venerdì 28 gennaio 2011

Che cos'è la destra, cos'è la sinistra?

Un paio di articoli che mettono in evidenza la completa inutilità del continuare a parlare di destra e sinistra e delle loro finte/false differenziazioni, quando entrambe hanno sposato in toto il sistema economico capitalistico neo-liberista e non hanno ancora preso atto del suo fallimento che è davanti agli occhi di tutti coloro che vogliono veramente vedere la realtà delle cose.

Sigle da tempo anacronistiche e senza uno straccio di proposta alternativa che possa cambiare l'attuale direzione di marcia destinata a infrangersi contro un muro che continua ad avvicinarsi sempre più.


La "sobrietà sostenibile" non è eresia
di Alain de Benoist - Centro Studi Opifice - 24 Gennaio 2011

Destra/Sinistra: dalla Rivoluzione francese in poi, ma soprattutto nell'800 e '900, la schiera delle opzioni politiche si è incardinata attorno a questa polarizzazione.

Negli ultimi anni, la cosiddetta fine delle ideologie è poi a sua volta divenuta un'ideologia del «pensiero unico con il prevalere delle logiche puramente amministrative ed economiciste sfumando e riarticolando questa distinzione politica che però continua a rappresentare, magari in forme più attenuate (centrodestra, centrosinistra) un riferimento mediaticamente consueto.»

Vi è da chiedersi allora se la persistenza, se pur sbiadita, di questa nomenclatura sia dovuta solo ad abitudini giornalistiche o a residui di affezione dell'elettorato più anziano, oppure se si tratti comunque di categorie dotate di un irrinunciabile valore descrittivo.

In quest'ultimo caso occorrerebbe chiedersi se vi siano e quali siano, allora, i principi costitutivi dell'una e dell'altra posizione. Tra i pensatori più anticonformisti in merito, esemplare è il caso del francese Alain de Benoist.

Le sue idee sono sempre state radicali, ma in direzioni cangianti. Un pensatore oltre la destra e la sinistra, allora? Più che altro un intellettuale che è - com'egli stesso preferisce dire - sia di destra che di sinistra; ovvero in grado di pensare la contraddizione.

Lo abbiamo incontrato nella sua Parigi, confrontandoci sui temi attuali dell'ecologia e della sostenibilità, oggetto del suo recente Demain, la décroissance! Penser l'écologie jusqu'au bout, a partire dall'idea ereticale della post-crescita, che si basa sulla constatazione che lo sviluppo produttivo non può essere illimitato, date risorse naturali limitate.

Ultimamente le sue analisi hanno approfondito i temi della cosiddetta "decrescita", presentata spesso come un'utopia, o peggio come un ritorno al passato. Ma lo scrittore a questa critica risponde con un ragionamento, andando oltre le polemiche.

«La teoria della decrescita non solo non promuove un "ritorno al passato", ma neppure ambisce a fermare la storia», spiega. «La constatazione da cui si parte è che le risorse naturali si stanno esaurendo e che non può esservi una crescita materiale infinita in un mondo finito».

In altri termini, de Benoist si pone contro la logica del "sempre di più!", contro la dismisura che i greci chiamavano hybris. «In un mondo sempre più impegnato a portare avanti questa deriva, tali proposte possono, ad alcuni, apparire utopiche. Sono tentato di rispondere che l'utopia sta piuttosto nel credere che la fuga in avanti in cui ci siamo imbarcati possa proseguire all'infinito. Gli alberi non possono crescere fino al cielo».

De Benoist è anche molto critico verso le tesi dell'attuale "green economy" che riprendono l'idea ambientalista di "sviluppo sostenibile".

Viene allora da chiedere come la sua idea di ecologismo si colleghi alla decrescita. «L'idea di "sviluppo sostenibile" è sicuramente accattivante, ma corrisponde soprattutto a una posizione mediatica», risponde.

«All'origine dei problemi con i quali ci confrontiamo c'è la crescita materiale, con il suo seguito di danni all'ambiente, di distruzione degli ecosistemi, di inquinamento.

Conciliare la crescita materiale con il rispetto per l'ambiente equivale a voler credere che il cerchio possa essere quadrato. La teoria dello "sviluppo sostenibile", enunciata al Summit della Terra di Rio nel 1992, porta al "capitalismo verde", ovvero all'ecologia di mercato.

L'applicazione del principio "chi inquina, paga", ad esempio, ha creato una specie di mercato dell'inquinamento: le grandi imprese multinazionali, che sono quelle che inquinano di più, possono pagare senza problemi i danni da loro causati.

Alla fine la spesa ricade sul costo iniziale, e di conseguenza sul prezzo di vendita. È proprio in virtù dell'applicazione della "teoria dello sviluppo sostenibile" che si favorisce oggi la produzione di automobili che inquinano sempre meno.

E questo fa dimenticare la realtà dell'"effetto di rimbalzo": dato che si costruiscono sempre più automobili - anche se il consumo di energia diminuisce per unità - il consumo globale continua ad aumentare, in modo che l'aumento delle quantità prodotte, annulla i vantaggi ecologici: un milione di automobili poco inquinanti lo sono molto di più nella totalità di cento auto molto inquinanti!

Il filosofo Michel Serres - continua de Benoist -fornisce una immagine molto esemplificativa dello "sviluppo sostenibile" paragonandolo al capitano di una nave che accorgendosi che sta andando dritto contro uno scoglio, decide di ridurre la velocità invece di cambiare rotta. In questa logica dovrebbe cambiare l'idea di natura».

È evidente che per favorire la decrescita occorre auspicare un possibile cambio di paradigma. «Gli antichi pensavano che l'uomo appartenesse alla natura, che si trovasse in un rapporto di co-appartenenza con essa. Al contrario, nella Genesi, l'uomo riceve l'ordine di "dominare la natura".

Con Cartesio la natura diventa un semplice oggetto e l'uomo vi si erge a "padrone sovrano". Ed è proprio questo rapporto di dominanza che ci interessa rompere. Il mondo naturale non è una semplice tela di fondo su cui si muovono le nostre esistenze, una sorta di magazzino di risorse naturali, erroneamente considerate inesauribili e gratuite all'infinito: è invece una delle condizioni sistemiche della vita.

Distruggere la natura non solo significa l'eliminazione del nostro luogo ma anche di noi stessi, come se fossimo a scadenza. Nella prospettiva di una decrescita sostenibile, è necessario riconoscere il valore intrinseco della natura, un valore autonomo rispetto all'uso che noi ne facciamo.»

