stati Uniti per ragioni militari, chiesto da Gran Bretagna e Russia per ragioni commerciali, sicché facile è stato nelle scorse settimane ottenere il sì, nell’ordine, delle Nazioni Unite, della Nato e infine dell’Unione Europea, con una decisione dalla rapidità senza precedenti, assunta dai governi senza neppure consultare il Parlamento di Bruxelles.

La Somalia dopotutto è la Somalia, e nessuna potenza al mondo ha interesse a levare veti in suo nome.
Il problema sembra inconfutabile, così come la necessità di una soluzione militare. La pirateria quest’anno ha conosciuto in quei mari un’escalation impressionante. Decine di imbarcazioni assaltate, una trentina secondo alcune fonti, un’ottantina secondo altre, per un bottino complessivo stimato ad almeno trenta milioni di euro, col corollario di premi assicurativi annui a carico delle navi commerciali cresciuti in pochi mesi da una media di novecento dollari a novemila.

Il bottino un tempo erano tesori, casse lucchettate di pietre preziose e altri gioielli sovrani. Ora l’oro è l’oro nero, oppure sono gli stessi equipaggi, da prendere in ostaggio in vista di danarosi riscatti. Le azioni sono pressoché impossibili da arginare per la rapidità con cui vengono portate. I pirati, armati fino ai denti, acquistano o affittano una cosiddetta “mother ship”, un innocuo mercantile di discreto taglio, che consente loro di prendere il largo, fino a circa duecento miglia marine, e al contempo di avvicinarsi a osservare la nave-preda senza destare sospetti. Talvolta, per verificarne l’assenza di armi difensive, all’ultimo minuto sparano un colpo. In assenza di risposta si parte, con un gommone o un’altra imbarcazione leggera, con non più di sette uomini a bordo, che in pochi secondi raggiungono il bersaglio.

La stessa natura della minaccia desta perplessità circa la proporzionalità della risposta, perfino tra i militari. Dal 15 ottobre è stato posizionato sulle coste somale lo “Standing naval Maritime Group” (SNMG2) della Nato, una flotta di sette navi da guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Italia, Grecia e Turchia. Cinque fregate, una nave appoggio e l’imbarcazione ammiraglia, il cacciatorpediniere Durand De la Penne, guidata dall’italiano Giovanni Gumiero, fornita di missili, siluri, cannoni ed elicotteri.

Il comando è però a rotazione, e si muove permanentemente agli ordini dell’ammiraglio statunitense Mark P. Fitzgerald, che dirige le forze navali americane in Europa, lo stesso che pochi mesi fa aveva detto: “c’è poco che possiamo fare per fermare i pirati”. È come schierare un esercito regolare contro la guerriglia, come il Vietnam, l’Iraq, l’Afganistan, applicati alle dinamiche del mare. Gli assalti dei bucanieri sono talmente fulminei che risultano di fatto inarrestabili da un’imbarcazione terza, per quanto imbottita di sofisticati radar ed esplosivi.

C’è una sola cosa che una nave da guerra è in grado di fare in tali contesti: sparare all’impazzata contro natanti sospetti, col rischio di stragi di innocenti e di civili, esattamente quel che accade nelle citate zone di conflitto. E perché ciò succeda serve una condizione a monte, e cioè l’assenza di “regole di ingaggio”, e questo è effettivamente il caso, sia nella risoluzione 1838 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu del 7 ottobre scorso, sia nella delibera della Nato del successivo 11 ottobre, sia nella decisione dell’Unione Europea del 10 novembre scorso.

Quest’ultima ha una motivazione che suona ancor più stonata rispetto alle forze che saranno dispiegate a partire da dicembre, ovvero altre navi da guerra di nove paesi (Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, Belgio, Olanda, Svezia, Lituania e Cipro), guidate dal quartier generale britannico di Northwood. Mentre il Consiglio di Sicurezza affermava che si tratta di difendere i commerci, ossia in primis circa il 30% della produzione petrolifera mondiale che transita sul Golfo di Aden, l’Unione Europea, per bocca dell’Alto Rappresentante agli Esteri Solana (ovvero l’ex numero uno della Nato), con cotanta flotta si arroga solo l’obiettivo di proteggere i periodici attracchi nel Corno d’Africa di una nave di aiuti del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.

