mercoledì 30 marzo 2011

News Shake

Torna la rubrica News Shake, notizie a caso ma non per caso...


Il Giappone alle prese con l'età buia del 21esimo secolo
Barbara Demick - http://seattletimes.nwsource - 27 Marzo 2011
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da Supervice

Il primo incontro della stagione di baseball giapponese è stato rinviato di modo che le persone non sprechino benzina per andare a vedere le partita.

Quando la stagione partirà sul serio, la maggior parte degli incontri in notturna sarà anticipata al pomeriggio per non dissipare l'elettricità. Non ci saranno inning supplementari.

I tabelloni elettronici, icone di Tokyo, sono stati spenti. L'immondizia si sta accatastando in molte città del Nord perché i mezzi non hanno benzina, gli edifici pubblici non sono riscaldati, le fabbriche sono chiuse, in larga parte a causa dei continui blackout e perché gli impiegati non possono andare al lavoro con i serbatoi delle auto vuoti.

Questo è quello che accade nel 21esimo secolo, quando un paese tecnologicamente sofisticato ha un ammanco di energia. Il terremoto dell'11 marzo e lo tsunami hanno trascinato una larga parte del Giappone in un'epoca buia che potrebbe proseguire anche per un anno.

"E' talmente buio da avere paura... Per la mia generazione, è impensabile avere carenza di elettricità”, ha detto Naoki Takano, 25 anni, un venditore con la coda di cavallo alla Tower Records nel distretto di Shibuya, usualmente illuminato a giorno dalla luce del neon.

Il magazzino ha spento gli ascensori e un mega-schermo che diffondeva video musicali fino a tarda notte: Takano si aspetta che questa situazione duri fino all'estate.

La crisi energetica del Giappone proviene da due fronti: le esplosioni alla centrale nucleare Daiichi a Fukushima e la chiusura di altri impianti nucleari di proprietà della Tokyo Electric hanno ridotto la fornitura di elettricità alla capitale di circa il 30%.

Nove raffinerie di petrolio sono rimaste danneggiate, incluso quella di Chiba, nei pressi di Tokyo, che si è incendiata in modo spettacolare, creando così una carenza di benzina e di combustibile per il riscaldamento.

Le code alle stazioni di servizio nella parte settentrionale di Honshu, la principale isola del Giappone, si estendono per miglia. Circa il 30% delle stazioni di servizio nella zona di Tokyo sono chiuse perché non hanno niente da vendere.

Gli economisti dicono che è difficile analizzare se tutto ciò sia la conseguenza di effettive scarsità o delle corsa all'accaparramento.

"Siamo vicini a ritornare alla capacità di fornitura di carburanti precedenti al terremoto, ma abbiamo notizie che la domanda è due o tre volte superiore al normale”, riferisce Takashi Kono che fa parte della divisione di programmazione al dipartimento per le risorse naturali e i carburanti del Ministero dell'Economia. “Con tutta questa domanda, per forza siamo davanti a una mancanza di carburante.”

Gli analisti dell'energia si aspettano che la crisi del petrolio si allenti nelle settimane a venire quando gli impianti riapriranno e il panico della corsa agli acquisti scemerà. Le carenze di elettricità, comunque, è probabile che durino per mesi e potrebbero peggiorare se la temperatura aumentasse e la gente accendesse i condizionatori d'aria.

Asahi Shimbun, un quotidiano di Tokyo, giovedì ha riportato le parole di un ignoto dirigente in pensione della Tokyo Electric, che serve 28 milioni di utenti, che suggerisce come i blackout a rotazione potranno durare un anno.

L'elettricità è l'argomento principe dei discorsi in città. I lettori dei giornali sono continuamente informati degli orari dei ciclici blackout. Molti cinematografi sono chiusi, le compagnie hanno spento le luci superflue e le pubblicità, e hanno limitato l'uso degli ascensori ed accorciato l'orario di esercizio degli impianti.

Fino ad ora, la carenza di benzina sta sconvolgendo sia la vita quotidiana che i soccorsi.

Ad Akita, 280 miglia a nord di Tokyo, le poche stazioni di rifornimento rimaste aperte hanno delle code lunghe più di un chilometro e mezzo. Tutta quest'attesa sembrerebbe non valere la pena, ma la gente vuole la benzina per le emergenze, ad esempio per sfuggire dalle zone contaminate dalle emissioni.

La mancanza di benzina per i mezzi addetti alle consegne ha aggravato la mancanza di prodotti-chiave, quali latte, pane, batterie, carta igienica e acqua minerale. Alcune delle persone rimaste senza casa a causa del terremoto o dello tsunami hanno l'auto, ma non possono usarla, mentre i parenti, che altrimenti sarebbero venuti in loro soccorso, non hanno il carburante per raggiungere le zone costiere.

Le persone che cercano di sfuggire alle pericolose fuoriuscite dell'impianto nucleare di Fukushima non sono in grado di farlo, perché i loro mezzi non sono provvisti di carburante..

In tutto il Giappone, una folla partecipe si è data da fare per aiutare le vittime del terremoto con vestiti, coperte e cibo. Ma non c'è modo di distribuire gli aiuti alle vittime. Le carenze di elettricità saranno ancora più difficile da colmare.

Oltre ai danneggiamenti dei reattori nucleari e a due impianti di produzione di energia distrutti dal terremoto, la rete energetica in Giappone è spaccata in due, una particolarità che determina l'impossibilità del Sud di fornire energia al Nord in difficoltà.

Sul diamante del baseball, la Pacific League giapponese, in cui milita una squadra vicino Sendai nei pressi dell'epicentro del terremoto, ha posticipato l'apertura della stagione al 12 aprile per permettere la ricostruzione degli impianti e la conservazione dell'energia.

La Central League ha ritardato il debutto per quattro giorni, fino al 29 marzo. Entrambe sono dell'intenzione di evitare partite notturne e inning supplementari.

Se si può trovare un lato positivo alla crisi, gli analisi prevedono che ci sarà uno sforzo per migliorare l'efficienza e la conservazione dell'energia.

"Diventerà un mondo differente”, sono le parole di David Von Hippel, un analista energetico del 'Nautilus Institute for Security and Sustainability'. Egli ha previsto che l'incidente nucleare di Fukushima porterà l'opinione pubblica del Giappone contro l'energia nucleare e questo provocherà una maggior impegno a favore dell'efficienza energetica: "E' stato fatto veramente un bel lavoro nel migliorare l'efficienza dopo i due shock petroliferi del 1974 e del 1979, ma dal 2000, la curva è rimasta quasi piatta”.

Con l'energia due volte più cara che negli Stati Uniti, il Giappone è leader mondiale nella produzione di elettrodomestici ad alta efficienza, ma le case sono spesso male isolate e le luci sono tenute accese fino a tardi per scopi pubblicitari.

"Si vedono tutte questi distributori automatici accesi da mezzanotte alle 7 del mattino", riferisce ancora Von Hippel.

Yoko Ogata, 68 anni, di Akita, ha detto che i giovani giapponesi dovranno prendere lo spunto dalla generazione che si ricorda delle privazioni della Seconda Guerra Mondiale: "I ragazzi giovani pensano che sia tutto garantito... Non sanno come affrontare le scarsità così come abbiamo dovuto fare noi."

Le conseguenze del disastro hanno motivato le giovani generazioni a intraprendere iniziative; gli studenti dell'università Meiji Gakuin a Tokyo hanno organizzato una campagna informativa che suggerisce di andare a letto presto per risparmiare elettricità.

"Luci spente alle 21!”, scrivono gli studenti su Mixi, un sito di social network molto popolare in Giappone, “Se andiamo a letto tre ore più tardi, e lo facciamo tutta la settimana, tutto ciò porterebbe a un risparmio di 21 ore, quasi un giorno intero di elettricità, e quell'energia potrebbe così essere redistribuita."


Verso la catastrofe nucleare globale?
di Massimo Scalia - www.greenreport.it - 29 Marzo 2011

Oggi ci si interroga con preoccupazione su che cosa può succedere al reattore 2 di Fukushima, fonderà? E' già fuso, ma allora cos'altro può succedere?

E' bene subito chiarire che non solo il 2 ma anche altri due reattori sono sospetti di fusione almeno parziale del nocciolo, e che la distinzione tra "catastrofe locale" e "catastrofe globale", messa in auge dalla scala INES dell'IAEA, mostra qui tutto il suo carattere posticcio e giustificatorio.

Non doveva essere infatti la fuoriuscita della radioattività dallo schermo più esterno che contiene il reattore la catastrofe che, secondo il dogma della sicurezza nucleare, non sarebbe mai dovuta accadere?

Così almeno affermavano i documenti dell'IAEA nelle conferenze di Columbus (Ohio) e Roma nel 1985, quando fissavano la probabilità di fusione del nocciolo in 10-5/10-6, cioè un incidente di quella gravità ogni centomila/milione di reattori funzionanti per un anno.

E per i giapponesi, con duecentomila persone evacuate nelle settimane scorse, lo iodio nell'acqua potabile e altri radionuclidi che hanno contaminato frutta e verdura anche a centinaia di chilometri dalla centrale, che altro deve succedere, quando, stando ai dati, ancora parziali e reticenti, si può purtroppo ipotizzare che le vittime delle radiazioni saranno nel corso degli anni più di quelle dello tsunami?

Nella centrale di Fukushima ci sono sei reattori, e per tre sicuramente le barre di uranio del nocciolo del reattore restano, nonostante gli interventi, semiscoperte dall'acqua di raffreddamento.

Gli interventi sono resi difficili dal livello di radioattività presente, a meno che non si vogliano sacrificare come a Cernobyl migliaia di "liquidatori", ma anche dall'inagibilità o perdita, a causa dello "scoperchiamento" della centrale, dei ponti mobili con i quali operare.

Interventi per seppellire in un sarcofago i reattori sono ugualmente problematici. In ogni caso, al di là delle ipotesi, il dato di fatto è la "strategia" che le autorità e i tecnici giapponesi stanno perseguendo: pompare tutta l'acqua che si può all'interno dei vessel che contengono i reattori.

Uno dei nemici principali da fronteggiare è infatti la formazione e l'esplosione di bolle di idrogeno, dovute alla dissociazione dell'acqua nelle sue due componenti - idrogeno e ossigeno - resa possibile dalle temperature a cui si porta il nocciolo non raffreddato.

Quella strategia ha finora ritardato fuoriuscite di radioattività ancor più gravi delle prime, ma il problema è quanto reggeranno i vessel che sono il contenimento primario di un reattore e che devono avere dei punti di perdita dal momento che non si riesce a ripristinare il livello del refrigerante.

Nonostante le perdite però la pressione cui è sottoposto il vessel sembra non scendere, proprio a causa del perdurare del surriscaldamento del nocciolo; e in reattori ad acqua bollente, come sono i tre su cui si interviene, la pressione cui può essere sottoposto il vessel deve stare di norma al di sotto delle quattro atmosfere.

Tra i dati che faticosamente affiorano sembra che proprio l'inadeguatezza del raffreddamento abbia fatto salire la pressione al di sopra delle tre atmosfere. Il raggiungimento del valore limite esporrebbe il vessel al rischio di esplosione, che libererebbe a questo punto enormi quantitativi di radioattività.

Forse allora qualche autorità nucleare ci informerà, con la dovuta gravità, che si è raggiunto il livello 7 della scala INES, cioè Cernobyl. Che è come dire che la questione non riguarda più solo il Giappone, ma ci dobbiamo preoccupare un po' tutti.

I francesi intanto fanno sapere che nei primi dieci giorni dall'incidente la radioattività emessa da Fukushima, incurante della scala INES e dell'IAEA, è dell'ordine dei 500mila teraBecquerel.


Dramma nipponico e farsa italiana
di Mazzetta - Altrenotizie - 26 Marzo 2011

L'11 marzo il terremoto e lo tsunami hanno colpito il Giappone con le conseguenze che sappiamo tutti. Fin dalle prime ore è stato evidente trattarsi di una tragedia immane e nel mondo è scattata immediata una gara per i soccorsi.

Diverse regioni italiane hanno dato la loro disponibilità per l'invio di squadre di ricerca e soccorso, in particolare unità mediche e cinofile che sono le più importanti nelle prime ore dopo il disastro.

Il 12 marzo, la Protezione Civile italiana ha diramato una nota nella quale scriveva che la missione italiana in Giappone era rimandata ”a seguito della nuova decisione delle autorità nipponiche di accettare nell’immediato esclusivamente aiuti provenienti da Stati Uniti, Nuova Zelanda e Corea del Sud, Paesi geograficamente più prossimi”.

L'Italia rimaneva così "in attesa di ulteriori comunicazioni del Ministero degli Esteri del Giappone sugli interventi dei Paesi europei - Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania - pronti a partire con team specializzati”.

Il Ministro degli Esteri Frattini il 14 ha dichiarato, a proposito dell'invio di squadre di soccorso che"l'Italia aspettava il via libera del governo giapponese per l'invio di aiuti e assistenza" e anche che"il Giappone non è Haiti ed è in grado di far fronte alla prima emergenza".

Il 17 marzo le agenzie battevano la notizia del ritorno dei rescue team dei paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Germania, Svizzera e altri), rimpatriati perché ormai la ricerca di superstiti assumeva la dimensione di speranza nei miracoli e per l'incombente minaccia posta delle radiazioni.

Mancava solo l'Italia e la sensazione é che tra Protezione Civile e Ministero degli Esteri, qualcuno abbia sbagliato qualcosa e poi si sia cercato di coprire l'incidente alla Berlusconi, cioé con una bugia inverosimile.

Che però è passata quasi inosservata in questi tempi di crisi epocali. L'aver bloccato risorse disponibili e impedito che i soccorritori italiani contribuissero a salvare vite umane in una situazione di grande bisogno però resta grave, anche in momenti di grande caos.

A rendere dubbia la faccenda e difficile scelta tra colpa e dolo, si è poi aggiunto un particolare aspetto dell'atteggiamento del governo verso la crisi giapponese: la ridicola e frettolosa minimizzazione del rischio nucleare.

Il motivo di un tale atteggiamento è chiaro a tutti e attiene al fatto che dopo un incidente del genere il piano nucleare del governo può considerarsi defunto. Mentre tutti i paesi che hanno il nucleare annunciavano cautele e ripensamenti, il nostro governo strillava d'andare avanti e i media che controlla dicevano che la disgrazia aveva semmai dimostrato che l'atomo è sicuro.

Ad acuire questa sensazione è arrivato il primo atto pubblico della nostra missione di coordinamento a Tokyo, perché appena arrivati i nostri sono saliti sul tetto e hanno telefonato all'Ansa per dire che Tokyo era meno radioattiva di Roma. Con il bel risultato che il sindaco di Roma Alemanno ha dovuto fare pubbliche dichiarazioni per smentire che i romani corrano pericoli. L'impressione che la questione sia gestita con un occhio alla propaganda c'è.

La buona notizia è che il Giappone non si è offeso ed è anzi molto contento della reazione dell'Italia.

Abbiamo chiesto lumi all'ambasciata giapponese e, se c'è una cosa che il signor Takahashi, Consigliere d'ambasciata e capo dell'ufficio culturale e stampa, ha tenuto a sottolineare nel corso di una breve intervista, è la grande soddisfazione del Giappone per i rapporti con l'Italia.

Takahashi ha ricordato che ogni giorno il Giappone si consulta con i rappresentanti dei paesi che hanno offerto aiuto e che l'Italia ha in Giappone una missione per il coordinamento degli aiuti (quella sopra ricordata) e ha offerto ampia disponibilità.

Ha ricordato le belle parole del Presidente della Repubblica Napolitano e ha voluto ringraziare a nome del popolo giapponese le istituzioni e i cittadini italiani per il grande supporto che hanno dimostrato (anche singolarmente) al Giappone in un momento tanto difficile.

Ha aggiunto, inoltre, che i rapporti tra i due paesi sono sempre stati ottimi e l'auspicio è che, quando il Giappone tornerà come e più forte di prima, le relazioni tra i due paesi saranno ancora più solide e feconde.

In riferimento alla vicenda dei soccorsi che sarebbero stati fermati su richiesta giapponese, il signor Takahashi ha detto che il governo giapponese non ha rifiutato nessun aiuto tra i tanti offerti e che non era al corrente della nota della Protezione Civile. Manca una valutazione sulle parole di Frattini, ma non si è avuto il cuore di fare altri danni e sottoporle alla sua attenzione.

