venerdì 31 dicembre 2010

Fiat 2011

Una serie di articoli sull'accordo per Pomigliano e Mirafiori firmato pochi giorni fa tra Fiat e Fim, Uilm, Ugl metalmeccanici, Fismic, l'Associazione dei quadri Fiat.

Sigle sindacali guidate da Cisl e Uil mentre la Cgil si è dichiarata contraria all'accordo, con la Fiom che ha già proclamato uno sciopero di 8 ore dei metalmeccanici per il 28 Gennaio.

P.S. Buon Anno....


Fiat voluntas tua
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 30 Dicembre 2010

L’accordo con la Newco Fiat, siglato ieri dai sindacati governativi guidati da Bonanni e Angeletti con la benedizione di un esultante Sacconi, che coglie così la sua vendetta covata da anni contro la Cgil, rappresenta la quintessenza del nuovo modello di relazioni industriali.

Che possono, sostanzialmente, essere così riassunte: il comando d’impresa sostituisce la dialettica tra le componenti sociali e il governo del Paese abbandona definitivamente il ruolo terzo per entrare a piedi uniti nel piatto di una vendetta ideologica sognata da decenni.

L’interesse delle imprese diventa l’unico riferimento della società, la quale perde ogni funzione di rappresentanza degli interessi generali per trasformarsi in fornitrice silente di braccia a basso costo e menti sgombre da diritti di qualsivoglia natura.

Il contratto nazionale di lavoro, che sancisce la sintesi tra i diversi bisogni delle parti sociali, viene nei fatti abolito per assegnare alla contrattazione d’impresa il luogo unico della decisionalità in quanto luogo unico dell’affermazione d’interessi.

E’ uno strappo violento e volgare alle regole stabilite, che scavalca le organizzazioni di categoria da un lato e il ruolo del governo dall’altro, che ferisce nel profondo la democrazia italiana, già gravemente malata.

Marchionne gongola, perfettamente cosciente che negli stessi States, pedissequamente citati come fonte ispiratrice dei suoi modelli industriali, nessuna amministrazione, nemmeno repubblicana, avrebbe mai permesso un accordo di questo tipo.

Perché quanto siglato non ha nessuna attinenza con la necessità di attrezzare un gruppo industriale alla sfida della concorrenza internazionale, è solo una dichiarazione di guerra contro il sindacato. Cioè contro la Cgil e, più significativamente, contro la Fiom, principale organizzazione dei metalmeccanici.

Questo è il senso dell’accordo: lo scambio vergognoso tra lavoro e diritti. Non c’è nessuna idea di come reinventare e riprogrammare la produzione industriale nell’era della globalizzazione e della crisi profonda del turbo capitalismo. Semplicemente, si ritiene il comando d'impresa come l'alfa e l'omega delle politiche del lavoro.

S’instaura quindi una lettura delle politiche industriali che, guardandosi bene dal proporre cosa e quanto produrre in relazione al fabbisogno interno ed alle strategie di import-export, si concentra sul come, proponendosi di fronte alla competizione internazionale con una equazione semplice: salari e diritti da terzo mondo per reazlizzare profitti da primo mondo.

Quest’accordo sancisce che lo Statuto dei lavoratori, come fosse una Multipla, viene rottamato. I diritti, sanciti dalla Costituzione e dalla giurisprudenza del lavoro, diventano un pallido ricordo. La funzione sociale dell’impresa, prevista dalla Carta, diviene un fastidioso orpello da cancellare magari per via legislativa, non appena si presentassero le condizioni per una riforma costituzionale sarà tra i primi articoli della Carta ad essere sbianchettato.

La storiella dell’adeguamento ai tempi di crisi dei diritti viene spacciata pressocchè all’unanimità, ma è palesemente fumo negli occhi. Perché la questione non è se la Fiat continua o no ad investire in Italia. L’Italia ha garantito alla Fiat, per oltre mezzo secolo, privilegi e sostegni finanziari senza i quali l’azienda torinese avrebbe chiuso.

Senza i pesanti costi sociali sostenuti dalla fiscalità generale, l’azienda della famiglia Agnelli non avrebbe avuto la possibilità di sbagliare tutta la sua politica di crescita e sviluppo industriale e rimanere comunque a drenare risorse e accantonamenti.

Devono allora essere dei marziani i manager tedeschi della Wolkswagen, che continuano a tenere la leadership del mercato e ad aumentare i profitti, pur pagando salari di gran lunga superiori a quelli italiani e senza mettere in discussione la struttura delle relazioni industriali.

Invece però di passare al vaglio le abnormi responsabilità di un management incapace e di una famiglia che si è distinta anche nell’esportazione illecita di capitali all’estero, la Fiat sposta ulteriormente l’asticella con l’ennesimo ricatto che propone al paese, confidando in un governo e nella sua capacità di condizionamento dei sindacati gialli per nascondere la polvere dell’incapacità di stare sul mercato sotto il tappeto delle regole.

Se Marchionne pensa di vendere 30 milioni di auto in Europa nel corso del 2011, allora più che piegare i lavoratori italiani dovrebbe piegare i consumatori europei al delirio di Corso Marconi.

Ma se l’accordo e la definitiva rottura sindacale rappresentano una tragedia, la farsa è rappresentata dal Pd. Che - si poteva dubitarne? - è diviso sulla valutazione dello stesso.

Intendiamoci, il PD è ormai diviso su tutto e nemmeno sulle previsioni del tempo il suo gruppo dirigente potrebbe trovare un minimo di sintesi che facesse vagamente intravvedere brandelli di sinistra.

Bene ha fatto Landini a suggerire agli esponenti del PD di andare in fabbrica invece di stare sbracati sulle onorevoli poltrone. “Andate alla catena di montaggio e poi vedremo se continuerete a ragionare in questo modo” ha detto il leader FIOM a Fassino e Chiamparino, che si sono distinti nel lodare l’accordo. La diagnosi, più che d’incapacità a riconoscere le culture di provenienza, sembra risultare un disturbo d’identità ormai cronico.

Ma la divisione del PD su questo è ancora più grave di quelle ormai note sui temi eticamente sensibili, sulla politica economica e su quella estera, sulle alleanze politiche e sulla natura della crisi; è più grave perché priva di sponda parlamentare e istituzionale la FIOM e tutti coloro che si oppongono a quest’accordo.

Dopo gli studenti e i precari, ora anche gli operai saranno privi di sponda politica, di rappresentanza e interlocuzione istituzionale. E il fatto che solo Nichi Vendola e Di Pietro (oltre a Ferrero) abbiano alzato la voce contro questo sfregio alla democrazia, racconta più di mille righe edotte e analitiche sul futuro dell’opposizione.


Sistema Marchionne, guerra ai diritti
di Angelo Miotto - Peacereporter - 29 Dicembre 2010

Quando il futuro diventa un 'indice di produzione globale' che schiaccia sogni, aspirazioni, desideri e il giusto riconoscimento di diritti individuali e collettivi c'è da chiedersi non tanto come si sia potuti arrivare fino a qui. Ma come se ne uscirà

La firma del contratto per Pomigliano, raggiunta ieri con l'esclusione della Fiom, è fine e principio.

Fine di un percorso di alcuni mesi, in cui l'ostinazione di Sergio Marchionne ha portato all'uscita dal Contratto nazionale di riferimento, l'uscita da Confindustria, la fondazione di una Newco, l'esclusione dal tavolo non solo di un attore importante come la Fiom, ma anche di formazioni capaci e agguerrite che risiedono nel sindacalismo di base.

Il ricatto fra lavoro e diritti è sancito. Con buona pace dei sindacati che giustificano le proprie firme in calce all'accordo sostenendo che in periodi di crisi ci si deve adattare e riuscire a strappare le migliori condizioni.

Il principio sta in una strada senza un approdo visibile, in cui l'unica certezza è rappresentata dall'effetto domino che avrà una ferita così profonda nelle relazioni economiche e sindacali inferta dal sistema Marchionne.

Quante altre imprese si accoderanno, e soprattutto quante altre giocheranno a rimpiattino fra il Contratto nazionale, i contratti esterni e gli integrativi in un sistema ormai disintegrato, pezzo per pezzo, rispetto a quanto era stato conquistato faticosamente in anni di lotte?

Se la questione del lavoro è grave - e il segretario della Fiom Landini bene ha fatto a ricordare alla speculazione politica cosa sia la fatica della catena di montaggio a 1300 euro mese, sotto ricatto - altrettanto grave, pur se su un altro livello, è quello della rappresentanza sindacale.

L'esclusione della Fiom, che al tavolo non si è seduta, e la pervicacia con la quale gli altri due sindacati maggiormente rappresentativi hanno proseguito sulla propria strada, ci dicono di un punto di non ritorno.

Le stesse dichiarazioni, sicuramente surriscaldate dalla cronaca, in cui Cisl e Uil proseguono nelle accuse di istigazione alla violenza rispetto alle durissime critiche rivolte da esponenti della segreteria Fiom sono benzina gettata sul fuoco, che scalda il cuore del ministro Sacconi, particolarmente contento e di tutti quelli che nelle crepe del sindacato vedono un'ottima occasione per infierire nella propria offensiva. Che spacceranno per 'investimento nazionale' e non certo come profitti da accumulare nei propri bilanci.

La saldatura del cerchio è nella riforma Gelmini. Il classismo, il divario ricchi/poveri, le diseguaglianze sociali, di opportunità personale e collettiva, culturale ed economica, che si delineano all'orizzonte non dicono nulla di buono.

Quando il futuro diventa un 'indice di produzione globale' che schiaccia sogni, aspirazioni, desideri e il giusto riconoscimento di diritti individuali e collettivi c'è da chiedersi non tanto come si sia potuti arrivare fino a qui, ma come si potrà uscirne senza situazioni traumatiche.

Per tornare a rivendicare uguaglianza sociale, pari opportunità di accesso alla cultura e al lavoro, un nuovo senso del tempo quotidiano, una diversa concezione di profitto. Un ritorno a quella parola, solidarietà, che prevede di rispondere insieme, in solido appunto, rispetto al futuro.


La precarizzazione del contratto nazionale collettivo di lavoro

da Peacereporter - 29 Dicembre 2010

Andrea Fumagalli, docente di Macroeconomia all'Università di Pavia spiega perché oggi anche il contratto di lavoro è stato precarizzato: "Anche alla Marcegaglia si sta cercando una scappatoia per non applicare il contratto di secondo livello ai neo assunt

Bistrattato e stracciato, è il Contratto Collettivo di Lavoro. Marchionne se ne va dalla Confindustria e ne crea uno nuovo con la compiacenza di Fim e Uilm, mentre Emma Marcegaglia cerca all'interno del contratto la scappatoia per evitare di concedere ai nuovi 200 assunti nell'azienda di famiglia la contrattazione di secondo livello.

"Se il contratto di secondo livello si sta precarizzando è anche colpa dei sindacalisti, che hanno svuotato di contenuto il Contratto Nazionale del Lavoro", risponde Andrea Fumagalli, professore di Macroeconomia all'Università di Pavia, che parla delle trasformazioni "in negativo" del contratto di lavoro italiano, "che è stato precarizzato, perché non considera più l'aspetto dell'innalzamento salariale e non vengono considerate tutte le categorie contrattuali atipiche, sempre più consistenti in questo Paese".

Perché nel contratto di lavoro non si parla più dell'innalzamento salariale?

Il salario viene pretederminato su paramentri che esulano dalla contrattazione. E' successo per la prima volta nel 1993, a un anno di distanza dall'eliminazione della scala mobile. Dal '93 in poi la massima richiesta salariale è stata stabilita in base al tasso di inflazione programmata, definito ogni anno dal Governo sull'inflazione corrente.

Il contratto dura quattro anni e ogni due anni, se il tasso d'inflazione effettivo è superiore a quello programmato nell'accordo contrattuale, allora le parti decidono di pagare la differenza ai lavoratori attraverso una tantum economica che vale solo per i due anni successivi, e non per quelli precedenti. Questo ha causato la perdita del potere d'acquisto. Nell'accordo separato del 2009 il sindacato è riuscito a fare peggio.

L'inflazione viene calcolata a livello dei prezzi europei sul modello Ipca, depurato dagli incremento dei prezzi dei prodotti energetici. Quindi gli aumetni del costo della benzina e delle bollette non vengono considerati. Il risultato è che i nostri lavoratori sono al ventottesimo posto su trentatre Paesi Ocse per potere d'acquisto dei salari.

Perché la parte sindacale se ne disinteressa?

Per mancanza di informazione. Non sempre i sindacalisti hanno una coscienza sul contenuto e sulle modalità di formulazione degli accordi.

Perché Lei parla di precarizzazione del contratto?

In questi anni la struttura contrattuale è stata depotenziata per via della trasformazione del mercato del lavoro, della frammentazione delle categorie professionali, dall'emergere di nuove professioni, dall'indebolimento del manifatturiero. Coloro che sono protetti da Ccnl sono la minoranza dei lavoratori.

Formalmente tutte le categorie sono inserite nel Ccnl, poi se a un lavoratore non viene applicato un regolare contratto a tempo determinato, ma un contratto trimestrale o una collaborazione a progetto, non può certo rivendicare il suo diritto a un contratto. Non lo fa, se non vuole perdere il posto di lavoro. Il risultato è che le forme atipiche - stage, borse lavoro, stagionali, a termine, a somministrazione - stanno dilagando in modo incontrollato.

Il depotenziamento del Ccnl è frutto di una scelta politica dei sindacati, che speravano che depotenziando il Contratto collettivo, a favore di una maggiore flessibilità, sarebbero riusciti ad arginare e governare il fenomeno della precarietà, ma la situazione è sfuggita loro di mano, non hanno capito che la precarietà non era lo scotto che le nuove generazioni dovevano pagare per entrare nel mercato del lavoro, ma il futuro strutturale delle nuove forme di lavoro. Così gli imprenditori si lanciano in una corsa al ribasso nel costo del lavoro, lo fa Marchionne e lo fa pure la Marcegaglia.

In che senso lo fa anche Marcegaglia?

Il fatto che Emma Marcegaglia sia il presendente di Confindustria obbliga l'azienda di famiglia a rispettare le regole del Ccnl. Peccato che la stessa Marcegaglia stia cercando di non applicare la contrattazione di secondo livello ai duecento nuovi assunti, con il risultato di mantenerli per anni a un livello salariale d'ingresso.

Non avviene lo stesso anche in Europa?

In Germania esiste una struttura di welfare diffusa, un salario minimo intercategoriale e un operaio tedesco guadagna il trenta per cento in più di quello italiano.

Ma gli imprenditori dicono di essere disposti a innalzare gli stipendi se potessero pagare meno tasse..

I costi sociali per le aziende tedesche sono gli stessi, ma il tasso di evasione fiscale p più basso. La Germania ha una crescita annua del 2,5% perché negli ultimi dieci anni è stata in grado di favorire l'innovazione a favore dell'industria.

E perchè i lavoratori tedeschi sono più produttivi di quelli italiani?

Perché nelle aziende la tecnologia è adeguata e il parco macchine al passo con l'innovazione. Si provi a fare un giro alla fabbrica di viale Sarca della Marcegaglia, dove le maestranze perdono almeno un'ora al giorno per riparare le macchine che non funzionano. Altro che fannulloni, non esistono le condizioni per essere efficienti e produttivi.


“Dalemonne” al Lingotto
di Paolo Flores D'Arcais - Il Fatto Quotidiano - 30 Dicembre 2010

D’Alema ha fatto la sua scelta: con Marchionne e contro la Fiom. Con qualche se e qualche ma, come è nello stile slalomistico della casta Pd, ma la sostanza non cambia.

Si tratta di un vero e proprio cambiamento di fronte, che rischia di “fare epoca” certificando la definitiva morte del Pd, perché l’inciucio con Marchionne nel quale D’Alema trascina il partito (Bersani seguirà?) ha un sapore strategico, molto più grave perfino dei tanti inciuci “tattici” (comunque devastanti) con Berlusconi.

Anche il diktat di Marchionne, servilmente e prontamente firmato da Uil e Fim, certamente farà epoca, come hanno prontamente e servilmente gorgheggiato gli aedi di regime. Si tratta di capire di quale “epoca” si tratti.

A giudicare senza pregiudizi, si tratta in campo sociale dell’analogo rappresentato dalle leggi berlusconiane di bavaglio ai giornalisti e camicia di forza ai magistrati, fin qui fermate dalla sollevazione popolare della società civile.

Quei disegni di legge, che il governo non ha rinunciato a far approvare, segnano un salto di qualità verso approdi specificamente fascisti dell’attuale regime.

Un equivalente funzionale e soft (soft?) di fascismo risulta anche il diktat di Marchionne. Se qualcuno ritiene il rilievo eccessivo, si accomodi a considerare le seguenti e modeste verità di fatto.

Il diktat marchionnesco prevede che 1) non vi saranno più rappresentanze elette dei (dai) lavoratori, ma solo nominate dai sindacati che firmano l’accordo, e che 2) i lavoratori che scioperino anche contro un solo aspetto dell’accordo possano essere licenziati.

Queste misure costituiscono nel loro insieme un quadro di (non) diritti che negli oltre sessant’anni di vita della Repubblica non era stato mai ventilato, neppure in via ipotetica, neppure dalle forze più retrive della politica e dell’imprenditoria. Per trovare un precedente bisogna risalire agli anni del fascismo. Riassumiamo i fatti storici.

Nell’immediato dopoguerra, dopo la rottura dell’unità sindacale, i lavoratori eleggono in fabbrica i loro rappresentanti nelle “Commissioni Interne”, su liste sindacali in concorrenza.

Lungo gli anni settanta e fino a quasi la metà degli anni ottanta, invece, in un clima di unità sindacale dal basso, imposta dalle lotte del ’68 e del ’69, i rappresentanti operai vengono eletti su scheda bianca, senza sigle sindacali, votando per gruppi o reparti “omogenei” direttamente i nomi dei compagni di lavoro che riscuotono la maggiore fiducia.

Con la nuova rottura dell’unità sindacale si torna a rappresentanze elette su liste di sigle sindacali concorrenti, che abbiano firmato accordi contrattuali o vi si siano opposti (anche i Cobas insomma).

Lo “Statuto dei lavoratori” del 1970 parla di rappresentanze sindacali in termini volutamente generici, proprio perché non intende predeterminare per legge quale delle due forme di elezione vada privilegiata, ma intende come ovvio l’eguale diritto di tutti i lavoratori ad essere rappresentati.

Quanto al diritto di sciopero, esso è tutelato costituzionalmente (art. 40) “nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e dunque non può essere in alcun modo limitato da accordi privati. E la legge oggi lo limita solo in specifici casi, esigendo preavvisi e/o esenzioni per i servizi pubblici irrinunciabili.

Dunque, neppure ai tempi delle più dure repressioni antioperaie, che in campo padronale avevano il volto di Valletta e dei reparti-confino per gli attivisti Fiom, e in campo politico il volto di Mario Scelba e della violenza della “Celere”, era stato mai messo in discussione l’ovvio principio che tutti i sindacati (anzi tutti gli operai) hanno diritto a dar vita alle rappresentanze dei lavoratori, perché altrimenti sarebbero “rappresentanze” non rappresentative.

Per ritrovare un analogo al diktat marchionnesco bisogna infatti risalire al 2 ottobre 1925, al diktat di Palazzo Vidoni con cui Mussolini, il padronato e i sindacati fascisti firmavano la cancellazione delle “Commissioni Interne”, sostituite dai “fiduciari” di regime (equivalente “sindacale” dei capocaseggiato).