Nel suo libro de Benoist si sofferma spesso sul concetto di "limite" da opporre alla hybris, la dismisura tipica della civilizzazione industriale. «Ogni cosa ha un limite. Qualsiasi tendenza spinta al suo estremo si trasforma bruscamente nel suo contrario. La logica del profitto, la cui attuazione è accelerata dalla globalizzazione, tende per la sua propria dinamica alla soppressione di tutti i limiti. Il capitalismo si caratterizza per il suo carattere illimitato e del suo tentativo di omogeneizzazione del mondo.»

«È quello che il filosofo tedesco esistenzialista Martin Heidegger definì il Gestell. Ora, tra le realtà che possono ostacolare l'espansione planetaria del capitale e la trasformazione della Terra in un immenso mercato omogeneo, ci sono le culture popolari e i modi di vita ben radicati nel territorio.

L'unico modo per restituire al mondo la diversità, che costituisce la sua reale ricchezza, è quello di opporre all'espressione chiave vogliamo "sempre di più!" - che caratterizza un principio fondante della modernità - quella di saper dire, secondo una riflessione critica più audace, ma non meno razionale, ne abbiamo "a sufficienza".»

Quali sono allora le misure che si possono adottare per fermare il treno in corsa e adottare uno stile di vita improntato alla sobrietà?

Risponde de Benoist: «Si tratta di applicare tutto questo atteggiamento critico di cui ho appena parlato. Di non adottare un qualsiasi gadget, solo per il fatto che è nuovo. Di rompere con l'ossessione produttivistica, con la conseguente ossessione della merce o l'idea che "di più" è sinonimo di "meglio".

Si tratta di riconoscere che l'uomo non vive di solo pane. La logica dell'essere non è quella dell'avere e, ancor meno, la qualità non può essere ridotta a quantità.

In modo più ampio, si tratta di "decolonizzare l'immaginario simbolico", come sostiene Serge Latouche, ovvero di non dare più dimora alla convinzione che l'uomo è solo produttore-consumatore, o che l'economia è il fine di ogni cosa. Il valore non può essere sempre abbassato al valore di mercato, o di scambio. I prezzi si negoziano, i valori no. È ora di venir fuori da un mondo in cui niente ha più valore, ma tutto ha un prezzo.»



Bersani, Berlusconi. Tutti superati
di Simone Perotti - Il Fatto Quotidiano - 28 Gennaio 2011

Negli ultimi anni, in Italia, sono emersi solo due personaggi veramente nuovi: Beppe Grillo e Roberto Saviano. Sono figure “politiche” nel senso più etimologico del termine. Due uomini che hanno a che fare con la polis, e a cui gran parte della polis, soprattutto i giovani, attribuisce funzione di guida, cioè leadership.

Entrambi sono emersi parlando, scrivendo, occupando i media e la rete con la denuncia di ciò che sta avvelenando il paese: la cattiva politica, scelte di sviluppo sbagliate, la criminalità organizzata.

Sono diversi per stile, linguaggio, toni, campi d’interesse, provenienza geografica, cultura. Vengono (non a caso) da due città affacciate sul Mar Tirreno: Genova e Napoli. Entrambi catalizzano il calore e la passione delle persone comuni, schifate ed emarginate da questa politica.

Entrambi dichiarano di non volersi candidare alle elezioni. Entrambi hanno generato profondo imbarazzo nell’establishment, e una domanda: sono di destra o di sinistra?

Saviano e Grillo sono due figure ispirate e pragmatiche, specchio dei tempi. Non possono e non vogliono essere collocati politicamente perché non si identificano nel Sistema. Immaginano un mondo diverso, fatto di comportamenti individuali che diventano collettivi e generano una nuova società.

È il fallimento di questo capitalismo ad averli partoriti. Un sistema che non ha prodotto il benessere che prometteva, bensì schiavitù, povertà interiore, debolezza, illegalità, malessere, degrado. Se Grillo e Saviano fossero stati dentro il Sistema avrebbero facilmente trovato una collocazione politica. Ma ne sono fuori.

Il fallimento di questo schema economico e politico ha reso superata la tradizionale differenza tra sinistra e destra.

Finché la sinistra si è ispirata al marxismo, ha effettivamente immaginato principi di vita alternativi a quelli dell’attuale capitalismo.

La destra ha abbracciato la dottrina liberista, che avrebbe dovuto garantire un diffuso e duraturo benessere.

La destra ha vinto
ed è riuscita a imporre, pur con qualche concessione, il suo disegno sociale ed economico, al punto che in tutto il mondo occidentale la sinistra è diventata capitalista e liberista per riuscire a competere.

Oggi assistiamo al totale fallimento di questa visione del mondo, che non crea autentico benessere, depaupera il pianeta, sfrutta i deboli, accentua le divisioni sociali, sostiene il grande leviatano economico ponendo tutti nella passiva condizione di schiavi.

Ecco perché chi immagina un mondo nuovo non può essere né di sinistra né di destra. Le due categorie politiche e i loro esponenti non prefigurano una soluzione alternativa, ma modi “diversi” di gestire la stessa prospettiva economica e sociale.

Quando calano i consumi destra e sinistra si preoccupano. Quando sale il Pil, sinistra e destra cercano di rivendicarne il merito.

Aspetto da anni che un esponente politico proponga una visione nuova. Attendo da anni che qualcuno parli della necessità di investire sulla solidità dell’individuo, sulla sua capacità di scegliere, sulla responsabilità.

Ogni volta che Bersani, Fini, Cameron, Obama o chiunque altro prende in mano il microfono, io spero che annunci una seria e necessaria lotta al consumismo per tornare a una condizione di libertà.

Mi aspetto sempre che qualcuno esponga un programma politico per ridurre la crescita economica, o regolamentare in modo ferreo il sistema finanziario.

Attendo di sentire che si sta facendo qualcosa per arginare l’invadenza del lavoro nelle nostre vite e per incentivare la ridistribuzione della popolazione sul territorio, per abbassare il costo immobiliare e favorire la qualità della vita.