Sciocchezze ai margini di una tragedia, perché la misura della ferita sofferta dal Giappone è enorme e l'incombere dell'incidente nucleare condiziona negativamente l'opera di soccorso a mitigare e riparare i danni provocati dalla natura e tiene sotto scacco il paese fino a che la situazione della centrale nucleare non si stabilizzerà in un senso o nell'altro.

Se c'è una cosa che è chiara in mezzo a tante variabili, è che il Giappone ha bisogno di tutto l'aiuto possibile.


Leggende nucleari, tutta la verità sul fabbisogno energetico nazionale

di Mauro Meggiolaro - Il Fatto Quotidiano - 25 Marzo 2011

Dalle centrali atomiche francesi l'Italia importa solo l'uno per cento dell'elettricità totale che consuma

“Che senso ha continuare a snobbare il nucleare? Alla fine lo importiamo dalla Francia, tanto vale portarcelo in casa”. Lo sentiamo ripetere come un mantra ogni volta che si tocca la questione dell’atomo. Ma è veramente così?

E se lo è, quanto pesa effettivamente l’energia atomica francese sul totale del nostro fabbisogno energetico? Per capirlo basta armarsi di pazienza e fare due calcoli. Partiamo dal “fabbisogno nazionale lordo” e cioè dalla richiesta totale di energia elettrica in Italia.

Nel 2009, secondo i dati pubblicati da Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, è stato pari a circa 317.602 Gwh (Gigawatt/ora all’anno).

Di questi, circa 278.880 Gwh (87,81%) sono stati prodotti internamente, in buona parte da centrali termoelettriche (77,4% delle produzione nazionale) che funzionano principalmente a gas (65,1% del totale termoelettrico), carbone (17,6%) e derivati petroliferi (7,1%): combustibili fossili, in larga parte importati.

Il gas, che è la fonte più rilevante nel mix energetico italiano, arriva per il 90% dall’estero, soprattutto da Algeria (34,44% del totale importato), Russia (29,85%) e Libia (12,49%).

La parte di fabbisogno non coperta dalla produzione nazionale viene importata, tramite elettrodotti, dai paesi confinanti.

In tutto, nel 2009, sempre secondo i dati di Terna, abbiamo acquistato dall’estero circa 44.000 Gwh di energia, al netto dei 2.100 circa che abbiamo esportato. 10.701 Gwh ce li ha ceduti la Francia, 24.473 la Svizzera e 6.712 la Slovenia. Tre paesi ai nostri confini che producono elettricità anche con centrali nucleari.

In base ai dati pubblicati dalla Iaea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), la Francia produce il 75,17% dell’elettricità con il nucleare, la Svizzera il 39,50% e la Slovenia circa il 38%.

In termini di Gwh questo significa che importiamo circa 8.000 Gwh di energia elettrica prodotta dalle centrali nucleari francesi, 9.700 Gwh dalle centrali svizzere e 2.550 Gwh dall’unica centrale slovena.

Quanto pesa quindi il nucleare estero sul fabbisogno italiano? Il conto è presto fatto. Basta dividere i Gwh nucleari importati mettendo a denominatore il fabbisogno nazionale lordo.

Si scopre così che solo il 2,5% del fabbisogno nazionale è coperto dal nucleare francese, il 3,05% dal nucleare svizzero e lo 0,8% da quello sloveno.

In realtà, se si considera il mix medio energetico nazionale calcolato dal Gestore servizi energetici (GSE) in collaborazione con Terna, la percentuale di energia nucleare effettivamente utilizzata in Italia è pari ad appena l’1,5% del totale.

Se si scompone il dato, si scopre che il nucleare francese pesa per circa lo 0,6% sul mix energetico nazionale.

Ma c’è un’altro dato da considerare. Consultando i dati pubblicati da Terna si scopre infatti che l’Italia dal punto di vista energetico è tecnicamente autosufficiente.

Le nostre centrali (termoelettriche, idroelettriche, solari, eoliche, geotermiche) sono in grado di sviluppare una potenza totale di 101,45 GW, contro una richiesta massima storica di circa 56,8 GW (picco dell’estate 2007). Perché allora importiamo energia dall’estero? Perché conviene.

Soprattutto di notte, quando l’elettricità prodotta dalle centrali nucleari, che strutturalmente non riescono a modulare la potenza prodotta, costa molto meno, perché l’offerta (che più o meno rimane costante) supera la domanda (che di notte scende).

E quindi in Italia le centrali meno efficienti vengono spente di notte proprio perché diventa più conveniente comprare elettricità dall’estero.

“E se dovesse succedere un incidente in una delle centrali dei paesi confinanti?”. Beh, non ci sarebbe da rallegrarsi, ma ancora una volta i dati possono esserci (un po’) di conforto. Le tre centrali nucleari più vicine all’Italia sono in Francia a Creys-Malville (regione dell’Isère), in Svizzera a Mühleberg (vicino a Berna) e in Slovenia a Krško, verso il confine con la Croazia.

Creys-Malville è a circa 100 Km in linea d’aria dalla Valle d’Aosta, a 250 Km da Torino e a 350 Km da Milano. Mühleberg dista circa 100 Km dal confine piemontese e 220 Km da Milano. Krško è a 140 Km da Trieste.

Ammesso che si possa usare come riferimento il disastro di Černobyl‘, in caso di incidente sembra che la più alta esposizione alle radiazioni si verifichi nel raggio di 30-35 chilometri dal reattore.

Quindi nelle nostre valli alpine e nelle grandi città del nord si possono dormire ancora sonni abbastanza tranquilli rispetto all’eventualità che si costruisca un reattore dentro i confini nazionali.



Tra moratoria e referendum
di Cinzia Frassi - Altrenotizie - 29 Marzo 2011

Per il nucleare è un momento buio, è evidente. Il disastro in Giappone e i terribili incidenti dei reattori a Fukushima hanno svelato con un impatto oltremodo drammatico le conseguenze dell'ingovernabilità delle centrali nucleari nell'imminenza di eventi naturali e di conseguenti errori umani o di falle nei dispositivi di sicurezza.

Da quel momento in poi, politici, esperti e opinionisti si sono spesi con rinnovata passione pro o contro l'energia nucleare, proprio nel momento in cui nel nostro paese il governo ha imboccato a tutta velocità la strada del ritorno all'atomo.

Non solo, gli eventi drammatici giapponesi hanno illuminato a giorno le perplessità e l'assoluta contrarietà al nucleare di chi, in politica o nei comitati e associazioni, aspetta con trepidazione il prossimo referendum, forte di una rinnovata sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

Tra l'altro l'opposizione negli ultimi giorni ha incassato la delusione di alcune mozioni con la quali si chiedeva l'accorpamento dei referendum alle elezioni amministrative del 15-16 di maggio. Conseguentemente i referendum sono stati fissati per il 12-13 giugno.

Per un voto solo, quello del radicale Marco Beltrandi, salta quindi l'election day che doveva segnare un punto a favore del raggiungimento del quorum. Si teme infatti che, votandosi il referendum a giugno, i pigri cittadini, in un mese dove l'estate è ormai alle porte, possano preferire la spiaggia all'impegno civico.

Intanto gli antinuclearisti si preparano alla manifestazione di sabato 26 marzo a Roma, quando il Comitato referendario per l'acqua pubblica sarà in piazza con Cgil e numerose associazioni - tra le quali Legambiente - e alcuni partiti tra cui Idv, Pd e Sel.

Gli argomenti contro il nucleare però (sicurezza, economicità, problema delle scorie) rischiano di essere oscurati dal pathos dei cittadini, tutti davanti alla tv ad osservare un paese, il Giappone, che rimanda immagini spaventose.

Nell’immediato può pagare cavalcare l’opinione pubblica in un momento in cui è assolutamente focalizzata sul problema. Ma domani? Tra un mese?

Quello che è certo è che oggi per i sostenitori del nucleare non è aria. Quella italiana, tra l'altro, non è dato sapere se sia o meno minacciata dalla nube radioattiva che con tutta sorpresa del vecchio continente è arrivata spedita e minacciosa fin dalle coste nipponiche.

Su questo fatto c'è molta leggerezza e poche sono le spiegazioni fornite ai cittadini, a parte sostenere che non vi sono pericoli. E' strano, anche il governo giapponese non si stanca di ripeterlo ai suoi di cittadini. Non c'è pericolo. Punto.

Davanti ad un’opinione pubblica così schierata, al governo non resta che correre ai ripari. Da un lato con la decisione di negare l'election day appunto e dall'altro con una novità degli ultimi giorni: una moratoria di un anno sul nucleare italiano e sulle decisioni che lo riguardano.

Mettiamo in soffitta la questione e vediamo di sfoderarla quando l'ennesimo bunga bunga avrà fatto dimenticare agli italiani il dramma del Giappone.

Si perché se non ci fosse stato quel terribile terremoto e tutte le conseguenze che abbiamo visto, come in un effetto domino fatale, l'attenzione dell'opinione pubblica sarebbe di gran lunga diversa.

Più che posizioni dettate dall'ideologia, anche politica ma non solo, le scelte dei cittadini sono più che mai protese a difendere l'ambiente che li circonda, il parco pubblico sotto casa piuttosto che il loro stesso giardino.

L'abbiamo visto a Napoli quando i cittadini imbufaliti residenti nei pressi di discariche piene di rifiuti come montagne, hanno reagito violentemente. Not in my backyard. Insomma: da una altra parte sì, ma non qui.

La moratoria in questione assunta dal Consiglio dei ministri mercoledì 23 marzo scorso, risponde proprio all'esigenza di evitare sollecitazioni ulteriori a cittadini già molto sensibilizzati dagli eventi in Giappone.

In particolare il decreto dispone la sospensione, per un periodo di 12 mesi, che forse diventeranno 24, delle procedure riguardanti la localizzazione e la realizzazione di centrali e impianti nucleari sul territorio italiano.

Sul piano della programmazione, fa sapere il ministero, "restano confermati il deposito nazionale per lo stoccaggio e il ruolo dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, quale organo competente per lo studio e la programmazione delle politiche riguardanti la sicurezza nucleare".

L’opposizione così come i comitati e le associazioni referendarie sono insorte giudicando la moratoria una truffa messa in campo frettolosamente con la finalità di vanificare il referendum di giugno.

Secondo Gaetano Benedetto, direttore delle politiche ambientali di WWF Italia, si tratta di una scelta da vero “attendista stregone” con cui il governo “mira a sgonfiare la tensione sul referendum, il Governo ha bisogno di tempo per riavviare un percorso su cui non si capisce quali possano essere gli elementi di vero ripensamento che vengono maturati da qui a un anno".

Resta il fatto che un sondaggio recente realizzato dalla Gnresearch è una mannaia per il governo e per la sua smania di fare girare investimenti, nonché per alimentare gli interessi dell’industria italiana.

Non dimentichiamo che il nucleare firmato governo Berlusconi sarebbe tutto un affare privato, dalla costruzione alla gestione successiva.

Il sondaggio comunque svela come, su un campione di mille cittadini interpellato, tre italiani su quattro non solo sono contrari alla realizzazione di centrali nucleari, ma giudicano altresì negativamente le recenti politiche del governo che penalizzano le energie rinnovabili. Intanto per essere sicuri si dovrebbe lavorare affinché il 12 e il 13 giugno non sia bel tempo.


Israele, punizione collettiva
di Luca Galassi - Peacereporter - 29 Marzo 2011

Dopo l'uccisione di una famiglia di coloni, Tel Aviv raccoglie impronte digitali e Dna a oltre 40 palestinesi in Cisgiordania

La notte dell'11 marzo, due coloni israeliani e tre dei loro sei bambini vengono barbaramente uccisi nel loro letto a Itamar, insediamento ebraico illegale a sud di Nablus, in Cisgiordania. Gli autori del massacro, compiuto con disumana ferocia, sarebbero secondo l'esercito israeliano (Idf) due palestinesi di Awarta, poco distante dalla colonia.

Sempre l'Israel Defence Forces, dopo i primi rilievi, ha dichiarato che gli assassini erano presumibilmente due, e la modalità delle esecuzioni non ha permesso di stabilire la loro appartentenza a un'organizzazione terroristica.

Nonostante questo, una volta denunciata e condannata la brutalità dell'orribile gesto da parte di tutta la comunità internazionale, deplorati con forza i festeggiamenti di Hamas a Gaza una volta appresa la notizia dell'eccidio, ciò che è accaduto dopo - taciuto da molti - è l'esempio di come anche lo Stato di Israele abbia obbedito a un'identica logica di sangue e violenza.

Presumendo che gli assassini fossero palestinesi, l'Idf ha lanciato un'operazione poliziesca nelle case del vicino villaggio palestinese di Awarta.

Decine di case sono state occupate dai militari, centinaia di 'sospetti' - innocenti fino alla prova certa della loro colpevolezza - detenuti, oltre venti di loro arrestati, incluso il vice-sindaco di Awarta e due suoi fratelli. Arbitrariamente, sempre sulla base di una presunzione di colpevolezza, decine di case sono state vandalizzate, e gli abitanti del villaggio terrorizzati.

I coloni hanno cercato vendetta lanciando pietre contro i palestinesi, mentre il Primo ministro, Benyamin Netanyahu, annunciava la costruzione di cinquecento nuove case come risarcimento per la strage degli innocenti a Itamar.

Ma lo Stato di Israele si è spinto oltre. Sempre forte della presunzione di colpevolezza, l'Idf, nella notte tra mercoledì e giovedì, ha compiuto ulteriori retate, incarcerando più di quaranta persone in una caserma e sottoponendole al test del Dna e alla raccolta delle impronte digitali. Alcuni sono stati rilasciati, molti sono rimasti in custodia e sono ancora sotto interrogatorio.

La logica di Israele è quella delle faide mafiose, della rappresaglia indiscriminata, della ritorsione. La sua reazione razzista travalica la difesa della sicurezza dei suoi cittadini, riportando il Paese alla legge del taglione.

L'autorità di Tel Aviv esercita il diritto alla violenza al pari di coloro che condanna. Con l'aggravante del fatto che si tratta di violenza istituzionale, è attuata mediante la punizione di un'intera comunità ed è garantita dall'impunità internazionale. Ma c'è di peggio.

"Perché - è stato chiesto al ministro per le Relazioni Pubbliche, Yuli Edelstein, da un giornalista di Ha'aretz - avete pubblicato le immagini dei bambini morti?". "Perché era necessario agire in modo insolito - ha risposto Edelstein -. La maggior parte della gente ha avvertito che si è superata una linea rossa, e che sarebbe stato impossibile continuare a vivere normalmente. Così abbiamo deciso di pubblicarle".

Israele ha spesso denunciato la stampa araba di diffondere le immagini di vittime palestinesi in modo strumentale e propagandistico, sostenendo che, oltre a scatenare riprovazione, incitano all'odio e alla violenza.

Alla domanda del giornalista su quale fosse la differenza tra Israele e i palestinesi, Edelstein ha risposto così: "C'è una differenza enorme. I palestinesi non hanno problemi nel mostrare tali foto subito dopo la morte, senza chiedere il permesso alle famiglie e senza sfocare i volti. E' anche vero che in molti casi le foto sono false. E poi, noi non le mostriamo alla televisione nazionale chiedendo a tutti di guardarle. Non ho problemi con un giornalista che decide di non pubblicarle, ma voglio che decida da solo, e se le ricordi sempre. Se non le ricorda, allora non è l'essere umano che pensavo. Noi non siamo come loro. Non siamo come i palestinesi". Parola di ministro.


Attacchi a terra e foze speciali la vera guerra degli alleati

di Fabio Mini - La Repubblica - 30 Marzo 2011

Non solo no-fly zone: così combatte l'Occidente. Il pattugliamento umanitario è una favola: ora le azioni militari si avvicinano sempre più al terreno. Lo spiega l'ex comandante delle forze Nato durante la missione di pace in Kosovo

La strategia moderna contempla la guerra come un fatto normale, senza fine, senza misura certa della vittoria o della soglia della capitolazione.

I bombardamenti di questi giorni in Libia, i ribelli che combattono e i civili che scappano fanno parte di questa normalità così come sono normali la disparità delle forze in campo, la volontà di usarle e la varietà di posizioni espresse sul piano politico-diplomatico.

Una volta demandata la responsabilità delle operazioni militari a qualcun altro, in questo caso fingendo che la Nato sia un "altro", la guerra può continuare con i suoi ritmi normali.