Non c’è dunque nessuna esagerazione retorica nell’allarme che i dirigenti Fiom hanno lanciato, ricordando questi precedenti, e invocando lo sciopero generale contro misure che non solo calpestano la Costituzione, ma che di questo “strame della Costituzione” intendono fare il modello delle future relazioni industriali.

Quello che colpisce e lascia anzi allibiti, semmai, è la mancanza di una risposta anche minimamente adeguata, da parte di forze che si dicono democratiche, e che verbalmente presentano rituali omaggi alla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza.

Parliamo del Pd, dove numerose sono le voci di servo encomio alla “voluntas Fiat”, e comunque maggioritarie quelle né carne né pesce, nella migliore tradizione di Ponzio Pilato, e non vi è un solo leader di spicco che abbia preso posizione netta a fianco della Fiom.

Ma parliamo anche, e in questo caso soprattutto, della Cgil: non si capisce davvero cosa debba ancora accadere, in questo sciagurato paese, perché si ritenga necessario uno sciopero generale, se non bastano neppure misure antioperaie che hanno antecedenti solo nel fascismo.

E parliamo anche, purtroppo, di una società civile che è stata ben altrimenti energica e pronta nel rispondere alla volontà di fascistizzazione in tema di giustizia e di informazione, e che invece sembra neghittosa di fronte a questa seconda ganascia della tenaglia di fascistizzazione del paese. Dimenticando che sulla distruzione delle libertà e dei diritti dei lavoratori è già passata una volta la distruzione delle libertà e dei diritti di tutti i cittadini.

Ecco perché la sollevazione morale della società civile a fianco dei metalmeccanici Fiom è oggi il dovere più urgente, e la cartina di tornasole della capacità di resistere alle lusinghe e alle violenze del fascismo postmoderno.


Vendola e i cavalli lenti
di Bartolomeo Paolini - Megachip - 31 Dicembre 2010

«Per me non c'è la possibilità che esista la sinistra se non mette al centro la dignità di chi lavora. Non capisco neppure cosa possa essere la sinistra al di fuori di questa dimensione».

Queste parole, ferme e inequivocabili, le ha pronunciate Nichi Vendola contestando il ricatto di Marchionne e aggiungendo che «avere un giudizio di neutralità o addirittura di consenso nei confronti del ‘modello Marchionne’ significa esser subalterni a una trasformazione autoritaria del capitalismo mondiale e nazionale».

Bravo Nichi! Parole sante! Per fortuna che abbiamo trovato l’Obama de noantri!

Ma mentre l’elettore di sinistra si sfrega le mani, tra le macerie della nostra democrazia, perché il nuovo leader sa scaldare i cuori e non solo la poltrona, si insinua nella mente delle persone più lucide un dubbio: chi ha partecipato negli ultimi trent’anni alla distruzione dei diritti del lavoro, dando al processo di innovazione del capitalismo “mondiale e nazionale” caratteri di ineludibilità e necessità storica?

E’ stata anche la sinistra: quella cosiddetta riformista, con al traino le sinistre “radicali” amanti del progresso e dello sviluppo.

Bene (si fa per dire). E con chi è che vuole costruire alleanze strategiche Vendola, per rilanciare la centralità del lavoro e dei diritti, e per scalzare dal ponte di comando il Nano Impunito?

Ops! Proprio con quelle forze che, da Amato in poi, hanno stravolto il controllo costituzionale sull’economia privata in Italia, diffondendo la flessibilità a senso unico nel lavoro e l’idea secondo cui solo accettando le esigenze aziendali sarebbe stato possibile innalzare il benessere degli italiani. Si è visto.

Per quanto possa essere forte la sua corsa, la carrozza andrà alla velocità dei cavalli più lenti che si è scelto. E i cavalli del PD oggi vanno al passo di quei sindacalisti che facevano i patti scellerati con il Mussolini degli esordi. A questo siamo.

Ora ci dica, il simpatico Vendola, dove stanno la coerenza delle sue proposte e il senso vero della sua indignazione.

Non si accorge, il nostro leader coccolato dalle televisioni, che lo stile Marchionne è l’esito di un processo storico che vede protagonista tanto la sinistra quanto la destra? Tutti a inseguire la crescita del PIL. E lui dov’era in questi decenni?

Il lettore non creda che le parole di Vendola non siano condivisibili. Le prime dieci sono impeccabili e le abbracciamo in pieno: «Per me non c'è la possibilità che esista la sinistra».


Né con Marchionne, né con la Fiom
di Mariano Cirino - Il Fatto Quotidiano - 30 Dicembre 2010

La questione è difficile, e le semplificazioni non aiutano, perché viviamo in un mondo in cui infuria la lotta tra l’economia mondiale e gli stati sovrani.

Di una cosa però sono sicuro: si potrebbe anche discutere una riforma complessiva del mondo del lavoro, ma qui è solo Marchionne a dettare le condizioni e a decidere. Ma è lui il presidente del Consiglio? E’ lui il Parlamento?

Ok, è lui che ha un’azienda, ma non dovrebbe rispettare le regole dello Stato in cui si trova? O in America e in Serbia ha cambiato le regole di quegli Stati?

Insomma, se in un paese a cambiare le regole sono gli industriali e non la politica, unica espressione attuale del popolo, c’è qualcosa che non va. Anche perché non siamo in un paese in cui le aziende possono farsi da sole le regole, o sbaglio? Diciamo che da noi vale la seguente regola pratica: meno i lavoratori sono protetti dai sindacati, più l’azienda ha il coltello dalla parte del manico.

Ora la Fiom promette fuoco e fiamme per i 4.600 operai di Mirafiori, ma il coltello dei datori di lavoro è già affondato nella pancia di milioni di lavoratori precari in Italia, mai protetti realmente da nessun sindacato, come dimostrano anche le manifestazioni di piazza dello scorso dicembre.

Intanto, lì dove la flessibilità potrebbe dare maggiori opportunità al lavoratore, i datori di lavoro applicano una incredibile rigidità, come viene documentato da centinaia di analisi sulla rigidità del mondo del lavoro. E in questo i sindacati sono stati maestri: sempre a difendere i diritti e mai a pensare alle opportunità per i più giovani.

Le sacrosante battaglie civili sulla maternità, sulle ferie pagate, sugli orari di lavoro purtroppo sono un ricordo del secolo scorso, e ora l’ammortizzatore sociale dei giovani precari sono le famiglie che hanno alle spalle, quando ce le hanno, quelle famiglie che godono delle vecchie garanzie.

La tenaglia aziende-sindacati stringe in una morsa il nostro futuro. Massima flessibilità, che diventa precarietà, lì dove non serve, perché un lavoro umile dovrebbe essere solo dignitoso e almeno sicuro, e massima rigidità nei campi dove si tratta di preservare privilegi, assumere con logiche esclusivamente familiari o di potere, limitare la concorrenza, dividere politicamente gli appalti, difendere le categorie storicamente protette dai sindacati.

Qualcuno sostiene che questa logica ha salvato l’Italia facendone un paese con meno tensioni sociali. Ma a che prezzo?

E comunque Marchionne ha rotto questa logica, e la politica e i sindacati non ne conoscono un’altra. Possono solo dire “No!” oppure “Sì!”. Mi sembra che a questo si riducano le posizioni di Cremaschi e Bonanni, e purtroppo anche dei nostri politici di destra e di sinistra.

Diceva Adorno che la vera libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta. Chi è in grado oggi di essere libero, o almeno di pensare liberamente?


Fiat, el paso doble della restaurazione
di San Precario - Il Fatto Quotidiano - 30 Dicembre 2010

Gli accordi siglati dalla Fiat relativi alla riorganizzazione dei siti produttivi italiani pone delle questioni ineludibili dal punto di vista sindacale come anche sul piano politico.

1. In primo luogo, questi accordi ci dicono chiaramente che cosa è oggi la democrazia politica in questo paese. Sono decenni che la politica non riveste un ruolo di mediazione dei conflitti e di interessi contrapposti. Oggi la politica è semplicemente l’arte dell’imposizione di un interesse particolare, spacciato come generale.

Prima si schiacciavano i diritti in nome della competitività, della flessibilità come strumento di crescita, del controllo dell’inflazione e del debito pubblico. Ora con la crisi l’approccio è diretto: o la borsa o la vita! Anche i modi si sono fatti espliciti: con la forza o con la corruzione.

Dal regime economico al regime politico tutto si compra (dai sindacati ai partiti); chi pretende politica viene zittito. Per i migranti e il precariato in generale, così come per gli studenti, non c’è mediazione che tenga.

E se la tensione sale? Allora si rispolvererà la tradizionale ricetta del bastone e della carotina: da un lato si apre un’interlocuzione formale con una sponda istituzionale che però non ha alcun potere deliberativo-legislativo – ad esempio il presidente della Repubblica, com’era già successo per i licenziati di Melfi –, dall’altro si mette in cantiere la sospensione dei diritti democratici, com’è di fatto avvenuto con gli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano o con l’idea dell’allargamento del regime Daspo ai manifestanti.

2. In secondo luogo, i due accordi sanciscono in modo definitivo la frattura all’interno del sindacato confederale. Cisl e Uil sono ormai del tutto subalterne a una logica di concertazione prona alle compatibilità aziendali, e accampano giustificazioni in nome della tenuta dell’occupazione e della necessità di adeguare i ritmi di produzioni e di sfruttamento ai modelli organizzativi della Germania e degli Usa (dimenticando – elemento di non poco conto – che lì il salario è il doppio di quello italiano).

La Fiom si trova da sola a tener duro su principi inalienabili connaturati alla propria esistenza, rischiando grosso: l’estromissione al tavolo delle relazioni sociali avrebbe per lei ripercussioni enormi.

La Cgil, come al solito, all’apparenza tiene il piede in due scarpe, dà un calcio al cerchio e uno alla botte, bussa ad ogni porta, alza il volume mediatico, ma la verità è che il sentiero è segnato.

L’elezione di Camusso a segretaria generale propende infatti per una politica concertativa e, nel concreto, tendenzialmente a-conflittuale. Se non avrà il coraggio ora di dare un segno di discontinuità – magari uno sciopero generale, vero – il sindacato più grande d’Italia perderà anima e consenso.

3. Se a Pomigliano non c’è stata trattativa ma un diktat stile “prendere o lasciare”, a Mirafiori si nega la visibilità e l’agibilità politico-sindacale del sindacato riottoso. È il preludio di un nuovo modello di governance delle relazioni industriali che riprende e allarga ciò che già avviene a livello istituzionale. Regime politico e regime economico non sono altro che due facce della stessa medaglia.

4. Infine tutto questo ci porta a ciò che Sanprecario.org ripete come un mantra da alcuni anni. La condizione di precarietà è generalizzata; non riguarda solo chi è contrattualmente precario con un rapporto di lavoro atipico: riguarda anche chi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Perché chiunque sa che basta un niente – una delocalizzazione, una ristrutturazione, una dichiarazione di stato di crisi (più o meno presunto) – a far sì che da un giorno all’altro un lavoro stabile si trasformi in lavoro precario.

Tuttavia, tutto ciò ci ricorda che la precarietà non riguarda solo l’intermittenza di lavoro o il rischio di chiusura, ma anche le condizioni di lavoro e di salario: aumento dei turni, spostamento della pausa mensa a fine turno, obbligo di straordinario, non pagamento della malattia.

E via col liscio…

mercoledì 29 dicembre 2010

Update italiota

Un aggiornamento sul panorama italiota...con un'iniezione di positività nel finale del post.


Marchionne qui in Italia è in buona compagnia
di Eugenio Orso - http://pauperclass.myblog.it - 27 Dicembre 2010

A questo punto le mezze parole, le ipocrisie, le parafrasi e tutto l’impianto letterario-sintattico-lessicale del “voglio ma non posso” dirlo con chiarezza non regge più.

Marchionne non è altro che un bieco sfruttatore globalista, uno spietato contractor ad alto livello e uno schiavista lasciato libero di agire, in questo paese e in altri, da governicchi asserviti agli agenti storici di quel capitalismo marcio che ci tiene in pugno, e che sembra destinato a dominare l’inizio del terzo millennio.

Marchionne è simile ai macellai che dirigevano i campi di concentramento novecenteschi o ai “lanisti” di età romana che trafficavano in schiavi, sempre proni dinanzi all’aristocrazia del tempo, ma forse è ancor peggiore di questi, poiché rappresenta un’ulteriore diminuzione dell’uomo che prelude ad un’altra “specie”, più feroce ed insensibile della nostra.

Marchionne è ben pagato per ristabilire l’equazione lavoro-schiavitù portandola alle estreme conseguenze, ed è incaricato della Creazione del Valore in nome e per conto degli agenti strategici di questo capitalismo, delle élite globaliste per le quali questo individuo abbietto sta pregiudicando il futuro e la dignità di migliaia di famiglie italiane.

Marchionne è disposto a tentare qualsiasi ricatto, come quello che prevede lo scambio dei diritti contro un salario che in realtà è sempre più misero, e per lui l’etica significa esclusivamente “creare valore per l’azionista”.

Se poi posiamo lo sguardo sul testo dell’accordo dello scorso 23 di dicembre, per il rilancio produttivo dello stabilimento di Mirafiori Plant, scopriamo che si tratta di una serie di clausole-capestro imposte ai lavoratori, poiché: Ai fini operativi la Joint Venture, che non aderirà al sistema confindustriale, applicherà un contratto collettivo specifico di primo livello che includerà quanto convenuto con la presente intesa.

Si specifica di seguito, essendo questo “accordo” un’imposizione, una sorta di diktat mascherato, che tutte le sue clausole sono correlate ed inscindibili tra loro, e che il mancato rispetto degli impegni da parte dei sindacati gialli firmatari e delle loro rappresentanze avrà l’effetto di liberare l’Azienda dagli obblighi derivanti dal presente accordo nonché da quelli contrattuali, lasciandola magari libera di chiudere Mirafiori e di andarsene dall’Italia.

Due sono gli elementi che balzano all’occhio, leggendo il testo di questo accordo-diktat dalle cosiddette clausole di responsabilità agli allegati, e cioè che ciò avviene al di fuori di quelli che ancora dovrebbero essere i canali ordinari – il citato sistema confindustriale, ossia il Ccnl per intenderci meglio – e la piena libertà che la Fiat di Marchionne si concede nel caso qualcuno osi “alzare la testa” non rispettando le clausole imposte.

Fatta salva la mezz’ora retribuita per la refezione collocata all’interno dei turni, iniziano le grottesche imposizioni, in una generale limitazione dei diritti non certo “compensata” da robusti elementi retributivi.

Particolarmente feroce sarà la lotta all’”assenteismo”, ad eccezione dei casi conclamati di malattie gravi, gravissime o terminali, i quali saranno valutati [forse] con benevolo dall’azienda, e le indennità concesse ai lavoratori sono particolarmente ridicole, come ad esempio le seguenti: indennità di disagio linea, euro/ora 0,0177 lordi pari a euro/mese 3,0621 lordi, oppure premio mansione euro/ora 0,0248 lordi pari a euro/mese 4,2900 lordi.

Dato che l’utilizzo degli impianti, a discrezione dell’azienda, è giudicato molto più importante della dignità delle persone e del riconoscimento dei diritti, si impongono due schemi di orario, che in sintesi sono i seguenti: 1° schema orario – 15 turni (8 ore x 3 turni x 5 giorni alla settimana) e 2° schema orario – 18 turni (8 ore x 3 turni x 6 giorni alla settimana).

Però non si rinuncia a scaricare la crisi capitalistica che investe il settore dell’auto su lavoratori e risorse pubbliche, in quanto durante il periodo che precederà l’avvio produttivo della Joint Venture le Parti convengono sulla necessità di ricorrere […] alla cassa integrazione guadagni straordinaria per crisi aziendale per evento improvviso e imprevisto, per tutto il personale a partire dal 14 febbraio 2011 per la durata di un anno.

Quelle che si fanno passare per esigenze produttive determinate dal mercato domineranno incontrastate, a Mirafiori, poiché l’azienda gestita da Marchionne per conto dei globalisti potrà imporre ai lavoratori fino a 200 ore annue pro-capite di lavoro straordinario, di cui 120 ore senza preventivo accordo sindacale.

Non solo, ma per i lavoratori addetti alle linee che saranno così “fortunati” da operare sul turno sperimentale di 10 ore, vi sarà un'indennità di prestazione collegata alla presenza di ben 0,2346 euro [neanche a dirlo] lordi orari.

Seguono poi i recuperi produttivi, i fabbisogni organici, per i quali vi sarà ampio ricorso in primo luogo al lavoro precario somministrato, al termine e all’apprendistato, le disposizioni in merito all’assenteismo, per malattia anzitutto, ma è chiaro che questo orribile accordo-diktat fra le “Parti” è stato possibile perché ci sono i sindacati gialli firmatari, disposti a vendere il vendibile, ed un governo nazionale cialtrone, socialmente criminale, il cui capo è interessato in primo luogo alla sua sopravvivenza politica per evitare le manette, fregandosene sia delle sorti del paese sia della questione sociale.

Le “Parti”, per quando riguarda l’abominevole sindacalismo giallo che oggi trionfa, sono per l’esattezza Fim, Uilm, Fismic e UGL Metalmeccanici, e queste sigle, gli stessi nomi e cognomi dei firmatari, sarà bene ricordarseli, quando e se verrà il momento del riscatto, perché sappiamo bene che d’ora in avanti si cercherà di estendere simili accordi alla generalità dei settori produttivi.

L’accordo-capestro, volto a sottomettere interamente i lavoratori e ad espellere dalla fabbrica l’unico sindacato che ancora li rappresenta – quella Fiom che è l’unica ad aver respinto l’esca avvelenata – è stato ottimamente accolto da Berlusconi, il quale lo ha definito un accordo storico e positivo …

Marchionne è quindi in buona compagnia, una compagnia degna di lui e di ciò che nella realtà rappresenta.

Per la verità, questo individuo tanto giustamente vituperato da chi ha ancora un po’ di senso di giustizia e qualche considerazione per la dignità dell’uomo, è niente altro che un prodotto antropologico spregevole della dominazione capitalistica incontrastata, la quale agisce sempre più in profondità attraverso manipolazioni culturali e simboliche, attraverso la flessibilizzazione del lavoro e la precarizzazione degli stessi percorsi esistenziali.

Il Dopo Cristo in cui questo individuo dichiara di vivere, è il tempo della riproduzione capitalistica che non incontra più ostacoli, è il tempo discontinuo della precarietà, è il tempo della speculazione su tutto, dai prodotti energetici all’acqua, è il tempo di una nuova barbarie che lo stesso Marchionne e i suoi simili diffondono.

Per quanto riguarda l’Italia, notiamo che l’accordo separato per Mirafiori, estensibile in futuro in tutte le direzioni, ad altri settori e in molti comparti, non è altro che la riproposizione per nuove vie e in nuove forme, questa volta in piena Europa, di quelle “zone franche d’esportazione” diffuse nei paesi in sviluppo, in cui si possono violare tranquillamente i diritti dei lavoratori, sottopagarli ed aumentare rapidamente il valore creato.

Per poter istituire queste zone in cui il dominio del capitale tende a diventare assoluto, sono necessarie alcune sponde, come quelle rappresentate, in Italia, dai sindacati gialli, da un governo screditato, corrotto, cialtrone e compiacente, e da un’opposizione vile e inconsistente, a sua volta sottomessa al peggior capitalismo.