Spero che qualcuno proponga almeno un tetto alle automobili in circolazione, investa decisamente sulle fonti rinnovabili, sostenga l’autoproduzione energetica e quella alimentare, incentivi chi costruisce da sé case e oggetti, e dimostri con chiarezza che crede in un serio e radicale investimento nella cultura, nella scuola, nella ricerca scientifica, nell’università, ma non solo perché “è giusto”, ma per creare cittadini non consumisti, più saldi psicologicamente, in grado di scegliere e di impegnarsi nella costruzione di un proprio mondo in cui sia bello abitare. Qualcosa che, oltre me, potrebbe affascinare le nuove generazioni.

Ma niente. Nessuno mi dice mai queste cose.

Neppure io, dunque, posso essere di sinistra o di destra. Esserlo, oggi, significa accettare un modello socioeconomico fallito.

Perciò preferisco non aderire. E non aderire per me vale come una testimonianza, come una rivolta, serve a negare la mia fiducia a questa politica, a questa superata interpretazione della partecipazione ideologica.

Fate quello che volete, ma non con la mia delega. Non nel mio nome.

La rivoluzione delle Piramidi?

Dopo la rivolta avvenuta in Tunisia e quella abbozzata e abortita in Algeria, sembra sia cominciato un effetto domino. Ora è la volta infatti di Egitto e Yemen.

Intanto alla vigilia della grande manifestazione di oggi ("il venerdì della collera") contro il presidente egiziano Hosni Mubarak, è ritornato in Egitto Mohamed El Baradei - Premio Nobel per la pace ed ex direttore dell'Agenzia internazionale per l'Energia Atomica (Aiea) - con l'obbiettivo di guidare l'opposizione e prendere le redini del governo durante la cosiddetta "fase di transizione".

Ma la repressione governativa è comunque già pienamente operativa; le connessioni a internet risultano già bloccate nella capitale egiziana e nella notte scorsa sono stati arrestati almeno venti membri dei Fratelli Musulmani, tra cui cinque ex deputati e cinque membri dell'ufficio politico. Dopo i circa 1000 arresti effettuati nei giorni scorsi.

Ma secondo Human Rights Watch, ong americana, i morti negli scontri in corso da martedì sono almeno nove e gli scontri più gravi sono avvenuti a Suez, dove tre persone sono state uccise martedì scorso. Il bilancio ufficiale delle vittime è finora di sette morti, cinque manifestanti e due poliziotti, ed è destinato sicuramente ad aumentare nelle prossime ore.


Egitto, El Baradei rientra in patria: “Sono qui per un cambiamento” da Il Fatto Quotidiano - 27 Gennaio 2011

Terzo giorno di scontri nel paese nordafricano. Rientrato al Cairo l'ex capo dell’agenzia atomica internazionale per la manifestazione di domani che coinvolgerà tutto il Paese. La protesta si allarga allo Yemen

Terzo giorno di guerriglia in Egitto. Dopo i sette morti del Cairo, altri due manifestante sono stati uccisi negli scontri in corso in una cittadina del Sinai. Si tratta di Mohamed Atef, un giovane di 25 anni colpito da un proiettile in bocca e schiacciato da un blindato della polizia a El Sheikh Zouayed. Ad oggi gli arresti sono circa mille.

Intanto Mohammed El Baradei, ex capo dell’agenzia atomica internazionale e uno tra i leader più conosciuti dell’opposizione egiziana, ha smentito una sintesi di sue dichiarazioni fatta dalla tv Al Arabiya che gli ha attribuito l’intenzione di voler “prendere il potere” in Egitto.

“Non ho mai detto cose di questo genere”, ha risposto ai giornalisti che lo incalzavano con domande sui suoi progetti politici. “Io sono qui per lavorare per un cambiamento ordinato e pacifico”, ha chiarito ancora El Baradei. L’uomo è rientrato in aereo al Cairo da Vienna dove ha vissuto finora.

Nel pomeriggio, infatti, l’emittente araba, in una breve sovrimpressione, aveva attribuito all’ex capo dell’agenzia atomica internazionale queste parole: “Pronto a prendere il potere per un periodo di transizione, se la piazza lo chiede”.

El Baradei, accolto da simpatizzanti, e da una mole di giornalisti internazionali, sotto una vigilanza stretta della sicurezza ha affermato: ”Continuerò a sostenere il cambiamento e chiedo al regime di fare altrettanto prima che sia troppo tardi”.

”Per Mubarak è arrivato il momento di andarsene - aveva affermato El Baradei in un’intervista al Daily Mail – . Ha servito il Paese per trent’anni ed è tempo che si ritiri”. L’uomo ha anche detto che non intende mettersi alla testa delle manifestazioni di piazza, ma offrire un contributo politico all’attuale situazione.

Dopo aver confermato la notizia di un’imponente manifestazione organizzata per domani, l’ex capo dell’agenzia atomica internazionale ha specificato: “Riguarderà tutto l’Egitto, e io sarò con i manifestanti. Non li guiderò, a me interessa guidare il cambiamento politico. Il popolo ha spezzato il circolo della paura, e una volta fatto questo non si torna indietro”.

L’onda della protesta in Nordafrica, che dopo la fuga di Ben Ali in Tunisia sta infiammando l’Egitto, è arrivata anche nella penisola arabica, con le prime manifestazioni nello Yemen. Sedicimila manifestanti sono scesi per le strade della capitale yemenita, Sanaa, per chiedere le dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978.

“Trent’anni al potere sono abbastanza, Ben Ali se n’è andato dopo venti”, urlavano i dimostranti, ispirandosi alla cosiddetta “Rivoluzione dei gelsomini” che ha portato al crollo del ventennale regime del rais tunisino.

In Egitto sono ripresi gli scontri tra polizia e manifestanti che chiedono la fine del regime di Mubarak. Secondo Al Jazeera una folla si è radunata di fronte a un commissariato di polizia incendiato a Suez, dove l’esercito ha sparato proiettili di gomma.

Al Cairo sono continuate le proteste fuori dalla sede del sindacato dei giornalisti, tra i principali obiettivi del giro di vite messo in atto dalle autorità egiziane.

Scontri sono stati registrati a Ismailia, ove gli agenti hanno ingaggiato battaglia con 600 oppositori. La procura generale ha accusato 40 manifestanti di tentato golpe mentre sono almeno 1.000 gli arresti eseguiti dalla polizia egiziana da martedì scorso, quando sono cominciate le proteste contro il presidente Mubarak.

Due gli eventi su cui si concentrata l’attesa: l’imponente manifestazione organizzata per domani e il rientro di Mohamed El Baradei. Su alcuni account di Facebook si leggono messaggi di questo tenore: “Musulmani e cristiani di Egitto continueranno la battaglia contro la corruzione, la disoccupazione e l’oppressione”. Per il dissidente Ayman Nour la preghiera del venerdì fornirà l’occasione per una nuova prova di forza da parte dell’opposizione.