La preoccupazione non è la Libia, ma cosa fare di Gheddafi senza strapazzarlo troppo. Bisogna anche non apparire troppo truci o troppo armati, specialmente nelle intenzioni. Il presidente Obama ha detto che l'America non ha interessi vitali in Libia e gli si sono accodati tutti.

La Germania si era già sfilata assestando un colpo micidiale alla Nato, diversi altri paesi dicono di non voler combattere e la Turchia di Erdogan non solo ha promesso solennemente che non bombarderà mai il popolo libico ma vuole addirittura attribuire a Gheddafi la virtù taumaturgica e catartica di dirigere la Libia nella transizione democratica contro il suo stesso regime.

I francesi e gli inglesi sembrano inflessibili nel chiedere la testa (metaforica) del raìs, ma trattano con tutti coloro in grado di dialogare con lui. Mentre la politica celebra i suoi riti, sul terreno la guerra si fa sempre più "normale".

Nessun generale ha preso bene questa guerra sia per i precedenti disastrosi degli ultimi vent'anni sia per la nebulosità degli scopi politici. Il Pentagono si è opposto fin dal primo giorno, i francesi hanno bombardato quasi alla chetichella, le ragazze inglesi non si sono messe a tette nude per incitare i soldati e i generali italiani si sono rifugiati in fretta nelle procedure della Nato senza prendersi il tempo di spiegarle bene ai nostri ministri.

Eppure la parte militare della coalizione e della Nato prosegue con i suoi piani di attacco ed anzi si adegua ad uno sviluppo ancora più normale dei combattimenti.

I ribelli non ce la fanno e la loro guerra si svolge con l'elastico: avanzano di quel tanto che le forze della coalizione consentono, poi tornano indietro, senza fretta. Con la graduale eliminazione delle contraeree di Gheddafi gli aerei alleati si avvicinano a terra, lanciano razzi e attivano le cannoniere volanti per gli attacchi al suolo: com'è normale.

La favola del pattugliamento umanitario e disarmato non è ancora cominciata e anzi dovranno presto intervenire gli elicotteri controcarro.

Mentre la politica si produce in improbabili opzioni indolori, sul terreno i dolori devono ancora venire soprattutto se a qualcuno verrà in mente di assediare Tripoli. E la normalità non basterà più.

Sunzi aveva teorizzato 2500 anni fa che la guerra si fa con la combinazione delle forze normali e di quelle "speciali", regolari e irregolari, palesi e occulte. I cinesi sono ormai di casa in Libia e dovrebbero insegnare qualcosa, ma si occupano di petrolio e i principi di Sunzi li hanno trasferiti in borsa.

In Libia si sono invece infiltrate le forze speciali e d'intelligence più brave di tutto l'occidente della guerra: individuano obiettivi, addestrano i ribelli e aiutano perfino le milizie perché non si sa mai. Ci sono migliaia di mercenari di Gheddafi e delle compagnie petrolifere pronti a cambiare padrone, ci sono funzionari e generali pronti a cambiare bandiera.

Molti di loro saprebbero bene cosa fare di Gheddafi anche senza scomodare Sunzi. La Libia appartiene al Mediterraneo e anche da noi l'esempio della guerra speciale è antico. Tripoli è come Troia: non cadrà fino a quando il simulacro del suo potere, lo stesso Gheddafi, sarà in città.

Troia fu assediata per un decennio da forze "normali" ma fu espugnata dall'intelligenza di due guerrieri speciali: Ulisse e Diomede. Entrambi protetti da Atena (una sorta di antica Nato tutelare) riuscirono a rubare il Palladio, il simulacro di legno, senza gambe, che Atena aveva voluto nelle fattezze di Pallade, la sua amica libica uccisa da lei per sbaglio durante un combattimento simulato.

Il Palladio aveva la proprietà di proteggere la città che lo deteneva ed era finito a Troia quando Atena l'aveva gettato giù dall'Olimpo perché si era imbrattato del sangue vaginale di Elettra stuprata da Zeus. Troia non sarebbe mai caduta finché il simulacro fosse in città e Ulisse e Diomede vestiti da viandanti penetrarono nella cittadella e lo rubarono.

Questa fu la premessa alla successiva presa della città con il famoso cavallo di legno, un'altra idea "speciale". Gheddafi è ormai un simulacro, soprattutto di se stesso, con gambe legnose e fattezze umane rese approssimative dagli stravizi. Ma riesce ancora a proteggere la Troia libica. In attesa di una intelligenza speciale.


Obama: la mia prima guerra

di Michele Paris - Altrenotizie - 29 Marzo 2011

Ci sono voluti dieci giorni prima che Barack Obama spiegasse pubblicamente al suo paese le ragioni dell’intervento militare americano in Libia. In un discorso durato poco meno di mezz’ora e pieno di retorica e menzogne, il Presidente degli Stati Uniti ha giustificato l’ennesima aggressione illegale contro un paese arabo con false motivazioni umanitarie, nascondendo a fatica gli interessi imperialistici di Washington e degli alleati europei impegnati nel conflitto.

Di fronte ad un pubblico di ufficiali, alla National Defense University di Washington Obama ha fatto di tutto per minimizzare l’impegno statunitense in Libia. La stessa volontà di non parlare alla nazione dalla Casa Bianca e di evitare la fascia del prime time televisivo ha rivelato le intenzioni del presidente, ben deciso a spacciare l’aggressione alla Libia come un’operazione limitata e il coinvolgimento delle proprie forze armate come ridotto al minimo indispensabile.

Un appello diretto del presidente agli americani era stato richiesto da più parti nei giorni precedenti. In molti tra i due schieramenti politici avevano criticato la decisione di Obama di autorizzare un’azione militare senza il voto del Congresso, come prevede la Costituzione.

Non sussistendo alcun pericolo di attacco immediato contro gli Stati Uniti, infatti, la Casa Bianca non avrebbe l’autorità per dare il via libera a una guerra in maniera unilaterale.

Obama da parte sua ha sostenuto di essersi consultato con i leader del Congresso prima di ordinare l’intervento, una mossa a suo dire sufficiente alla luce degli obiettivi limitati della campagna militare in Libia.

In maniera confusa, Obama ha definito l’iniziativa militare contro Gheddafi indispensabile per la difesa degli interessi nazionali del suo paese. Interessi che spingerebbero gli Stati Uniti a fermare una potenziale strage di civili in Libia.

“Mi rifiuto di aspettare le immagini di massacri e fosse comuni prima di agire”, ha detto il presidente, tralasciando di spiegare come la sua coscienza non sia stata scossa invece dai massacri avvenuti in queste settimane per mano di regimi autoritari strenuamente appoggiati da Washington, come quelli di Yemen e Bahrain.

Proprio alla vigilia del suo discorso, nel quale Obama ha ricordato nuovamente il presunto ruolo degli USA di guardiani dei valori morali in tutto il pianeta, sui media di mezzo mondo scorrevano inoltre i resoconti dei più recenti massacri di donne e bambini provocati dai bombardamenti delle forze armate americane in Afghanistan.

Pur evitando di pronunciare la parola “guerra” per il caso della Libia, il presidente Obama ha stabilito una sorta di nuova dottrina per giustificare l’uso della forza in ogni angolo del globo. Nel ribadire la volontà di agire militarmente in maniera rapida e unilaterale per “difendere il nostro popolo, la nostra patria, i nostri alleati e i nostri interessi vitali”, Obama ha di fatto fissato un principio di intervento in una qualsiasi situazione che consenta di promuovere gli interessi americani e delle élites economiche e finanziarie che detengono il potere.

Le circostanze che giustificherebbero un’azione militare, a suo parere, spazierebbero dalla minaccia di genocidio fino al mantenimento della pace, dalla difesa della stabilità in una determinata regione alla sicurezza dei traffici commerciali.

Una dottrina, per certi versi, che sembra andare addirittura al di là di quella enunciata dall’amministrazione Bush, fondata sulla necessità di combattere la minaccia del terrorismo e la diffusione di armi di distruzione di massa, sia pure inesistenti.

In un passaggio destinato a fare la gioia dei commentatori liberal, Obama ha poi sottolineato come gli USA non debbano agire senza l’appoggio della comunità internazionale nella risoluzione dei conflitti internazionali.

Una pretesa di multilateralismo che appare del tutto fuorviante e che cela in realtà una politica imperialista che si appoggia su aggressioni indiscriminate, condotte con o senza la partnership di governi alleati.

Lo stesso trasferimento del comando delle operazioni in Libia alla NATO non cambierà la sostanza del controllo militare, che rimarrà in gran parte nelle mani degli americani. Come hanno scritto i giornali d’oltreoceano contemporaneamente all’intervento di Obama, gli Stati Uniti continuano, infatti, a fornire un contributo maggiore rispetto agli altri paesi coinvolti.

Ad esempio, scrive il New York Times, dei quasi 200 missili da crociera Tomahawk che hanno colpito la Libia nei primi dieci giorni del conflitto, appena sette non sono stati lanciati dagli americani. Ugualmente, gli aerei da guerra di Washington hanno condotto finora lo stesso numero d’incursioni di tutti gli altri alleati messi assieme.

Per questo appare quantomeno ipocrita lo sforzo della Casa Bianca di far credere agli americani che in Libia non sia in corso una vera e propria guerra e che le forze americane stiano giocando un ruolo di secondo piano.

Per il Washington Post gli USA avrebbero anzi “incrementato notevolmente gli attacchi alle forze di terra libiche” nel fine settimana appena trascorso, lanciando “per la prima volta incursioni con aerei AC-130 e A-10”, entrambi velivoli per l’attacco al suolo che indicano chiaramente come la missione in corso stia andando ben oltre i limiti imposti dalla risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Per il quotidiano statunitense questi velivoli, partiti dalle basi NATO in Italia, vengono frequentemente impiegati in aree urbane con il rischio concreto di pesanti perdite tra i civili.

Sulla sorte di Gheddafi, poi, Obama ha fatto un passo indietro rispetto alle più recenti dichiarazioni. Mentre fino a pochi giorni fa aveva indicato la rimozione del dittatore libico come un possibile obiettivo della missione, al contrario di quanto stabilito dal voto all’ONU, durante il discorso di lunedì sera il presidente ha spiegato che una tale iniziativa sarebbe eccessiva e provocherebbe divisioni all’interno della coalizione.

Un cambiamento di regime in Libia, secondo Obama, potrebbe comportare un dispendio di risorse e di vite umane comparabile a quello già visto in Iraq negli ultimi otto anni.

Anche in questo caso, però, l’intensificarsi degli attacchi alle forze fedeli a Gheddafi indica una strategia tesa a incoraggiare precisamente un colpo di stato militare contro il rais, così da giungere a un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione di stanza a Bengasi per formare un governo fantoccio agli ordini delle potenze occidentali.

In alcuni ambienti di potere negli USA, in ogni caso, si continua a guardare con apprensione all’apertura di un terzo fronte in un paese arabo e si mette in guardia dalle ripercussioni negative per gli interessi americani in Medio Oriente e dalla reazione dell’opinione pubblica domestica ad una guerra percepita come tutt’altro che indispensabile.

Questi timori contribuiscono anche a spiegare perché il presidente USA abbia sottolineato come l’intervento in Libia, nonostante gli scrupoli umanitari universali, non debba costituire un precedente. Gli Stati Uniti non intendono cioè utilizzare la forza ogni qualvolta vi siano episodi di repressione in Medio Oriente o altrove, bensì si riserveranno sempre di “misurare i nostri interessi con la necessità di agire”.

In altre parole, la difesa dei valori morali e dei principi di giustizia e dignità è vincolata agli interessi americani; nel caso della Libia essi sono legati al controllo delle ingenti risorse energetiche, al contrasto della crescente influenza di Cina e Russia in Africa e all’opportunità di stabilire una presenza nel modo arabo per “controllare” i movimenti rivoluzionari che continuano a diffondersi da un paese all’altro.

Lo slancio retorico di Obama ha raggiunto infine il vertice dell’ipocrisia nel ribadire il presunto sostegno incondizionato alle rivolte in Africa del Nord e in Medio Oriente. “Ritengo che queste forze di cambiamento non possano essere fermate”, ha detto il presidente americano, “e che dobbiamo essere a fianco di quanti credono negli stessi principi fondamentali che ci hanno guidato: l’opposizione alla violenza diretta contro i propri cittadini, il sostegno ai diritti umani universali e a quei governi che rispondono alle aspettative dei loro popoli”.

Una dichiarazione, questa, che falsifica deliberatamente l’atteggiamento americano nei confronti dei movimenti di protesta, così come gli stessi principi che guidano da sempre la politica estera di Washington.

Se ciò che sostiene Obama fosse vero, risulterebbe infatti difficile spiegare non solo il supporto fornito ai regimi dittatoriali di Arabia Saudita, Yemen, Bahrain o agli stessi Mubarak e Ben Ali fino a quando la loro permanenza al potere in Egitto e Tunisia era diventata insostenibile, ma anche quasi un decennio di fruttuose collaborazioni con i servizi segreti libici e di lucrosi affari con la famiglia Gheddafi e la sua cerchia di potere.



Libia, il rispettabile errore di Gabriele Del Grande
di Miguel Martinez - http://kelebeklerblog.com - 28 Marzo 2011

Nei commenti al post su Libia, la rivoluzione sconfitta, Lorenzo – curatore dello splendido sito Antiwar Songs - notava come “la questione libica stia dividendo anche il ristrettissimo campo di chi si oppone alle guerre” e citava un‘intervista a Gabriele Del Grande.

Gabriele Del Grande cura il sito Fortress Europe, una fonte impareggiabile di informazioni sulle catastrofi migratorie. Attualmente, a differenza del sottoscritto, si trova a Benghazi, e quindi certamente ne sa di più sulla Libia di me, che me ne sto qui a Firenze travolto da notizie sempre più strampalate.

Lui si schiera nettamente con i ribelli, una scelta che non contesto. E che lui rivendica in modo onesto, criticando anche certi eccessi propagandistici:

“non citerei la tv Al Arabiya che ha messo in giro la cifra falsa dei 10.000 morti, e tutte le altre testate che hanno rilanciato senza prove la notizia dei bombardamenti sulle folle dei manifestanti e delle fosse comuni arrivando addirittura a usare a sproposito la parola genocidio.”

Dove, però, non mi trovo affatto d’accordo con Del Grande è riguardo al contesto internazionale.

Vengo dall’America Latina, dove nel 1898 gli Stati Uniti decisero di intervenire umanitariamente a fianco di una rivolta antispagnola scoppiata a Cuba, una rivolta del tutto spontanea e ampiamente giustificata. I ribelli arrivarono al governo; ma gli Stati Uniti arrivarono al potere, e se lo tennero per quasi sessant’anni.

Del Grande dice:

“In Libia, come in Tunisia, in Egitto, in Yemen, e adesso anche in Siria, le rivolte sono state spontanee e popolari e non sono il frutto di complotti americani, ma piuttosto la risposta più naturale che potevamo aspettarci dopo decenni di dittature sostenute dalle grandi potenze in nome della stabilità e dei buoni affari.”

E’ un argomento un po’ capzioso, perché in realtà pochi sostengono che le rivolte siano il frutto di complotti esterni.

E’ ovvio che proteste così massicce hanno cause locali. Anzi, il problema in un certo senso consiste proprio nella loro spontaneità, che le espone a ogni sorta di manipolazione. Lenin era abbastanza poco spontaneo da riuscire a sfruttare i tedeschi che lo inviarono in Russia; i cubani del 1898 erano invece, per l’appunto, spontanei.

E l’esito delle rivolte dipenderà proprio dal rapporto tra spontaneità e manipolazione – per ora, l’Egitto non promette affatto bene, figuriamoci la Libia.

Giustamente preso da ciò che vede – i giovani libici ribelli – Del Grande mette in secondo piano il fatto più importante: la Libia è un paese con una popolazione molto ridotta, ma svolge un ruolo decisivo nel sistema energetico che manda avanti il sistema mondiale e in particolare europeo.

Un dato curioso, per far capire quanto sia ampio il concetto di energia: appena a dicembre fu lanciato un progetto della Al Maskari Holding di Abu Dhabi, per un valore di 3 miliardi di dollari, per creare un “polo energetico” in Libia, che doveva fornir direttamente energia all’Italia del Sud, tramite un cavo sotterraneo che avrebbe portato energia di origine sia combustibile che solare: “la Libia ha le migliori risorse solari del mondo“, dichiara la direttrice dell’Al Maskari.