Ed è grazie a queste sponde che il Marchionne di turno può realizzare anche in Italia, partendo da Mirafiori e dagli stabilimenti Fiat ancora attivi, il suo allucinante Dopo Cristo, che altro non è se non il tempo dell’illimitatezza capitalistica, della ri-schiavizzazione del lavoro, delle grandi ineguaglianze, dei rischi ambientali diffusi e del degrado etico.

Marchionne qui in Italia è purtroppo in buona compagnia.


Il Bunga Bunga di Belpietro
di Peter Gomez - Il Fatto Quotidiano - 28 Dicembre 2010

Il 24 dicembre La Repubblica ha pubblicato un sondaggio sulle prospettive della varie coalizioni in caso di elezioni anticipate.

I numeri messi nero su bianco dall’istituto Demos sono utili per capire il nervosismo (non dichiarato) che serpeggia in questi giorni tra le file del centrodestra berlusconiano.

Un nervosismo che ieri ha trovato un primo parziale e irrazionale sfogo nell’ormai celebre fondo di Maurizio Belpietro in cui il direttore di Libero racconta due “strane storie” su Gianfranco Fini senza nemmeno aver prima provato, per sua stessa ammissione, a verificarle.

Dopo la fiducia strappata per un soffio da Silvio Berlusconi il 14 dicembre, le prospettive tornano, del resto, a farsi nere per il Cavaliere. Certo, Futuro e Libertà è in crisi di consensi (secondo il sondaggio è al 5,3 per cento dopo aver superato la soglia dell’8 per cento in novembre). Ma molto peggio sta il premier, visto che il nascente Terzo Polo rende sempre più probabile una sua sconfitta in caso di chiamata alle urne.

Demos, infatti, spiega che se il Pd corresse con Idv e la sinistra, otterrebbe il 41, 4 dei consensi, contro 39,7 di Pdl e Lega e il 17,8 dei terzopolisti. Se invece si arrivasse alla grande coalizione anti-berlusconiana con dentro tutti (dalla sinistra fino al centro) il risultato sarebbe addirittura dal 57,5 per cento, contro il 40,2 per cento dei fedelissimi del Cavaliere.

In un unico caso il premier avrebbe partita vinta. Se il Pd si alleasse con il Terzo Polo (totale 30,8), lasciando invece l’Idv sola al fianco della sinistra (28,8). In questo scenario i berluscones la spunterebbero con il 38,2 per cento.

La minaccia di Berlusconi di andare a elezioni anticipate, se la sua risicata maggioranza non sarà in grado di governare, è insomma assai poco credibile. Di fronte a sé il Cavaliere ha solo una strada: proseguire la campagna acquisti nella speranza di trovare alla Camera una ventina di deputati disposti a passare con lui. Ma la cosa è tutt’altro che semplice.

Gennaio si presenta come un mese gravido di incognite. C’è la Corte Costituzionale che potrebbe cancellare il legittimo impedimento. Ci sono i malumori della Lega preoccupata per le sorti della legge delega sul federalismo fiscale. E ci sono le inchieste giudiziarie aperte mesi fa e non ancora chiuse.

Prima tra tutte quella sulla minorenne Ruby e i Bunga Bunga di Arcore. Prima o poi gli atti di quella indagine verranno depositati. E già oggi è chiaro che si tratta di carte estremamente imbarazzanti per il premier.

La escort di cui ha parlato Belpietro nel suo fondo, una prostituta di Modena che ai primi di dicembre (mentre impazzava sui giornali il caso Ruby) ha video-registrato il racconto di presunti incontri con Fini e si è presentata a Libero e Il Giornale, poteva forse servire per controbilanciare l’impatto mediatico dell’epilogo delle indagini sul giro delle ragazze a pagamento ospitate ad Arcore.

Ma anche il quotidiano di via Negri pare averla trovata poco credibile. Tanto che un resoconto sommario della sua presunta testimonianza è stato pubblicato (e tra mille prudentissimi distinguo) solo dopo il pezzo uscito sul quotidiano concorrente.

Ma non basta. Perché l’articolo di Belpietro oltre che criticabile sul piano giornalistico (non si pubblicano notizie senza averle prima riscontrate), adesso si sta rivelando un boomerang politico.

L’effetto è quello di spingere i deputati finiani indecisi a stringersi ancora una volta accanto al loro leader. E di convincere Casini che con Berlusconi non è possibile fare veri accordi. Molto meglio lasciarlo cucinare a fuoco lento nel suo brodo. Perché, Bunga Bunga a parte, il peggior nemico del settantaquattrenne Berlusconi resta quello di sempre: il tempo.


Su Belpietro cominciano a circolare strane storie
di Alessandro Gilioli - gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it - 28 Dicembre 2010

Girano strane voci a proposito di Belpietro. Non so se abbiano fondamento, se si tratti di invenzioni oppure, peggio, di trappole per trarci in inganno. Se mi limito a riferirle è perché alcune persone di cui ho accertato identità e professione si sono rivolte a me assicurandomi la veridicità di quanto raccontato e, in alcuni casi, dicendosi addirittura pronte a testimoniare di fronte alle autorità competenti. Toccherà quindi ad altri accertare i fatti.

La prima storia è ambientata a Milano, anzi, per la precisione nella zona di porta Venezia. Qui qualcuno avrebbe progettato un brutto scherzo contro il direttore di Libero.

Non so se sia giusto parlare di attentato, sta di fatto che c’è chi vorrebbe colpirlo e per questo si sarebbe rivolto a un manovale della criminalità locale, promettendogli 200 mila euro. Secondo la persona che mi ha fatto la soffiata, nel prezzo sarebbe compreso il silenzio sui mandanti, ma anche l’impegno di attribuire l’organizzazione dell’agguato ad ambienti vicini ai centri sociali, così da far ricadere la colpa sulla sinistra.

Per quel che ne ho capito, l’operazione punterebbe al ferimento di Belpietro e dovrebbe scattare in primavera, in prossimità delle elezioni, così da condizionarne l’esito. Vero, falso? Non lo so. Chi mi ha spifferato il piano non pareva matto. Anzi, apparentemente sembrava un tizio con tutti i venerdì a posto: buona famiglia, discreta situazione economica, sufficiente proprietà di linguaggio. In cambio dell’informazione non mi ha chiesto nulla, se non di liberarsi la coscienza e poi tornare da dov’era venuto.

Perché si è rivolto a me e non è andato dai carabinieri? Gliel’ho chiesto e mi ha risposto che era in imbarazzo a giustificare come fosse venuto in possesso della notizia e temeva che la spiegazione potesse arrivare alle orecchie dei suoi familiari. Per cui ha voluto vuotare il sacco con me facendosi assicurare che non avrei svelato il suo nome, ma mi sarei limitato a riferire le sue parole. È quel che faccio, pronto ad aggiungere qualche altro particolare, se qualcuno me lo chiederà.

La seconda storia invece è ambientata a Bangkok.

Qui lo scorso anno, un tizio uguale in tutto e per tutto a Maurizio Belpietro si sarebbe presentato a un ragazzino che esercita il mestiere più vecchio del mondo. Il suo nome, il numero di telefono al quale contattarlo e le sue fotografie compaiono su un sito in cui decine di gigolò di tutto il Sudest asiatico offrono i loro servigi.

Il ragazzo, che giura di essere nipote di un vecchio abbonato a Libero, in cambio delle prestazioni avrebbe ricevuto mille euro in contanti. Tutto ciò lo ha raccontato a me condendo la storia con una serie di altri particolari piccanti e acconsentendo alla videoregistrazione della sua testimonianza. Mitomane? Ricattatore? Altro? Boh!

Perché mi sono deciso a scrivere delle due vicende? Perché se sono vere c’è di che preoccuparsi: non solo qualcuno minaccerebbe l’incolumità del direttore di Libero al fine di alimentare un clima di tensione nel Paese, ma il noto giornalista dopo aver fatto tanto il macho sarebbe inciampato in una vicenda a sfondo erotico peggiore di quelle rimproverate a Marrazzo.

Che un femminiello giri le redazioni distribuendo aneddoti a luci rosse sull’ex caporedattore bresciano di Capital non è bello. Se invece è tutto falso, attentato e gigolò, c’è da domandarsi perché le due storie spuntino pochi giorni dopo il nuovo assetto proprietario della testata di Belpietro.

C’è qualcuno che ha interesse a intorbidire le acque, diffamando il direttore di Libero? Oppure si tratta di polpette avvelenate che hanno come obiettivo quello di intaccare la credibilità di Facebook? La risposta non ce l’ho.

Quel che sapevo ve l’ho raccontato e, se richiesto, lo riferirò al magistrato, poi chi avrà titolo giudicherà.


Droga:"Ganzer si accordò con narcotrafficanti"
di www.antimafiaduemila.com - 28 Dicembre 2010

Nelle motivazioni della sentenza di primo grado emerge la ''preoccupante'' personalità del comandante del Ros


Il generale Giampaolo Ganzer “non si è fatto scrupolo di accordarsi” con “pericolosissimi trafficanti”.

E’ quanto si legge nelle oltre mille pagine della motivazione della sentenza in cui i giudici di Milano hanno spiegato perché il 12 luglio scorso il generale è stato condannato a 14 anni nel processo sulle presunte irregolarità nelle operazioni antidroga sotto copertura condotte tra il '91 e il '97 da un gruppo di militari del reparto speciale dell'Arma.

Ganzer era stato condannato assieme ad altri 13 imputati, a 14 anni dopo che l'accusa ne aveva chiesti 27. Al termine della Camera di consiglio, durata sette giorni, il tribunale ha inflitto la pena più alta, 18 anni, ad un trafficante libanese, ex confidente del Ros.

Secondo i giudici dell'ottava sezione penale di Milano, presieduta da Luigi Caiazzo, il generale “ha tradito, per interesse personale, tutti i suoi doveri, e fra gli altri quello di rispettare e far rispettare le leggi dello Stato”. Inoltre “non ha minimamente esitato a dar corso ad operazioni antidroga basate su un metodo di lavoro assolutamente contrario alla legge”.

L'imputato, hanno scritto ancora i giudici, “ha evitato, per quanto gli è stato possibile, di esporsi, facendo figurare altri come responsabili di iniziative che invece erano sue”. Colpisce, si legge ancora nelle motivazioni, “nel comportamento processuale di Ganzer, non tanto il fatto che non abbia avuto alcun momento di resipiscenza (...) ma che abbia preso le distanze da tutte le persone che, con il suo incoraggiamento, avevano commesso i fatti in contestazione”.

Il generale, secondo i giudici, si è trincerato “sempre dietro la non conoscenza e la mancata (e sleale) informazione da parte dei suoi sottoposti”. Così, si legge ancora, per “sfuggire alle gravissime responsabilità” ha “preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti”.

Nel motivare la mancata concessione a Ganzer delle attenuanti generiche, il collegio ha scritto che le stesse attenuanti non possono essere riconosciute “non solo per l'estrema gravità dei fatti, avendo consentito che numerosi trafficanti (...) fossero messi in condizioni di vendere la droga in Italia con la collaborazione dei militari e intascarne i proventi, con la garanzia dell'assoluta impunità, ma anche per la preoccupante personalità dell'imputato, capace di commettere anche “gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione”.


Ganzer e narcotraffico. Quelle dimissioni necessarie
di Marco Lillo - Il Fatto Quotidiano - 29 Dicembre 2010

Sul generale condannato per aver favorito i criminali il silenzio imbarazzante di Pd e Pdl
Il generale Giampaolo Ganzer non può restare al suo posto. Le dimissioni sarebbero una conseguenza naturale dopo le motivazioni della sentenza di condanna contro il comandante del Ros, il Reparto operativo speciale dei carabinieri.

E invece da due giorni, con l’eccezione dell’Italia dei valori, zero richieste di dimissioni dal centrodestra e – fatto ancora più sorprendente – dal resto del centrosinistra.

Eppure Ganzer, secondo i giudici di Milano che lo hanno condannato a 14 anni, era “in scandaloso accordo con i trafficanti ai quali è stato consentito vendere la loro droga in Italia e arricchirsi con i proventi delle vendite con la protezione dei carabinieri del Ros”. La condanna è del luglio scorso ma le motivazioni sono state rese note solo lunedì.

Per i giudici, da Ganzer “il traffico di droga non solo non è stato combattuto, ma addirittura incoraggiato e favorito”. La sentenza potrebbe essere ribaltata in appello e la presunzione di innocenza deve essere riconosciuta, ma si è creata una gigantesca anomalia con il comandante del Ros condannato per narcotraffico.

Dopo la condanna di luglio il coordinatore del Pdl Sandro Bondi trattò i magistrati come se fossero le Brigate rosse: “Non possiamo accettare senza reagire il rischio di una vera e propria disarticolazione dello Stato”.

Ma in fondo è il solito Bondi. Dopo la pubblicazione delle motivazioni Iole Santelli, vice-capogruppo del Pdl alla Camera, ha detto: “È incredibile la motivazione con cui hanno condannato Ganzer”.

Per una volta compatto, il Pd ha ignorato i giudizi terribili del Tribunale sul comandante Ganzer, nominato nel 2002 durante il governo Berlusconi ma lasciato al suo posto dal governo Prodi dopo l’avvio del processo nel 2005.

Anche la stampa, con la lodevole eccezione del Corriere della Sera, ha evitato di mettere il dito nella piaga del Ros. Solo Antonio Macaluso sul quotidiano diretto da Ferruccio De Bortoli ha posto con garbo “il terribile dubbio sull’opportunità che il generale resti al suo posto”.

Il comandante del Ros ha evitato commenti dimostrando di volersi difendere solo nel processo di appello. Decisione opportuna che però dovrebbe essere seguita da dimissioni che non rappresentano un’ammissione di colpevolezza, ma una scelta obbligata.

I casi che hanno coinvolto Ganzer e il precedente comandante Mario Mori, sotto processo con accuse gravissime a Palermo per il mancato arresto di Provenzano, sono un fardello troppo pesante anche per il Ros.

Ganzer facendosi da parte tutelerebbe gli uomini che sotto la sua guida hanno collezionato decine di successi nella lotta alla criminalità. Certo anche il Ros non è immune da errori. E non sono mancati scivoloni come l’inchiesta fuori misura del 2007 contro una presunta cellula di anarchici a Perugia o quella che ha cercato di fare le pulci, con un eccesso di foga, alle indagini calabresi di Gioacchino Genchi e Luigi De Magistris.

Eppure la serietà del Ros, nonostante i guai dei suoi vertici, non è in discussione ed è testimoniata dall’elenco delle inchieste nell’ultimo anno. Sono del Ros le intercettazioni che hanno messo nei guai Guido Bertolaso, il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, Fastweb e Finmeccanica, il senatore del Pdl Nicola Di Girolamo e il faccendiere fascista Gennaro Mockbel.

Sono del Ros le indagini che hanno portato al sequestro dei beni del segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, del tesoriere della Fondazione del ministro, ex An, Altero Matteoli e dell’ex segretario del ministro Franco Frattini.

Sono del Ros le informative contro l’assessore alla sanità della giunta Vendola in Puglia: il senatore Alberto Tedesco del Pd.

Sono del Ros anche le indagini sui carabinieri ricattatori nella vicenda costata la presidenza del Lazio a Piero Marrazzo. E sono del Ros le inchieste sui legami tra ‘ndrangheta e economia del Nord raccontate da Roberto Saviano in tv, come anche le informative recenti che hanno portato all’arresto di un assessore della Giunta regionale di centrodestra in Calabria.

Eppure questo elenco di politici indagati, arrestati, intercettati e condannati che in altri tempi avrebbe potuto rappresentare una medaglia al petto del comandante, oggi rappresenta la principale ragione che dovrebbe consigliare le dimissioni.

Al di là della volontà di Ganzer, le inchieste aperte e quelle ancora segrete, come le portentose banche dati del reparto e la capacità dei suoi uomini, somigliano a tante pistole puntate sul malandato corpo politico di questo Paese.

Il silenzio unanime del Pd e del Pdl su Ganzer è la migliore prova della necessità di un cambio. Anche perché quel silenzio potrebbe essere dettato dalla fiducia nell’operato passato del Ros, ma anche dalla paura per le sue indagini future.


I debiti degli italiani e le cause della crisi economica
di Francesco Bevilacqua - www.ilcambiamento.it - 28 Dicembre 2010

Leggiamo sempre più studi e previsioni, spesso di segno opposto, riguardanti la situazione economica italiana e l’uscita da una recessione che non accenna ad arrestarsi.

La soluzione tuttavia non va rintracciata nei dati in crescita o in calo, ma nell’analisi di un meccanismo che rende questa crisi strutturale e quindi infinita.

Le notizie circa la situazione economica italiana e l’uscita da una recessione che sembra non finire mai sono contrastanti

Stiamo attraversando in questi mesi un periodo di grande incertezza che alcuni considerano di riflusso, di transizione, addirittura di ripresa dopo la crisi che sta affliggendo le economie occidentali dal 2008.

Purtroppo, com’è ormai costume in casi come questo, è molto difficile farsi un’idea precisa della situazione poiché i mezzi di informazione riportano notizie frammentarie, manipolate, quando non palesemente false a seconda delle direttive che vengono loro dettate dai meccanismi di controllo.

Un paio di articoli usciti recentemente però sfiorano il grottesco, poiché non solo leggendoli è impossibile capire l’effettiva condizione economica di noi italiani, ma perché dicono l’esatto opposto, ponendo due punti di vista differenti che in teoria dovrebbero essere basati su dati concreti. Insomma, per le famiglie italiane la crisi si sta risolvendo o si sta aggravando?

Della prima idea è Il Giornale, che il 21 dicembre è uscito con un articolo titolato Sorpresa, siamo più ricchi di quanto immaginiamo . L’autore Marcello Foa pone in primo piano il confronto fra lo stato dell’economia italiana e quello degli altri paesi mondiali ed europei.

La fonte dei dati che vengono analizzati è il bollettino della Banca d’Italia, una pubblicazione che da decine di anni rappresenta una delle fonti più autorevoli per monitorare l’andamento degli indicatori economici dell’Italia e dell’Europa.

Secondo alcune fonti i privati cittadini italiani sono mediamente fra i più ricchi al mondo

La prima confortante notizia ci dice che la ricchezza netta delle famiglie italiane costituisce il 5,7% di quella mondiale, a fronte di un contributo al PIL che non supera il 3%. Questo vorrebbe dire che i privati cittadini italiani sono mediamente fra i più ricchi al mondo.

Il dato riguardante l’indebitamento privato sembra rilevare che oltre che ricchi siamo anche responsabili: il debito privato è pari al 78% del reddito disponibile e costituisce un virtuoso primato nei confronti dei tedeschi (100%), degli americani (130%) e degli inglesi, che sono gravati da debiti che ammontano a quasi il doppio della loro disponibilità economica.

Fra l’altro sembra che i nostri investimenti siano orientati verso beni sicuri, come immobili (il 40% dell’indebitamento è rappresentato da mutui) e denaro liquido.

Infine, l’Italia è anche uno dei paesi caratterizzati dalla maggiore equità, dal momento che il 10% delle famiglie, la parte più ricca, possiede 'solo' il 45% della ricchezza complessiva, mentre negli Stati Uniti la stessa porzione di popolazione possiede il 70% della ricchezza.