La dissidenza, che sembra non avere un capo riconosciuto, potrebbe trovarlo in El Baradei, stimato da diverse fasce sociali in patria e fornito di adeguati contatti nella comunità internazionale. Il rientro dell’ex diplomatico in patria, atteso per questa notte, sembra coincidere con un’intensificazione del pressing della Casa Bianca sul rais.

Secondo quanto riporta Bloomberg, Barack Obama avrebbe telefonato mercoledì a Mubarak per convincerlo a cogliere l’occasione delle proteste per accettare le riforme democratiche. E infatti il partito del presidente ha dichiarato oggi di essere pronto ad avviare il dialogo con i manifestanti.

Lo ha annunciato Safwat El-Sherif, Segretario generale del National Democratic Party in un’intervista sul sito dell’israeliano Yedioth Ahronoth. El-Sherif ha anche rivolto un appello alla moderazione sia alle forze di sicurezza, sia ai manifestanti per il corteo di domani.


L'Egitto allo specchio della rivolta tunisina
di Sarah Ben Néfissa - www.ilmanifesto.it - 27 Gennaio 2011

È dall'Egitto che dovrebbe partire la democratizzazione del mondo arabo, l'unica regione del pianeta che, dalla caduta del Muro di Berlino, non ha conosciuto significative evoluzioni politiche.

La nascita, nel 2005, del movimento Kefaya - fondato su rivendicazioni democratiche e sul rifiuto della successione ereditaria del presidente Hosni Moubarak- e, nel 2009, l'irruzione sulla scena dell'ex segretario generale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica Mohammed El-Baradai sembravano segnali premonitori. Ma non accadde nulla.

Perché a Tunisi è caduto il regime e al Cairo no? Per comprenderlo, occorre analizzare la relazione tra proteste sociali e strutture politiche. Secondo alcuni, la principale differenza tra i due paesi deriverebbe dalla natura oppressiva e poliziesca del regime di Zine el-Abidine Ben Ali.

L'Egitto rappresenterebbe una versione più elastica dell'autocrazia: vi è libertà di parola- sulla stampa, in televisione, sui blog -, e di prendere iniziative politiche, come dimostra lo sviluppo esponenziale delle proteste sociali. E le rivendicazioni sociali del mondo del lavoro si sono moltiplicate (senza però tradursi sul piano politico) in seguito al movimento del 2005.

La Tunisia costituirebbe quindi il «negativo» di questa fotografia dell'Egitto: apparentemente priva di radici, la rivolta sociale si sarebbe trasformata rapidamente in una sommossa politica, malgrado la repressione che ha cercato di soffocarla, o per sua causa.

Tuttavia, le due situazioni presentano una strana similitudine. Nessuna forza politica può pretendere la paternità della rivoluzione tunisina.

La situazione non è diversa in Egitto, dove le organizzazioni dell'opposizione sono ampiamente scavalcate dalle proteste. In questo paese, i movimenti si sono alleati innanzitutto con i diversi attori mediatici, i quali riprendono la posizione del potere: lasciar fare, ascoltare le proteste, e, se necessario, accettare di arretrare. Ma solo in parte.

L'intera classe politica egiziana (compresi i Fratelli musulmani) è stata sorpresa dallo sviluppo delle mobilitazioni che rivendicavano servizi e infrastrutture, provenienti non solo dagli operai ma anche dai quartieri informali (le bidonvilles). Si sono registrate anche rivolte di malati contro la pessima qualità dei servizi ospedalieri.

Tuttavia, l'elemento di novità attiene a un altro ambito. Le categorie socialmente, culturalmente e politicamente più svantaggiate della popolazione si sono mostrate sensibili ai discorsi sulla «società civile», la «democrazia», i «diritti umani», la «cittadinanza» e le «riforme» politiche che hanno investito il paese a partire dal 2005. La retorica internazionale oggi dominante viene fatta propria o rivisitata dai soggetti più diversi, tra cui quelli appartenenti alle classi popolari.

I media si sono fatti cassa di risonanza della sofferenza sociale e trasmettono le proteste popolari. Rappresentano spazi politici alternativi di fronte alla chiusura pressoché totale di ogni luogo di espressione politica - come evidenziato dalle elezioni legislative del novembre-dicembre 2010, conseguite (con oltre il 90% dei voti) dal partito di Stato, il Partito nazionale democratico (Pnd). Alla vigilia di questa consultazione, i poteri pubblici avevano intrapreso una vasta operazione di addomesticamento di giornali, radio e televisioni.

Ben prima di questo giro di vite mediatico, i movimenti egiziani hanno conosciuto due sviluppi. Da un lato, si è assistito alla crescita di forme di azione violenta: dai blocchi stradali, per denunciare le morti accidentali provocate dalla carente manutenzione della rete stradale in alcuni quartieri, alle minacce di suicidio collettivo che, in seguito al gesto di Bouazizi, si sono moltiplicati.

Tale violenza rappresenterebbe la risposta alla passività del regime di fronte ad altri tipi di mobilitazione. Il regime, convinto del loro carattere «apolitico», non ha infatti risposto alle richieste di settori sociali non considerati strategici.

Tuttavia, dopo gli avvenimenti che hanno scosso la Tunisia, il potere ha reagito rapidamente: rinvio dell'adozione del testo di legge sulla riforma della funzione pubblica, assunzioni nel settore statale, annunci di misure di politica sociale ecc.

Quanto alle autorità religiose ufficiali, esse hanno ricordato che il suicidio è un atto di apostasia, in contrasto con quanto espresso dal popolare predicatore Youssef Al-Karadhaoui alla televisione satellitare Al-Jazeerah a proposito di Bouazizi.

La seconda caratteristica del movimento sociale egiziano è costituita dalla crescita di rivendicazioni che utilizzano riferimenti identitari e comunitari.

I beduini del Sinai, ad esempio, insorgono contro il trattamento securitario di cui sono vittime a causa della vicinanza della regione con Israele; le popolazioni nubiane protestano a causa delle loro condizioni di vita e rivendicano il risarcimento promesso in seguito al loro trasferimento all'epoca della costruzione della Diga di Assuan negli anni '60.