Silvio Berlusconi è un signore che ha approvato con entusiasmo ogni guerra finora condotta dall’impero americano, sgomitando per arrivare in prima fila in ogni foto di gruppo dove sventoli la bandiera statunitense.

Eppure Berlusconi, che è pittoresco ma per nulla stupido, si è trovato in tremendo imbarazzo con l’attacco alla Libia; e il perché si capisce agevolmente pensando appunto a questioni come la creazione del “polo energetico”. Del Grande sottovaluta Berlusconi, attribuendo il suo comportamento a fattori psicologici:

“Berlusconi dice così un po’ per il suo delirio di onnipotenza e la sua continua ricerca di un posto tra i grandi statisti della storia italiana. E un po’ per distrarre l’opinione pubblica italiana e internazionale dall’immagine di puttaniere che gli si è ormai incollata addosso dopo gli ultimi scandali sessuali così morbosamente indagati da magistratura e stampa italiana.”

Davvero? Per il pubblico mediatico, Berlusconi avrebbe fatto molto meglio a farsi fotografare su un cacciabombardiere assieme a Obama.

Ma esiste un pubblico che Berlusconi deve veramente ingraziarsi: quello degli imprenditori italiani che si trovano davanti lo spettro dello scippo energetico francese e della fine dell’accesso privilegiato dell’Italia all’energia e ai contratti in Libia.

Per Del Grande, l’attacco internazionale sarebbe una sorta di capriccio dell’ultimo momento:

“Domanda: Perché credi che gli USA, l’UE e pure l’Italia abbiano deciso per un intervento “umanitario” contro un amico e alleato?

Risposta: Credo fondamentalmente per un errore di calcolo. Mi spiego. In un primo momento sembrava che il regime di Gheddafi sarebbe imploso su se stesso [...] E in quei giorni c’è stato un rincorrersi delle potenze mondiali per condannare la dittatura libica e mandare segnali di apertura agli insorti [...]. Poi è successo che Gheddafi si è dimostrato un osso più duro del previsto [...]. A quel punto le potenze internazionali hanno dovuto fare una scelta per proteggere i propri interessi in Libia.”

Non essendo di solito ammesso, nemmeno come traduttore, a certi vertici, non so come siano andate le cose. Comunque, se fossero andate come dice Del Grande, si sarebbe trattato di una decisione presa nel giro di pochissimi giorni.

Ora, sappiamo che per attaccare l’Iraq, tutte e due le volte, gli americani ci hanno messo dei mesi; persino dopo l’11 settembre, ci hanno messo due mesi prima di attaccare l’Afghanistan.

Ma una prova contro la tesi di Del Grande, lo porta un berlusconiano d’assalto, il giornalista di Libero, Andrea Morigi, militante di Alleanza Cattolica. Un filoamericano feroce, tanto da aver attaccato anni fa il sottoscritto in un articolo su una rivista chiave della destra americana che conta, National Review.

Ora, se Andrea Morigi se la prende con il grande alleato degli Stati Uniti, Nicolas Sarkozy, ci deve essere un motivo assai più serio dei bunga-bunga del Capo.

E quel motivo è con ogni probabilità, in primo luogo, la decisione di Nicolas Sarkozy di imporre l’egemonia francese sulle risorse libiche con la forza. Ricordiamo infatti che nel 2007, la Francia aveva firmato contratti preliminari per cifre astronomiche con la Libia, contratti che Gheddafi non aveva rispettato, sostituendo le ditte francesi con ditte italiane.

Semplicemente, Andrea Morigi ci informa che i francesi stavano già armando gli insorti libici “all’inizio di marzo“. Eseguendo quindi un progetto che risaliva addirittura allo scorso ottobre, come ci informa Franco Bechis, sempre di Libero, in un articolo che abbiamo ripubblicato qui.

Non si tratta di cercare spiegazioni “complottiste”, come le chiama Del Grande, all’insurrezione libica. Si tratta di cercare di capire perché una coalizione delle principali potenze mondiali abbia deciso di attaccare militarmente la Libia. La prima è una questione importante per i libici; la seconda per tutto il mondo.


Che volenteroso Sarkò: paga pure le armi ai ribelli
di Andrea Morigi - http://www.libero-news.it - 24 Marzo 2011

Era già partita all’inizio di marzo la “guerra umanitaria” di Nicolas Sarkozy contro Muammar Gheddafi. L’inizio delle ostilità si può datare con l’arrivo a Bengasi di un carico di cannoni da 105 millimetri e di batterie antiaeree, camuffato da aiuti umanitari alla popolazione civile.

Mittente, il governo francese, che fa accompagnare la spedizione da propri istruttori militari, i quali, non appena toccano terra, iniziano l’addestramento degli insorti.

Non ne fanno mistero, a Parigi. Anche se il settimanale Le Canard enchaîné, che ne dà conto nell’edizione del 16 marzo, nasconde la notizia in una pagina interna. Sotto un titolo che punta tutto sul dissidio fra il presidente della Repubblica, i vertici militari e il ministero degli Esteri, però, il giornalista Claude Angeli informa della consegna del materiale bellico, avvenuta già «da una decina di giorni», da parte del «servizio azione della Dgse», cioè l’intelligence francese.

Dunque, tutto il dispiegamento di arsenale e personale militare si svolge precedentemente alla risoluzione 1973, adottata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 17 marzo, in cui si chiede «un immediato cessate il fuoco» e si autorizza la comunità internazionale a istituire una no-fly zone in Libia e a utilizzare tutti i mezzi necessari per proteggere i civili.

Non stupisce più che il ministro dell’Interno Claude Guéant nei giorni scorsi abbia definito «una crociata» l’azione svolta da Sarkozy in seno all’Onu. Ora dice di essere stato frainteso, che non intendeva bandire la crociata dell’Occidente contro l’Oriente.

Eppure lo ha capito anche Jean-Marie Le Pen: «Accuso il governo francese di aver preparato questa guerra, di averla premeditata», ha dichiarato ieri l’ex presidente del Front National.

Ci stanno ben attenti a Parigi, a rispettare la risoluzione dell’Onu che esclude ogni «forza d’occupazione» e soprattutto a non eccitare gli animi dei musulmani con cui stanno giocando alla guerra santa.

Lo sanno perfettamente che l’occupazio ne del suolo islamico da parte degli infedeli è considerata un sacrilegio, un’onta da lavare col sangue. Le insorgenze in Iraq e in Afghanistan qualcosa hanno insegnato.

Perciò ora, insieme alle aviazioni e alle marine militari statunitensi e britanniche bombardano dal cielo e dal mare, ma ufficialmente non mettono piede sul terreno,anche se non si possono escludere incursioni clandestine da parte di commandos, sabotaggi, qualche provocazione.

Sarebbe uno spreco rinchiudere la Legione Straniera in caserma, del resto. Tanto più che, come ha rivelato ieri Libero, l’ex braccio destro del colonnello libico, Nouri Mesmari, in cambio dell’asilo politico, ha messo a disposizione della Francia, già da ottobre, tutte le informazioni necessarie per entrare in azione.

Non è una coincidenza che gli Stati maggiori di Parigi e Londra avessero predisposto da settimane gli scenari d’intervento in Libia. Avevano già scelto anche il nome in codice dell’operazione, South Mistral.

Ora la chiamano Harmattan in francese ed Ellamy in inglese, con una variante americana, Odissey Dawn, ma la sostanza è la stessa. Ed è anche la stessa ipocrisia conla quale i francesi sostengono di agire per portare soccorso alle popolazioni civili.

Dimenticano che, quando sono armati, i civili diventano militari. Sono arruolati nella resistenza, che notoriamente non è formata da donne, bambini, vecchi emalati indifesi. Che i rifornimenti di mortai, mitragliatrici, batterie antiaeree, carri armati e anche qualche velivolo, siano dono della Repubblica francese o provengano dai magazzini dell’esercito libico, in fondo non fa molta differenza.

E pare che non ci sia soltanto lo zampino di Parigi, ma anche quello di Londra e del Cairo post-Mubarak. All’inizio di marzo, un drappello formato da due agenti dell’MI6 e sei incursori delle Sas britanniche avevano già tentato di entrare in contatto con i capi della rivolta di Bengasi.

Appena scesi dall’elicottero che li aveva trasportati nella zona di missione, però, gli otto guerrieri erano stati bloccati dai guardiani di una fattoria e consegnati alla resistenza. Interrogati, non avevano svelato nulla ed erano stati poi recuperati e riportati a casa con la fregata HMS Cumberland. Il ministro della Difesa britannico aveva dovuto ammettere che erano sul posto già da tre settimane, ufficialmente per assistere piloti, nel caso in cui fossero stati abbattuti.

Ecco perché quello di venerdì 18 marzo non è stato affatto un attacco a sorpresa. Intendevano colpire. E avevano già dispiegato sul campo i loro uomini, come avevano fatto, dopo la caduta di Ben Alì e di Hosni Mubarak, anche i governi di Tunisi e del Cairo, consentendo rispettivamente l’ingresso in Libia di combattenti volontari e di almeno un centinaio di appartenenti alle forze speciali dell’Unità 777 egiziana, inviati per fornire armamenti e appoggio tattico.

Quando Gheddafi accusa le potenze straniere di volerlo rovesciare, sa di che cosa, e soprattutto di chi, sta parlando.

MISTER «FIGARO»: VENDO ARMI PER FARLE USARE

«Quando si vende del materiale, è affinché i clienti se ne servano». Così il magnate, imprenditore, politico, editore francese Serge Dassault ha risposto ad un giornalista che gli chiedeva cosa pensasse delle sue armi vendute a Gheddafi. A molti, sentendo i fischi delle bombe lanciate dai Mirage fatti decollare dal presidente Nicolas Sarkozy, il nome di Dassault ha iniziato subito a ronzare in testa.

Del resto, i Mirage (come i Rafale, versione francese degli Eurofighter) escono proprio dai cantieri della Dassault Aviation, colosso dell’aviazione fondato da Marcel e ora controllato dal figlio Serge. Secondo Forbes è l’89esimo uomo più ricco del mondo, con una fortuna stimata di 7,6 miliardi di dollari.

Ma per i francesi, oltre agli aerei da caccia, Dassault è conosciuto soprattutto per essere (attraverso la società Socpresse) l’editore de «Le Figaro», storico quotidiano conservatore francese. Attività a cui, dal 2004, affianca quella di senatore dell’Ump. Lo stesso partito di Nicolas Sarkozy, con cui l’im – prenditore è legato da vecchia e stretta amicizia. Armi, politica e giornali: una miscela più esplosiva dei missili sparati dai suoi Mirage.


Dal Kosovo alla Libia: il lato oscuro dell’interventismo “umanitario”
di Stefano Vernole - www.eurasia-rivista.org - 30 Marzo 2011

Giunto simbolicamente a Belgrado il 23 marzo (giorno antecedente all’anniversario dell’inizio dei bombardamenti sulla Federazione Jugoslava nel 1999), il capo del governo di Mosca, Vladimir Putin, avrebbe dichiarato che tra l’attuale crisi libica e quella kosovara di 12 anni fa esisterebbero diverse differenze.

Sicuramente, però, vi sono anche parecchie analogie.

Preparazione mediatica all’aggressione militare: come allora, l’intervento degli aerei della coalizione occidentale è stato preceduto da una lunga campagna dell’opinione pubblica, volta a demonizzare l’avversario.

Nel 1999 fu il falso massacro di Racak a fornire il pretesto per l’umiliante ultimatum di Rambouillet, oggi sono state le false fosse comuni di Tripoli (1) e gli inesistenti raid aerei (2) sui manifestanti a permettere di scaldare i motori degli aerei dell’aviazione atlantica.

Anche le parole d’ordine della propaganda occidentale sono sempre le stesse: “un dittatore che uccide il suo popolo” (allora Milosevic che vinse tutte le elezioni, oggi Gheddafi che sostituì nel 1969 un regime autocratico introducendo la democrazia diretta), gli “scudi umani” a protezione dei siti da bombardare (in realtà migliaia di volontari pronti a sacrificarsi, a Belgrado a difesa dei ponti sul Danubio, a Tripoli delle città libiche), “gli insorti lottano per la libertà e la democrazia” (in realtà l’UCK era un gruppo ideologicamente marxista-leninista e le tribù ribelli della Cirenaica sventolano le bandiere monarchiche), qualche accenno alla “pulizia etnica” e ai “mercenari” (che nemmeno vale la pena commentare), “Milosevic disposto ad arrendersi dopo 3 giorni di bombardamenti” (furono alla fine 78) e “Gheddafi scappato in Venezuela o in Bielorussia” (forse sarebbe piaciuto a Washington per attaccare Chavez e Lukashenko …), preparazione “culturale” alle rivolte (apertura di un centro statunitense finanziato da Soros a Pristina e discorso di Obama al Cairo).

Sostegno esterno agli insorti e andamento del conflitto: in Kosovo l’UCK venne addestrato, armato e finanziato da BND, SAS, CIA e servizi segreti albanesi, in Libia gli insorti di Bengasi da SAS, CIA, servizi segreti francesi, egiziani e sauditi. In un primo momento l’esercito di liberazione albanese del Kosovo conquistò oltre metà della provincia serba e assunse il controllo di tutte le strade principali, per essere travolto alla prima azione seria intrapresa dalla polizia militare di Belgrado.

Lo stesso può dirsi per le tribù della Cirenaica che, dopo un fantomatico successo iniziale, stavano per scappare in Egitto e perdere anche la loro roccaforte.

In entrambi i casi, questi gruppi ribelli sono stati utilizzati per creare un clima bellico idoneo per l’intervento esterno, vengono fatti massacrare perché non assumano troppa influenza e verranno poi scaricati quando le potenze occidentali avranno raggiunto i loro obiettivi (nel 1999 la NATO addirittura bombardò la caserma di Koshare, unico successo militare dell’UCK).

Divisione del paese: impossibilitata a vincere davvero il conflitto vista la scarsa attitudine delle sue truppe a condurre un intervento di terra, la NATO si accontentò nel 1999 di occupare soltanto il Kosovo (ricco di minerali e in posizione strategica per la sorveglianza dei corridoi energetici), per poi destabilizzare la Serbia e far cadere Milosevic in un secondo tempo.

L’obiettivo principale in Libia è impiantare i soldati dell’Alleanza Atlantica in Cirenaica e nel Fezzan (ricchi di petrolio e in ottima posizione per il controllo dell’Egitto), quali basi iniziali di una futura eliminazione di Gheddafi in Tripolitania (3). La balcanizzazione del mondo continua.

Demonizzazione dell’avversario: agli Stati Uniti, si sa, piace l’impostazione leaderistica della politica e identificano sempre un paese con la sua guida: ieri Milosevic (in realtà un grigio burocrate socialista), oggi Gheddafi (abbastanza attempato, se non altro perché si trova a capo della Libia dal 1969).

Questa identificazione totale del potere con un solo uomo, oltre a voler ricordare i paralleli con i grandi avversari storici degli anglosassoni (Mussolini, Hitler, Stalin), permette agli USA di recitare la parte dei “liberatori dall’oppressione” o “dalla dittatura” (sarebbe sufficiente confrontare i parametri economici e sociali della Serbia di Milosevic con l’attuale o della Libia di Gheddafi con il resto del continente africano per capire i “vantaggi” della “liberazione”).

In ogni caso le pressioni e l’armamentario ideologico-propagandistico sono identici: sequestro di fantomatici conti all’estero o di improbabili “tesori”, incriminazione al Tribunale dell’Aja (quello che ha ammesso di aver distrutto le prove dei crimini compiuti contro i serbi in Kosovo), pressioni per l’esilio dei “dittatori”.

Anche il tranello per attirarli nella trappola è stato pressoché lo stesso: nel 1995 Milosevic fu acclamato a Dayton quale “uomo della pace” (e infatti oggi le clausole approvate per mettere fine alla guerra di Bosnia vengono messe in discussione dalle pressioni atlantiste), Gheddafi dopo le minacce subite da Bush jr. e le riparazioni economiche pagate per l’attentato di Lockerbie (il presunto colpevole è stato rilasciato dagli inglesi per “una grave malattia” nonostante di salute stia benissimo, pur di evitare un processo di appello che avrebbe inchiodato i suoi accusatori britannici a mostrare prove in realtà inesistenti) venne riciclato come alleato nella “guerra al terrorismo”. L’apertura all’Occidente, evidentemente, non paga.