Di tutt’altro tenore è il comunicato stampa che ha diffuso solo tre giorni prima la CGIA di Mestre, un’associazione di artigiani e piccole imprese. Il dato principale è l’indebitamento medio nazionale, che negli ultimi due anni (settembre 2008 - settembre 2010) è cresciuto del 28,7%.

L’analisi che fornisce il segretario della CGIA Giuseppe Bortolussi rileva che, dal punto di vista territoriale, le zone più indebitate sono anche quelle più ricche, segno che induce a pensare che la tendenza al consumo eccessivo non è stata intaccata dalla crisi economica.

Le zone più arretrate, in particolare il mezzogiorno, sono tuttavia gravate dal primato delle erogazioni da parte degli istituti di credito, che vuol dire che le fasce più deboli della popolazione non hanno liquidità neanche per reperire i beni primari.

L'Associazione Contribuenti considera la crisi solamente un’aggravante di una serie di tendenze e cattive pratiche economiche

Questa preoccupazione è rafforzata dal dato sulle insolvenze, che vede ai primi i primi posti occupati da comuni meridionali: Crotone, dove il 5,9% dell’erogato non viene restituito, Caltanisetta col 5,7% e Benevento ed Enna a pari merito col 5,5%.

Da questa seconda analisi si può dedurre che la crisi economica ha colpito forte e in maniera differenziata: nelle aree più ricche provocando un aumento dell’indebitamento, nelle aree più povere aggravando una situazione già critica.

Un ulteriore arricchimento del quadro viene da una nota dell’ Associazione Contribuenti, che considera la crisi solamente un’aggravante di una serie di tendenze e cattive pratiche economiche che costituiscono la solida base dell’indebitamento degli italiani.

In particolare si fa riferimento all’usura, purtroppo ancora ampiamente praticata (una stima la dà in aumento del 109% nell’ultimo anno, con circa tre milioni e mezzo di soggetti a rischio fra famiglie e piccoli imprenditori), la politica aggressiva delle esattorie, l’eccessiva rateizzazione – che porta a un accesso al consumo apparentemente agevole ma che poi si rivela insostenibile –, il boom delle carte revolving e addirittura un aumento preoccupante del gioco d’azzardo. Il tutto a fronte di un deciso giro di vite da parte delle banche per quanto riguarda la concessione di crediti e prestiti.

Cosa possiamo dedurre da questa situazione, apparentemente intricata e difficile da spiegare?

Certamente l’uscita dalla crisi non è dietro l’angolo e le previsioni e le interpretazioni ottimistiche assumono la fattezza di miraggi che dovrebbero incoraggiare un’economia che continua ad arrancare.

Finché la nostra economia e il nostro modo di gestire i risparmi sarà basato sull’indebitamento, la crisi non finirà mai

Andando oltre le analisi ufficiali e il mero monitoraggio delle variabili economiche tuttavia, possiamo affermare che non si tratta semplicemente di una fase di uscita dalla recessione particolarmente difficoltosa, bensì dell’affermarsi di un sistema socio-economico che mantiene le stesse gravissime criticità di quello che è appena entrato in crisi, ovvero la necessità fisiologica di aumentare in maniera illimitata i consumi.

Spesso però questo non è possibile, almeno non nelle quantità e con i ritmi che vengono imposti, così entra in gioco il meccanismo dell’indebitamento, che costituisce da un lato l’opportunità di spendere denaro anche quando non ve ne sarebbe la possibilità, dall’altro un legaccio che viene stretto al collo dei risparmiatori e può essere tirato all’occorrenza, una catena che ci lega in eterno ai nostri creditori e ci pone completamente in loro potere.

Ecco quindi qual è la situazione: ciò che conta davvero non sono dati confortanti che ci dicono che stiamo uscendo dalla crisi – cosa peraltro tutta da verificare –, né preoccupanti statistiche che ci avvisano che siamo sempre più insolventi.

Il nodo da sciogliere è il meccanismo del debito, poiché finché la nostra economia e il nostro modo di gestire i risparmi sarà basato sull’indebitamento, al di là di quello che ci dicono i tassi di crescita e l’andamento del PIL, la crisi non finirà mai.


La decrescita e il cambiamento
di Daniel Tarozzi - www.ilcambiamento.it - 28 Dicembre 2010

Vi riproponiamo l'intervista a Pallante realizzata dal direttore del Cambiamento, Daniel Tarozzi, nel 2008 per Terranauta. Il primo di una serie di articoli nati da una conversazione con Maurizio Pallante, 'padre' della decrescita felice in Italia. In questa prima puntata Pallante ci spiega il concetto di Decrescita Felice e le origini del movimento.

Il 15 dicembre 2010 l’Associazione Movimento per la Decrescita Felice ha compiuto 3 anni. Il 12 gennaio 2011 si celebreranno quattro anni da quando Maurizio Pallante ha proposto ad un primo gruppo di persone la formazione del Movimento.

A pochi anni dal suo concepimento, questo Movimento e questa corrente culturale si stanno diffondendo a macchia d’olio in tutta Italia, ricevendo consensi sempre crescenti e presenziando a tutti i più importanti eventi legati all’ecologia, all’ambiente, alle energie, ai rifiuti, ai nuovi stili di vita.

Sempre più persone, quindi, avranno sentito parlare di 'decrescita', ma in pochi, forse, sanno esattamente di che cosa si tratti. Abbiamo quindi intervistato Maurizio Pallante - fondatore e presidente del movimento, nonché autore del libro La Decrescita Felice e di molti altri testi che vertono su queste tematiche – per capire e raccontarvi che cosa sia questo Movimento e quali siano i suoi obiettivi.

Abbiamo incontrato Maurizio Pallante nella sua nuova casa piemontese. L’accoglienza è stata molto calorosa e informale. Ci siamo seduti nel suo giardino, vicino all’orto che cura con la compagna, e tra una carezza e l’altra a Sofia, il suo cane, abbiamo intavolato una lunga conversazione.

Ne riportiamo qui una fedele trascrizione, anche se ci è difficile trasmettere sulla 'carta' le emozioni suscitate dal carisma e dalla parlata di Maurizio Pallante.

Cosa è la Decrescita e quali sono le sue origini?

Fino a poco tempo fa, la parola decrescita era stata abolita dal vocabolario. Anche oggi, sui giornali, quando l’economia non cresce si dice che sta attraversando una fase di crescita negativa. Che è una specie di ossimoro, come dire che un vecchio ha una gioventù negativa.

Però, nell’ambito dell’economia, pare che questo tipo di ossimoro abbia credibilità...

Tra i padri nobili della decrescita troviamo il Pasolini polemista degli anni '70 contro il progresso e l’omologazione delle culture, la perdita delle specificità e così via. Già a quel tempo, quindi, si parlava dei temi cari alla decrescita, anche se ancora non la si chiamava in questo modo.

È però ultimamente che questo discorso della decrescita ha cominciato a prendere piede grazie alla lezione di Latouche (anni ’90) che ha avuto notevole successo prima in Francia e poi in Italia.

Il suo legame con l’Italia è talmente forte che alcuni suoi libri sono stati pubblicati prima nella versione italiana che in quella originale francese.

Questa riflessione si è poi intrecciata con alcune frange del movimento ecologista- ambientalista. Non con la frangia riformista, secondo la quale se vogliamo poter continuare a far sì che l’economia cresca lo sviluppo deve essere sostenibile, cioè deve avvenire con tecnologie meno impattanti sull’ambiente e quindi sostituendo le fonti rinnovabili a quelle fossili. Questa corrente di pensiero, infatti, non contesta il paradigma dello sviluppo, della crescita, ma ricerca modalità 'sostenibili' alla crescita stessa.

Il concetto di decrescita, invece, si è ben miscelato con la corrente ambientalista che vedeva l’ecologia come un paradigma culturale, un nuovo modo di concepire i propri stili di vita.

Ancora oggi il dibattito sulla decrescita è molto diffuso e al suo interno ci sono posizioni non del tutto omogenee. Questo è inevitabile nella fase emergente di una nuova teoria. Ognuno porta un po’ del suo retroterra, delle sue caratteristiche. Queste diverse visioni, comunque, non mi sembrano un limite, ma una ricchezza, proprio come la biodiversità”.

In che modo il movimento da te fondato si inserisce in questo contesto?

Noi del Movimento per la Decrescita Felice abbiamo inteso la decrescita come un discorso che nasce in ambito economico, ma travalica subito in ambito filosofico, in una concezione di vita, in un paradigma culturale. Per noi, la decrescita non coincide semplicemente con la sobrietà, con un minore livello di consumi, con una maggiore giustizia sociale.

A nostro modo di vedere, infatti, questi discorsi rimangono all’interno di un ambito redistributivo delle risorse tutto interno al modello vigente. Invece, noi cerchiamo di andare un po’ più a fondo su questo ragionamento e definiamo la decrescita come la diminuzione della produzione e del consumo delle merci che non sono beni e l’aumento della produzione e del consumo dei beni che non sono merci. Questa distinzione tra beni e merci è per noi fondamentale.

Qual è la differenza tra bene e merce?

Una merce è un oggetto o un servizio che può essere acquistato o scambiato con denaro. Un bene è ciò di cui un cittadino ha realmente bisogno, ma che non necessariamente deve essere acquistato o scambiato con denaro.

Il PIL (Prodotto Interno Lordo), su cui è fondata l’intera economia mondiale, non misura i beni, ma le merci. Se non c’è scambio di denaro, se non c’è transazione economica, un bene, anche primario, che viene scambiato e consumato dai cittadini, non può contribuire alla crescita del Pil.

Siccome noi, da alcune generazioni, siamo abituati a comprare tutto ciò di cui abbiamo bisogno, tendiamo a identificare il concetto di bene con il concetto di merce, perché tutto quello che ci serve lo acquistiamo. Invece, la distinzione va fatta perché non solo sono due concetti diversi, ma spesso sono due concetti che confliggono tra di loro.

Esistono delle merci che non sono beni e esistono dei beni che non sono merci.

Ad esempio?

Faccio l’esempio di una merce che non è un bene. Per riscaldare i nostri edifici in Italia consumiamo mediamente 20 litri di gasolio al metro quadrato all’anno (la definizione più rigorosa è 200 kilovattora al metro quadrato all’anno, però corrisponde grosso modo a queste grandezze).

In alcuni comuni italiani ed esteri non è consentita la costruzione di edifici che consumino più di 7 litri al metro quadrato all’anno. In queste realtà questi edifici sono i peggiori, i migliori ne consumano solo 1,5.

Un edificio mal costruito, che disperde gran parte del calore, fa però crescere il Pil di più degli edifici ben costruiti che non disperdono il calore.

I 13 litri in più, che in media si consumano in una casa mal costruita, sono una merce che si paga e che viene sprecata, ma non sono un bene perché non serve a riscaldare. Se ci fosse un governo che predisponesse come punto centrale della sua politica economica la ristrutturazione degli edifici che consumano 20 litri si andrebbe verso una decrescita felice del Pil.

Quindi esistono merci che non sono beni. E per quando riguarda i beni che non sono merci?

Esistono anche dei beni che non sono merci. Se raccolgo dei pomodori dal mio orto, non vado a comprarli al supermercato, per cui faccio diminuire la domanda della merce frutta e verdura, perché la produco per me stesso. Paradossalmente vengo percepito come un asociale perché faccio decrescere il Pil.

Ogni anno c’è un ingegnere bravissimo, pugliese, che nel mese di settembre mi manda un sms e mi dice “se domani vedi che il Pil è diminuito sappi che è colpa nostra perché ci siamo fatti la passata di pomodoro!”

Un bene che una persona si autoproduce per se stesso o scambia per amore e non per denaro (può essere anche un bene immateriale, un servizio, un figlio che guarda i genitori anziani anziché darli alla badante o un genitore che guarda il bambino piccolo anziché darlo alla babysitter), fa decrescere il Pil. Chi invece lascia i figli alle babysitter e i vecchi alle badanti fa crescere il Pil perché mercifica questo servizio.

Quindi tutte le volte che si autoproduce un bene o si scambia un servizio per amore si fa decrescere il Pil.

Perché parli di decrescita 'felice'? In che senso?

Qui l’aggettivo felice non viene usato in senso soggettivo per dire che la persona che fa la decrescita è felice, ma in senso oggettivo. Se la decrescita è intesa come diminuzione della produzione e del consumo di una merce che non è un bene, infatti, questo processo è intrinsecamente apportatore di felicità e benessere.

Torniamo all’esempio delle case. Il metabolismo del nostro corpo è fatto in maniera tale che noi scambiamo il 70% del calore che produciamo per irraggiamento con le pareti di una stanza e il 30% con l’aria di una stanza, per cui se una persona si trova in una stanza con la temperatura più bassa e le pareti calde ha una sensazione di comfort termico superiore di quella che si avrebbe in una stanza con la temperatura più alta e le pareti fredde.

A me è capitato di andare a visitare lo studio di Renzo Piano, bellissimo, sul mare, tutte pareti di cristallo, una temperatura di 22 gradi, però bisognava stare con il cappotto.

Una casa che disperde 13 litri su 20 ha sempre le pareti fredde. Una casa che ne consuma 7, e non li disperde, ha le pareti più calde. Quindi, in una casa che richiede un minore consumo di riscaldamento si sta meglio, e la decrescita è intrinsecamente felice - e apportatrice di benessere - non solo per le persone che abitano in quella casa, ma per tutta la collettività.

Infatti, una casa che consuma 7 litri di gasolio manda in atmosfera i 2/3 in meno di CO2 rispetto ad una casa che ne consuma 20, riducendo quindi l’effetto serra.

C’è poi il fattore qualità della vita. Io mi coltivo le verdure nell’orto. Vi assicuro che quei pomodori che mangio non hanno paragoni con i pomodori che si comprano. Li faccio per me stesso, quindi non uso concimi.

In questo modo, nel mio piccolissimo, diminuisco il contributo complessivo al danno che l’agricoltura industriale comporta alla superficie terrestre . L’ultima volta che ho mangiato un pomodoro “da supermercato” ero in aeroporto. Era un panino mozzarella e pomodoro. Ancora adesso non so cosa ho mangiato. Aveva la forma del pomodoro senza averne il sapore. Ecco, per tutti questi motivi, la decrescita è intrinsecamente felice.

Finisce qui la prima parte della chiacchierata con Maurizio Pallante. Nelle prossime puntate vi proporremo il resto. Scopriremo il ruolo delle tecnologie nella decrescita, approfondiremo le modalità di azione e le finalità del movimento, indagheremo sul suo rapporto con la politica, sul ruolo della donna, sul tempo libero.


Conversazione con Maurizio Pallante. Seconda parte

di Daniel Tarozzi - www.ilcambiamento.it - 29 Dicembre 2010

Dopo avervi introdotto nel mondo della decrescita felice, ripercorriamo ora insieme a Maurizio Pallante la storia e lo sviluppo del movimento soffermandoci sul ruolo della tecnologia e della politica.

Maurizio Pallante, come è nato il vostro movimento e come pensi possa svilupparsi?

Tutto è cominciato da un’esigenza diffusa tra i fondatori del movimento: quella di confrontarsi in maniera più sistematica con persone che stavano ragionando su questa idea e la stavano di fatto già praticando.

Abbiamo quindi organizzato degli incontri tra di noi ma anche con gli imprenditori perché riteniamo fondamentale, per gli obiettivi del nostro movimento, la nascita di aziende che sviluppino tecnologie che riducano il consumo di risorse a parità di servizi.

Dopo un anno di riflessioni, abbiamo deciso di fondare un movimento. Siamo gli unici finora ad averlo fatto. Non esistono all’estero movimenti per la decrescita. Esistono in Francia delle persone che si occupano di decrescita e che pubblicano una rivista bimestrale. Probabilmente evolveranno verso la costituzione di un partito, mentre noi abbiamo deciso che non ci candideremo alle elezioni. Abbiamo quindi fatto una scelta molto precisa decidendo di lavorare in tre direzioni:

- stili di vita: analizzare quali scelte compiere nella propria vita in direzione della decrescita e contribuire alla loro diffusione (autoproduzione, gas-gruppi di acquisto solidale, forme di solidarietà di vicinato, banche del tempo).

- tecnologie della decrescita: per fare una casa che consuma 7 litri ci vuole più tecnologia che fare una casa che consuma 20! È una tecnologia diversa dalla tecnologia della crescita. Quest’ultima ha lo scopo di aumentare la produttività, cioè di fare in modo che nell’unità di tempo ogni persona faccia più cose possibili; le tecnologie della decrescita hanno lo scopo di ridurre per ogni unità di prodotto l’energia e la materia prima necessaria, la quantità di rifiuti che si produce al momento della produzione, i rifiuti industriali che si creano dopo, quando l’oggetto viene dimesso. Quindi si può dire che tutte le tecnologie del riciclaggio sono tecnologie della decrescita.

- politica: si possono fare, soprattutto a livello locale, delle scelte politiche indirizzate alla decrescita. Un comune che ottimizza i consumi energetici dei suoi edifici ed evita gli sprechi fa una scelta in direzione della decrescita; un comune che emana un regolamento edilizio sulle nuove costruzioni che preveda che all’interno delle stesse non si possano consumare più di 7 litri di gasolio per il riscaldamento, fa una scelta in direzione della decrescita; e così via.

Il nostro obiettivo, quindi, è quello di avere dei gruppi locali che si confrontino e si direzionino verso queste tre direzioni.

Approfondiamo meglio l’aspetto tecnologico e in particolare le sue ripercussioni sul piano energetico.

In molti credono che applicare la decrescita significhi rifiutare la tecnologia. Invece è proprio il contrario! Significa sviluppare al massimo determinate tecnologie. Ma le scelte vanno fatte con cognizione di causa.

Ad esempio: ha senso affermare che la priorità per realizzare una politica energetica rispettosa dell’ambiente sia sviluppare le fonti rinnovabili? No. Finché noi continueremo a sprecare il 70% dell’energia che si consuma nelle abitazioni, nell’autotrasporto, nelle centrali termoelettriche, il sistema energetico sarà simile ad un secchio bucato.

E normalmente, se ho un secchio bucato e devo riempirlo d’acqua, prima di decidere quale sia la fonte migliore con cui riempirlo, cerco di chiudere i buchi. Facendo ciò, elimino le dispersioni e pratico la decrescita.

Solo una volta eliminati gli sprechi, quindi, posso studiare fruttuosamente il miglior modo per sostituire il residuo di fabbisogno di fonti fossili con energia generata da fonti rinnovabili.

Ma non è tutto. Anche la scelta di quali energie rinnovabili utilizzare e con quali modalità è una scelta che va fatta con cognizione di causa.

Le fonti rinnovabili, infatti, per minimizzare il loro impatto sull’ambiente, non si devono sviluppare attraverso grandi impianti, ma su piccoli impianti finalizzati all’autoconsumo.

Una grande centrale eolica, ad esempio, ha una serie di controindicazioni:

- devasta le colline;

- comporta la costruzione di strade di servizio per i camion;

- necessita di grandi scavi per le fondamenta, essendo i pali alti anche 120 metri;

- danneggia notevolmente le migrazioni degli uccelli, mietendo centinaia di vittime, in quanto questi volatili utilizzano proprio le “correnti costanti” su cui si tracciano le rotte degli uccelli che vengono quindi fatti a fettine.

In Gran Bretagna, invece, vendono delle pale eoliche da un kilowatt di potenza, alte 2 m, destinate ad una diffusione capillare e prive di controindicazioni.