Ma sono le mobilitazioni dei copti - i quali si sono sollevati a causa dell'attentato contro la Chiesa di Alessandria all'alba del 1 gennaio 2011 - che, per le loro inedite caratteristiche, attirano l'attenzione.

Secondo numerosi analisti egiziani, il movimento sociale e politico tunisino sarebbe più «moderno», più maturo, più politico perché nato innanzitutto in ambienti sociali scolarizzati e alfabetizzati: le famose classi medie che parlano il linguaggio forbito dei diritti umani, della libertà e della democrazia.

Il vocabolario «identitario» e «comunitario» non avrebbe quindi più senso in Tunisia? Non è completamente vero, dato che esiste il «comunitarismo regionale» delle popolazioni dimenticate dal «miracolo tunisino» e che costituiscono l'autentica punta di diamante: un fenomeno che, prima di investire le periferie povere della capitale e l'avenue Bourghiba di Tunisi, ha toccato Gafsa, Sidi Bouzid, Thala, Kasserine e Jendouba.

Anche in Egitto il vocabolario della protesta è differente. Il linguaggio della morale e della religione caratterizza i movimenti sociali dei settori più poveri, poiché si tratta del solo lessico disponibile.

Negli ambienti scolarizzati, come quello dei funzionari del fisco o degli insegnanti di scuola superiore, il linguaggio della contestazione parla di giustizia e insiste sulla natura sociale e di categoria della mobilitazione. La stessa negazione della politica è un sotterfugio di chi conosce i limiti imposti dall'autoritarismo all'azione collettiva.

Come non vedere nella protesta della gioventù copta dopo l'attentato di Alessandria un tentativo di uscire dal recinto «comunitario» per porre la «questione copta» nello spazio pubblico?

Come non scorgere la questione della cittadinanza nella parola d'ordine «Vogliamo (il rispetto dei) nostri diritti», lanciata ai rappresentanti dello stato? In Egitto si assiste alla richiesta di rinegoziare le forme dell'unità nazionale. Il «comunitarismo» regionale tunisino esprime un'esigenza simile.

Bouazizi si è dato fuoco davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid e di fronte al ministero dell'interno si è svolta la grande manifestazione del 14 gennaio. Anche in Egitto, lo spazio della contestazione si caratterizza per tale rapporto con lo stato, attraverso raduni davanti a sedi di ministeri e di polizia.

Questa specificità comune evidenzia il legame delle popolazioni, in particolare di quelle più deboli, con il welfare edificato all'indomani dell'indipendenza e che è stato smantellato.

Ma i movimenti si rivolgono anche all'opinione pubblica internazionale. Abbiamo a che fare con società sempre più «globalizzate», che non percepiscono il mondo esterno come minaccioso.

All'epoca della «ibridazione» dei regimi politici - una teoria secondo la quale la globalizzazione rimette in forse le funzioni degli stati e tende ad attenuare le distinzioni tracciate tra regimi autoritari e democratici - le proteste nei due paesi indicano una parallela ibridazione delle forme d'azione collettiva e dei modi di espressione politica. Anche nei paesi arabi, la politica non si riduce più alle istituzioni.

In Egitto la chiusura autoritaria coesiste con una trasformazione importante dei rapporti tra stato e società. La Tunisia ha evidenziato che la distanza tra la protesta sociale di categoria e quella politica non è così grande.

*Istituto di ricerca per lo sviluppo


La rivolta egiziana scuote Mubarak, Obama al bivio: l'ok alla repressione potrebbe costargli caro
di S. Kahani - http://palaestinafelix.blogspot.com - 27 Gennaio 2011

Il Medio Oriente diventa sempre più complicato per l'amministrazione Obama. La rivolta popolare tunisina, la prima nel Mondo arabo a dare il benservito a un cacicco filo-occidentale, ha messo in discussione una delle pietre angolari della politica Usa nel teatro in questione: il sostegno di dittatori repressivi come "garanti" degli interessi dell'imperialismo americano; non c'é stato nemmeno il tempo di articolare quanto meno un abbozzo di strategia coerente che, ispirati e infiammati dall'esempio, anche i cittadini egiziani hanno preso a protestare, in numero e con convinzione decisamente maggiore di quanto non sia accaduto finora in Algeria e Giordania (a loro volta brevemente scosse da manifestazioni di piazza).

Una prolungata e protratta protesta in Egitto, tuttavia, porrebbe problemi tutti particolari, visto che esso non solo confina con Israele, ma è anche "custode" del lato più vulnerabile del quadrilatero assediato di Gaza (il lato da cui passa la maggior parte dei beni contrabbandati in barba alle restrizioni dello strangolamento economico sionista), sul modello dell'Egitto di Mubarak sono stati elaborati tutti gli stilemi di comportamento americano verso i regimi 'amici' dei paesi arabi, l'Egitto é uno dei più grandi recettori africani (e certamente il più grande recettore arabo) di "aiuti Usa", (anche se neppure lontanamente paragonabili a quelli ricevuti dallo Stato ebraico suo vicino).

L'interrogativo che rimbalza tra i saloni di Washington é delicato: se decine di migliaia di persone scendono in strada e ci restano, che cosa farà Mubarak? Che contegno assumeranno gli Usa?

Se non vi fosse altra via se non una capitolazione alla Ben Ali o una strage stile Tienanmen la Casa Bianca rischierebbe di perdere una pedina come il "Faraone" Mubarak, la vacca che ride? Oppure starebbero fermi e in silenzio per quel tanto che basti ai pretoriani di Hosni per ristabilire l'ordine a suon di spargimenti di sangue?

Se la parola passasse all'esercito, che in Egitto al contrario che negli altri Stati non serve a combattere i nemici esterni, ma a montare la guardia contro la minaccia rappresentata da 80 milioni di civili, la soluzione non potrebbe essere diversa; i poveri figli di contadini arruolati nella polizia hanno pochissimi privilegi da difendere e quindi ci sono andati molto piano finora con manganelli, gas e blindati, i militari invece, fanno parte di una delle pochissime elite privilegiate del regime e sarebbero spietati per difendere il loro ruolo, i loro 'benefit', i loro 'perk'.