Interessi in gioco: sono abbastanza simili e riguardano il percorso degli oleodotti nel caso kosovaro, i diritti di sfruttamento del petrolio in quello libico (e questi, almeno oggi, sono stati ammessi perfino dalla nostra classe dirigente).

Nel caso kosovaro ci furono anche quelli della droga e del traffico di migranti/prostituzione, probabile che anche in Libia avvenga qualcosa del genere. Posizionamento strategico della NATO: base militare USA di Camp Bondsteel in Kosovo (quale porta d’ingresso alle aree strategiche del pianeta, Vicino e Medio Oriente, Caucaso), destabilizzazione dell’influenza russa e turca nel Mediterraneo per la Libia (4), rilancio mediatico del ruolo dell’Alleanza Atlantica quale gendarme globale.

Danni all’Italia e mediazione russa: evidenti all’epoca dell’aggressione alla Serbia (affare Telekom Srbja, investimenti commerciali, inquinamento ambientale del Mar Adriatico, conseguenze dell’utilizzo dell’uranio impoverito sui propri militari, violazione della Costituzione, invasione della droga e della mafia kosovara), addirittura clamorosi con la partecipazione ai bombardamenti sulla Libia (perdita di cospicui contratti petroliferi, accordi energetici, perdita di credibilità internazionale dopo la concessione delle basi militari per un attacco militare e violazione del trattato di amicizia italo-libico, aumento dei migranti e probabilmente del traffico di droga) (5).

Nel 1999, la Russia che aveva però posto il veto all’intervento nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, favorì con Chernomyrdin la fine delle ostilità; è probabile che ora molti, Berlusconi per primo, si augurino una mediazione russa per trovare una via d’uscita vantaggiosa per tutti.

Non sappiamo, infatti, quanto durerà ancora questa coalizione improvvisata di governi che ormai non hanno più nemmeno la decenza di vergognarsi delle proprie bugie, ma, soprattutto, dopo quanto esportato in Kosovo (dove i gestori del potere organizzavano i traffici di organi umani (6)), Iraq (con nefandezze come l’embargo sul latte ai bambini e le torture di Abu Ghraib) e Afghanistan (dove si confondono trafficanti di droga e necrofili) (7), attendiamo “fiduciosi” di scorgere i frutti del loro “intervento umanitario” in Libia.

Note:

  1. Paolo Pazzini su “Il Giornale”: “Vengo da Tripoli e vi dico che i giornali raccontano un sacco di menzogne”, 26 febbraio 2011, www.ilgiornale.it
  2. I militari russi: nessun attacco aereo in Libia”, 2 marzo 2011, http://www.eurasia-rivista.org/8536/i-militari-russi-nessun-attacco-aereo-in-libia
  3. LIBIA:STRATEGA, NO FLY ZONE COME BOSNIA RISCHIA DI FALLIRE PERICOLO E’ STALLO, PAESE DIVISO PREVALGONO IDENTITA’ REGIONALI (ANSA) – ROMA, 21 MAR ”Stanno tentando di far cadere Gheddafi come avvenne con Milosevic negli Anni Novanta” ma ”questa volta potremmo fallire”. E’ quanto afferma Robert Kaplan, stratega militare del Center for New American Security, intervistato da La Stampa. ”In Libia vogliono imporre una no fly zone come la Nato fece nel 1994 sui cieli della Bosnia e anche nel 1999 sul Kosovo – afferma Kaplan – conducendo una campagna aerea di 99 giorni. Ma quelle due operazioni militari non portarono alla caduta di Milosevic, perche’ una no fly zone non e’ in grado di innescare cambiamenti di regime”. In Libia, secondo l’esperto, si sta tentando di indebolire Gheddafi allo stesso modo, ”fino al punto da portare qualcuno del suo campo a prendere l’iniziativa per eliminarlo o allontanarlo dal potere”. Ma la Libia ”non e’ la Serbia”. ”La Libia, in realta’, come stato non esiste – prosegue – perche’ a prevalere sono piuttosto le identita’ regionali in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan”. ”Se una no fly zone riesce a salvare Bengasi – afferma Kaplan – e indebolisce Gheddafi in Cirenaica, non significa che cio’ avverra’ anche in Tripolitania”. Il rischio per la coalizione e’ arrivare ad una situazione di stallo: ”la Cirenaica in mano ai ribelli, la Tripolitania a Gheddafi e il Fezzan senza governo”. (ANSA).
  4. http://www.eurasia-rivista.org/8828/libia-che-alternative-aveva-litalia
  5. http://www.eurasia-rivista.org/8778/litalia-ha-gia-perso-la-sua-guerra-di-libia
  6. http://www.eurasia-rivista.org/7839/kosovo-il-rapporto-marty-e-stato-censurato-da-israele
  7. ANSA/ AFGHANISTAN:VILIPENDIO CADAVERI CIVILI,SCUSE ESERCITO USADER SPIEGEL PUBBLICA FOTO.SOLDATI GIA’ INCRIMINATI,MA IN SEGRETO (ANSA) – NEW YORK, 21 MAR – Violenze che rievocano quelle del carcere iracheno di Abu Ghraib tornano a offuscare l’immagine dei soldati americani. Questa volta si riferiscono all’ Afghanistan, e riguardano cinque soldati accusati non solo di aver ucciso civili, ma anche di aver vilipeso i loro cadaveri. Sugli episodi, che si riferiscono al 2010 e che finora erano stati mantenuti segreti, l’Esercito Usa aveva gia’ avviato un’inchiesta, e i soldati in questione sono gia’ stati identificati e formalmente incriminati. Tuttavia sono emerse per la prima volta fotografie sugli episodi di cui sono accusati che provocano non poco imbarazzo ai comandi dell’Esercito Usa. Il settimanale tedesco Der Spiegel ha ottenuto e pubblicato tre fotografie che appaiono inequivocabili. La prima mostra due afghani, apparentemente morti, appoggiati a un palo, forse legati. Le altre due foto mostrano due soldati nell’atto di chinarsi accanto al corpo di un afghano morto che viene trascinato per i capelli. Il cadavere e’ vestito con abiti civili. Uno dei soldati lo tiene per i capelli, e sorride. I due soldati che si trovano accanto al cadavere – hanno reso noto fonti dell’Esercito Usa – sono Jeremy Morlock, di Wasilla, Alaska, gia’ accusato di aver ucciso altri civili afghani, e Andrew Holmes, nei confronti del quale sono state mosse accuse analoghe. Anche lui e’ chinato accanto al cadavere, e lo trascina. Nei loro confronti e’ gia’ stata avviata un’inchiesta, cosi’ come nei confronti di altri tre soldati americani della Stryker Brigade, impiegata in Afghanistan dall’estate del 2009 all’estate del 2010. Tutti i soldati finiti sotto inchiesta appartengono alla 2/a Divisione Fanteria. L’Esercito Usa ha chiesto scusa, e ha espresso preoccupazione. La pubblicazione delle foto puo’ ulteriormente aggravare i non facili rapporti con la popolazione afghana. Per questo motivo gli ufficiali Usa avevano cercato di impedire che queste immagini, scattate evidentemente da altri soldati, venissero mostrate in pubblico. Indagini erano state avviate fin dal maggio dello scorso anno per accertare se i soldati Usa impegnati in Afghanistan abbiano altre immagini compromettenti custodite nei loro computer o nei loro cellulari. In una dichiarazione, il portavoce dell’Esercito, colonnello Thomas Collins, ha definito le immagini ”ripugnanti”: l’Esercito si scusa ”per il disturbo che queste foto possono arrecare, che sono in assoluto contrasto con la disciplina, la professionalita’ e il rispetto che hanno caratterizzato il comportamento dei nostri soldati. Temiamo – ha aggiunto – che questo genere di cose possa mettere a rischio le forze della coalizione, e minare le nostre relazioni con il popolo afghano”. (ANSA).


Cinque cause dell'insurrezione araba

di Ignacio Ramonet - Le Monde Diplomatique - Marzo 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Liliana Benassi

La primavera democratica del mondo arabo.

Quali sono le cause dell'uragano di libertà che, dal Marocco a Bahrein, passando per la Tunisia, Libia ed Egitto, soffia sul mondo arabo? Per quale motivo questa “simultanea” ansia di democrazia s’espressa proprio ora? A queste due domande, le risposte sono di diversa natura: storica, politica, economica, climatica e sociale.

1. Storica. Dalla fine della Prima Guerra Mondiale e dal crollo dell'Impero ottomano, l'interesse delle potenze occidentali per il Mondo Arabo (Medio Oriente e Nord Africa) ha avuto due principali motivi: controllare gli idrocarburi e garantire uno Stato ebraico.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale e il conseguente shock dell'Olocausto, la creazione dello Stato d'Israele nel 1948, ebbe come contropartita l'arrivo al potere in vari Stati arabi liberati del colonialismo, di forze antisioniste (opposte all'esistenza di Israele): di tipo "militare nazionalista" (in Egitto e Yemen) o di carattere "socialista arabo" (in Iraq, Siriana, Libia ed Algeria).

Le tre guerre perse contro Israele, nel 1956, 1967 e nel 1973, condussero l’Egitto e Giordania a firmare trattati di pace con lo Stato ebraico e ad allinearsi con gli Stati Uniti che controllavano già tutte le petromonarchie della penisola Araba come Libano, Tunisia e Marocco.

In questo modo, Washington e i suoi alleati occidentali mantenevano i loro due obiettivi principali: il controllo del petrolio e la sicurezza di Israele. In cambio, proteggevano la permanenza di feroci tiranni (Hasán II, il generale Mubarak, il generale Ben Ali, i re sauditi Faisal, Fahd ed Abdalá, etc.) e sacrificarono qualunque aspirazione democratica della società.

2. Politica. Negli Stati del presunto "socialismo arabo" (Iraq, Siriana, Libia ed Algeria) sotto i comodi pretesti della "lotta antimperialista" e della "caccia ai comunisti", vennero stabilite dittature di un unico partito, governate con mano di ferro da despoti d’antologia (Sadam Hussein, Al Assad padre e figlio e Muammar al Gaddafi, il più pazzo di tutti).

Dittature che garantivano, piu che altro, alle potenze occidentali l'approvvigionamento agli idrocarburi e che non fossero una minaccia per Israele (quando l'Iraq sembrò esserlo, venne distrutta). In questo modo sui cittadini arabi cadde un muro di silenzio e di terrore.

Le primavere democratiche si susseguivano nel resto del mondo. Sparirono, negli anni 1970, le dittature del Portogallo, Spagna e Grecia. Nel 1983 quella della Turchia. Dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, crollarono l'Unione Sovietica e il "socialismo reale" dell'Europa dell’Est. In America Latina le dittature militari caddero negli anni 1990. Nel frattempo, a pochi chilometri dall'Unione Europea e con la complicità delle potenze occidentali (inclusa la Spagna) il mondo arabo seguiva in stato di glaciazione autocratica.

Non permettendo nessuna forma d’espressione critica, la protesta si localizzò nell'unico posto di riunione non proibito: la moschea. Ed intorno all'unico libro non censurabile: il Corano. Così si andarono fortificando gli islamismi. Il più reazionario fu diffuso dall'Arabia Saudita col deciso appoggio di Washington che vedeva in esso un argomento per mantenere i paesi arabi nella "sottomissione" (il significato della parola “islam”).

Peró fu sopratutto dopo la "rivoluzione islamica" di 1979 in Iran, quando l'islamismo politico trovò nei versi del Corano argomenti per reclamare giustizia sociale e denunciare la corruzione, il nepotismo e la tirannia.

Da lì nacquero vari rami più radicali, disposti a conquistare il potere con la violenza e la "Guerra Santa”. Così nacque Al Qaeda... Dopo gli attentati dell’ 11 settembre 2001, le potenze occidentali, con la complicità delle "dittature amiche", aggiunsero un nuovo motivo per mantenere sotto ferreo controllo le società arabe: la paura dell'islamismo. Invece di capire che questa era la conseguenza della mancanza di libertà e dell'assenza di giustizia sociale, aggiunsero più ingiustizia, più dispotismo, più repressione...

3. Economica. Vari Stati arabi soffrirono le ripercussioni della crisi globale iniziata nel 2008. Molti lavoratori arabi, emigrati in Europa, persero il lavoro. Il volume degli invii dei soldi alle loro famiglie diminuì. L'industria turistica appassì. I prezzi degli idrocarburi (in aumento queste ultime settimane a causa dell'insurrezione popolare in Libia) aumentarono. Contemporaneamente, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) impose, a Tunisia, Egitto e Libia, programmi di privatizzazione dei servizi pubblici, riduzioni drastiche dei presupposti finanziari, diminuzione del numero degli impiegati...

Severi piani di aggiustamento che peggiorarono, in questo, la vita dei poveri e soprattutto minacciarono con impoverire la classe media urbana (proprio quella che ha accesso al computer, al cellulare e alle reti sociali) gettandoli nella povertà.

4. Climatica. In questo contesto, già di per sé esplosivo, si produsse l'estate scorsa un disastro ecologico in una regione lontana dal mondo arabo. Però il pianeta è uno solo. Per settimane, la Russia, uno dei principali esportatori di cereali del mondo, conobbe la peggiore ondata di calore e di incendi della sua storia.

Un terzo del suo raccolto di grano fu distrutto. Mosca sospese l'esportazione di cereali (che servono anche per nutrire il bestiame) i cui prezzi salirono rapidamente di un 45 percento.

Quell'aumento si ripercosse sugli alimenti: pane, carne, latte, pollo... Provocando, a inizi di dicembre 2010, il maggiore incremento dei prezzi alimentari dal 1990. Nel mondo arabo, una delle principali regioni importatrici di quei prodotti, si moltiplicarono le proteste contro la carestia della vita...

5. Sociale. Aggiungiamo ai motivi precedenti una popolazione molto giovane ed un livello di disoccupazione monumentale. Un'impossibilità ad emigrare perché l'Europa ha blindato le sue frontiere e stabilito sfacciatatamente accordi affinché le autoritá arabe si incarichino del lavoro sporco di contenere gli emigranti clandestini.

Mancava una scintilla per incendiare gli animi. Ce ne furono due. Entrambe a Tunisi. La prima, il 17 dicembre, l’auto immolazione di Mohamed Bouazizi bruciandosi vivo. Un venditore ambulante di frutta, come segno di condanna alla tirannia. La seconda, far eco usando cellulari, reti sociali (Facebook, Twitter), posta elettronica ed il canale Al-Yazeera delle rivelazioni di WikiLeaks sulla realtà concreta dello schifoso sistema mafioso stabilito dal clan Ben Ali-Trabelsi.

L’uso delle reti sociali è risultatato fondamentale. Ha permesso di rompere il muro della paura: sapere con anticipo che decine di migliaia di persone manifesteranno un giorno D ad una ora H è una garanzia che uno non protesterà solo esponendosi isolato alla repressione del sistema. Il successo tunisino di questa strategia dello “sciame” è andato espandendosi per tutto il mondo arabo.

lunedì 28 marzo 2011

"Rivoluzioni" update

Alcuni articoli sugli sviluppi delle cosiddette "rivoluzioni" in Nord Africa e Medio Oriente.


Libia, petrolio al sicuro
di Christian Elia - Peacereporter - 28 Marzo 2011

Dopo la presa di Ras Lanuf i ribelli hanno ripreso i pozzi, adesso la coalizione lavora alla soluzione diplomatica

Il regime di Tripoli ha promesso per Sirte una nuova Stalingrado. La città natale del rais, a questo punto, diventa il confine psicologico della Tripolitania. L'avanzata dei ribelli, nelle ultime ore, è tornata a essere inarrestabile. Ajdabiya, Brega, Ras Lanuf. Il petrolio, in parole povere.

Il puzzle, sempre più, trova la sua completezza. I ribelli, alle porte di Tripoli, sono stati abbandonati a loro stessi nei giorni scorsi. Il regime ha ripreso l'iniziativa, arrivando alla periferia di Bengasi.

Solo allora si è mossa la comunità internazionale, con la no fly zone estensiva, visto che non si è limitata a impedire all'aviazione di Gheddafi di attaccare, ma ha anche bombardato le colonne dell'esercito libico, rovesciando l'esito della guerra.

Grazie anche alle armi nuove di zecca che sono arrivate, alla fine, nelle mani degli insorti permettendo loro di avere ragione nel corpo a corpo con i blindati dell'esercito che rinculano verso Sirte e Tripoli, mentre a Misurata si combatte casa per casa.