E per quanto riguarda il solare?

Anche in questo caso vale lo stesso discorso. Se costruisco una grande centrale fotovoltaica devo coprire ettari ed ettari di terreno con materiale inorganico, impedendo così la fotosintesi clorofilliana. Se invece ricopro di pannelli solari i tetti di tutto il paese non ho alcuna controindicazione.

Questa modalità di produzione energetica è chiamata generazione diffusa. Io produco l’energia che mi è necessaria e scambio l’eccedenza. L’energia prodotta per l’autoconsumo non è una merce, ma un bene. Torniamo quindi al discorso della decrescita felice.

In che modo il vostro movimento cerca di incoraggiare questo tipo di iniziative?

Se c’è un’azienda che produce qualcosa che permette un minor consumo di energia elettrica o di riscaldamento per le abitazioni, noi riteniamo che questa azienda stia lavorando per la decrescita e quindi vogliamo incoraggiarla e aiutarla.

Cerchiamo quindi di raggruppare delle aziende che sviluppano tecnologie in grado di ridurre il consumo delle risorse, le mettiamo in rete e realizziamo una specie di database che comprende le aziende che soddisfano determinati requisiti. Oltre alla qualità dei loro prodotti valutiamo la responsabilità sociale ed ambientale dell’impresa. Cerchiamo quindi di coinvolgere la gente comune in questo processo, invitando le persone che si rivolgono a queste ditte a dargli un voto.

Passando alla politica, prima hai detto che voi non volete partecipare alle elezioni, però hai poi aggiunto che la politica è uno dei vostri tre obiettivi primari. Puoi spiegarci meglio?

La nostra azione politica si esplicita a livello locale. Noi vogliamo influire sulle amministrazioni comunali. Questo può avvenire in due modi. O alcuni partiti accolgono le nostre proposte e se ne fanno portavoce oppure dovremo realizzare delle liste civiche sullo stile di Beppe Grillo. Mentre Grillo si pone come elemento di rottura e di critica, però, noi ci proponiamo come fornitori di contenuti, di proposte.

Vogliamo quindi rapportarci anche con i meet up. L’unica lista di Grillo che è riuscita a conquistare un consigliere comunale è quella che si è formata a Treviso ed è una lista strettamente legata a noi, con un programma e con delle proposte molto precise.

Il nostro obiettivo è mettere i contenuti nei programmi. Questo non significa necessariamente che qualcuno di noi debba entrare in una lista civica, anzi! Qualcuno forse ci entrerà, ma il contributo che diamo come movimento alle liste civiche è quello di arricchirle di contenuti.

In passato ho aderito ai Verdi. Il partito era ancora agli inizi e il loro bacino elettorale era molto ampio. Tutti coloro che erano stati trombati politicamente o stavano in qualche partitino senza speranza si sono quindi buttati dentro e ci hanno utilizzati come taxi verso i palazzi del potere. Noi Verdi (definiti da me in un saggetto le vispe terese) eravamo un po’ ingenui e ci siamo fatti sfruttare a piacimento.

Non ho quindi nessuna intenzione di ripetere quella esperienza e di perdere anche solo mezzo minuto a discutere con qualcuno che vuole utilizzare strumentalmente il movimento cogliendone una potenzialità elettorale non indifferente e distogliendomi dall’elaborazione delle mie idee.

Naturalmente ciò non toglie che se qualsiasi partito o lista civica sposasse le nostre idee saremmo ben lieti di condividere con loro il programma delle nostre scelte.

Di politica e tecnologia abbiamo parlato. Venendo agli stili di vita, da cosa bisognerebbe partire per vivere all’insegna della decrescita felice?

Bisogna ri-imparare il saper fare. Oggi non sappiamo fare più niente, perché compriamo tutto. Bastano due giorni di sciopero dei camion (ricordate gli assalti ai supermercati di qualche mese fa?) e milioni di cittadini vanno nel panico perché sanno che se non comprano non vivono; bisogna quindi riscoprire il saper fare come elemento culturale. Ecco perché a Torino (Maurizio Pallante vive in Piemonte, n.d.r) stiamo realizzando l’Università del saper fare.

Stiamo anche cercando di immaginare un futuro diverso per la città, che in questi anni è una specie di Titanic dove si passa da una festa all’altra cercando di creare occupazione effimera sfruttando le Olimpiadi, le Paraolimpiadi, il 150 Anniversario dell’Unità d’Italia e così via.

Cosa dovrebbero fare invece?

"Bisognerebbe cominciare a vedere che esiste, in una città che ha una spiccata tradizione industriale, la possibilità di sviluppare delle tecnologie che vanno in direzione della decrescita. I torinesi hanno il chiodo fisso di non essere più capitale per cui ogni volta che possono dicono Torino la capitale dello sport, degli scacchi, adesso è la volta del design.

Il design moderno dovrebbe essere finalizzato alla creazione di oggetti che, una volta diventati obsoleti, possano essere scomposti nelle loro materie prime. Eppure questo argomento non è mai stato trattato nei 150 convegni organizzati!

Una città con una tradizione tecnologica così forte non è in grado di esprimere delle persone in grado di progettare degli oggetti costruiti in quest’ottica? Io penso di si!

Per sintetizzare?

Noi non vogliamo presentarci come quelli del 'no a questo, no a quest’altro. Noi, con la nostra forza e modestia, siamo quelli delle controproposte inserite in una visione complessiva di progettazione del futuro; vogliamo entrare nell’orizzonte delle cose possibili.

Anche questa seconda parte finisce qui. Nella prossime 'puntate' vedremo come si possa applicare il modello della decrescita alle grandi città, analizzeremo il ruolo della donna in questo contesto e ci soffermeremo sul rapporto tra Decrescita Felice e 'sviluppo sostenibile'.

martedì 28 dicembre 2010

News Shake

Ritorna la rubrica News Shake, notizie a caso ma non per caso...













Dieci trend per il 2011

di Gerald Celente - www.lewrockwell.com - 18 Dicembre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Giada Ghiringhelli

Dopo i tumultuosi anni della Grande Recessione, una persona mal ridotta potrebbe desiderare per il 2011 un ritorno a tempi più generosi e sereni.

Ma non è quello che prevediamo. Al contrario, i frutti dell'attività - e dell'inattività - governativa ed istituzionale matureranno in tendenze impreviste.

Le tendenze che abbiamo individuato in precedenza, e che abbiamo messo a decantare per qualche tempo, giungeranno a maturazione nel 2011... e non risparmieranno nessuno, in qualunque parte del mondo ci si trovi.

1. Il campanello d'allarme. Nel 2011 la gente, in tutte le nazioni, si renderà pienamente conto della gravità delle condizioni economiche, dell'inefficacia e dell'opportunismo delle cosiddette soluzioni, e capirà che le conseguenze potranno essere disastrose.

Essendosi convinta che i leader e i saccenti "arbitri di tutto" non saranno capaci di mantenere le loro promesse, la gente farà molto di più che mettere in dubbio l'autorità: vorrà ribellarsi. Ci sarà terreno fertile per una rivoluzione...

2. Il tracollo del 2011. Fra i nostri Top Trend per lo scorso anno c'era il "crollo del 2010". Cosa è successo? La borsa non è crollata. Lo sappiamo. Nel nostro Autumn Trends Journal abbiamo espresso chiaramente che non avremmo previsto una crisi della borsa - i mercati azionari non erano più un indicatore affidabile di una reale ripresa dell'economia. Tuttavia, gli indicatori affidabili (tasso di occupazione, mercato immobiliare, tensioni monetarie, i problemi dei debiti sovrani) erano tutti al limite fra crisi e tracollo.

Per il 2011, esaurito l'arsenale di schemi per tenere a galla questi indicatori, prevediamo "il tracollo del 2011": le economie barcollanti crolleranno, e ne conseguirà una guerra delle valute, saranno erette barriere commerciali, si disgregheranno le unioni economiche, e tutti riconosceranno l'inizio della Greatest Depression (ndt. Peggior Depressione).

3. Spremi la popolazione. Con il peggiorare della situazione e l'impoverimento della popolazione, le "autorità" intensificheranno gli sforzi per ottenere il denaro necessario per adempiere alle obbligazioni fiscali. Seppur con variazioni sul tema, la canzone dei governi sarà sempre la stessa: tagliare le uscite, aumentare le entrate.

4. Ondate di crimine. Niente lavoro + niente denaro + debiti in aumento = più stress, relazioni tese, mine vaganti. Nel 2011, basterà un'inezia per far scoppiare una mina vagante e la criminalità sarà all'ordine del giorno. Quando la gente perde tutto e non ha più nulla da perdere, perde tutto ciò che le resta.

Le privazioni porteranno a crimini trasversali allo spettro socio-economico, che saranno commessi da schiere di disperati allo stremo, che cercano di fare tutto ciò che è in loro potere per tenersi un tetto sopra la testa e mettersi qualcosa sotto i denti.

5. Giro di vite sulla libertà. Al crescere del tasso di criminalità, sicuramente si chiederà a gran voce un inasprimento dei provvedimenti. Ci sarà una crociata di gente che chiede "pugno di ferro contro il crimine". E come nella "guerra al terrore", dove i "sospetti terroristi" sono stati uccisi prima che la loro colpa fosse stata provata o incarcerati senza processo, nella "guerra al crimine" chiunque sarà sospettato finché non si proverà la sua innocenza.

6. Energie alternative. Nei laboratori e nelle officine lontano dagli occhi degli analisti del mainstream, visionari scientifici e imprenditori forgeranno una nuova fisica basata su principi un tempo ritenuti impossibili, lavorando per creare strumenti che producano più energia di quanta ne consumano.

Di cosa si tratterà, e quanto tempo sarà necessario prima che compaiano sul mercato? Gli investitori accorti ignoreranno lo scetticismo del "non è possibile", e analizzeranno le opportunità di successo delle energie emergenti.

7. Giornalismo 2.0. Sebbene la tendenza sia in corso dall'inizio della Rivoluzione Internet, il 2011 sarà l'anno in cui nuovi metodi di diffusione dell'informazione renderanno obsoleto il modello del 20mo secolo. Con la sua impareggiabile capacità di andare oltre i confini nazionali e le barriere linguistiche, "il giornalismo 2.0" ha il potenziale per influenzare ed educare la cittadinanza.

E i governi ed i baroni dei media non lo permetteranno sicuramente se riusciranno. Delle centinaia di tendenze che abbiamo previsto in questi ultimi trent’anni, poche avrebbero potuto avere effetti di così ampia portata...

8. Guerra cibernetica. Solo un decennio fa, allo sbocciare dell'era digitale, quando gli hacker erano visti come fastidiosi fanatici del computer, prevedemmo che l'intrinseca fragilità di Internet e la vulnerabilità dei dati contenuti in esso lo avrebbero reso oggetto di crimini cibernetici e che ne sarebbe conseguita una guerra cibernetica. Nel 2010 tutti i principali governi si sono resi conto del fatto che la guerra cibernetica era un pericolo evidente e già presente, ed infatti, essa ha già avuto inizio.

Gli effetti tangibili della guerra cibernetica e del crimine cibernetico, ad essa connesso, sono già significativi - e diventeranno davvero importanti nel 2011. Allo stesso modo, saranno imponenti le dure misure che verranno prese dai governi in tutto il mondo per controllare il libero accesso alla rete, per identificare gli utenti, e bloccare letteralmente i computer ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale.

9. Giovani del mondo intero. Con la laurea in mano, ma ancora disoccupati, indebitati e senza prospettive all'orizzonte, sentendosi traditi e arrabbiati, costretti a tornare a vivere dai genitori, i giovani ventenni hanno un diavolo per capello, e non ne possono davvero più.

Pieni di forze e di passione, ma non ancora maturi per controllare i loro impulsi, gli scontri a cui parteciperanno potranno anche andare oltre i limiti. Gli sforzi dei governi per esercitare il controllo e riportare la gioventù a uno stato di pacifica accettazione saranno maldestri e inefficaci. La Rivoluzione apparirà in televisione ... nei blog, su YouTube, su Twitter e ...

10. La fine del mondo! Più ci avvicineremo al 2012, più aumenteranno le voci che proclamano che "La fine è vicina!" In qualunque epoca storica, ci sono state sette che hanno trovato segni e presagi dell'imminenza della fine del mondo. Ma il 2012 sembra avere un significato speciale in un'ampia fetta di quelli che credono nella "fine dei giorni".

Secondo i seguaci di Armageddonite, la reale fine del mondo e la distruzione della Terra per il 2012 è una certezza. Anche chi è più razionale e si tiene aggiornato attentamente sulle infinite crisi globali può avere la sensazione che il mondo sia in una situazione di pericolo. Entrambe le correnti di pensiero stanno portando molti a rivalutare le proprie chance di sopravvivenza, che sia essa in cielo o in terra ...


Più Stato meno mercato
di John Kleeves - www.centroitalicum.it - Numero di novembre-dicembre 2010 di ITALICUM

La leggenda del capitalismo e del libero mercato

Dimenticate Marx e pensate ex novo al Capitalismo. Cosa si intende per Capitalismo? Un’economia di libero mercato, il quale lasciato a sé stesso e senza interventi statali permette la creazione di grandi ricchezze concentrate.

Si intende questo, eppure se ci pensiamo vediamo che con un mercato veramente libero non potrebbero affatto crearsi grandi ricchezze concentrate: con un mercato veramente libero non potrebbe esserci il Capitalismo!

Il fatto è che le grandi ricchezze concentrate, diciamo le grandi aziende, per nascere e mantenersi hanno bisogno sempre di opere pubbliche, di opere della collettività.

Immaginiamo ogni grande azienda, di qualunque settore, ai suoi albori. L'industria dell'auto per esempio. Dopo l'invenzione del semovente in vari Paesi degli imprenditori pensarono alla produzione di massa. Hanno venduto bene le prime serie, ma poi avrebbero dovuto fermarsi: era necessaria una rete stradale adatta.

Ma in un mercato libero lo Stato non ti fa le strade perché devi vendere le tue auto ma ti dice: se le vuoi compra i terreni e asfalta, caro il mio imprenditore privato, e rispetta i diritti dei confinanti, che sono liberi cittadini in un libero mercato.

Avrei voluto vedere come avrebbero potuto svilupparsi i colossi del settore, come la Ford o la Fiat: avrebbero dovuto comprare striscia di terra dopo striscia di terra, asfaltarla, recintarla e dotarla di un'infinità di sottopassaggi e cavalcavia, curarne la manutenzione, rendere conto degli incidenti che vi avvenivano. Sarebbe stato impossibile anche il primo passo, l'acquisto dei terreni, perché ogni contadino avrebbe chiesto cifre esorbitanti è ovvio.

Sarebbe rimasto al nostro candidato capitalista delle quattro ruote il mercato militare: jeep e camion per l'Esercito, che viaggiavano sulle strade da lui fatte, per i suoi scopi. E il tutto vincolato dallo Stato (divieto di esportare, tipi di prodotti, eccetera), perché è roba di importanza strategica.

Oppure pensiamo all'industria aeronautica e alle compagnie aeree. Begli oggetti gli aerei passeggeri, ma richiedono aeroporti e in un libero mercato lo Stato ti risponde come prima: Cosa c'entro io? Fatteli! E in luoghi deserti, dove non infastidiscano nessuno col rumore, perché i miei cittadini sono liberi cittadini in un libero mercato, e hanno dei diritti.

Rimarrebbe come prima solo il mercato militare, con basi escluse ai voli civili. Poca cosa e coi soliti vincoli.

Oppure pensiamo all'energia elettrica da portare a ogni domicilio: grandioso, ma occorre attraversare con i cavi le proprietà degli altri, che potrebbero rifiutare o chiedere un tot, perché sono liberi cittadini in un libero mercato. Lo stesso per telefoni e telefonate: bisogna attaccare cavi alle case altrui.

O per il trasporto via mare, per l'import-export e per le crociere turistiche: hai bisogno di porti attrezzati e in un libero mercato o te li fai o non trasporti. Lo stesso per ogni altro settore potenzialmente atto a dar luogo a grandi aziende, al grande capitale. Semplicemente in un libero mercato, e ripeto libero, queste non possono neanche nascere.

Si obietterà: ma così sarebbe impossibile lo sviluppo economico e civile! L'osservazione è irrilevante: questi sono gli esiti di un libero mercato di liberi uomini. E poi lo sviluppo economico e civile non sarebbe impossibile; solo, dipenderebbe dalla volontà dello Stato, che comincerebbe a fare i patti con le aspiranti grandi aziende o imprese: faccio le strade, i porti, eccetera, ma voglio la maggioranza della proprietà delle vostre aziende perché sono io che vi faccio vivere.

In breve - sorpresa - l'esito fisiologico di un veramente libero mercato è la statalizzazione di ogni attività economica rilevante. Puoi possedere tutti i mezzi di produzione che vuoi, ma se il mercato è proprio libero non vai da nessuna parte.

Le Vere Leggi del libero mercato

E anche se per mera ipotesi, per passatempo speculativo, concediamo che in un libero mercato possano nascere grandi aziende private, come farebbero poi a mantenersi? Un libero mercato è un mercato dove la gente per quanto riguarda i fatti economici fa e disfà a suo piacimento, e lo Stato non interviene, non premia e non punisce.

Non lo ha detto Adam Smith, il profeta del Capitalismo, che lo Stato non deve interferire, che ci pensa la invisible hand (la "mano invisibile") del libero mercato a regolare tutto per il meglio?

Bene, allora io compro a credito e non pago: è un atto economico e lo Stato non deve intervenire. Dirà il medesimo: Non c'è stato furto (non ha preso la roba dallo scaffale ed è scappato) ma il mancato rispetto di un patto economico fra le parti: il mercato è libero, per definizione non possono esserci leggi che lo regolino, e quindi arrangiatevi; neanche chiedo la restituzione della merce, perché la vostra transazione, non essendo regolamentata, non ha valore giuridico e perciò chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto, ma se in seguito alle recriminazioni ci sono violenze su persone o cose interverrò invece immancabilmente, a punirne l'autore.

Cosa rimane ai produttori e ai venditori in questo regime di libertà economica?

Cosa fa la invisible hand?

Dice di consegnare la merce solo a fronte di un pagamento immediato e in contanti, ecco cosa dice. Come fa il contadino al mercato: nella mia mano il cavolfiore, nella tua il soldo. E questa è la Prima Vera Legge dell'economia di libero mercato.

Ma così, appunto, addio grandi aziende, addio banche, addio Capitalismo. L'invisible hand di Adam Smith protende il medio, gli gira dietro la schiena, e va su.

Oppure io vedo sul libero mercato un bell'oggetto, lo faccio uguale e lo vendo, magari a un prezzo più basso, perché sono un mago nell'arte della concorrenza. Strilli e strepiti del fabbricante originale, ma cosa deve dire lo Stato in un mercato libero?

Che la cosa non lo riguarda perché io non ho rubato oggetti (ho pagato il campione ostentatamente, o meglio, l'ho comprato a credito), non ho fatto violenze né altro, ma solo lavorato, da cittadino libero in un libero mercato, dove si può fare nell'economico tutto quello che si vuole.

Cosa dice ora l'invisible hand? Dice che non val la pena di far niente che possa essere riprodotto a costo inferiore dal primo napoletano che passa, che è la Seconda Vera Legge dell'economia di libero mercato. E ripete il suo gesto su Adam Smith.