Da una parte il 'pericolo' (insopportabile, per gli apostoli dell'imperialismo) di vedere affondare il loro tiranno di fiducia e vedere il più grande e influente movimento politico di ispirazione musulmana (la Fratellanza musulmana) prendere il potere immediatamente e senza colpo ferire, essendo il partito più antico, autorevole e popolare del paese, dall'altra la prospettiva di una perdita di prestigio e credibilità devastante, soprattutto dopo aver strenuamente e oltre ogni ragionevolezza sostenuto la fittizia 'Rivoluzione verde' in Iran che, seppur maldestramente organizzata e subito fallita, aveva almeno dato il 'la' al Dipartimento di stato per riversare quintali di bile velenosa contro il democratico e legittimo Governo repubblicano iraniano, colpevole di essersi difeso contro la gazzarra di poche dozzine di facinorosi.

L'acquiescenza complice durante una sanguinosa repressione egiziana mostrerebbe la duplicità dello 'standard morale' americano in tutta la sua drammaticità.

Dopo l'11 settembre 2001 la cricca di neoconservatori "bushevichi" al potere a Washington elaborò la dottrina della 'democratizzazione' e del 'regime change' in Medio Oriente, ma, in ogni paese dove si sono tenute elezioni regolari (Palestina, Irak...) i risultati sono stati sempre gli stessi: vittorie per i movimenti religiosi, scacchi e vergogna per i burattini della Casa Bianca.

Pure, gli Stati Uniti, nel passato piuttosto recente, sono stati in grado di mantenere il loro ruolo e la loro influenza in Sud-Est Asia anche facendo a meno dei loro 'dittatori di fiducia', ai generali sudcoreani, ai Marcos, agli eredi del fascista Chang Kai Shek si sono sostituiti stati più o meno democratici e più o meno accettati e rispettati dai loro cittadini; ora, non che chi scriva ritenga il perdurare dell'influenza Usa in quella regione un bene (affatto), pure le teste d'uovo di Washington e Langley potrebbero prendere quella situazione ad esempio e cercare di replicarla in Medio Oriente, ricoprendo i loro interessi geopolitici con una patina di rispettabilità internazionale.

Una maniera creativa e costruttiva di procedere, ad esempio, potrebbe essere quella di prospettare ai paesi filo-americani e non democratici della regione una serie di benefit economici in cambio di una parziale e graduale liberalizzazione dello scenario politico ed economico.

Ma gli Stati Uniti avranno l'intuito, la lungimiranza, le risorse (con questi chiari di luna...) per intraprendere un'operazione simile, che sarebbe costosa e molto lenta a fornire frutti duraturi? Obama e soci devono pensarci su e prendere una decisione chiara e impegnativa...prossibilmente prima che (per loro e per i loro interessi) la sabbia nell'ampolla superiore della clessidra non abbia totalmente smesso di fluire verso il basso.


Venerdì d'Egitto

di Mazzetta - Altrenotizie - 28 Gennaio 2011

Sarà un Venerdì particolare per l'Egitto. Secondo i piani concordati in rete dai rivoltosi, al termine della preghiera i fedeli dovrebbero uscire dalle moschee in corteo e dare vita a manifestazioni itineranti. Alcune moschee fungeranno da catalizzatore per i non praticanti e le folle di giovani che sono stati il nerbo delle proteste dei giorni scorsi.

I Fratelli Musulmani hanno annunciato l'adesione alla protesta, l'ex capo dell'Agenzia Atomica Internazionale, El Baradei, è ritornato in patria da Vienna, dove si era ritirato quando ha capito che la sua candidatura alle scorse presidenziali si sarebbe risolta nella solita truffa. E infatti Mubarak ha trionfato per l'ennesima volta con percentuali bulgare tra i pochi votanti spinti a forza dal regime verso i seggi.

Prevedibilmente ci saranno in piazza molte più persone che nei giorni scorsi. La repressione governativa, per quanto spietata, è sembrata debole agli egiziani, che nel migliaio di arresti e nella decina di vittime hanno letto per la prima volta un'offesa da vendicare e non il segnale che bisogna chinare la testa.

Il regime è atteso a una specie di prova del nove, la protesta mira alla cacciata del dittatore e lo scontro dovrà avere un vincitore, soluzioni di compromesso non sembrano nell'aria. L'unità politica delle opposizioni non potrà certo allearsi con il regime, non ha il controllo della piazza e nemmeno può dirsi rappresentativa delle folle che scendono in strada.

Lo stesso El Baradei, che è una personalità formalmente adatta ad incarnare un Egitto nuovo, gode di un supporto frammentato e può aspirare alla leadership solo se investito di un ruolo di garanzia e godendo di consensi che per il momento non sembra avere.

Il regime, apparentemente compatto, è bene organizzato per reprimere, ma bisogna capire che risorse abbia per agire in una situazione che non controlla alla perfezione e nella quale deve subire l'iniziativa e giocare un gioco deciso da altri. La sua tenuta è tutta da verificare, anche alla luce del velocissimo dissolvimento del regime tunisino e all'evaporazione del relativo partito unico di governo.

La rivoluzione tunisina avrà un'influenza fortissima proprio sul regime, perché offre un modello nel quale la transizione dalla dittatura a qualcosa di diverso evolve con il sacrificio minimo e per niente truculento di esponenti del vecchio regime.

Non c'è dubbio che, seguendo l'esempio tunisino, la quasi totalità della burocrazia, dell'esercito e delle classi dirigenti egiziane passerebbe senza colpo ferire la prova della dissoluzione della dittatura di Mubarak e del suo partito.

Questo ferisce la tenuta del potere almeno quanto la pressione della piazza, perché riduce drasticamente il numero delle persone che si vedono costrette a difendere la dittatura perché in pericolo di vita o a rischio di tragedie.

La palla è nel campo di Mubarak, nelle segrete stanze del potere egiziano: se la risposta sarà brutale si allontanerà la possibilità di una soluzione alla tunisina e la protesta potrà solo essere stroncata o radicalizzarsi, come ha già dimostrato di poter fare in reazione alla brutalità del regime, ad esempio devastando per la prima volta una sede del partito al potere come reazione agli omicidi di manifestanti a Suez.

Se l'Egitto cede alla rivoluzione, il problema per l'Occidente non è quello dei Fratelli Musulmani, che sono solo lo spauracchio con il quale Mubarak e la sua propaganda hanno giustificato le peggiori repressioni.

La piccola Tunisia è già un esempio; se il gigante egiziano dovesse virare decisamente verso una democrazia pretesa dalla base popolare contro l'élite e le pressioni internazionali delle grandi e piccole potenze, molte autocrazia arabe si troverebbero a fare i conti con un drastico calo di legittimità, mentre l'Occidente si troverebbe a rincorrere e a cucire nuovi rapporti con le nuove classi dirigenti, presto costretto a pietosi mea culpa (come quello recente di Sarkozy) e a fare i conti con decenni di complicità con i peggiori regimi repressivi.