Questo è il bollettino di guerra, ma come ogni conflitto c'è un'agenda politica che va di pari passo. La Francia e l'Inghilterra assieme, l'Italia e la Germania divise, si apprestano domani a Londra a produrre proposte diplomatiche per uscire dalla crisi libica.

Adesso che il petrolio è messo in sicurezza, nelle mani del governo transitorio, si può ragionare a mente fredda. Perché i rischi erano tanti.

Da un lato non si poteva lasciare un tale tesoro nelle mani di un'armata brancaleone (motivo probabile del tardivo riconoscimento da parte dell'Occidente dei nuovi padroni di Bengasi), dall'altro lato non si poteva tornare a trattare con Gheddafi dopo tutto quello che era accaduto.

Ora si può: i ribelli devono tutto all'appoggio militare della coalizione e di sicuro saranno interlocutori malleabili. Il regime, da parte sua, è in un vicolo cieco e sarà più facile metterlo alle corde.

Qualche numero, aiuta. Con 46,5 miliardi di barili di riserve accertate, la Libia è la più grande economia petrolifera del continente africano. Non solo. L'oro nero libico ha una caratteristica tecnica molto importante.

Gli esperti lo chiamano sweet, a basso contenuto di zolfo. Quando viene estratto ha costi di raffinazione di molto inferiori a quelli, ad esempio, del petrolio saudita, detto sour (alta presenza di zolfo). Margini di profitto, dunque, enormi.

Anche perché negli anni dell'embargo alla Libia la produzione ha risentito dei ritardi tecnologici accumulati. Questo significa tante cose, in primis scarse rilevazioni per monitorare nuovi giacimenti di petrolio e di gas.

C'era chi lo diceva già nel 2005. Matthew Simmons, un banchiere texano, pubblica un libro choc intitolato Il Crepuscolo nel deserto. Per Simmons e per le sue fonti, l'Arabia Saudita sopravvalutava di proposito le proprie riserve di petrolio. La produzione saudita - per Simmons - ha raggiunto il suo massimo e il continuo sfruttamento rischia di esaurire presto le riserve di greggio.

Nel 2008 arriva il rapporto del World Energy Outlook (Weo) dell'International Energy Agency (Iea). Secondo gli analisti, la domanda di energia (sospinta dalle economie emergenti) crescerà del 45 percento tra il 2006 e il 2030.

Una bocca famelica, difficile da sfamare, nonostante un Iraq ormai accomodante. L'analisi dell'Iea si chiudeva con una metafora: servirebbero quattro produttori tipo l'Arabia Saudita.

Il 7 luglio 2010, dopo una visita a Washington , il re saudita Abdallah ha annunciato che l'Arabia Saudita ha smesso di cercare nuovi pozzi. Una notizia che ha gelato i mercati europei e nord americani, anche perché la Cina controlla una percentuale sempre maggiore delle riserve mondiali. Il barile crolla a meno di 80 dollari, le raffinerie sono in vendita ma nessuno le compra.

''Cosa possiamo fare di più? E' un problema di qualità'', annuncia rassegnato - sempre nel 2008 - il generale Mohammed Barkindo, segretario generale dell'Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (Opec).

Il petrolio senza zolfo, ecco cosa serve. E serve tenerlo lontano dalla mani cinesi. La Libia è un'ottima risposta a tutte queste domande e da oggi (con il barile ben oltre i cento dollari) è molto più facile immaginare una sponda meridionale del Mediterraneo più affidabile dal punto di vista delle nostre economie.


Il "fronte delle immagini" e i bombardamenti su Bengasi
da www.michelcollon.info - 22 Marzo 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Alessandra Pontecorvo

Ogni sera, ascoltiamo nei nostri telegiornali che quella con Gheddafi è anche una guerra a suon di comunicati. Questo per farci comprendere che il governo libico mente ai giornalisti internazionali per poter manipolare l’opinione pubblica. Ma è solo il dittatore ad essere un bugiardo?

Un esempio, domenica 20 marzo, tutta la stampa estera è stata accompagnata dal proprio hotel al cimitero per assistere ai funerali delle prime vittime cadute sotto i bombardamenti della coalizione. Ma il tutto sembrava tanto una messa in scena. Al suo arrivo il convoglio è stato accolto da una folla di “simpatizzanti pro-Gheddafi”.

Malgrado l’ambientazione triste di un cimitero, i tripolitani non stavano piangendo, e mostravano più ritratti del leader che delle vittime. Nessuna sepoltura, ma solo delle fosse vuote pronte ad accogliere dei cadaveri che non sarebbero mai arrivati. I giornalisti non si sono lasciati prendere e sono rimasti critici. Un plauso alla loro professionalità.

Ma sono sempre così lucidi? Durante le guerre precedenti, diversi fatti, dapprima ritenuti veritieri si sono poi rivelati delle menzogne destinate a ingannare l’opinione pubblica e preparare le coscienze ad accettare la guerra. I media non hanno mai messo in discussione le affermazioni venute dall’esterno che contribuivano a giustificare queste guerre per scopi umanitari o di difesa della civiltà.

Durante la prima guerra del Golfo, una menzogna su tutte si riassume con il caso delle incubatrici. Una giovane ragazza kuwaitiana aveva denunciato, in lacrime sugli schermi, che i soldati di Saddam Hussein toglievano i bambini dalle incubatrici per gettarli per terra e ucciderli.

Questa dichiarazione era stata sostenuta da un diplomatico dello stesso paese che era arrivato finanche a dire che lui stesso avevo sepolto quattordici neonati. Che orrore! La notizia ha fatto il giro del mondo. L’attacco poteva essere lanciato.

L’ONU affermerà, molto più tardi, dopo un’inchiesta, che tutto ciò non era mai successo. La giovane ragazza era figlia di un ambasciatore del Kuwait e aveva recitato la commedia.

Nella seconda guerra “per la democrazia” in Iraq, hanno giocato la carta delle famose armi di distruzione di massa (ADM). L’Iraq era un pericolo. Era necessario disarmare Saddam e liberare il suo popolo. Tony Blair ha recentemente riconosciuto che queste ADM non sono mai esistite.

In questa nuova guerra dell’Occidente contro la Libia è ancora difficile provare quali siano le media-menzogne utilizzate per convincere i cittadini ad accettare questo attacco. Ma ci si pone già una serie di domande.

Per esempio, ci sono davvero dei bombardamenti intensi su Bengasi? Almeno, sono stati visti?

Claire Chazal, sembrerebbe averli visti e ce li presenta nella sua edizione del 18 marzo, due giorni dopo la risoluzione dell’ONU. Inizia il suo TG annunciando “gli intensi bombardamenti hanno provocato un primo esodo”. Senza utilizzare il condizionale e sottintendendo che altri esodi avranno luogo. E continua seguendo questa logica “il cessate il fuoco non è dunque apparentemente stato osservato e gli occidentali preparano il loro intervento”

Immediatamente, le prove in immagini. Sul posto, l’inviato speciale ripete in apertura l’espressione “violazione del cessate il fuoco” mentre si vede un caccia cadere. E aggiunge: “una piccola vittoria per gli oppositori” con il sottofondo “di spari e grida di gioia” magistralmente mixati dal tecnico del suono a Parigi. Sullo schermo, una decina di civili. Dunque, “la battaglia si fa violenta, le forze di Gheddafi sono entrate a Bengasi” il tutto “secondo gli insorti”.

Va tutto veloce su TF1 [canale della tv francese n.d.t.] visto che tutt’a un tratto, ci ritroviamo a Tripoli dove, secondo il giornalista, il portavoce del regime “nega assolutamente di aver violato il cessate il fuoco imposto dalle nazioni unite”. Il ministro degli affari esteri chiede di far arrivare degli osservatori internazionali per costatarlo loro stessi.

Ma non ci si rifà a questo corrispondente di guerra: egli prova il contrario con le immagini amatoriali di un cellulare. Secondo lui, si possono vedere i bombardamenti. Ma se si riguarda più volte la scena si vedrà solo una fumata bianca che assomiglia più a quella di un fumogeno da stadio di calcio che a quella di un missile di grande portata.

Con questi pochi secondi di immagini da fonte sconosciuta, egli sostiene quindi che il ministro mente. Mai dei bombardamenti intensivi sulle immagini, ma egli giunge alla stessa conclusione di Claire Chazal: “il regime di Tripoli è più che mai sotto la minaccia di attacchi aerei”. Senza bisogno di osservatori dunque, si possono muovere dei missili per salvare il popolo libico.

Quindi, se il telespettatore non si fosse ancora convinto dopo questi due piccoli minuti, ci si mette un ulteriore sostegno con un altro inviato speciale. Ma, poiché egli non ha una telecamera, si riciclano le immagini già mostrate all’inizio del TG. Ancora questo aereo che cade ed emana una fumata nera.

Questo Mig cade tre volte in meno di un minuto. Questa fumata, vista da differenti angoli della città, dà, in effetti, l’impressione che ci siano numerosi focolai d’incendio a Bengasi. Il corrispondente d’assalto dice timidamente che ci sono delle “eco di bombe” , che gli hanno parlato di cecchini, ma… “impossibile verificare”.

Non un’immagine, nonostante il materiale che si può procurare il canale francese come quegli apparecchi fotografici connessi sempre con la redazione per inviare le immagini in tempo reale. Niente, al loro posto, ci viene mostrata una foto sfocata di…ancora questo aereo che cade. E con questa fanno cinque volte. Ma, c’era realmente qualcosa da fotografare?

Con questa fanno due settimane che ci sarebbero “bombardamenti intensi” e Bengasi ha l’aria intatta. L’immagine più violenta è stata ripulita più volte ed è apparsa su tutti i quotidiani come prova della menzogna di Gheddafi sul cessate il fuoco e come giustificazione dell’attacco che avverrà 24 ore più tardi.

È difficile affermare che non ci sia stato alcun bombardamento poiché tutti i media lo ripetono. Perciò noi non vogliamo mettere in dubbio la professionalità di questi giornalisti che non si lasciano facilmente abbindolare
Eppure…

La Russia che ha dei satelliti d’osservazione più potenti di un iPhone afferma di non aver visto attacchi massivi come dichiara la coalizione. TF1 non sembra averne sentito parlare.

D’altro canto, Claire Chezal ha ragione quando dichiara: “in battaglia si combatte anche sul fronte delle immagini”


Link ai tre minuti di Claire Chezal (desolata per la pubblicità)



Siria. La guerra dei media
di Simone Santini - www.clarissa.it - 27 Marzo 2011

Latakia è una grande città portuale della Siria che si affaccia sul Mediterraneo. Da lì viene il clan degli Assad, che da quarant'anni governa il paese, prima col capostipite Hafez, "il leone di Damasco", ed ora, dal 2000, con suo figlio Bashar.

Latakia è anche la culla degli Alauiti, una minoranza confessionale islamica da cui provengono praticamente tutti i comandanti delle Forze armate siriane. Hanno destato dunque non poco clamore le notizie di questi giorni che indicavano in Latakia, la roccaforte degli Assad e degli Alauiti, come uno degli epicentri delle proteste anti-regime che stanno scuotendo paese. L'onda lunga della ribellione nel mondo arabo ha investito anche la Siria.

I primi moti sono avvenuti a Daraa, un centro agricolo nell'estremo sud, al confine con la Giordania. Da lì le proteste, dopo aver infranto il "muro del terrore", si sarebbero propagate ben presto a tutto il resto della nazione, coinvolgendo le maggiori città.

Questo almeno secondo i servizi dei telegiornali italiani e della maggiore stampa nostrana, che nella migliore delle ipotesi riportano sostanzialmente le notizie delle agenzie internazionali o le corrispondenze di Al-Jazeera, in altri casi fanno da cassa di risonanza a voci incontrollabili.

Un esempio. «Gli scontri più duri di ieri sono stati però a Latakia, sulla costa, la città-porto vicina alle montagne Alauite. "Le Guardie repubblicane, i loro sgherri e i cecchini, al comando del cugino di Bashar, Nmer, hanno attaccato cinque quartieri sunniti, ucciso venti persone - dice un attivista che non vuole essere citato - Il loro piano è creare tensioni confessionali e provocare un attacco sunnita contro gli Alauiti che sarebbe un'ottima scusa per nuove repressioni. Si dice poi che il regime stia preparando un attentato da attribuire ai rivoltosi".

In serata, fonti indipendenti segnalavano l'arrivo dell'esercito a circondare e poi entrare a Latakia» (Cecilia Zecchinelli, "Siria, assalto ai palazzi del potere - L'esercito dispiegato nelle città", Corriere della Sera, 27 marzo 2011).

L'agenzia di stampa ufficiale siriana, SANA, riporta le stesse notizie con un'ottica completamente diversa, anzi, opposta. «Una fonte ufficiale ha dichiarato che le aggressioni innescate da elementi armati contro i cittadini e i quartieri della città di Latakia, durante questi ultimi due giorni, hanno provocato dieci vittime tra le forze di sicurezza e la gente, e la morte di due elementi armati che avevano percorso le strade e occupato i tetti di alcuni edifici.

La fonte riferisce ancora che circa duecento persone, in gran parte membri delle forze armate, sono rimaste ferite, sottolineando che gli elementi armati hanno aggredito installazioni e luoghi pubblici, stazioni di servizio e negozi, preso d'assalto alcune abitazioni e terrorizzato la cittadinanza.

Gli elementi armati hanno inoltre attaccato l'ospedale nazionale, le ambulanze, e aggredito il personale medico che si trovava a bordo» (Raghda Bittar, "Dieci martiri tra forze di sicurezza e cittadini, bilancio dell'aggressione di elementi armati contro Latakia", SANA, 27 marzo 2011).

A qualunque delle due versioni si voglia prestare maggiormente fede, una cosa è certa. A Latakia non è accaduto nulla che assomigli a manifestazioni e proteste della cittadinanza contro il regime, nulla a che vedere con il vento della democrazia che secondo i media nostrani sta invadendo anche la Siria.

Si è trattato con tutta chiarezza di un episodio di classica strategia della tensione. Resta solo da comprendere chi ha sparato contro chi, e perché, con quali profonde motivazioni politiche.

Secondo i dissidenti è il regime che agisce per provocare una reazione su cui scatenare la repressione; secondo il governo, come rilanciato dalla portavoce del presidente Assad, la signora Bouthayna Chaabane, si tratta di infiltrazioni "dall'esterno" che tentano di sabotare la convivenza tra le componenti confessionali/tribali e provocarne la fitna, la divisione.

Un'altra cosa è certa. Finché i corrispondenti dei nostri media non si troveranno sul posto per verificare le notizie, o quantomeno sentire gli umori e le sensazioni della popolazione, non sarà facile per loro riportare una versione che non sia stereotipata, addomesticata, nel solco della vulgata dominante.

Basti pensare che le prime corrispondenze dei telegiornali Rai sono state realizzate - si noti bene: da Gerusalemme - da Claudio Pagliara (il giornalista che impugna il microfono come un Uzi) e dal valente Marc Innaro, ma da Il Cairo.

Si fossero trovati in Siria, forse avrebbero potuto dare conto delle interviste trasmesse dalla tv siriana agli agenti feriti sui loro letti di ospedale e che ricostruivano gli attacchi, o chiedere di intervistare i responsabili dei nosocomi di Lakatia che hanno dichiarato aver ricoverato rispettivamente, 150 feriti (Ospedale nazionale), di cui in maggioranza agenti, e 60 feriti (Ospedale universitario), di cui 50 appartenenti alle forze di sicurezza.

Dati gonfiati? Molto probabile. Ma non lo si può certo sostenere da Gerusalemme (la fonte dei dati è sempre l'agenzia SANA del 26 marzo).

Altri esempi. Ancora Cecilia Zecchinelli sul Corriere. «Ovunque la rabbia contro la dittatura è esplosa come mai era accaduto da anni. Impossibile il conto dei morti in un Paese blindato da una collaudata censura, ma le testimonianze che filtrano ne segnalano decine, moltissimi i feriti, tanti gli arresti. Tutti tra la popolazione civile. [...] Cambiare un regime non è cosa da poco. Ma è vero che se ieri sono successe cose mai viste - l'aver dato alle fiamme la statua di bronzo di Hafez nel centro di Deraa o l'attacco delle forze speciali contro i manifestanti dentro la sala della preghiera nella storica moschea degli Omaiadi nella capitale - è anche un fatto che per la prima volta il mondo preme adesso esplicitamente su Damasco perché conceda democrazia» (Cecilia Zecchinelli, "Siria, spari sulla folla in numerose città - I morti sono decine", Corriere della Sera, 26 marzo 2011).