Oppure io sono un bambino ignorante, che non vuole andare a scuola. Il Capitalista protesta con lo Stato: Obbliga i genitori a mandarlo a scuola almeno sino ai 16 anni, dove insegnerai queste e queste materie, e poi allettali a mandarlo all'università, perché mi servono operai, quadri e dirigenti per la mia azienda; beninteso, io non garantisco il posto a nessuno, perché c'è il libero mercato!

Ma in un Paese a libera economia di mercato lo Stato per mere ragioni di civiltà impone un'istruzione di base, che a 12 anni è senz'altro soddisfatta, e poi non obbliga più nessuno a continuare perché non deve raggiungere alcun obiettivo economico: il mercato fa da sé, non è vero? Se chi continua non è sufficiente per le esigenze dello Stato (scuole, ospedali, ricerca, Esercito, eccetera), questi pagherà studenti perché continuino, garantendo anche l'impiego.

Cosa dice l'invisible hand ? Che al massimo si può possedere una fattoria con tanti braccianti agricoli perché per il resto bisognerebbe formarsi il personale a proprie spese, cosa proibitiva: la Terza Vera Legge dell'economia di libero mercato. Ancora la mano invisibile torna su Adam Smith.

Oppure io sono un ladruncolo di supermercato, come ce ne sono decine di migliaia. Ho rubato e lo Stato è disposto a processarmi, ma vuole la presenza fisica del proprietario leso, che dica che la merce era sua, perché in un libero mercato, dato che l'economico non è regolamentato, solo le persone fisiche sono anche persone giuridiche, che possano promuovere azioni giudiziarie. Se si tratta del proprietario di una catena di supermercati dovrà passare la vita fra un processo e l'altro in tutte le città del Paese.

Se è una società per azioni con tanti azionisti dovranno muoversi tutti: sono i proprietari. Ovvio che ogni volta bisogna lasciare perdere. L'invisible hand ? Dice che non si deve sorpassare la dimensione del negozietto di famiglia, perché altrimenti si è spolpati dai furti: la Quarta Vera Legge dell'economia di libero mercato.

Il capitalismo è un fatto politico

Si potrebbe continuare a lungo, ma il concetto è chiaro: il Capitalismo non è per niente un frutto dell'economia di libero mercato. Adam Smith si è sbagliato di grosso e tutti gli altri gli sono andati dietro su questa impostazione, anche il signor Karl Marx.

Cos'è allora, il Capitalismo?

In prima istanza è un fatto politico. Esso rappresenta il comando sull'intera società da parte di una categoria precisa di persone: gli imprenditori. La categoria che comanda in una società potrebbe essere qualunque: i coltivatori diretti, i soldati, i preti, i saggi, i manovali; anche tutti (tramite un Autocrate: le monarchie e gli Imperi non costituzionali). Col Capitalismo questa categoria è quella degli imprenditori.

Ecco perché il Capitalismo si è potuto formare: gli imprenditori hanno preso il sopravvento politico ed hanno modellato la società in modo da potersi sviluppare a danno del resto della collettività, accumulando così le grandi ricchezze concentrate.

Hanno cominciato a prendere questo sopravvento nel Cinquecento, in Europa settentrionale, in modo concomitante con la Riforma Protestante. Modellando la società la prima cosa che hanno fatto è stata proprio quella di togliere la libertà di mercato, portando i governi ad intervenire e a legiferare nell'economico costantemente a loro favore.

L'attuazione è avvenuta per gradi col sistema di governo detto della "Democrazia parlamentare": ci sono le elezioni, che sono influenzate dai media, che a loro volta sono potentemente influenzati dal danaro, e quindi il gioco è fatto. Ciò è riuscito perché il tutto è stato fondato sull'equivoco dell'amore per la "libertà", bella parola in effetti (è un vecchio trucco quello di adulare la vittima designata; si chiama il bacio della morte).

Quando il dominio degli imprenditori è molto forte si arriva a impedire la partecipazione al voto degli elettori potenzialmente ostili: negli Stati Uniti la legislazione e gli accorgimenti elettorali fanno in modo che la percentuale di votanti alle elezioni di Contea - le più importanti perché i loro esiti determinano le successive Statali e Presidenziali - non superi il 25% degli aventi teoricamente diritto; comunque nelle Statali non si fa superare la percentuale del 35% e nelle Presidenziali del 50%.

In questo caso si ha una dittatura vera e propria, ancorché surrettizia; è da chiamare dittatura dell'imprenditoriato. Dato che una grande ricchezza è assai difficile da accumulare, ma una volta fatta quasi automaticamente si conserva e anzi aumenta sempre più coi discendenti, la categoria degli imprenditori al comando diventa rapidamente una casta ereditaria.

Così è con certezza sempre negli Stati Uniti, dove sembra che le grandi ricchezze vadano e vengano con grande facilità, e dove invece non cambiano mai indirizzo: quel 50% della ricchezza nazionale che è posseduto dall'1% della popolazione proviene, di eredità in eredità, dai tempi coloniali.

L'efficienza del Capitalismo

La leggendaria efficienza economica del Capitalismo è anch'essa un fatto politico. Non dipende dalla logica con cui in esso si svolgono tecnicamente i rapporti economici. Dipende dal suo potere politico: più è grande questo potere e maggiore è l'efficienza economica.
Prendiamo ancora gli USA: da cosa dipende la loro famosa efficienza, quella sbandierata sempre dalla Confindustria?

Dallo stato di terrore in cui sono tenuti i dipendenti, da cui sono pretese prestazioni impensabili. Il dipendente americano deve eseguire perfettamente quanto chiestogli, altrimenti è licenziato. Quanto chiestogli è un ritmo e una qualità di lavoro, e per chi è a contatto col pubblico anche un preciso atteggiamento. Fanno più pena i secondi dei primi.

Impiegati e commessi devono essere gentilissimi e pazientissimi col cliente, sorridere molto spesso per farlo sentire gradito e importante, e così fanno sempre, anche quando apparentemente potrebbero prendersi qualche libertà.

Perché? Perché ci sono i controlli: incaricati di agenzie di consulenza aziendale - dei poveracci a loro volta, pagati a cottimo o con la minimum wage - si fingono clienti nel massimo modo sgradevole deciso dalla ditta committente come tollerabile, e l'impiegato che butta il copione è licenziato.

I dipendenti pubblici sono controllati in modo particolare: tutti i turisti italiani negli USA che entrano in un ufficio postale rimangono meravigliati dal confronto con i buzzurri di casa e dicono: Che efficienza! Che gentilezza! Ti credo. Io posso aggiungere che sono anche onesti: offrigli una bustarella e ti denunceranno subito, perché penseranno che sei un agente provocatore.

E la pena per un dipendente pubblico corrotto è tremenda: non solo è licenziato e sottoposto al giudiziario per una condanna detentiva e il risarcimento dei danni, fissati sempre su misura per togliergli tutti i beni mobili e immobili, ma perde anche la pensione maturata.

La pena insomma è: prima ti farai un po' di prigione e poi tu e la tua famiglia sarete degli homeless per sempre. Fra l'altro il ricatto sulla pensione è il segreto della formidabile disciplina delle Forze Armate americane: non c'è uomo più zelante e ubbidiente agli ordini di un militare americano vicino alla pensione (sempre che non debba rischiare la pelle davvero, si intende).

In breve l'efficienza americana non è dovuta al sistema capitalista, ma al terrore, un terrore che si è potuto instaurare appunto perché si ha una dittatura politica.

Qualunque dittatura può raggiungere l'efficienza americana, qualunque tipo di economia abbia: basta che introduca pene analoghe. Ciò però non si è mai verificato.

Perché ?

Perché nessuna è mai stata l'espressione della categoria degli imprenditori, nessuna è mai stata così ferocemente, fisiologicamente, antipopolare.

Le dittature classiche, che conosciamo, sono state o sono tutte popolari, tese a fare l'interesse circa di tutti, come lo vedevano o lo vedono. L'esempio di riferimento è la dittatura del proletariato, ma anche fascismo e nazismo rientrano, anche dittature come quelle di Gheddafi e Saddam Hussein.

Le dittature dell'America Latina, e analoghe, non c'entrano nulla col discorso : sono regimi imposti dall'esterno, guarda caso proprio dagli USA ; sono un tipo di amministrazione coloniale.

E l'efficienza dei Paesi dell'Europa Occidentale? Qui il potere politico degli imprenditori non è così assoluto come negli USA ed effettivamente la loro efficienza economica è più bassa. E' ancora notevole però, ed è dovuta senz'altro alla paura che Paese per Paese gli imprenditori sono riusciti, sempre per via politica, a istillare nei dipendenti.

L'efficienza minima si ha nell'amministrazione pubblica italiana, perché non è possibile il licenziamento né altro, praticamente; nelle aziende private invece si ricorre a torture psicologiche devastanti, come il mobbing ad esempio, che sempre partono dall'alto per forzare le dimissioni. Sono dei reati, delle aggressioni (che ogni tanto risultano fatali: sono le "morti bianche"), che non sono riconosciuti dal Codice Penale solo perché i loro responsabili hanno troppo potere politico.

Ma le cose possono cambiare e si spera sempre che le galere possano finalmente riempirsi della gente giusta. Non bisogna comunque esagerare la portata dell'efficienza economica dell'Occidente. E' capitalista-terrorista, dove più e dove meno, ma è anche colonialista, e non è facile valutare quale delle due cose incida di più nei Prodotti Nazionali. Bisognerebbe provare, ecco: togliergli lo sfruttamento coloniale e vedere che fine fa. Secondo me, non un granché.

Il capitalismo è anche un fatto esistenziale

In seconda istanza il Capitalismo è un fatto esistenziale. Esistenziale perché implica una valutazione della realtà umana assoluta, svincolata dal tempo e dallo spazio. Perché gli imprenditori, cioè i ricchi, prendano il sopravvento occorre per forza un qualche consenso generale: occorre l'ammissione, magari inconscia - appunto esistenziale - che ne abbiano diritto.

Ciò è fornito dalla religione Protestante, che interpretando correttamente l'Antico Testamento dice che la ricchezza materiale è il segno della predilezione divina. E se i ricchi sono gli approvati da Dio allora dovranno governare. Ecco perché la scalata al potere degli imprenditori e la Riforma Protestante sono andate di pari passo.

In conclusione il Capitalismo è un individuo siffatto: si veste da banchiere, ma è un fior di politico, e culturalmente è un Protestante. Questo ci dice che atteggiamento tenere. Innanzitutto occorre smettere di parlare di economia con lui. L'economia non c'entra niente: è un effetto e non la causa.

La causa è la politica e su questo tavolo va fatto il discorso. Che verte sulla solita, primordiale domanda delle società umane: Chi comanda ?
Lui dice che comandano gli imprenditori e noi diciamo che non ci sta bene, perché né lo siamo né lo vogliamo essere.

Lui dice che vince le elezioni e noi diciamo che le sue elezioni sono truccate. Sono truccate perché i media sono in suo possesso e la gente - è scientificamente dimostrato - non riesce a discriminare bene fra quello che dicono i media e il suo reale interesse. Inoltre si approfitta degli ignoranti e degli scoraggiati - dei poveri in pratica - per indurli a non esercitare il loro diritto elettorale, perché nonostante i media gli sarebbe sfavorevole.
Accetteremo il verdetto delle elezioni solo quando saranno giuste.

Non lo saranno mai?

Più che vero, ma ci accontenteremo di una grossolana approssimazione: proporzionale pieno, obbligo di voto forzoso per tutti, quotidiani solo dei partiti e mantenuti dallo Stato (non c'è nulla di peggio di un giornale "libero" e "indipendente"), televisione solo pubblica e gestita con parità da tutti i partiti a prescindere dalle loro consistenze elettorali, obbligo per le librerie di tenere i libri di valenza politica (come i libri di storia, ad esempio) pubblicati da tutte indistintamente le case editrici, divieto di importazione di prodotti culturali stranieri con valenza di propaganda (ad esempio di tutti i film americani).

E' poco, è niente, ma sarà più che sufficiente a tenere ogni volta gli imprenditori ben lontani dal potere.
Basterebbe al limite l'obbligo forzoso del voto: se in una qualunque società la percentuale dei votanti è vicina al 100% - come democrazia vuole, non è vero? - il Capitalismo sparisce.

E il diritto divino dei ricchi a dominare sancito dal Vecchio Testamento?

Al Vecchio Testamento potranno credere i Protestanti e gli Ebrei, se vogliono. Noi non siamo né l'uno né l'altro, né - per carità - vorremo mai esserlo. Noi abbiamo un'altra dimensione esistenziale, noi operiamo un'altra valutazione delle cose, in cui un testo così insensato, in più dimostrato e ridimostrato falso ("profezie" retrodatate, taglia e cuci di documenti, fonti accertate come una leggenda Sumera e il Libro dei Morti egiziano, eccetera), non trova udienza.

Noi se siamo religiosi al massimo crediamo nel Nuovo Testamento. E vi crediamo perché dice una cosa verosimile, e cioè esattamente l'inverso del Vecchio: che per i ricchi non c'è salvezza. Infatti "E' più facile per un cammello passare per la cruna di un ago che per un ricco raggiungere il Regno dei Cieli", e il Discorso della Montagna non contempla certo un bel "Beati i ricchi perché...".

Se i ricchi sono condannati da Dio, perché dovrebbero comandare sulla terra? Al contrario, visto che hanno sollevato loro - nel Cinquecento - il problema delle gerarchie, bisognerà stabilire che devono essere comandati, che devono cominciare a scontare la pena, qua fra di noi.


Complotti CIA, rivelazioni a prova di Bomba
di Giulietto Chiesa - Megachip - 27 Dicembre 2010

Avviso ai lettori di questa nota. Vorremmo inaugurare una nuova serie di commenti e analisi, dedicata interamente ai “negazionisti del complotto”. Cioè a quei signori che, per incultura politica totale, ovvero per introiettata, supina acquiescenza alle fonti ufficiali (il riferimento è, in questo caso, ai giornalisti mancati) si affannano, ogni volta che qualcuno cerca una spiegazione ai fatti che occorrono nella vita reale, ad accusarlo di “complottismo”.

Categorie, le sopra elencate, assai numerose, oltre che oltremodo dannose per la convivenza umana. Salvo che per un aspetto: che allietano la nostra esistenza con inaspettate capriole, gag, involontaria esibizione di comica insipienza, della qual cosa siamo loro moderatamente grati.

E veniamo al dunque. Il giornale più complottista del mondo – così ci pare di poterlo definire dopo la rivelazione dei nove banchieri nove che si riuniscono una volta al mese a South Manhattan, nei pressi di Wall Street, per decidere i destini, finanziari e non, del pianeta – (s’intende il New York Times), appena messo piede nella Grande Mela, mi gratifica di un altro episodio principe di complottismo al quadrato.

Con un titolo in prima pagina che è tutto un programma, il New York Times ci aiutava a trascorrere in pace il Natale e il Capodanno: «I segreti della CIA potrebbero affacciarsi in un procedimento penale svizzero».

Ohibò, dico io. Sarà mica un altro episodio della saga di Wikileaks?

No, state tranquilli. Wikileaks non c’entra. C’entra un magistrato svizzero, nome Andreas Müller, Carneade che vuol mettersi nei guai, che ha scoperto, dopo due anni d’indagini, i seguenti, succulenti retroscena (leggi complotti).

Retroscena uno: c’era un gruppetto di operatori economici, composto da padre, e due figli, tali Friedrich Tiller (padre) e Urs e Marco (figli), che aiutarono, per anni, l’architetto della bomba nucleare pakistana, A.Q.Khan, a smerciare i suoi segreti verso la Corea del Nord, verso l’Iran, verso la Libia, insomma impiegati per conto della nota sequela di “stati canaglia” come ebbe a definirli, a suo tempo, George Bush Junior.

Impiegati si fa per dire, perchè presero decine, probabilmente centinaia di milioni di dollari per questi servigi.

Va bene, direte, ma che c’entra la CIA? Ecco il retroscena due. I Tiller lavoravano anche per la CIA. E, s’intende, prendevano decine di milioni anche per questo secondo servigio. Ma come? – direbbero Pier Luigi Battista, o Ferruccio Bello, vuoi forse affermare che era la CIA che controllava lo smercio di tecnologie nucleari? Risposta difficile a darsi. Forse che sì, forse che anche.

Fatto sta che la CIA pare abbia fatto fuoco e fiamme per impedire che l’inchiesta del signor Andreas Mueller andasse in porto. Scrive il New York Times che “l’Amministrazione Bush ha fatto pressioni straordinarie per proteggere i Tiller da ogni investigazione, arrivando al punto di persuadere le autorità svzzere a distruggere equipaggiamenti e informazioni che erano state scoperte nei loro computers”.

In effetti pare che ci siano riusciti solo in parte, ma quanto basta per fare sbottare il detto Mueller: il governo svizzero – ha detto il giovedì prima di Natale, illustrando ai giornalisti un rapporto di 174 pagine – “ha interferito massicciamente sul corso della giustizia, distruggendo quasi tutte le prove”.

Così abbiamo conferma di un piccolo complotto dentro un grande complotto: il governo svizzero è sovrano, su certe questioni, come Gianni Riotta è un frate francescano, o Augusto Minzolini un agente di viaggi nel Mar dei Caraibi.

E veniamo al retroscena principale (come lo chiameremo se non complotto, visto che avveniva, ma fuori da ogni legge e, soprattutto, fuori da ogni pubblicità?): com’è che la CIA usava i Tiller?

Lasciava che passassero i disegni delle bombe a chi li aveva commissionati, ma ogni tanto – senti senti l’astuzia ! – infilavano in quei disegni, o in quelle apparecchiature, dei “difetti”, o dei bugs, che avrebbero potuto sia provocare disastri in corso di fabbricazione, sia fornire informazioni circa la prosecuzione dei “lavori” di costruzione delle bombe. Naturalmente, in questo modo, la CIA poteva ostacolare il procedimento.

Ma resta il fatto che la CIA sapeva tutto in anticipo di quanto stava avvenendo. A quanto risulta al magistrato svizzero, in molti casi disegni e documentazione essenziale sono stati lasciati “passare” con il beneplacito del servizio segreto americano. Il che spiega perfettamente, adesso, perchè gli Stati Uniti non vogliono che la verità venga a galla, e proteggono i Tiller.

Questo è il punto. Se si scoprisse la verità, ogni volta che si alza l’allarme atomico, sia esso in Nord Corea, sia in Iran, potremmo subito ringraziare gli Stati Uniti d’America per il cospicuo contributo da essi dato alle bombe atomiche dei paesi canaglia.

Ma c’è un altro punto da far emergere, ad uso e consumo dei “negazionisti dei complotti”. Questa storia ci dice, a chiare lettere, che non c’è azione eversiva, gruppo terroristico, atto terroristico vero e proprio, operazione di diversione, complotto, crisi di governo, che non sia monitorato accuratamente dai servizi segreti americani.

Onnipotenti? Niente affatto, perchè non si può essere contemporaneamente onnipotenti e stupidi. Ma molto presenti, e molto ricchi, questo sì, lo si può affermare. Quindi, quando scoppiano le bombe, siano esse atomiche o al plastico, chiedetevi sempre, voi che non siete “negazionisti del complotto”, quanto di ciò che sarebbe accaduto probabilmente sapevano in anticipo i servizi segreti americani.

Naturalmente tutto questo non c’entra nulla con l’11 settembre del 2001.