La sproporzione appare grossolana ma l’intento irreprensibilmente nobile, tanto più che a invocare l’intervento militare è stato anche il governo di Mogadiscio. Anche qui peraltro non tutti i conti sembrano tornare. Tra i clan più attivi tra i pirati del Golfo svetta il Majarteen che, oltre a dominare la regione nordorientale del Puntland, autoproclamatasi indipendente dieci anni fa, è anche il gruppo di appartenenza del presidente somalo Abdullah Yusuf Ahmed.

Ora, che i bucanieri beneficino di finanziamenti o quantomeno di complicità governative non sarebbe una novità, data l’enorme tradizione di “corsari” al soldo delle più svariate corone. Che però ad armarli siano le stesse flotte che poi dichiaran loro guerra è un po’ più anomalo. La tappa più recente del contributo militare americano alla Somalia risale a prima del 2006, col fallito tentativo della Cia di rovesciare le Corti Islamiche.

Con gli islamici al potere Mogadiscio ha conosciuto l’unico periodo di stabilità dell’ultimo trentennio ma, secondo la Casa Bianca, il paese rischiava e rischia di diventare il nuovo Afganistan, ossia il terreno di addestramento globale per i terroristi più o meno affiliati ad Al Quaeda. Di conseguenza, il bombardamento del gennaio 2007 che li ha espulsi e la successiva occupazione del paese da parte dei militari dell’Unione Africana, ovvero le truppe etiopiche, sono stati portati col coordinamento della base americana di Camp Lemonier, a Djibouti, con tanto di supporto logistico di mezzi della Nato.

L’afflusso di armi del resto si era intensificato anche negli anni precedenti, nonostante il regime di embargo, con forniture belliche ai signori della guerra accertate dalle Nazioni Unite e provenienti da tutti i paesi limitrofi più l’Italia.
Il conflitto civile non dà del resto a tutt’oggi segni di cedimento, con controffensive e attentati di matrice islamica che si susseguono a ritmo quotidiano. Gli Stati Uniti hanno quindi valutato che il supporto esterno non basta più, istituendo a Stoccarda un apposito comando Nato per il continente nero, l’Africom.

La guerra alla pirateria somala è stata la sua prima decisione, se non il primo pretesto operativo per una missione che appare orientata non tanto a contrastare qualche bucaniere quanto a condizionare quel che accade all’interno della Somalia, nonché, per esplicita ammissione del Pentagono, per fornire appoggio a eventuali operazioni in Golfo Persico: oggi l’Iraq, domani chissà.

A pensar male ci si azzecca, specie se si va a vedere il contesto in cui ebbero inizio i primi addestramenti anti-pirateria della marina militare statunitense. Era l’ottobre del 2004, un anno in cui gli attacchi dei pirati somali furono solo un paio, una cifra ridicola rispetto a quel che accade in tutti gli altri mari.

L’antipirateria americana è dunque nata curiosamente prima della pirateria somala. E il recente boom di quest’ultima non è stato nutrito solo dall’afflusso di armi dal Nord. Pesa naturalmente la dilagante povertà cui è costretto un paese in costante conflitto, il cui prodotto interno lordo è costituito dal quaranta per cento dagli aiuti, sicché l’attività piratesca diventa l’unica fonte di sostentamento possibile per intere province.

E pesa anche lo scandalo, parzialmente documentato da qualche inchiesta giornalistica, di una ricchissima fauna marina falcidiata dalla pesca illegale di navi estere, nonché da attività segrete di scarico di rifiuti da parte dei paesi mediterranei.

Dal poco che si apprende da qualche inchiesta indipendente sui famigerati pirati somali, risulta infatti che si tratta in realtà di pescatori incazzati. Sono amati e rispettati nei loro villaggi, che si adoperano perfino in tradizionali rituali all’alba delle loro gesta. Sono ritenuti un “buon partito” dalle donne, in quanto percepiti non come delinquenti ma benefattori.

Loro stessi negano l’epiteto di “pirati”, ergendosi invece a difensori del loro mare devastato. La loro più colossale impresa di quest’anno è anche la più eloquente del gioco sporco sul quale si sono scagliati, il sequestro di una grossa nave ucraina che stava per approdare nel porto keniano di Mombasa. Non c’erano alimenti, e non c’era neppure petrolio. C’era un enorme carico di armi e una trentina di carri armati di fabbricazione russa.

Il ministro piu’ bello del mondo…..