Di converso, la collega Antonella Appiano, tra i pochi giornalisti italiani che, a quanto ne sappiamo, si trovi effettivamente a Damasco, riferisce, quanto meno nella capitale in questi giorni, di un clima piuttosto diverso (maggiori info su www.conbagaglioleggero.com).

Tra i blog e le note su facebook possiamo leggere: "Sentita l'insalata mista delle informazioni sulle tv italiane, vorrei ribadire che qui ogni informazione è venduta in doppia versione. [...] Quanto a Damasco ho assistito solo alla coda di una manifestazione (mi hanno detto circa 200 dimostranti) dispersa dalle forze di polizia ma senza spari. Almeno quando sono arrivata io. [...] A Damasco si respira un'aria tranquilla. Ieri, weekend, sole splendido, quanti ragazzi a spasso, mano nella mano, quante risate e musica... e allegria".


La Siria vuole dire tutti gli equilibri del Levante

di Antonio De Martini - http://corrieredellacollera.com - 28 Marzo 2011

La signora Busseina Chaabane, portavoce del governo siriano ha parlato alla stampa di un piano per seminare la discordia tra i siriani. “L’obbiettivo è colpire l’unità del paese perché questo resiste e si oppone a Israele”.

La signora ha poi rincarato la dose accusando i media di “ raccontare solo verità parziali e non tutta la verità”. Questa è, però, anche la prima parziale ammissione siriana che qualcosa sta succedendo. A Deraa i media parlano di cento morti. Probabilmente saranno trenta.

I morti di Latakia sono quasi certamente da addebitare a cecchini dell’opposizione, perché è una zona Alaoutita come lo è il regime e pertanto ogni persona di buon senso non può che nutrire dubbi sul fatto che gli alaoutiti sparino ai correligionari o che questi non capiscano che alla caduta del regime avranno problemi anche ad aprire un chiosco di granite.

E’ più verosimile che servissero un po’ di morti delocalizzati rispetto alla solita Deraa per dare respiro nazionale alla operazione.

Alla manovalanza contribuiscono certamente i fratelli mussulmani ( “già alleati democratici e progressisti” in Egitto) ansiosi di vendicarsi della strage di Hama del 1982 fatta da Assad padre, che rase al suolo la città di dodicimila abitanti e tra le più antiche dell’area.

Nel caso della Libia, ricorderemo come Obama in persona annunziò che gli USA non avrebbero attaccato. Nel caso della Siria questa dichiarazione l’ha fatta la segretaria di Stato Clinton, per evidenti ragioni di perduta credibilità del Presidente.

Ma con effetti nulli, data la duplicità mostrata verso Mubarak e Ben Alì. Se hanno fregato dei vecchi alleati, nessuno pensa che vorranno essere leali con il nemico più detestato. Delle dichiarazioni dell’ambasciatore USA Robert Ford, nessun cenno.

Una destabilizzazione dell’area giordana e siriana, non può non riguardare Israele che con re Abdallah II perderebbe l’unico alleato “sicuro” rimasto dopo la dipartita di Mubarak.

Che Israele sia al corrente di tutto, ormai non può essere dubbio, visto che dopo un minimo tentennamento iniziale e ufficioso, ha taciuto e continua a tacere evitando accuratamente di farsi coinvolgere, anche solo a parole, come fece nel 1991 a richiesta di Bush padre, incassando stoicamente una gragnuola di missili Irakeni a medio raggio, senza un lamento.

Se Israele entra in ballo, il mondo arabo reagisce compattandosi. Se la Siria cade o cede, Hamas e Hezbollah avrebbero le ore contate lontane come sono dall’Iran. Questo sarebbe un indubbio vantaggio politico e strategico per Benjamin Netanyahu e per Israele, che varrebbe ogni silenzio.

Ma se la Siria venisse attaccata, i suoi satelliti si scatenerebbero per difendere la loro linea di rifornimento, non certo in una battaglia navale con gli USA. Attaccherebbero Israele all’interno e destabilizzerebbero sia l’Egitto che l’alleanza coi fratelli mussulmani pazientemente tessuta dagli inglesi. Inoltre la probabilità di attentati in occidente aumenterebbe esponenzialmente.

Nel 91 la situazione era chiara: l’Irak aveva assalito il Kuwait e c’era una coalizione ben guidata, ampia (partecipò anche la Siria di Assad padre con un battaglione), chiara e non rissosa.

Oggi il diritto internazionale è, paradossalmente dalla parte dei vari dittatori che si vedono assaliti in casa e c’ é mezzo mondo che non ne vuole sapere di usare la forza. I ribelli, appoggiati dall’aeronautica alleata, non parlano più di libertà, ma di petrolio.

La Siria crea una problematica aggiuntiva: dopo l’eventuale sostituzione della setta alaouita al potere, ci sarà giocoforza un regime maggioritario ( 80%) sunnita, che prima o poi cercherà di aiutare i “fratelli sunniti” irakeni defenestrati dagli sciiti – che in Irak sono il 70% – con l’appoggio degli americani. Gli USA si sentono così sicuri dei loro alleati sunniti nell’area? Bloccherebbero la solidarietà sunnita sul nascere?

Un secondo paese destabilizzabile in pochi minuti se la Siria venisse attaccata, sarebbe il vicino Libano dove la TV di Hezbollah, Al Manar (il faro) ha fino ad oggi ignorato tutte le notizie dell’“unrest” siriano ed enfatizzato quelle di Bahrain (dove i rivoltosi sono sciiti come loro e filo iraniani).

Una forma di coinvolgimento libanese è già evidenziata dal fatto che i rivoltosi hanno dato alle fiamme la sede della compagnia telefonica di proprietà di Mikati (il premier libanese designato) e del cugino di Assad.

Altro coinvolgimento: voci raccolte a Beirut dicono che la repressione a Deraa è stata affidata ad elementi dell’ Hezbollah libanese, per evitare disobbedienze spiacevoli. Evidentemente i miliziani Hezbollah, se ci sono andati, sono filati sotto il naso degli italiani del nostro contingente che sorvegliano il confine con la Siria….

Ma il dubbio più grande che plana in tutto il Mondo arabo e specialmente nei suk di Damasco e di Aleppo è: si limiteranno gli USA alla lezione impartita a Gheddafi o vorranno dare una “mazziata” anche ad Assad?

E cosa garantisce ai sauditi che gli americani non decidano di risolvere il problema una volta per tutte aiutando anche chi vuole far saltare la dinastia Wahabita-saudita, magari rimettendo come custode della Mecca il discendente di Maometto Abdallah II, discendente anche di quel Faisal che aiutò gli inglesi nella prima guerra mondiale ( Lawrence, remember?) e che si vide togliere il trono dai wahabiti nel 1928?

Con un ragionamento tutto levantino, i suk siriani suggeriscono che defenestrata la dinastia, gli USA non avrebbero difficoltà a impadronirsi della lampada di Aladino costituita dai ricavi di 36 anni di royalties petrolifere gonfiate dalle crisi petrolifere ricorrenti che possiamo stimare (anche grazie agli interessi sugli investimenti) in un milione di miliardi di dollari. Di che rifarsi degli ultimi esborsi della crisi.

Tra meno di un’ora è annunziato un discorso di Bashar Assad al popolo. Bashar dal momento in cui successe al padre ha cercato di innovare e democratizzare, bloccato in questo dal partito Baas e minacciato da destra dallo zio (esiliato in Svizzera dal fratello) che ha sottolineato ogni gesto di “debolezza” proponendosi indirettamente per la successione.

Avant’ieri Bashar Assad ha fatto sequestrare il giornale di un cugino che esortava alla resistenza contro i ribelli con toni barricaderi. Potrebbe serbare sorprese.

Intanto il momento è scelto bene: la Siria stava aumentando il PIL significativamente da anni, attirava investimenti stranieri oltre ai capitali del vicino Irak e il regime stava liberalizzandosi in maniera riluttante, ma costante. Bashar, non voleva governare e molti ritengono che potrebbe riuscire con un discorso ben calibrato ad ottenere un’apertura di credito popolare, a meno che la rivolta non sia eterodiretta e ormai inarrestabile.

Prova ne sia che l’intervista TV data a un giornalista inglese e che ho messo in onda su questo blog due settimane fa ( “la Siria questa sconosciuta”), è stata tolta da You tube tre ore dopo che l’avevo messa on line.


Yemen, l'ora della trattativa

di Carlo Musilli - Altrenotizie - 28 Marzo 2011

Ha detto di essere pronto a lasciare il potere, ma vuole farlo "con dignità". Ali Abdullah Saleh, presidente dello Yemen da 32 anni, sa benissimo che il suo regime è arrivato al capolinea. Ma l'uscita di scena va pianificata con cura.

C'è da tenere conto degli alleati di sempre, Stati Uniti e Arabia Saudita, spaventati dalla transizione ai vertici del potere yemenita. Saleh vuole soprattutto garanzie sul futuro che attenderà lui e la sua famiglia. Pretende l'immunità: non ha nessuna intenzione di fare la fine di Mubarak, attualmente indagato per corruzione.

Intanto, l'opposizione continua a premere. I manifestanti non accettano di dover attendere la fine di un negoziato, pretendono che il despota se ne vada prima possibile, senza alcuna condizione.

Secondo un'usanza ormai collaudata, venerdì scorso, dopo la tradizionale preghiera, migliaia di persone si sono ritrovate in piazza del Cambiamento, nella capitale Sana'a, per urlare la propria rabbia contro il regime.

Dopo il massacro della settimana scorsa, quando le forze lealiste uccisero 52 manifestanti sparando sulla folla, stavolta gli scontri sono stati contenuti. E non era davvero scontato, visto che a poca distanza dalla protesta, vicino al palazzo presidenziale, erano scesi in piazza anche i sostenitori di Saleh. La polizia si è limitata a sparare dei colpi in aria per evitare che i due fiumi di persone si affrontassero.

Proprio davanti ai suoi fedeli ammassati in strada, Saleh ha detto di voler abbandonare la guida del Paese "per evitare un bagno di sangue". Ma vuole anche essere sicuro che lo Yemen sia affidato "a mani sicure".

E' evidente che tutti questi scrupoli hanno l'unico scopo di guadagnare tempo. Giovedì scorso, per calmare la situazione, il presidente è arrivato a proporre elezioni anticipate entro tre mesi, il cambiamento di statuto e la formazione di un governo d'unità nazionale con l'opposizione.

Non è bastato: "Parole vuote - ha commentato Yassin Noman, leader della coalizione anti-regime - ormai non più possibile alcun dialogo".

Mentre migliaia di persone si agitano in piazza, le trattative vanno avanti. Nella notte fra giovedì e venerdì, secondo alcune indiscrezioni pubblicate dal Times, l'abbandono di Saleh sembrava imminente.

Il presidente, nella residenza del suo vice, Abd Rabbo Mansour, ha incontrato il generale Ali Mohsen al Ahma, il capo carismatico dell'esercito passato lunedì scorso dalla parte dei manifestanti.

L'incontro si è concluso senza un vero accordo sul futuro del Paese, ma sembra che i due abbiano stabilito di lasciare il potere nello stesso momento. Quando, ancora non è dato saperlo.

Nel fine settimana ci sono stati degli incontri fra il partito di regime e il cartello delle opposizioni per trattare l'uscita di scena di Saleh. Il ministro degli Esteri, Abu Baqr al Qirbi, ha rivelato alla Reuters che l'intesa potrebbe essere vicina, ma Noman ha sottolineato che il divario fra le due posizioni "continua ad essere grande".

Saleh chiede che il futuro governo di transizione sia guidato da persone a lui vicine, come Mansour o il primo ministro Abd al Qadir Bajamal. E' questo il punto più delicato dell'intera trattativa.

L'unico aspetto su cui i due fronti sembrano d'accordo è la necessità di evitare che nello Yemen si ripeta quanto accaduto in Egitto. Il potere non deve passare direttamente nelle mani dei militari.

L'ipotesi più probabile sembra quella di un consiglio presidenziale ad interim costituito da cinque membri, il cui compito sarebbe quello di traghettare il Paese verso le sue prime elezioni democratiche. Ma l'intesa su chi guiderà questo esecutivo di transizione appare ancora lontana.

Dall'opposizione, com'è ovvio, l'unico nome che arriva è quello dell'agguerrito Yaseen Noman. Oltre ai vertici del governo, rimane poi da affrontare il nodo relativo alla rappresentanza dei gruppi tribali, che hanno un ruolo decisivo nel sistema politico, religioso e sociale dello Yemen.

Secondo la stampa americana, in queste ore una delle preoccupazioni principali di Saleh sarebbe il destino dei suoi familiari alla guida delle unità antiterroristiche. Un argomento che angoscia non poco anche gli Stati Uniti, allarmati dallo spazio di manovra che il vuoto di potere concederà agli uomini di Al Qaeda.

L'organizzazione terroristica islamica ha nello Yemen la sua rete più ampia e potrebbe sfruttare il momento di crisi per espandersi ulteriormente. Il regime di Saleh per anni è stato l'alleato più importante degli Usa su questo fronte.

Alcuni reparti dell'esercito, come quelli comandati dal figlio e da due nipoti del presidente yemenita, erano finanziati ed addestrati direttamente dagli Stati Uniti.

Comunque vada a finire, la tensione a Washington rimarrà alta. Anche nel caso improbabile di una transizione rapida e indolore ai vertici del potere, gli americani dovranno far fronte a un cambiamento rischioso. Come Saleh, anche loro hanno capito che è arrivato il momento di trattare.


Tahrir: la Vittoria benedetta dei Salafiti

di Sherif El Sebaye - http://salamelik.blogspot.com - 26 Marzo 2011

Lasciamo da parte, per un attimo, il caos libico e torniamo a ciò che rischia di diventare il caos egiziano.

L'altro giorno vi ho riferito che un influente Imam salafita ha fatto una predica molto eloquente che ha conquistato le prime pagine di tutti i media egiziani e arabi, in cui ha invitato chi non era d'accordo con l'intromissione della religione nella vita pubblica ad andarsene altrove.

Il riferimento a "coloro che hanno i visti per l'America e il Canada" e che quindi possono facilmente "cambiare paese" era specificatamente rivolto, come ben intepretato anche da Aljazeera, ai cittadini copti.

E proprio l'altro giorno, un gruppo di Salafiti ha tagliato le orecchie di un copto a Qena, nell'Alto Egitto, in applicazione delle "pene coraniche" previste per gli atti di immoralità: un episodio che ha suscitato grande clamore sui quotidiani egiziani e la riprovazione di tutte le forze religiose e politiche in un momento che vede la distensione dei rapporti fra Chiesa Copta e Fratelli Musulmani.

Ma chi sono i Salafiti? Sono i concorrenti intrasigenti dei Fratelli Musulmani, da loro definiti "fallimentari" (per un'analisi dettagliata, leggere questo editoriale de Le Monde Diplomatique).

I Salafiti, per tutto il regno di Mubarak, si erano saggiamente definiti "apolitici" e tenuti lontano dai riflettori ma ora molti di loro sono usciti dalle prigioni e sono risaliti sui pulpiti benedetti da cui erano banditi e si apprestano a scendere democraticamente in campo.

Infatti l'altro giorno un imponente gruppo di salafiti ha attaccato ad Alessandria, perché diretti verso una moschea locale, 5000 giovani manifestanti appartenenti al gruppo denominato "25 gennaio" - uno dei motori della rivoluzione di Piazza Tahrir - impartendo loro una lezione che non dimenticheranno presto.

Su Al Masri Al Yaum, uno dei giornali di riferimento dell'opposizione laica, un giovane studente protesta: “Eravamo uniti fino a poco tempo fa ma adesso il movimento salafita sta imponendo il suo modo di pensare contro di noi”.

Ebbene, se vi ricordate quello che scrissi mentre era ancora in corso la manifestazione di Piazza Tahrir, dissi chiaramente che era molto pericoloso presentare Piazza Tahrir come "una piazza unita".

Non lo era, nonostante le apparenze, e non lo sarà mai più. Perché ora che l'obiettivo finale, la cacciata di Mubarak, è stato raggiunto, emergeranno in tutta la loro drammaticità tutte le divisioni che prima sembravano inesistenti, facendo entusiasmare qualche rivoluzionario col culo al caldo.