Manipolazione della coscienza sociale attraverso i mass media

di Saida Arifkhanova - http://onlinejournal.com - 22 Ottobre 2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di NIKLAUS47

L’informazione è una parte importante nella vita degli uomini moderni. Nella vita moderna l’informazione diventa un elemento sempre più significativo assieme all’istruzione; il modo in cui la gente interagisce con l’informazione definisce in buona parte il loro livello d’esistenza.

Nel XXI secolo il possesso di informazione e istruzione determina lo status di una persona moderna nella società. Assieme all’ambito dell’istruzione, l’informazione determina gli ambiti del lavoro e dell’economia ed influenza la sfera della politica statale.

La manipolazione delle informazioni e della coscienza sociale nel nostro tempo stanno diventando tecnologie per programmare il comportamento delle persone.

Manipolando la società si possono distruggere alcune idee dentro alla mente delle persone e su quelle rovine costruire nuove idee e nuove fondamenta, come ad esempio una nuova ideologia.

I sistemi di telecomunicazione, concepiti come importante raccordo per lo smistamento di informazioni, hanno un posto dominante sull’ambiente umano. “La manipolazione dell’informazione è simile alla disinformazione...” scrive lo studioso Vladimiri Volkov nella sua “Storia della disinformazione”. Scrive che la manipolazione intesa come distruzione ha tre scopi:

1. demoralizzare la nazione attraverso la disintegrazione dei gruppi che la conformano
2. screditare le autorità e i loro valori
3. neutralizzare le masse onde prevenire qualsiasi forma di comportamento spontaneo a favore dell’ordine stabilito e ad un certo punto portare al potere un piccolo gruppo di persone.

Un altro ricercatore, Sergey Kara-Murza, nel suo libro “Manipolazione delle coscienze” segnala tre caratteristiche principali della manipolazione:

1. La manipolazione è un tipo di influenza spirituale e psicologica quando le strutture mentali e spirituali dell’individuo sono bersagliate.

2. La manipolazione è un’influenza nascosta, fatto che deve restare sconosciuto a chi subisce la manipolazione.

3. Una manipolazione influente richiede considerevoli abilità e conoscenze specialistiche.

Nel suo lavoro “L’uomo manipolato”, il ricercatore Herbert Franke scrive quanto segue: “Quando subiamo una manipolazione nella maggior parte dei casi dobbiamo intendere un’influenza mentale esercitata segretamente, di conseguenza a scapito di coloro verso i quali è indirizzata”.

Secondo tutti questi studi, la manipolazione dell’informazione attraverso i mass media è indirizzata verso la società. Secondo l’opinione degli scienziati, la manipolazione si rende necessaria quando lo Stato è interessato a rendere popolari certe idee, cercando di creare delle fondamenta ideologiche per giustificare determinate misure d’influenza.

Dunque la propaganda lavora direttamente al servizio delle necessità ideologiche dello Stato e di coloro che si trovano a guidare lo stato.

Con lo sviluppo dell’economia e della generale commercializzazione dei mezzi di comunicazione di massa, l’informazione è anch’essa diventata una merce, vale a dire un articolo di scambio e i proprietari dei media devono renderli appetibili al mercato, a prescindere dal fatto che i media siano in primo luogo un’istituzione sociale e solo in seconda istanza un’azienda privata.

Molto spesso, utilizzando pratiche prese in prestito dal mondo degli affari, i proprietari di media privati cercano di migliorare il loro prodotto rendendolo più adatto alle necessità e alle richieste dei consumatori. E i consumatori di questo prodotto sono il pubblico.

I mass media indirizzano i propri servizi alla società e ogni servizio viene proposto per la persona a cui è indirizzato.

La natura della manipolazione

Di regola la manipolazione ha un doppio impatto, quando assieme ad un messaggio aperto, il manipolatore manda al destinatario un messaggio in codice che produce nella sua mente le immagini necessarie al manipolatore.

La manipolazione come tecnologia basata sulla suggestione esercita la sua influenza sulla gente, e spesso riesce a farsi obbedire facendo ricorso non tanto alle loro menti bensì ai loro sentimenti. La suggestione è un sentimento profondo presente nella psiche, emerso prima ancora del pensiero analitico.

Al di là della nozione di suggestione c’è anche la nozione di persuasione e queste due nozioni sono piuttosto differenti. Qual è la differenza in linea di principio tra la suggestione e la persuasione? Di regola, la suggestione si raggiunge attraverso un metodo manipolativo. Si basa sui sentimenti umani. Al contrario, la persuasione si basa su fondamenta logiche.

Durante la persuasione vengono usati fatti, argomentazioni e spiegazioni. Essi negoziano con la parte attiva dell’essere umano, a cui vengono offerti una serie di argomenti che lui può capire, accettare oppure rifiutare.

La differenza, in linea di principio, tra suggestione e persuasione è che la suggestione penetra la coscienza umana nonché la sfera mentale, stabilendosi come qualsiasi oggetto della percezione passiva.

Dunque, la suggestione è l’intrusione di un’idea dentro alla mente umana, senza la partecipazione della sua parte attiva. La suggestione va a incidere sulla persona non attraverso la convinzione logica bensì influenzando direttamente la sfera mentale - impiantandovi idee grazie ai sentimenti ed alle emozioni.

Un’altra differenza tra la suggestione e la persuasione è che, a livello dei processi psicologici, la percezione è collegata direttamente con l’immaginazione, la quale ricombina nuovamente gli oggetti una volta che vengono fissati nella memoria.

Poiché l’immaginazione è meno collegata con la logica, essa è più vulnerabile e più sensibile agli influssi esterni, trasformando all’interno della mente quelle impressioni ricevute quando oramai l’immaginazione ha creato immagini mentali o percettive.

A loro volta queste immagini creano emozioni. Mezzi così forti per influenzare la coscienza sociale, come il terrorismo associato alla televisione per esempio, si basano su un simile connubio tra immaginazione e sentimenti.

I legami tra il terrorismo e la tv

Osservando come avvengono gli atti di terrorismo e come vengono riflessi dai mezzi d’informazione, possiamo evidenziare alcune regolarità.

1. Atto terroristico
2. Televisione
3. Influenza sull’immaginario e sui sentimenti del pubblico.
4. Comportamento necessario programmato
5. Spegnimento del senso comune nel pubblico televisivo.

Esaminando, stadio dopo stadio, l’influenza dell’atto terroristico e il modo in cui viene riflesso dai programmi d’informazione televisiva, si può seguire cosa succede al fatto. Di regola, lo scopo principale del terrore è intimorire e creare una paura diseguale. La paura scende quando la tv fa un servizio su un atto terroristico o su un rapimento.

Non è un segreto che tutti coloro che siedono di fronte alla tv in quel momento immaginano di trovarsi nei panni delle vittime degli attentati. Quindi questo porta alla naturale identificazione di uno con la persona vista in questa o quella situazione.

In una situazione del genere, la coscienza e la mente sono in preda alle emozioni, che sovrastano la persona e riducono l’introspezione critica. Dunque, manipolando i sentimenti del pubblico attraverso la televisione, i terroristi, oppure coloro che sono interessati a trasmettere quel servizio, attirano l’attenzione sulle loro notizie. Hanno bisogno che la persona ricordi le notizie.

A questo proposito, la notizia viene ritrasmessa ripetutamente come mezzo usato attivamente per trattenere l’attenzione. Caratteristiche come la stabilità e l’intensità della ripetizione dei servizi d’informazione vengono usate a questo proposito. Inoltre, vengono usate altre peculiarità tecnologiche della televisione, tra cui:

- le parole del presentatore
- musica
- immagini d’archivio.

Esaminando ancora una volta che cosa succede in realtà, ci rendiamo conto che quando una persona riceve un messaggio, il modo in cui interagisce con la sua memoria si divide due stadi. In un primo momento abbiamo una memorizzazione passiva nel subconscio e in seguito l’informazione viene processata dall’intelletto.

Quando l’informazione ha forti tinte emotive, si “impianta” nella memoria ed inizia a influenzare la coscienza. Come risultato della ripetizione viene ricordata, per quanto questa memorizzazione sia involontaria, come la pubblicità che spesso viene ricordata rapidamente e senza farci caso.

Attualità dell’argomento

Secondo B.E. Kretov, nella comunicazione politica un posto speciale è occupato dallo scambio di informazioni tra governo e governati per avere il consenso necessario alle decisioni di governo mentre coloro che vengono governati cercano di far sentire i propri bisogni e di renderli pubblici.

Queste due parti possono raggiungere il consenso grazie soltanto alla comunicazione - lo scambio di informazioni. Per raggiungere l’unità con il popolo, le autorità cercano mediante i mass media di impiantare nella gente le loro idee, concordanti con i loro interessi.

I conflitti e le contraddizioni sono inevitabili in una simile struttura di società, perché la stampa democratica si concentra sulla libertà, sulla glasnost, sui dibattiti e sui diritti umani, mentre l’esercito e la polizia si concentrano sulla disciplina, la segretezza, la sicurezza e il patriottismo, oppure parlano della necessità dell’uso della forza.

Tornando alla questione, dopo l’11 settembre 2001, un’atmosfera di paura nei confronti degli attentati terroristici è stata diffusa lungo il pianeta attraverso i mass media. Come risultato, in tutti i Paesi del mondo il controllo statale sui mass media è aumentato come giustificazione dell’idea di “sicurezza nazionale”.

La manipolazione presume sempre un pubblico - i rappresentanti della società. I rappresentanti della società, influenzati da diversi servizi, diventano parte delle masse e durante il processo di trasformazione da individui separati a “folla collettiva”, aggregano caratteristiche tipiche delle masse:

1. La tendenza verso la spersonalizzazione - l’individuo viene annullato dalla coscienza della massa sotto l’influsso delle pulsioni.
2. Prevalenza dei sensi sulla coscienza - l’intelletto viene sopraffatto dai sentimenti e dagli istinti.
3. Si abbassano sia l’intelletto che i valori morali.
4. Il livello di responsabilità scende fortemente.

Tutti questi segni rendono il gruppo di persone particolarmente vulnerabile e sensibile alle varie manipolazioni da parte delle autorità.

Informazione estetica e semantica

Tutte le informazioni possono a loro volta essere suddivise in due gruppi: informazione estetica e informazione semantica. L’informazione estetica non viene sottoposta alla logica e sollecita un certo stato mentale - emozioni e reazioni invece di una riflessione della realtà.
Più stabile, crea un’atmosfera nella coscienza umana.

Qualsiasi informazione estetica è indirizzata non alla comprensione bensì alla suggestione, di conseguenza può diventare facilmente uno strumento d’abuso.

L’informazione semantica, o nozionale come spesso viene chiamata, si basa sulla persuasione e l’interesse e viene indirizzata alla logica e al senso comune. Questa aveva un ruolo importante nella attività politiche prima del coinvolgimento attivo dei media in politica. Gli sviluppi vengono valutati da metodi d’informazione semantica, attraverso la percezione analitica - dicono gli esperti.

In senso pratico le autorità prediligono l’informazione estetica su quella semantica perché è in grado di preparare azioni che contraddicono la logica e il vero stato delle cose che qualche volta possono essere invisi all’élite che detiene il potere. E’ un tipo di fenomeno che dipende dal fatto che la l’informazione estetica non è mirata alla comprensione, bensì alla suggestione di simboli stabili grazie all’uso di svariati effetti.

Poiché i mass media come istituzione sociale hanno il prestigio di essere una fonte ufficiale d’informazioni, godono di un alto livello di fiducia da parte di un ampio pubblico e uno spera forniscano informazioni valutative. Queste informazioni valutative inducono alla creazione dell’opinione pubblica.

Se in senso pratico la stampa si basa sull’onda semantica, la tv usa le sue potenzialità audio e video influenzando la percezione estetica della coscienza del pubblico. La televisione è il più importante strumento di influenza politica sul pubblico per via delle sue caratteristiche tecniche oggettive.

I principi dell’estetica televisiva

La televisione è composta da un mosaico di immagini che rappresentano l’intero pianeta sotto forma di servizi non collegati da un legame logico monosemantico. I servizi che arrivano nella mente del telespettatore rompono la dispersione generale del mosaico e questi cerca di unirli in un insieme semantico.

Il testo letto dal presentatore viene preso come un verità ovvia, a causa del prestigio tutto speciale della tivù come istituzione mediatica. Se il presentatore legge un testo sullo sfondo di immagini video registrate sulla scena dell’azione, quel testo viene preso come verità assoluta.

In vista del fatto che la televisione gode della fiducia comune della gente, è difficile per una persona diversa valutare criticamente uno sviluppo. Questo succede anche perché l’informazione estetica sotto forma di flusso audio e video non è costruita logicamente. Non c’è sostanza, né argomentazione, né un contesto che abbia senso in quel flusso se non viene aggiunto dal testo del presentatore.

La codifica manipolativa del servizio passa inavvertita dal pubblico di massa perché la differenza tra la realtà e la sua interpretazione è quasi intangibile mentre la distorsione della realtà è inevitabile. In questo caso i servizi d’informazione vengono confezionati attraverso la ripetizione, lo spezzettamento, l’urgenza ed il sensazionalismo.

Inoltre prevalgono l’assenza di fonti alternative di informazione, la presentazione univoca delle informazioni e l’occultamento delle notizie alternative. Conseguentemente si crea una realtà virtuale invece di riflettere la vera realtà.

La tecnica di isolare il destinatario dalle altre influenze viene usata spesso, assieme alla semplificazione della presentazione delle notizie e all’uso di stereotipi e metafore varie.

La lingua della manipolazione

Si presume che i giornalisti dei mass media usino una lingua “corretta”. Questo vuol dire che una lingua “corretta” per la tv è quella usata dal presentatore che legge il testo datogli da un editore, il quale a sua volta lavora sul materiale prodotto da un giornalista come suggerito dal capo.

Quindi le notizie vengono “create” presso la stazione televisiva. Con l’aiuto di parole e del video viene sempre creato un contesto del servizio, che può essere cambiato, semplificato o reso più complicato.

Una simile manipolazione è legata da vicino alla natura della percezione umana. Gli esseri umani sono attratti per natura dalle spiegazioni semplicistiche. C’è una certa caratteristica della coscienza umana che regola tutte le informazioni nuove secondo gli stereotipi esistenti.

Il metodo per una tale semplificazione consiste nell’aiutare il manipolatore a dimostrare l’importante idea che deve essere suggerita al pubblico facendo uso di una forma concisa, forte e impressionante - l’asserzione. Di regola, il pubblico prende per buona la notizia senza pensare.

Un altro metodo importante per rafforzare gli stereotipi nelle menti è la ripetizione. La ripetizione dà alla notizia una caratteristica assertiva aggiuntiva, in altre parole la fa diventare un’idea fissa, un’idea che incita all’azione. La tecnologia propagandistica si basa proprio su questa tecnica ripetitiva.

L’urgenza aiuta il servizio ad avere una forte influenza sul pubblico, aumentando le opportunità di manipolazione. La tecnica di spezzettare il servizio comporta la perdita di senso e d’integrità.

Un fatto presentato con maggiore importanza e originalità è artificialmente distorto dalla sua importanza. Alle notizie viene attaccato in maniera artificiale un tocco di sensazionalismo. Di solito viene fatto perché sotto la maschera del sensazionalismo si trova uno sviluppo nascosto, che il pubblico non dovrebbe sapere. Molto spesso il sensazionalismo viene usato per mettere fine ad uno scandalo o ad una psicosi quando c’è bisogno di distrarre l’attenzione del pubblico.

In molti Paesi dove le sorti dello Stato vengono decise dalla vittoria di un partito piuttosto che di un altro, non dipende da quanto convincente sia il programma del candidato bensì da quanto lui sia stato bravo ad organizzare lo show mediatico. Le possibilità per un candidato di vincere le elezioni dipendono dal riuscire ad essere il punto focale della campagna mediatica.

Ci sono poi le notizie ufficiali e quelle non. Le notizie ufficiali di regola appoggiano la ripartizione di forze già esistente e riflettono le vedute delle strutture di potere in una data società in un dato momento. Le notizie non ufficiali sono quelle che vengono dalle forze d’opposizione.

Radicalmente diverse dalle notizie ufficiali, quelle non ufficiali smuovono quel rapporto di forze. Per i propositi della propaganda un’asimmetria nell’informazione è usata perché in ogni società l’ideologia ufficiale si oppone a quella non ufficiale.

C’è anche un metodo di asimmetria nella copertura, quando un fenomeno viene seguito nella sua totalità mentre un altro viene taciuto. Nella vita quotidiana ognuno di noi può rendersi conto che un evento ha una copertura positiva e un’altra negativa. In questo senso vediamo che l’asimmetria nell’informazione scompare gradualmente e le persone si abituano ad un’interpretazione di parte: positiva o negativa.

Come risultato di analisi qualitative e quantitative eseguite sulla stampa uzbeka, l’autore di questa ricerca ha svelato le principali tecnologie usate. In senso qualitativo, questo lavoro ha lo scopo di studiare le tecnologie per la manipolazione - l’uso di metafore, stereotipi e ripetizioni. In senso quantitativo, è stata calcolata la quantità di luoghi comuni precisi usati ripetutamente.

Per esaminare i siti d’informazione uzbechi sono stati scelti i siti delle agenzie stampa “Turkiston Press” e “UzA” e del quotidiano “Narodnoye slovo”. Questo esame ha mostrato come le notizie presentate siano di parte. I materiali scelti non hanno la moderazione adatta alla presentazione di notizie. Tutti gli sviluppi vengono trattati in maniera predominantemente positiva. Per causa della ripetizione si produce un effetto d’imposizione d’idee e di giornalismo di parte.

Inoltre, l’occultamento delle fonti d’informazione e l’uso della tecnica dell’accennare senza dare mai i nomi veri, ad esempio: “sostenitori stranieri” oppure “certi politici occidentali”. Vengono anche usate metafore come queste: “certe forze oscure”, “briganti che hanno svenduto la patria per una canzone”, “furfanti provocatori” “le forze oscure sono in agguato e attendono il loro turno”.

Molto spesso totalmente polarizzate, metafore in apparenza positive vengono usate su altri. Tali caratteristiche diverse separano le persone in “buone” e “cattive” e mettono in evidenza l’orientamento propagandistico di una determinata pubblicazione.

Ci sono più informazioni neutre sull’agenzia di stampa “Turkiston Press” perché la sua impostazione differisce da quella delle altre due pubblicazioni sopra citate. Si può dire che l’informazione viene presentata in maniera più professionale dal punto di vista dell’imparzialità.

Leggendo brani da diversi servizi stampa si può notare il tentativo di stereotipizzare, standardizzare e semplificare gli sviluppi. Tuttavia molto spesso le pubblicazioni che presentano opinioni e tendenze diverse le esprimono attraverso i loro giornalisti che le indirizzano al pubblico.

La professionalità dei giornalisti all’ora di verificare la qualità del materiale offerto dopo aver preso in esame l’autenticità e le sfumature degli eventi non sempre può garantire un alto livello di fiducia da parte del pubblico nei confronti delle fonti d’informazione.

La corrispondenza tra ciò che viene pubblicato e l’informazione crea dei criteri standard - tra cui l’efficienza, l’obiettività, l’autenticità e l’espressione della propria opinione, a prescindere dalle condizioni politiche fanno dei media un’istituzione di cui ci si può fidare, un ideale per cui lottare.