Qui di seguito un affresco sul ministro "piu’ bello del mondo", secondo la definizione data da un quotidiano tedesco nel maggio scorso subito dopo il giuramento del governo.

Si puo’ pienamente concordare con questo giudizio, anche perche’ e’ l’unico aggettivo "positivo" che possa essere affiancato al nome di tale ministro.


Mara, ministro dell’inopportunita’
di Rosa Ana De Santis – Altrenotizie – 25 Novembre 2008

L’abbiamo vista sorridente e composta alle Invasioni Barbariche. Più vigorosa e rigida da Matrix. Un soldato del partito, una tifosa indottrinata a dovere che ha studiato con cura la propaganda delle virtù berlusconiane. Bellissima. E’ il nostro Ministro delle Pari Opportunità. In soli due anni un’ascesa repentina, una cometa nel panorama istituzionale nostrano. Lei, che di stelle se ne intende, a destra. Così titola il suo libro. Pronta a difendersi dalla ferocia - come lei la chiama - delle insinuazioni che le piovono addosso. Quelle per cui sembra strano e suscita dubbi, a tratti ilarità, che in cosi poco tempo una giovane donna, il cui successo mediatico stava nelle sue forme esuberanti ora castigate da abiti d’occasione, con così breve esperienza politica potesse arrivare a fare il ministro. Rimangono dubbi su presunte scorciatoie, ma certezze in un impegno sul campo quasi inesistente. Intercettazioni sì o intercettazioni no. Perché non c’entra nulla l’anagrafica, il genere e la sua indubitabile bellezza. Tornano utili come argomenti di difesa, ma soffrono di un eccesso di ingenuità.

Alle persone di buon gusto i processi fatti nelle piazze del mercato, con linguaggio crudo e di facile tinteggiatura populista, non piacciono. E per questo non è piaciuto lo show di Sabrina Guzzanti. Ma il Ministro dovrà fare lo sforzo di comprendere che non tutti abbiano capito il perché le sia stato affidato questo incarico istituzionale cosi alto. A lei che viene da una laurea come tanti, da un passato di soubrette anche poco parlante, da una ridotta - se non quasi inesistente - esperienza politica.

Non se la potrà cavare facilmente con la teoria abusata della “politica del fare” e con il criterio della sua giovane età. Non le par vero di poter dire che anche il presidente designato USA sia un giovane uomo. Peccato che Obama nella politica sia cresciuto dagli anni della scuola, che di politica abbia vissuto da sempre. E che, a differenza di Mara, avendo qualcosa da dire, ha avuto qualche decina di milioni di voti per fare. Ma a Mara interessa il dato anagrafico. E’ tipico della scuola Berlusconi tagliare le cose a metà, leggere una parte per il tutto - quasi sempre la più insignificante - adescare il battibecco antisinistra piuttosto che rispondere alle domande. E Mara Carfagna cade proprio in questo trappolone. Dice che “Silvio fa quello che vuole, lui è così”, senza che gli venga in mente che il suo Silvio dovrebbe fare quel che deve e non quel che vuole. Una commediante dei dieci comandamenti di Silvio. Una scena irriverente per un Ministro.

Così pensa di poter liquidare con un “affatto traumatico” il passaggio dall’essere elettrice del Movimento Sociale a militante di Forza Italia, peccato che su quel confine ci passi un fiume di pensiero e di cultura politica. Ma forse il Ministro l’ignora. Lei è per la politica del fare. “Affatto traumatico” viene da pensare il passaggio da soubrette all’impegno politico. Peccato che solo lei, il Ministro Carfagna, ci veda una linea di assoluta coerenza e continuità. Insomma beata lei Ministro che vive in modo indolore passaggi e salti che per qualsiasi persona ragionevole costerebbero fatica immensa e rivisitazione profonda di sé.

Lei se la cava con il menù del giorno. Con l’elenco delle cose da fare. Pare di immaginarsela blindata nella sua stanza a lavorare instancabile ai provvedimenti e alle proposte di legge. Lei che divenne famosa per le pose indecenti, emana decreti contro l’indecenza. Lei che guida il Dicastero delle Pari Opportunità non avendo attraversato una pagina di pensiero delle donne e avendo fondato il suo successo mediatico sull’assoluta disparità storica che sempre ha vessato le donne in condizioni d’inferiorità sociale. L’esposizione del corpo, la misura del valore con le misure, il nudo come canale di conoscenza di sé. Eppure questa contraddizione le fa sgranare gli occhi quasi incredula, lei non la percepisce. O non la capisce.