Ricordatevi ciò che scrissi quando i manifestanti erano ancora in piazza: "in questo frangente, spesso e volentieri gli antidemocratici sembrano essere proprio i laici, anche se non se ne rendono conto: a più riprese giovani manifestanti hanno dichiarato che "non accetteremo di essere governati da una corrente islamista". E se a volerla fosse il Popolo? Leggo su La Stampa che un gruppo di manifestanti che intonava "L'islam è la soluzione" è stato accerchiato e costretto a scandire lo slogan "Musulmani e cristiani per l'Egitto". Non so voi, ma a me non sembra tanto democratico, tecnicamente parlando: obbligare la gente a gridare ciò che tranquillizza l'occidente e i laici egiziani non è democrazia e maschera quella che potrebbe essere la volontà del popolo. Se la vuoi davvero, la democrazia, devi essere diposto ad accettare anche ciò che non ti piace".

Aveva quindi ragione l'Imam salafita, quando ha dichiarato a voce alta: "Tra noi e loro ci sono le urne. E le urne hanno detto che abbiamo vinto. Ora la gente della fede sa quanto vale e loro sanno quanto valgono".

Infatti l'invito ad andarsene era chiaramente rivolto anche a tutti coloro che avevano votato "No" al referendum per le modifiche costituzionali e che quindi si erano schierati dalla parte della miscredenza.

L'esito del referendum sulle modifiche costituzionali, un 77% di "Si" contro un 22% del "No" a favore del quale avevano combattutto proprio i giovani laici, è stato la pietra tombale sulle loro aspettative.

Su un altro quotidiano egiziano, un giovane rivoluzionario, appartenente al gruppo 6 aprile, dà sfogo alla sua delusione, sentimento che invece io avevo correttamente anticipato quando erano ancora in piazza e le "esperte" Aljazeera-dipendenti tambureggiavano senza capirci niente.

I laici dovevano organizzarsi meglio se volevano che il loro successo, la loro rivoluzione avesse successo anche nel dopo Mubarak perché loro non rappresentavano affatto la maggioranza degli egiziani. Ma quando la affermavo io, questa ovvietà, qualcuno diceva che provava "disgusto" per le mie posizioni.

Ora andate a dirlo ai ragazzi di Tahrir che affermano testualmente che: "Purtroppo i cervelli di quelli che erano in fila per votare erano pieni di idee che non erano le loro, e l'aspetto più pericoloso era che erano idee pericolosissime. E' forse corretto votare "Si" perché sono musulmano e "No" perché sono cristiano? Purtroppo questo è stato il risultato deludente del referendum. La nostra felicità per l'affluenza alle urne è proporzionale alla nostra tristezza per coloro che hanno consegnato i propri cervelli ai predicatori delle moschee. Ciò che è successo conferma che l'Egitto ha bisogno di un dialogo continuo da cui la gente semplice possa imparare come esercitare la democrazia perché ciò che verrà potrebbe essere molto pericoloso".

Eh no, caro mio giovanotto: non puoi ricomporre le uova a frittata fatta.

L'Imam salafita aveva ragione da vendere: "Non è questa la democrazia che volevate?".


Cosa resterà dopo le rivolte arabe. Dietro i dittatori, piccoli leader crescono
di Renzo Guolo - La Repubblica - 27 Marzo 2011

Dal ruolo dei militari all’ascesa dei Fratelli musulmani, i nuovi capi dovranno muoversi in contesti più simili a regimi pluralisti che alle odiate autocrazie

Chi governerà i paesi della Mezzaluna dopo le cadute degli autocrati? Previsioni assai difficili: l´inverno dello scontento arabo è un´onda lunga che travolge assetti e certezze consolidate.

Ma, qui come altrove, la lettura deve partire dalle strutture di continuità del potere e dalle forze che più saranno capaci di adattarsi al vento impetuoso della transizione.

Un ruolo chiave lo giocherà comunque l´ambiente militare vero fattore unificante di società assai diverse, dall´Algeria all´Egitto.

In Siria più che il Baath svuotato di funzioni dirigenti come già in Iraq, conta l´appartenenza alle nuove asabiya, le solidarietà che forgiano rapporti fondati su antiche ma anche nuove relazioni. Prima ancora che alawiti, i siriani che contano si sono formati alla Scuola di artiglieria di Aleppo.

Dunque, come in Egitto, in Siria l´esercito pesa. Ma se cadesse Bashar Assad e la maggioranza sunnita prendesse il potere, un ruolo decisivo lo avrebbero i Fratelli musulmani, che qui hanno posizioni più radicali dei loro confratelli egiziani.

Soprattutto dopo che Assad padre annientò buona parte dell´organizzazione facendo tirare a alzo zero contro Hama, città in cui la Fratellanza era insorta. Le vittime furono decine di migliaia. Almeno sino a questi caldi giorni le "regole di Hama" erano un terribile monito per i nemici del regime.

Anche in Egitto l´esercito è un fattore chiave e non è detto che alcuni membri dell´organismo che guida la transizione non diventi il fiduciario di questa potente struttura che garantisce al tempo stesso coesione nazionale e il sistema di alleanze internazionali.

Ma all´ombra delle Piramidi contano anche i Fratelli musulmani, che hanno una forza radicata nella società e si disputeranno il consenso con laici come El Baradei, che potrebbe coagulare attorno a sè i ceti modernizzanti, con il segretario della Lega araba Abu Moussa o con Nour, il capo del partito centrista e laico Ghad.

In Tunisia contano uomini legati al passato regime come Sebsi e Morjane ma anche il capo dell´opposizione Chebbi, oltre che il leader del partito En Nahda Gannouchi, movimento di matrice islamista che guarda ormai più all´esperienza dell´Akp turco che alla Fratellanza musulmana, dalla quale pure deriva.

Situazione inversa a quella siriana è quella del Bahrein, dove la maggioranza sciita è governata da una dinastia sunnita sorretta da Riad. Qui l´appartenenza religiosa diventa discriminante per capire come andranno le cose.

In Libia si guarda agli uomini del Consiglio nazionale provvisorio, nel quale vi sono membri della società civile come Tarbel, leader della protesta a Bengasi, ma anche ex membri del regime come Jalil e Yunis.

Anche nello Yemen, dove vacilla il lungo potere di Saleh, sono alcuni ex a giocare un ruolo rilevante come i già ministri al Ahmar e al Iryani o il rappresentate alla Lega araba Mansour.

Come si vede, il futuro dei paesi arabi non ha solo un volto nuovo. Del resto, le sommosse sono state innescate da giovani che non avevano esperienza politica e dunque il dopo presenta evidenti fattori di continuità, almeno nei leader.

Le rivolte non sono necessariamente rivoluzioni, anche se è evidente che i nuovi leader dovranno muoversi in contesti più simili a regimi pluralisti che alle odiate autocrazie.


Il crimine organizzato, la spina dorsale del Nuovo Ordine Mondiale

di Konstantin Goordeev - www.strategic-culture.org - 26 Marzo 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Negli ultimi dodici anni, dall'aggressione della NATO all'ex-Yugoslavia, non è la prima volta che siamo testimoni di un intervento internazionale che ha come obbiettivo uno stato sovrano, sotto l'egida nelle Nazioni Unite e con le parole d'ordine 'democrazia' e 'diritti umani'.

Il controllo del caos non è una strategia recente e le leggi internazionali sono oramai defunte da lungo tempo. Nel marzo del 1999, la NATO bombardò Belgrado, Pristina e altre città della ex-Jugoslavia, il paese che per primo ha sperimentato i test del nuovo corso degli eventi durante gli anni '90.

In effetti, il concetto di caos dei sistemi dinamici è vecchio di circa quarant' anni.
Deriva dagli studi matematici, ma è poi trapelato persino negli scritti di Z. Brzezinski che videro la luce del giugno negli anni '70 e definirono la direzione da intraprendere per la costruzione del nuovo ordine mondiale per i decenni a venire.

Le motivazioni pragmatiche costituiscono la struttura delle applicazioni della teoria del caso, all'interno dei sistemi deterministici in almeno il 90% dei casi, anche non considerando il fatto che questa è in realtà una reincarnazione della strategia del divide et impera, che ha lo scopo di minare la sovranità nazionale, di prendere il controllo delle risorse naturali (in primo luogo, quelle energetiche ma anche le competenze tecnologiche) dei paesi indipendenti, e di dare supporto agli architetti del nuovo ordine mondiale per rafforzare le loro posizioni, usando il potenziale delle regioni poste sotto il loro controllo.

Le quattro missioni NATO di 'peace-keeping' nel periodo di tempio iniziato nel 1999, quelle in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e Libia, ci forniscono abbastanza materiale per comprendere cosa hanno in comune queste offensive nei termini delle implicazioni politiche internazionali.

Per prima cosa, tutte le campagne simili hanno lo scopo di dare alla NATO il controllo sui territori e sulle risorse naturali, con l'appoggio dello schieramento dei media.

Le vittime delle aggressioni sono demonizzate e ritratte come nemici della civilizzazione e dell'umanità mentre, al contrario, le aggressioni sono spacciate all'opinione pubblica - la cui stretta visuale è limitata dagli schermi televisivi e dai monitor dei computer - come atti di giustizia.

In secondo luogo, le provocazioni dei gruppi estremisti o separatisti e quella dei cartelli della droga aiutano a costruire le basi della narrazione per le campagne di propaganda.

La connessione tra il crimine organizzato legato al traffico degli stupefacenti e le aggressioni della NATO può sembrare paradossale, ma molti dei paesi che sono stati vittima di attacchi da parte della NATO sono tutti attraversati da importanti rotte di smercio, o sono conosciuti per essere tra le centrali di traffico della droga.

Ad esempio, l'Afghanistan e l' Iraq erano annoverati tra i maggiori produttori al mondo di hashish, marijuana e eroina, e il Kosovo albanese come entità etnica esisteva in larga parte grazie a un enorme clan mafioso, il cui leader H. Thaci, un 'signore della droga' convertitosi in primo ministro di uno stato che si è auto-proclamato, era la figura-chiave nel business degli stupefacenti in Europa.

La connessione tra i presunti combattenti per la libertà etnico-religiosa e i membri dei cartelli della droga, anche se spesso si tratta delle stesse persone, è un segreto di Pulcinella.

V. Ivanov, il capo dell'agenzia per il contrasto alla droga in Russia, ha sottolineato, durante un incontro con i media avuto a Roma il 2 marzo del 2011, che oltre a minare la salute e l'ordine pubblico, il traffico di droga contribuisce anche alla destabilizzazione politica e comporta quindi una tutta una serie di conseguenze alle rispettive società.

Ha anche aggiunto che ci sono informazioni sul fatto che il traffico di droga sia la causa principale di proliferazione del crimine organizzato e di rivolta in Nigeria, Costa d'Avorio, Algeria, Tunisia, Libia e Egitto.

Seguendo V. Ivanov, la recente rivoluzione, in alcuni dei summenzionati paesi, si deve di fatto attribuire al crimine organizzato legato agli stupefacenti.

In terzo luogo, la tendenza va nella direzione di costruire giustificazioni ai miti diffusi dai media, e i servizi di intelligence, strumenti della governance globale, pubblicano con prontezza relazioni di supporto per l'attacco ai regimi non allineati.

Dopo di che, i paesi intenzionati a sostenere il nuovo ordine mondiale – confidando nella loro assoluta superiorità militare e quindi senza alcun rischio – sono liberi di devastare le infrastrutture militari e civili dei paesi-vittima.

Nel processo, la conta delle morti dei civili supera di molto quella dei membri dei gruppi criminali, che fanno mostra di sé quali combattenti per la libertà. In quarto luogo, i paesi costretti a capitolare diventano quasi sempre preda dei 'cartelli' del traffico della droga.

I rappresentanti dei trafficanti e dei gruppi separatisti, che fin dall'inizio scatenano la tensione, o le persone legate a gruppi di pressione esteri vengono così supportati nei paesi sconfitti per imporre nuovi standard apparentemente democratici, dove poi ricopriranno incarichi nella burocrazia post-bellica in modo che le loro risorse tecnologiche e naturali vengano così cedute alle corporation multinazionali.

Le popolazioni degli stati in precedenza sovrani si trovano privati di tutte le fonti di sviluppo socioeconomico e si convertono in materiale umano pronto per essere usato dalle mafie.

Con la supervisione della NATO, i paesi prendono le sembianze di stati in mano ai gangster, dove la popolazione è divisa tra scagnozzi dei gruppi criminali e servi, vittime e schiavi della criminalità organizzata.

La situazione nei regimi instaurati dalla NATO, con leader fantoccio, guerre di mafia oltre al totale disprezzo dei diritti umani, è simile a quelle già vista nelle colonie.

Diffondendo una versione edulcorata, i media hanno comunque fornito una vasta testimonianza a riguardo: le forze USA hanno, secondo quanto riferito, umiliato gli iracheni e gli afgani, i velivoli NATO hanno deliberatamente bombardato i villaggi locali nelle zone di combattimento, i prigionieri hanno dovuto affrontare molestie sessuali e il centro diretto da Thaci per l'estrazione forzata degli organi da mettere in vendita in Europa e negli USA è stato realizzato nel mezzo dell'Europa stessa.

Questi processi aiutano gli architetti del nuovo ordine mondiale nell'accumulare valore e a mettere in atto i programmi di riduzione della popolazione, ma questi scopi sono ancora marginali alle loro strategie.

Ovviamente, la reale priorità è quella di allargare le zone soggette al 'controllo del caos' per coinvolgere tutto il mondo globalizzato. Nel lungo termine, questo caos dovrebbe condurre a una ridistribuzione del mondo in linea con un modello socioeconomico dalla concezione astratta.

Le rivoluzioni che hanno sconvolto il Nord Africa e il Medio Oriente nel gennaio-marzo del 2011 dovevano avere lo scopo di creare una cintura di caos perenne che si spandesse dall'Afghanistan al Marocco (per il momento, la Libia, che mette resistenza all'aggressione della NATO, e l'Iran, un paese che non svenderà la propria sovranità nazionale, stanno contrastando la realizzazione del piano).

In aggiunta a questi manifesti obbiettivi geopolitici, quali la formazione di una testa di ponte strategica dalla quale l'intera Eurasia e il Nord Africa avranno la pistola puntata così come la formazione di un monopolio per la formazione dei prezzi dell'energia, capace di provocare arbitrariamente o di far cessare crisi globali, il proposito di questo disegno geopolitico era quello di disseminare il caos, principalmente nei paesi europei, indirizzando verso di loro un sempre maggiore flusso di migranti e di droga.

E' improbabile che la miscela risultante raggiungerà una concentrazione esplosiva nel futuro prossimo, ma le tensioni etniche che stanno montando in Germania e in Francia e le sue conseguenze socioeconomiche promettono già un collasso generalizzato.

Senza ombra di dubbio, l'ora del regolamento dei conti nella vecchia Europa arriverà un giorno o l'altro, anche se, al momento, gli architetti si stanno preoccupando di paesi più vulnerabili, quali la Siria, l'Iran e il Venezuela.

L'Iran è il primo obbiettivo scelto per essere il candidato di rivolte preventive guidate dal caos, essendo anche lo stato che ha osato esprimere la propria opposizione alla politica israeliana, oltre ad costituire un'interruzione nella zona soggetta al crimine che si estende dall'Afghanistan al Marocco e a combattere in modo deciso il traffico di stupefacenti.

In Iran, una guerra con i propositi dell'esportazione della democrazia è imminente.

La ragione in parte risiede nel fatto che le recenti rivoluzioni nel mondo arabo hanno lasciato Teheran a corto di alleati e hanno rafforzato la posizione di Israele, ma va anche considerato che la guerra contro l'Iran nel mondo virtuale è già stata scatenata e, nei piani della NATO, questo paese è il prossimo della lista dopo la Libia (o dopo Libia e Siria).

La domanda finale è: come il banditismo si può evolvere nella colonna portante del presente geopolitico e come può il crimine organizzato, con i suoi gruppi armati, emergere come lo strumento preminente del nuovo ordine mondiale?

La risposta è semplice: la misinterpretazione di un modello preso a prestito dai matematici, e applicato con successo come fondamento per una valutazione socioeconomica, è servito a trasformare una parte dell'umanità in un'organizzazione diffusa che è strutturalmente analoga alla mafia tradizionale.

Le similitudini nella struttura stessa fanno da contraltare alla comunanza di forme, principi, metodi e algoritmi. Le implicazioni per il mondo intero non sono difficili da comprendere.