«Siamo a una svolta senza precedenti»

di Michele Giorgio - Il Manifesto - 27 Gennaio 2011

Alaa Aswani l'altro giorno era con i manifestanti scesi in strada a scandire «Pane e Libertà» e «Via Mubarak». Lo stimato scrittore egiziano nei suoi romanzi, a partire da Palazzo Yacobian, ha raccontato la vita della sua gente, la miseria diffusa e l'opulenza per pochi, i più deboli costretti a subire le angherie di un potere corrotto e senza scrupoli.

Ma oggi quel potere scricchiola, non appare più invincibile. Per la prima volta in trent'anni il popolo egiziano vede la luce alla fine del tunnel. Aswani sente che il crollo del regime di Hosni Mubarak è più vicino. Ieri lo scrittore ci ha rilasciato questa intervista.

Siamo davvero alla svolta sognata dagli egiziani?
Sì, ne sono certo. Nei mesi scorsi avevo detto in più occasioni che il regime aveva vita breve e quanto stiamo vedendo e vivendo in questi giorni conferma che siamo di fronte a una svolta senza precedenti negli ultimi 40 anni. L'altra sera ho parlato a una folla di migliaia di persone riunita in Piazza Tahrir, al Cairo. Di fronte a me non avevo più il solito gruppo di amici e attivisti impegnati con coraggio a favore della democrazia e del lavoro, con i quali mi sono incontrato in questi anni.

Avevo invece tante persone qualsiasi: manovali, operai, avvocati, impiegati, donne e uomini che non hanno più paura della polizia e della repressione. Persone che vogliono libertà e democrazia ma anche lavoro e migliori condizioni economiche, perché in Egitto non esiste una separazione tra politica ed economia. È una novità assoluta. Nessuno potrà fermare il processo che si è messo in moto, dopo il 25 gennaio nulla sarà come prima.

In Egitto però, a differenza della Tunisia, l'esercito è con Mubarak e i sindacati sono addomesticati. L'insurrezione egiziana, dice qualche analista, manca di pilastri fondamentali per sovvertire il regime.
Sono considerazioni giuste ma fino a un certo punto. Non sottovaluterei la possibilità che siano proprio le forze armate a scaricare Mubarak. I vertici militari non hanno manifestato alcuna presa di posizione e io dubito fortemente che i nostri soldati possano aprire il fuoco e massacrare gente innocente.

Sono lo stesso popolo, vittime dello stesso potere, poveri in uguale misura. Quanto ai sindacati, quelli di regime sono già defunti e i nostri lavoratori sanno organizzarsi anche da soli.

L'opposizione egiziana che ruolo può avere, rimarrà «decorativa» come lei ama definirla oppure troverà stimoli per risorgere?
L'opposizione è quella che scende in strada a urlare contro il regime, quella che scandisce «Pane e Libertà», che non ha paura della violenza della polizia, come si è visto la scorsa notte (martedì, ndr) in Piazza Tahrir dove la brutalità dei reparti speciali non ha avuto limiti. L'opposizione non è quella chiusa nelle sedi di partiti che vengono artificialmente tenuti in vita dal regime per ragioni d'immagine.

E mi riferisco in particolare al Tagammu che non è più un partito di sinistra. I veri progressisti e comunisti in Egitto stanno tra la gente, partecipano alla lotta. Coloro che hanno scelto di non essere nelle strade in questi giorni capiranno di aver commesso un grave errore e di aver perduto l'occasione per partecipare alla rinascita dell'Egitto.

La rivolta tunisina è stata accolta con favore dall'Europa, che pure aveva protetto per anni il dittatore Ben Ali, e anche dagli Stati uniti. Il presidente Obama l'altra sera ha ribadito il suo sostegno ai diritti dei tunisini ma ha evitato qualsiasi riferimento a quanto accade in Egitto e il Segretario di stato Clinton ha espresso il suo sostegno a Mubarak. Non vi sentite traditi da coloro che democrazia e libertà le vogliono in Medioriente solo a certe condizioni?
La posizione dell'Amministrazione Usa non mi sorprende. Washington è incapace di modificare il suo approccio in politica estera, specie quando in ballo c'è il Medioriente. Non voglio difendere Obama ma sento che il presidente americano vorrebbe cambiare qualcosa e aprire una pagina nuova.

Ma è intrappolato tra le maglie strette delle imposizioni delle lobby, a cominciare da quella filo-Israele che vede in Mubarak un elemento centrale per il mantenimento dello status quo nella regione. Presto o tardi gli Usa capiranno i gravi errori che commettono in Medioriente.


Egitto, il giorno più atteso
testo raccolto da Luca Galassi - Peacereporter - 27 Gennaio 2011

Rania, 30 anni, racconta paure e speranze in vista della grande manifestazione contro Mubarak

Mi chiamo Rania Aala, ho trent'anni, e da quando sono nata ho sempre visto Mubarak al governo, sempre. E' frustrante per la mia generazione. Il partito al governo, l'Npd pensa che siccome ci sono quaranta milioni di poveri in questo Paese, allora siamo tutti ignoranti, politicamente incompetenti, senza leadership.

Anche i capi della cosiddetta 'opposizione' si sono comportati come se noi non esistessimo. Ci hanno lasciato fuori dall'equazione e sono diventati tristi, ridicolmente oppressivi.

Il picco della nostra frustrazione si è verificato in occasione di due fatti: le dichiarazioni di Gamal Mubarak, che vuol correre per la presidenza dopo il padre, uccidendo così tutte le nostre speranze per un futuro democratico e facendoci sentire impotenti e sconfitti, e i colossali brogli elettorali alle scorse parlamentari, che hanno dato un sonoro schiaffo alla nostra dignità.

Da questi due fatti, e con occhio e orecchio tesi a ciò che i coraggiosi tunisini hanno fatto, abbiamo deciso di far sentire la voce della classe media e istruita di questo Paese, perché l'unica speranza per noi era di organizzarci, non in modo partigiano, ma con una sola richiesta: mandare a casa il presidente e tutti i quadri al governo, i parlamentari, i media, i capi di tutte le istituzioni ufficiali.