Vorremo poter dire altro, ma il curriculum non è ricco. Sappiamo che la prostituzione è diventata un reato e che soffocare un problema è la ricetta che predilige per sanare ferite sociali cosi profonde che vengono da piaghe culturali forse in parte insanabili. Basta non vederle per strada. In questo incarna la natura più oscura del pensiero di destra, in questo non c’è nulla che sia autenticamente liberale, Ministro. Ma lei non lo percepisce. O non capisce.

Una sapiente intervista fatta da Daria Bignardi basta a farla cadere come una bambina impacciata nella diatriba sul conflitto d’interessi o su che fina abbiano fatto i comunisti. Non si capisce se li rimpianga o li maledica. Non si capisce se ne stimi il profondo senso dell’etica o se lo disconosca. Non si capisce o non capisce. Ma chissà cosa conosce delle sorti della morale e dell’etica nell’ideologia comunista. Come usa sempre dire, staremo a guardare le cose fatte. Ma la partenza non poteva sgombrare d’un colpo anni e anni di faticosa “Piazza Grande” e di calendari di sicuro successo. Solo lei può pensare di entrare al Parlamento uscendo dai Fatti vostri con Magalli, come se calcasse lo stesso sentiero. Insomma questo eccesso di ingenuo stupore o è studiato ad arte o adombra perplessità più offensive ancora della sua forse ridotta capacità politica.

L’umiltà di cui si gloria avrebbe dovuto dissuaderla da un incarico per il quale alcuna persona di buon senso si sarebbe potuta sentire pronta dopo soli due anni di militanza politica. L’umiltà avrebbe dovuto farle trascorrere un discreto periodo di tempo a studiare e a vivere nella politica prima di arrivare a ricoprire un ruolo cosi importante. Avrà fatto cosi per la recitazione e il balletto, non pensava di dover usare altrettanto riguardo per le Istituzioni del suo Paese? Ma lei ha risolto tutto in fretta. Cambiando pose e trucco.

Questo soltanto avrebbe potuto darle nel tempo la credibilità che ora esige mostrando poco altro che i suoi occhioni, l’etichetta della lavoratrice instancabile e le incursioni un po’ maldestre nella storia. Che fanno di lei una secchiona - direbbe l’onda studentesca - più che una donna di cultura con spirito critico. Non ci s’improvvisa politici, non è un mestiere, non esiste un collocamento. Ma della religione pubblica e del pensiero politico lei e il suo manipolo di cloni non si occupano. Non perdono tempo. E si vede.

Professano una strampalata politica liberal, mentre dimostrano senza troppi imbarazzi personali la più pietosa e riverente adulazione personale per il loro capo. Che ordina. E lei, la ministro di Silvio, esegue passo passo ogni pezzo del copione. Teleguidata, telecomandata, portata per mano. Come ai tempi di Mengacci. Qualsiasi cambiamento credibile non si risolve cambiando d’abito. Tagliando capelli e indossando camice abbottonatissime. Lei le contraddizioni le risolve così. Non le percepisce, o non le capisce. In trasmissione ha detto che ognuno è ciò che fa. E lei è ciò che ha fatto.

lunedì 24 novembre 2008

Piani di “salvataggio”: ora e’ il turno di Citigroup


Anche oggi si segnala un altro fallimento nel settore bancario USA.

Ora e’ il turno del gruppo Citigroup a dover essere salvato dal Tesoro USA.

Washington ha annunciato che investirà 20 miliardi di dollari nell’ormai ex colosso finanziario in pesante difficoltà per il crollo dei suoi titoli, il cui valore si e’ dimezzato la settimana scorsa.


I 20 miliardi che saranno "investiti" dalle autorità USA in azioni privilegiate di Citi rientrano nei 700 miliardi stanziati per il settore bancario e vanno ad aggiungersi ai 25 miliardi già accordati alla banca in questo ambito.


Il piano di salvataggio, annunciato ieri dal Tesoro, Federal Reserve e Federal Deposit Insurance Corporation (l'organo di sorveglianza del settore bancario), prevede che Washington garantisca "protezione contro la possibilità di inusuali grandi perdite" fornendo 306 miliardi di dollari di attivo in cambio di un'assunzione di partecipazione nelle azioni di Citigroup.