Per il momento uno dei più grandi problemi è l’autocensura da parte dei giornalisti nel presentare un determinato fatto. Ci sono fatti su cui la pubblicazione dà una valutazione propria, basandosi sulle opinioni degli esperti e dalle labbra di questi esperti impone “un’interpretazione corretta” e presenta una finta obiettività al pubblico sfruttando il metodo dell’analisi falsata.

Il pubblico di solito si aspetta informazioni valutative da parte dei media. Questo è spiegato dal fatto che i mass media come istituzione sociale godono il prestigio d’essere una fonte ufficiale d’informazioni, di cui la masse si fidano.

L’esame ha mostrato come ci siano anche citazioni provenienti da fonti anonime ed autorevoli le quali suggeriscono l’idea dell’occultamento di una notizia e quindi la creazione di una realtà virtuale invece di una riflessione della verità.

Conclusioni importanti

Esaminando le pubblicazioni di alcuni dei media in Uzbekistan, si può individuare quali sono le diverse tecniche manipolative usate con maggiore frequenza:

- Stereotipizzare
- “Polarizzare” il flusso d’informazioni
- Isolare il ricettore da altre influenze - mancanza di fonti d’informazione alternative;
- Parziale occultamento delle informazioni
- Servizi costruiti usando una terminologia professionale;
- Banalizzare
- Standardizzare
- Ripetere

Fra le tecniche manipolative speciali vi troviamo l’informazione asimmetrica e la copertura asimmetrica. In questo caso possiamo anche notare l’uso di metafore, il fissarsi sulle fonti autorevoli e spesso anonime, l’uso di metodi di contrasto e falsa analogia e servizi stereotipizzanti.

Il materiale usato dai media non è sempre professionale dal punto di vista delle passioni del singolo giornalista e il desiderio di esprimere il proprio punto di vista. Molto spesso, fidandosi delle opinioni degli esperti, una pubblicazione fornisce una valutazione parziale e di parte su di un determinato evento.

Prendendo in considerazione il fatto che la tecniche per la manipolazione diventano sempre più raffinate, la società deve far appello al senso di responsabilità sociale degli stessi giornalisti e alla loro osservanza dell’etica del giornalismo come base della professionalità di un giornalista.

Poiché i mass media producono informazioni, intrattenimento e educazione per il pubblico, essi devono cercare di combaciare con l’immagine rappresentata da un’istituzione sociale progressista ed innovativa, la quale fornisce informazioni che sono il più possibile obiettive ed efficienti.

I giornalisti devono cercare di astenersi dal fare commenti a favore di questo o quest’altro partito, cercando di essere equilibrati ed evitando di dare valutazioni estreme su situazioni reali.

Evitare l’uso di espressioni estremistiche e di stereotipi propagandistici fa sì che la fonte d’informazione meriti fiducia. La presenza di fonti autorevoli e anonime esclude qualsiasi interpretazione alternativa della notizia. Di conseguenza, un determinato stereotipo si consolida nelle menti del pubblico.

Secondo analisi qualitative e quantitative, quanto più una pubblicazione cerca di attenersi agli standard internazionali, tanto meno è motivata ad usare tecnologie manipolative per attirare l’attenzione dei lettori.

Proporzionalmente alla crescita della responsabilità giornalistica nei confronti della società e non solo di fronte agli editori, cresce inoltre la richiesta di professionalità nel giornalismo.

Attualmente i mass media progressisti si considerano un’istituzione socialmente responsabile. Allo stesso tempo, quanto minori siano i legami dei media, tanto meno verrà usato come uno strumento d’influenza sulle menti del proprio pubblico.

Quindi l’indipendenza economica dei media è di grande importanza. La società, nel proteggere i propri interessi, dovrebbe appellarsi di più alla responsabilità sociale dei giornalisti, alla loro professionalità e alla loro osservanza dell’etica del giornalismo come princìpi fondamentali della professionalità di un giornalista.

*Saida Arifkhanova, giornalista e ricercatrice residente in Uzbekistan.

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13. Totrov, R, Ruslan. Mass Media and Mass Consciousness
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29. Levchenko A.E. Forms and Methods of Media Influence on Public Consciousness


Italia, la criminalità che non c'è

di Maurizio Bongioanni - Peacereporter - 27 Dicembre 2010

Un rapporto europeo sui media svela l'anomalia dei tg italiani: come lo schermo crea le paure della società

L'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza ha diffuso un rapporto sulla rappresentazione mediatica e la percezione sociale delle notizie registrando un netto scarto tra la realtà e l'informazione, quindi tra ciò su cui si concentra l'attenzione mediatica e quello che la gente percepisce realmente.

Nel caso specifico dell'Italia, negli ultimi tre anni i timori per le dinamiche economiche sono cresciuti sensibilmente (come in tutta Europa). La disoccupazione è la voce che preoccupa di più l'italiano medio passando da un 28 percento del 2005 a un 51 percento nel settembre 2010.

La qualità dei servizi sociali e sanitari si inserisce al secondo posto nella classifica delle preoccupazioni, rimanendo stabile negli anni. Medaglia di bronzo per una voce in calo: l'immigrazione che passa dall'11 percento del 2005 al 9 percento del 2010.

Ma la sensazione è un'altra: a sentire il tg sembra che il primo problema sia come arginare la criminalità.

Cerchiamo di approfondire: la fotografia degli argomenti trattati dai tg nazionali mostra chiaramente che si dà spazio prima di tutto alla politica interna (17 percento contro una media europea del 10 percento), poi si parla di costume e Società (13 percento contro 5 percento) e di criminalità (10 percento contro 5 percento). In Europa si parla più di politica estera, lavoro ed economia.

In Italia di pastoni politici, delle nonne più giovani d'Italia e di immigrati ladri e assassini. L'opinione pubblica è preoccupata per il lavoro ma i media italiani non ne parlano molto, preferendo il tema criminalità e politica interna.

Vediamo nel dettaglio come i tg si dividono questo compito: Mediaset è il canale che dedica più spazio alla criminalità, inseguita dalla Rai. Tg5 e Tg1, in particolare, ne parlano ogni giorno dando vita a un processo che viene chiamato di "criminalità pervasiva": mentre gli altri canali europei trattano la stessa notizia per più giorni in Italia si tendono a utilizzare notizie 'usa e getta'.

Un giorno un figlio uccide la madre a martellate, il giorno dopo il vicino fa fuori moglie figlio e zia, al terzo giorno il nipote spranga in casa i nonni per rubargli la pensione. Non c'è alcuna continuità: solo il macabro piacere di raccontare quotidianamente un nuovo episodio di violenza. Solamente Rai3 e Rete4 (che preferisce parlare di altro) si scostano da questa tendenza.

Il fatto è che la rappresentazione mediatica di un timore che non esiste, se non in misura contenuta, contribuisce a innalzare la percezione di tale problema.

Secondo i dati della ricerca, infatti, il numero di reati è rimasto stabile negli anni. Quello che è cresciuto è il numero di notizie sugli atti criminali, con una punta estrema toccata nell'anno 2007 (per maggior precisione quando c'è stato il cambio di Governo, da Prodi alla vittoria schiacciante di Lega Nord e Pdl: uso strumentale del tema sicurezza?), crescita delle notizie che ha innalzato il livello di percezione in alcuni casi raddoppiandola rispetto al numero di reati realmente commessi.

Ma una persona potrebbe dire: in Italia esiste la criminalità organizzata che contribuisce alla notiziabilità di questi eventi. Ma anche questo, purtroppo, non è vero. Perché dal 5 aprile al 4 giugno 2010, ad esempio, sono state date dal notiziario in prima serata qualcosa come 15mila notizie di crimini violenti (cioè escludendo furti, rapine e droga) contro le 1947 dedicate al tema della mafia.

E se trasportiamo il confronto a livello europeo, ecco i risultati più clamorosi. Prendiamo Rai1: in base a dati del primo trimestre del 2010, l'emittente italiana ha una rappresentazione mediatica delle notizie di criminalità doppia rispetto alla Tve spagnola, due volte e mezza la Bbc britannica e la France2, più di dieci volte rispetto la Ard tedesca.

Nello stesso periodo preso in considerazione Ard ha dato 34 notizie contro le 431 di Rai1, quindi la media italiana è di più di due notizie al giorno.

E mentre le 34 notizie tedesche fanno riferimento per lo più a due casi (abusi su minori che hanno sconvolto l'intero paese) coprendo quindi il 58 percento delle notizie date, in Italia i grandi delitti occupano il 9 percento dell'agenda reati. Le altre notizie sono spesso date una volta sola.

Per concludere: mentre è la paura di perdere il posto di lavoro (o di non trovare una prima occupazione, nel caso dei giovani) a generare la principale inquietudine della società italiana, l'agenda di notizie diffusa dai media italiani verte in principal modo sui temi della criminalità (accompagnati da politica interna e costume) dando vita in certi casi a una chiara strumentalizzazione politica del tema sicurezza e in altri a una superficiale spettacolarizzazione da prodotto di intrattenimento (infotainment).


Il riarmo israelo-palestinese

di Eugenio Roscini Vitali - Altrenotizie - 27 Dicembre 2010

Mentre l’Argentina e l’Uruguay riconoscono la Palestina come Stato indipendente, nel vicino Medio Oriente la tensione torna ad essere alta: come riferito dal portavoce della polizia israeliana, Micky Rosenfeld, la scorsa settimana circa 26 razzi Aqsa3 e diversi colpi di mortaio hanno colpito il Negev occidentale.

Negli attacchi, rivendicati dai gruppi Ayman Jawda, cellule combattenti delle Brigate dei martiri di al-Aqsa, è stato centrato l’asilo d’infanzia del kibbutz di Zikim, pochi chilometri a sud della città portuale di Ashkelon, dove è rimasta ferita una ragazzina.

Pronta la reazione dello Stato ebraico: otto sortite aeree contro i tunnel scavati lungo sotto la Philadelphi Route, zona cuscinetto ad ovest di Rafah che divide l’Egitto dalla Striscia di Gaza e su un campo di addestramento delle Brigate Ezzedin al Qassam, situato nei pressi della città Khan Yunis, dove secondo fonti locali sono rimasti feriti due miliziani del braccio armato del movimento di resistenza islamico.

Gli F-16 avrebbero poi bombardato un’area ad est di Beit Lahiya, dove i miliziani sarebbero miracolosamente scampati all’attacco, una serra agricola e un caseificio nella cittadina di Asda al-I’lamiya, sempre ad ovest di Khan Yunis, e altri quattro raid sarebbero stati compiuti ad est del quartiere di az-Zaytun, distretto orientale di Gaza, contro il vicino campo profughi di Jebaliya e nell’area di Beit Hanoun, la città palestinese situata a pochi chilometri dal valico di Erez.

A quasi due anni dall’operazione Piombo Fuso, la campagna militare lanciata il 27 dicembre 2008 contro Hamas dalle Forze armate israeliane durante la quale sono morti 13 israeliani e 1417 palestinesi, 926 dei quali civili, nella Striscia di Gaza è tornato l’incubo della guerra. Secondo fonti palestinesi, dalla fine di novembre i bombardamenti avrebbero causato 12 morti e 28 feriti e, in previsione di nuovi attacchi, le autorità ospedaliere avrebbero annunciato lo stato d’allerta.

Il 23 dicembre si tornato a sparare anche nella zona agricola a ridosso della linea di confine, la fascia di trecento metri sul lato palestinese interdetta alla popolazione araba: nel corso di uno scontro a fuoco con l’esercito israeliano avvenuto ad est di Beit Lahiya un uomo sarebbe stato ucciso ed altri tre sarebbero rimasti feriti.

L’episodio ha fatto salire ulteriormente la tensione, ma in realtà la tregua entrata in vigore il 18 gennaio 2009 non è mai stata rispettata: nonostante il cessate il fuoco i miliziani del movimento islamico hanno continuato a lanciare i razzi Grad e Qassam contro le aree abitate di Ashkelon, Sderot, Eshkol e Ofakim, mentre i raid aerei israeliani hanno portato a termine violente rappresaglie che, nel solo 2010, hanno causato la morte di almeno 68 persone oltre ai dirigenti dei gruppi radicali e le basi del movimento combattente ma hanno colpito anche la popolazione civile.

Per disinnescare le tensioni delle ultime settimane Hamas sarebbe pronto ad aprire un tavolo di trattative per concordare una tregua reciproca, una proposta già avanzata altre volte ma che non ha poi trovato riscontro nei fatti.

Nei giorni scorsi il capo dell’esecutivo, Ismail Haniyeh, ha lanciato un appello pubblico alla comunità internazionale affinché contribuisca a fermare l’escalation militare e dopo le preghiere del venerdì, davanti ad una folla di sostenitori, il leader Mahmoud Al-Zahar ha detto che, ad eccezione di gruppi minori, il movimento di liberazione e le altre fazioni presenti nella Striscia di Gaza si sono già impegnati per un cessate il fuoco, a patto che Israele lo rispetti: «Siamo impegnati nella moderazione, se non ci saranno oppressione e aggressione».

Anche il capo negoziatore dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), Saeb Erekat, ha definito la situazione di Gaza “pericolosa”, soprattutto per le ripercussioni che potrebbe avere un’eventuale operazione militare israeliana nel Territorio controllato Hamas: «Un attacco contro la Striscia complicherebbe la situazione e trascinerebbe la regione nella completa anarchia, nella violenza e nel sangue».

Secondo una fonte militare israeliana della BBC «finché Hamas resterà al potere nella Striscia di Gaza, una nuova guerra nel territorio palestinese è solo questione di tempo». Negli ultimi due anni il movimento di liberazione si sarebbe riarmato ed avrebbe ora a disposizione un consistente numero di missili 9M133 Kornet (nome in codice NATO AT-14 Spriggan), sistema d’arma anticarro di fabbricazione russa con guida laser a fascio, raggio d’azione di 5,5 chilometri e testata a carica cava di tipo HEAT (High Explosive Anti-Tank), con capacità di penetrare una corazza reattiva-esplosiva (ERA) e un’armatura in acciaio di 1200 mm.

Le numerose informative dell’intelligence israeliana e il tank danneggiato il 6 dicembre scorso da un Kornet lanciato dalla Striscia di Gaza, hanno indotto il comando delle forze armate israeliane a dispiegare lungo il confine con il territorio palestinese il 9° Battaglione corazzato della 401^ Brigata, il primo e fino ad ora unico reparto dotato dei carri armati Merkava Mk-4 equipaggiati con il nuovo sistema di difesa antimissilistica Windbreaker.

Il Windbraker non è la classica corazza applicata ormai su tutti i carri armati per proteggerli dalle armi a carica cava e dai missili anticarro, protezioni passive in molti casi efficaci ma che appesantiscono e rallentano i mezzi: è un vero e proprio sistema d’arma dotato di piccoli radar sistemati sui quattro lati che neutralizza la minaccia prima ancora che questa raggiunga il bersaglio; una volta intercettato l’ordigno in arrivo un computer elabora i dati e a un lanciatore apre il fuoco sul missile facendolo esplodere.

Il Windbraker, prodotto e collaudato nel 2005 dalla Rafael di Haifa con l’indicativo ASPRO-A Trophy (Active Protection System for AFVs), è in grado di colpire più missili contemporaneamente e per la sua efficacia è stato utilizzato in Iraq sui blindati statunitensi Striker; ogni kit ha un costo di circa 300.000 dollari ma in futuro potrebbe essere sviluppata una versione Light che l’esercito israeliano potrebbe installare sui veicoli cingolati da combattimento, sui blindati e sui mezzi utilizzati per il trasporto truppe.


Una nuova guerra di Israele a Gaza, è solo questione di tempo
di Carlo M. Miele - www.osservatorioiraq.it - 27 Dicembre 2010

“Finché Hamas resterà al potere (a Gaza, ndr), è solo una questione di tempo prima che vi sia un altro conflitto”.

Ad affermarlo è un alto esponente dell’esercito di Tel Aviv, intervistato dal corrispondente della Bbc Jon Donnison a quasi due anni esatti dall’inizio dell’offensiva “Piombo fuso”, che danneggiò pesantemente le infrastrutture civili e militari della Striscia e causò la morte di circa 1400 palestinesi.

Secondo l’ufficiale, un nuovo attacco è inevitabile, dato che Hamas, che dal 2007 detiene il potere nell’enclave costiera, si è riarmato in maniera consistente negli ultimi 24 mesi, ritrovandosi oggi in una posizione militare ancora più forte.

Nelle ultime settimane, una nuova ondata di lanci di razzi da Gaza contro il territorio israeliano, e una serie di raid aerei compiuti da Tel Aviv contro la Striscia hanno fatto salire nuovamente la tensione nell’area.

I vertici militari israeliani sono allarmati soprattutto dal fatto che lo scorso sei dicembre, per la prima volta, i militanti palestinesi hanno utilizzato un missile Kornet, un ordigno fabbricato in Russia e capace di perforare anche i carri armati.

L’esercito israeliano è dotato di un sofisticato sistema di protezione anti-missili, conosciuto come “Trophy”, in grado di struggere gli ordigni come il Kornet.

Ciò nonostante, il capo di stato maggiore israeliano, generale Gabi Ashkenazi, ha dichiarato che il Kornet è “tra i missili più pericolosi che abbiamo visto su questo fronte e non è stato usato nemmeno durante la guerra in Libano” dell’estate 2006.

La tensione crescente lungo il confine tra Israele e la Striscia preoccupa anche il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat.

Un nuovo intervento israeliano porterebbe a un nuovo bagno di sangue, ha detto l’esponente di spicco dell’Autorità nazionale palestinese, secondo cui “soluzioni militari di questo tipo non portano a nulla e serviranno solo a complicare la situazione”.

Nell’ultimo anno sono stati almeno 62 i palestinesi uccisi nel corso dei frequenti raid compiuti dall’esercito israeliano a Gaza.

Nello stesso periodo, i razzi lanciati dalla Striscia (attribuibili a gruppi minori e non ad Hamas) hanno ucciso un bracciante di nazionalità thailandese.


Italia addio!
di Cosimo Lorè - Il Fatto Quotidiano - 28 Dicembre 2010

Dai prefetti ai generali vi è un adeguamento ed una selezione al contrario nell’attuale repubblica criminale italiana dove le leggi ad personam in realtà sono il piede di porco con cui si sta scassinando lo Stato di Diritto nel nome di un presunto seguito popolare frutto di subornazioni televisive e pubblicitarie di una popolazione in balia di una scuola pubblica disastrata e di una informazione – salvo rari esempi – prostituita.

Siamo agli ultimi passaggi del programma piduista e alla costituzione di un regime violento legalizzato dall’abrogazione dei reati di costituzione eversiva di banda armata per salvare i capi leghisti e le camicie verdi ed ora dalla modifica dell’articolo 330 del codice di procedura penale per sottomettere il pubblico ministero alla Polizia di Stato con terrificanti persecuzioni in vista per lo sparuto drappello dei magistrati e giornalisti efficienti ed indipendenti e allarmanti impunità garantite ai massacratori in divisa dei sempre più numerosi Aldrovandi, Bianzino, Cucchi, Rasman, Uva.

Cosa si prepara per chi non è nel giro delle cricche e dei clan? Capo che non chiama più questure per proteggere minorenni, ma che fa chiamare i questori dal ministro dell’Interno di turno per mandare la polizia a sistemar come si deve i rompiscatole: forse è veramente l’ora che si facciano le valige e si emigri, prima che comincino a rieducarci casa per casa!