Citigroup infatti emetterà azioni privilegiate per altri 7 miliardi di dollari, a favore di Tesoro e FDIC per remunerarli delle garanzie accordate.


Questo intervento si differenzia dai precedenti in quanto non prevede né la messa sotto completa tutela del gruppo (come Fannie Mae e Freddie Mac), né la nazionalizzazione (come in Aig), né la vendita a un altro gruppo (come Bear Stearns). E le perdite su cui interviene la garanzia di Tesoro e FDIC sono legate ai prodotti strutturati legati a mutui subprime (i cosiddetti titoli "tossici"), che "resteranno nei conti di Citigroup", non verranno cioè acquistati dalle autorità Usa (come era nelle iniziali intenzioni anti-crisi), ma solo garantiti.


Non sono pero’ previsti cambiamenti nel management, ma la banca ha accettato di procedere a "restrizioni" nella remunerazione dei suoi dirigenti e si è impegnata ad attuare le misure prescritte dalla FIDC in materia di prodotti ipotecari strutturati. Inoltre non potrà pagare dividendi superiori a 1 cent per azione per tre anni senza avere il consenso del Tesoro. Attualmente il dividendo trimestrale è di 16 cent ad azione.


Si tratta comunque dell’ennesimo disperato tentativo di calmare le Borse mondiali, Wall Street in primis, ma che non risolve assolutamente nulla.

Anzi, aggrava ulteriormente a lungo termine le condizioni dell’economia reale globale, gia’ allo stremo.



La Grande Depressione del XXI secolo: il crollo dell’economia reale

di Michel Chossudovsky – Global Research – 15 Novembre 2008

Traduzione a cura di JJULES per www.comedonchisciotte.org


La crisi finanziaria si sta aggravando, con il rischio di scompaginare seriamente il sistema dei pagamenti internazionali. Questa crisi è molto più grave della Grande Depressione. Ne sono interessati tutti i principali settori dell’economia globale. Le ultime voci riferiscono che il sistema delle Lettere di Credito e del trasporto internazionale, che costituiscono la linfa del sistema commerciale internazionale, sono potenzialmente a rischio.

Il “salvataggio” bancario proposto nel cosiddetto Programma di Aiuto dei Beni in Difficoltà (TARP) non è una “soluzione” alla crisi ma la “causa” di un ulteriore crollo.

Il “salvataggio” contribuisce ad un ulteriore processo di destabilizzazione dell’architettura finanziaria. Trasferisce grandi quantità di denaro pubblico, a spese del contribuente, nelle mani di finanzieri privati. Porta ad un aumento vertiginoso del debito pubblico e ad una centralizzazione senza precedenti del potere bancario. Inoltre, il denaro del salvataggio è utilizzato dai giganti finanziari per mettere al riparo le acquisizioni societarie sia nel settore finanziario che nell’economia reale.

A turno, questa concentrazione senza precedenti di potere finanziario conduce al fallimento interi settori industriali e dell’economia dei servizi, portando al licenziamento di decine di migliaia di lavoratori. Le alte sfere di Wall Street sovrastano l’economia reale. L’accumulo di grandi patrimoni di denaro da parte di una manciata di conglomerati di Wall Street e dei loro hedge fund associati viene reinvestito nell’acquisizione di beni reali. La ricchezza di carta viene trasformata nella proprietà e nel controllo dei beni produttivi reali, tra cui l’industria, i servizi, le risorse naturali, le infrastrutture e via dicendo.

Il crollo della domanda dei consumatori

L’economia reale è in crisi. L’aumento risultante della disoccupazione sta causando una drastica diminuzione della spesa dei consumatori che, a sua volta, si ripercuote violentemente sui livelli della produzione di beni e servizi. Esasperata da politiche macroeconomiche neoliberali, questa spirale in discesa è cumulativa, e alla fine porta ad un’eccedenza dell’offerta di commodities.

Le imprese non riescono a vendere i loro prodotti perché i lavoratori sono stati licenziati. I consumatori, vale a dire la gente che lavora, sono stati privati del potere di acquisto necessario per alimentare la crescita economica. Con i loro miseri salari non si possono permettere di comprare le merci prodotte.

La sovraproduzione genera una serie di fallimenti

Le giacenze di merci invendute si accumulano. Alla fine, la produzione crolla; l’offerta di commodities diminuisce fino alla chiusura degli impianti produttivi, compresi gli stabilimenti di montaggio.

Nella fase di chiusura degli stabilimenti, i lavoratori diventano disoccupati. Migliaia di imprese fallite sono estromesse dal panorama economico, portando ad una caduta della produzione.

Povertà di massa e una diminuzione del tenore di vita in tutto il mondo sono il risultato di salari bassi e disoccupazione generalizzata. E’ la conseguenza di un’economia globale pre-esistente di manodopera a basso costo, ampiamente caratterizzata da stabilimenti di montaggio con salari miseri nei paesi del Terzo Mondo.

La crisi attuale estende i contorni geografici dell’economia della manodopera a basso costo, portando all’impoverimento di ampi settori della popolazione nei cosiddetti paesi sviluppati (tra cui la classe media).

Negli Stati Uniti, in Canada e in Europa occidentale l’intero settore industriale è potenzialmente a rischio.

Abbiamo a che fare con un processo di ristrutturazione economica e finanziaria a lungo termine. Nella sua prima fase, iniziata negli anni ‘80 durante l’epoca reaganiana e thatcheriana, le imprese di livello regionale e locale, le aziende agricole a conduzione famigliare e le piccole imprese furono soppiantate e distrutte. A turno, il boom di fusioni e acquisizioni degli anni ‘90 condusse al consolidamento simultaneo di grandi entità societarie sia nell’economia reale che nei servizi finanziari e bancari.

Negli ultimi sviluppi, comunque, la concentrazione del potere bancario è stata a spese della grande industria. Il tratto distintivo di questa particolare fase della crisi è la capacità dei giganti finanziari (attraverso il loro controllo predominante sul credito) non solo di creare il caos nella produzione di beni e servizi ma anche di indebolire e distruggere grandi entità societarie dell’economia reale.

I fallimenti stanno avvenendo in tutti i principali settori di attività: manufatturiero, telecomunicazioni, rivendite al dettaglio, centri commerciali, compagnie aeree, hotel e turismo, per non parlare del settore immobilire e dell’edilizia, vittime del crollo dei mutui subprime.

General Motors ha confermato che potrebbe “rimanere all’asciutto entro pochi mesi, il che potrebbe portare alla più grande dichiarazione di fallimento della storia americana.” ( USNews.com,11 novembre 2008). A turno, questo si ripercuoterebbe a catena sull’indotto. Una stima delle perdite di posti di lavoro nell’industria automobilistica americana varia dalle 30.000 alle 100.000 unità (ibidem) Negli Stati Uniti, le società di vendita al dettaglio sono in difficoltà: i prezzi delle azioni delle catene di grandi magazzini JC Penney e Nordstrom sono crollati. Circuit City Stores Inc. ha chiesto la protezione fallimentare. Le azioni di Best Buy, la catena di vendite al dettaglio di componenti elettronici, sono precipitate. Il gruppo Vodafone, la più grande società al mondo di telefonia mobile, e gli Hotel InterContinental sono in difficoltà, in seguito al crollo dei loro titoli azionari (AP, 12 novembre 2008). In tutto il mondo, più di una ventina di compagnie aeree sono fallite nel 2008, aggiungendosi ad una striscia di fallimenti già folta negli ultimi cinque anni ( Aviation and Aerospace News, 30 ottobre 2008). La seconda compagnia aerea commerciale danese, Stirling, ha dichiarato fallimento. Negli Stati Uniti, una lista crescente di società immobiliari hanno già presentato richiesta di protezione fallimentare. Negli ultimi due mesi, ci sono state numerose chiusure di stabilimenti in tutti gli Stati Uniti che hanno portato al licenziamento definitivo di decine di migliaia di lavoratori. Queste chiusure hanno interessato numerosi settori chiave dell’attività economica tra cui industrie farmaceutiche, industrie automobilistiche e il loro indotto, l’economia dei servizi e via dicendo.

Gli ordinativi industriali americani sono diminuiti drasticamente. La società di ricerche Autodata ha reso noto che in ottobre “le vendite di automobili e piccoli autocarri è scesa del 27 per cento rispetto all’anno precedente.” ( Washington Post, 3 ottobre 2008).

Disoccupazione

Secondo l’Ufficio Statistico del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, solo nel mese di ottobre si sono persi altri 240.000 posti di lavoro.

“Il livello di occupazione dei lavoratori dipendenti è sceso di 240.000 unità in ottobre, e il tasso di disoccupazione è salito dal 6,1 al 6,5 per cento, ha riferito oggi l’Ufficio Statistico del Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. La diminuzione di ottobre del livello di occupazione ha fatto seguito alla diminuzione di 127.000 unità in agosto e di 284.000 unità in settembre, riveduta e corretta. Il livello di occupazione è sceso di 1,2 milioni di unità nel primi 10 mesi del 2008 e più della metà di questa diminuzione è avvenuta negli ultimi tre mesi. In ottobre, le perdite di posti di lavoro sono proseguite nel settore manufatturiero, delle costruzioni, in diverse industrie fornitrici di servizi...

“Tra i disoccupati, il numero di persone che hanno perso il proprio posto di lavoro e non si aspettano di essere richiamati è salito di 615.000 unità fino a 4,4 milioni in ottobre. Negli ultimi 12 mesi, la dimensione di questo gruppo è aumentata di 1,7 milioni.” ( Ufficio Statistico del Dipartimento del Lavoro, novembre 2008)

Le cifre ufficiali non descrivono la gravità della crisi e il suo impatto devastante sul mercato del lavoro perché la maggior parte delle perdite di posti di lavoro non viene riportata.

La situazione nell’Unione Europea è ugualmente inquietante. Un recente rapporto britannico mette in evidenza il rischio potenziale di una disoccupazione di massa nell’Inghilterra nord-orientale. In Germania, un rapporto pubblicato ad ottobre indica che il 10-15% dei posti di lavoro nel settore automobilistico tedesco potrebbe andare perso.

Tagli occupazionali sono stati annunciati anche negli stabilimenti General Motors e Nissan-Renault in Spagna. Le vendite di nuove auto in Spagna sono diminuite del 40 per cento in ottobre rispetto alle vendite nello stesso mese dell’anno precedente.

Fallimenti e pignoramenti: un’operazione che porta denaro ai giganti finanziari

Tra le società sull’orlo del fallimento alcune rappresentano delle operazioni altamente redditizie e remunerative. La domanda importante è: chi acquisisce la proprietà delle grandi imprese industriali fallite?

I fallimenti e i pignoramenti sono un’operazione che porta denaro. Con il crollo dei valori azionari, le società quotate subiscono una forte diminuzione del prezzo delle loro azioni, che incide immediatamente sulla loro affidabilità creditizia e sulla loro possibilità di prendere a prestito e/o rinegoziare i debiti (che sono basati sul valore quotato dei loro beni). Gli speculatori istituzionali, gli hedge fund e tutti gli altri hanno approfittato di questa manna dal cielo.

Provocano il crollo delle società quotate attraverso vendite short e altre operazioni speculative e poi approfittano dei loro guadagni speculativi su vasta scala.

Secondo un articolo pubblicato sul Financial Times, c’è la prova che il crollo dell’industria automobilistica americana sia stato in parte il risultato di una manipolazione: “General Motors e Ford hanno perso il 31 per cento a 3,01 dollari e il 10,9 per cento a 1,80 dollari nonostante le speranze che Washington potesse trarre in salvo l’industria dall’orlo dell’abisso. La caduta è arrivata dopo che Deutsche Bank ha stabilito un prezzo base pari a zero su General Motors.” (Financial Times, 14 novembre 2008, corsivo aggiunto)

I finanzieri stanno facendo shopping sfrenato. I 400 miliardari americani di Forbes stanno aspettando nel limbo. Una volta consolidata la loro posizione nell’industria bancaria, i giganti finanziari tra cui JP Morgan Chase, Bank of America ed altri utilizzeranno i profitti del denaro della manna dal cielo e del denaro del salvataggio del programma TARP per estendere ulteriormente il loro controllo sull’economia reale.

Il passo successivo consisterà nel trasformare i beni liquidi, vale a dire la ricchezza di cartamoneta, nell’acquisizione di beni dell’economia reale.

A questo proposito, la Berkshire Hathaway Inc. di Warren Buffett è un importante azionista di General Motors. Di recente, in seguito al crollo dei valori azionari a ottobre e novembre, Buffett ha aumentato la propria partecipazione nel produttore petrolifero ConocoPhillips, per non parlare di Eaton Corp, il cui prezzo alla Borsa di New York è scivolato del 62% rispetto al suo massimo raggiunto a dicembre 2007 (Bloomberg).

L’obiettivo di queste acquisizioni sono le numerose imprese altamente produttive del settore industriale e dei servizi, che sono sull’orlo del fallimento e/o il cui valore azionario è crollato.

I gestori del denaro stanno raccogliendo i cocci.

La proprietà dell’economia reale

Come risultato di questi sviluppi, che sono direttamente collegati al crollo finanziario, l’intera struttura della proprietà dei beni dell’economia reale è in agitazione.

La ricchezza di carta accumulata attraverso l’insider trading e la manipolazione dei mercati azionari viene utilizzata per acquisire il controllo sui beni dell’economia reale, subentrando alle strutture di proprietà pre-esistenti.

Abbiamo a che fare con una ripugnante relazione tra economia reale e settore finanziario. I conglomerati finanziari non producono commodities ma, sostanzialmente, fanno soldi attraverso la gestione di transazioni finanziarie. Utilizzano i proventi di queste transazioni per acquisire delle autentiche società per azioni dell’economia reale che producono beni e servizi per i consumi delle famiglie.

Per un amaro scherzo del destino, i nuovi proprietari dell’industria sono gli speculatori istituzionali e i manipolatori finanziari. Stanno diventando i nuovi capitani d’industria, subentrando non solo alle strutture di proprietà pre-esistenti ma collocando anche i loro amici nelle poltrone della gestione societaria.

Nessuna riforma è possibile sotto il Consenso di Washington e Wall Street

Il 15 novembre il Summit Finanziario dei G20 a Washington conferma il consenso di Washington e di Wall Street. Anche se formalmente presenta un progetto per ripristinare la stabilità finanziaria, in pratica l’egemonia di Wall Street rimane intatta. La tendenza è verso un sistema monetario unipolare dominato dagli Stati Uniti e sostenuto dalla superiorità militare americana.

Agli artefici del disastro finanziario sotto la legge Gramm-Leach-Bliley del 1999 di Modernizzazione dei Servizi Finanziari è stato affidato il compito di attenuare la crisi, che loro stessi hanno creato. Sono loro la causa del crollo finanziario. Il Summit Finanziario dei G20 non mette in discussione la legittimità degli hedge fund e dei vari strumenti del commercio dei derivati. Il comunicato finale riporta un impegno confuso quanto impreciso “a regolamentare meglio gli hedge fund e creare una maggiore trasparenza nelle securities legate ai mutui in un tentativo di frenare il tracollo dell’economia globale.”

Una soluzione a questa crisi può venire solamente attraverso un processo di “disarmo finanziario”, che sfida con forza l’egemonia degli istituti finanziari di Wall Street, compreso il loro controllo sulla politica monetaria. Il “disarmo finanziario” richiederebbe anche il congelamento degli strumenti di negoziazioni speculative, smantellando gli hedge fund e democratizzando la politica monetaria. Il termine “disarmo finanziario” fu coniato per primo da John Maynard Keynes negli anni ’40.

Obama appoggia la deregolamentazione finanziaria

Barack Obama ha abbracciato il consenso di Washington e Wall Street. Per un amaro scherzo del destino, l’ex parlamentare Jim Leach, il Repubblicano che aveva presentato nel 1999 alla Camera dei Rappresentanti la legge di Modernizzazione dei Servizi Finanziari, ora consiglierà Obama nel formulare una soluzione provvidenziale alla crisi. Jim Leach, Madeleine Albright e l’ex Segretario al Tesoro Larry Summers, che ebbe anch’egli un ruolo fondamentale nell’approvazione della legge di Modernizzazione dei Servizi Finanziari, hanno partecipato il 15 novembre al Summit Finanziario dei G20, come parte della squadra di consulenti del presidente eletto Barack Obama.

“Il presidente eletto Barack Obama e il vicepresidente eletto Joe Biden hanno annunciato che l’ex Segretario di Stato Madeleine Albright e l’ex parlamentare Repubblicano Jim Leach saranno disponibili ad incontrare le delegazioni al Summit dei G20 a loro nome. Leach e Albright terranno questi incontri non ufficiali alla ricerca di indicazioni dalle delegazioni ospiti per conto del presidente eletto e del vicepresidente eletto.” (mlive.com, 15 novembre 2008).