Vogliamo in cambio un governo veramente patriottico, il rispetto della nostra libertà e dei nostri diritti, tutti i diritti, non solo quelli fondamentali. Veniamo da tutte le parti dell'Egitto, apparteniamo a diverse fazioni e a diverse esperienze. Per questo motivo nel movimento ci sono anche divisioni.

Non scendiamo in piazza perchè ci sono i Fratelli Musulmani, o El Baradei, né loro possono mettere il cappello alla rivolta. El Baradei è un patriota. Non è ciò che il governo vuol far sembrare. E' per il cambiamento e si è offerto per guidare la transizione proprio per evitare il caos. Lo sosterremo fino in fondo, perché il suo è un nome pulito.

Noi scendiamo in piazza in pace, e vi prego di dirlo, di ripeterlo cento volte, che si sappia nell'Unione Europea e negli Stati Uniti. Se si sparerà e verremo uccisi in massa è perché il governo ha deciso così. Noi scendiamo in piazza in pace, senza provocare. La metà di noi non hai mai manifestato in vita sua. Non siamo qui per il pane o per le riforme, siamo qui per cacciare Mubarak.

Il suo regime non sa come gestire una crisi se non con la violenza. Per questo ci sarà violenza, distruggeranno macchine fotografiche, arresteranno centinaia di persone e impediranno ai giornalisti di lavorare. Ma noi cercheremo di aggirare queste misure. La gente ha rotto le barriere del silenzio e della paura. Ci sarà violenza e scorrerà sangue.

Gli uomini del regime spareranno proiettili di gomma come aperitivo. Poi quelli veri. Lo hanno fatto a Suez e lo faranno in tutto il Paese oggi. I miei sentimenti alla manifestazione saranno questi: speranza, vendetta, gioia per il cambiamento, ma anche preoccupazione per le possibili violenze. Tuttavia, noi andremo in piazza in pace.


Yemen, ha paura anche Saleh
di Christian Elia - Peacereporter - 27 Gennaio 2011

Quattro cortei nella capitale, altri focolai di protesta in altre città. Il regime yemenita teme l'effetto Tunisia

"Le manifestazioni di queste ore a Sanàa non ci preoccupano, lo Yemen è un paese democratico e pluralista". Lo ha detto oggi Mathar Rashad Masri, ministro degli Interni yemenita. In questa affermazione, però, ci sono due menzogne.

La prima è che lo Yemen non è un Paese democratico. Le restrizioni alla stampa, il pugno di ferro contro ogni opposizione (in particolare i secessionisti della zona meridionale dello Yemen), la discriminazione della componente sciita della popolazione e la brutale repressione della loro nel nord del Paese non sono i tratti distintivi di un regime democratico.

La seconda bugia, però, è ancora più evidente: il regime di Abdullah Saleh ha paura, eccome.

La misera fine di Ben Alì in Tunisia, la folla inferocita contro Mubarak in Egitto, il tramonto triste, solitario e finale di Abu Mazen in Palestina, la folla in piazza in Algeria. Sembrano le scene di uno stesso film, al quale - di volta in volta - non vengono cambiati i sottotitoli, ma solo la latitudine.

Quattro cortei differenti, il più imponente dei quali è partito dall'Università di Sanàa, si sono riversati nel centro della capitale yemenita. "Le manifestazioni che sono in corso non sono così grandi come vengono descritte e non destano preoccupazioni - ha aggiunto Masri - il nostro Paese è diverso dagli altri. Noi come governo siamo impegnati a cercare una via per esaudire le richieste del popolo".

Il problema, che Masri tace, è che il popolo chiede la fine del trentennio di dominio di Saleh, l'uomo che ha riunificato il Paese e ne ha fatto il suo regno. Il ministro ha inoltre assicurato che la polizia "non reprimerà le manifestazioni ed eviterà ogni incidente in piazza", dichiarazione sintomatica dello stato d'animo delle sclerotiche dittature arabe.

Un telefonino può arrivare dove mille oppositori non si sono mai neanche avvicinati: mostrare al popolo, quello vero, delle campagne, il vero volto dei regimi che intellettuali senza seguito per anni, come stanche Cassandre, denunciavano dal Marocco al Golfo Persico.

Niente repressione, dunque, ma questo è da vedere. Un giovane si è dato fuoco ad Aden, nel sud dello Yemen, per protestare contro il carovita e lo stato di povertà della sua famiglia. Si chiama Fuad Sultan, ha venticinque anni.

Ma potrebbe essere nato al Cairo, in Tunisia o in Palestina. Ragazzi sotto occupazione, militare (nel caso d'Israele) o socio-culturale, negli altri regni dell'abuso e della sovranità delegittimata. Nella tarda serata di ieri, Sultan è sceso in strada, si è cosparso di benzina e si è dato fuoco.

Immediati sono stati i soccorsi e ora il giovane è ricoverato in condizioni disperate in un ospedale locale. Secondo gli amici, il ragazzo voleva imitare il giovane ambulante tunisino, Mohammed Bouaziz, che con il suo gesto ha innescato la rivolta contro Ben Ali.

Si tratta del secondo caso di tentato suicidio per il carovita che si registra in Yemen dopo quello della scorsa settimana ad al-Baydha. Il presidente Saleh è stato rieletto nel settembre 2006 per un nuovo mandato di sette anni.

Un progetto di emendamento alla costituzione in discussione in parlamento potrebbe aprire la strada ad una sua presidenza a vita. Le fiamme di Fuad e gli slogan delle migliaia in piazza a Sanàa sono tutte per lui.

mercoledì 26 gennaio 2011

A Bangkok le strade si tingono di giallo-rosso

In Thailandia, dopo alcuni mesi di calma apparente, l’anno appena iniziato sembra già avere il suo orizzonte segnato dalle ennesime proteste prolungate nel tempo, con presidi ben organizzati e formati da migliaia di persone disposti a dormire per settimane in strada.

Negli ultimi due anni erano state le cosiddette magliette rosse dell’UDD (United Front for Democracy against Dictatorship) a scendere in piazza, in particolar modo a Bangkok dove tra l’aprile e il maggio scorso si erano avuti violenti scontri tra esercito, polizia e manifestanti culminati con la morte di oltre 90 persone e migliaia di feriti.

Mentre nel 2008 erano state le magliette gialle del PAD (People's Alliance for Democracy) a dominare le prime pagine dei giornali thailandesi e non solo con le loro manifestazioni e presidi durati mesi e sfociati nell’occupazione del Palazzo del Governo (Government House) e dei due aeroporti di Bangkok. Con il risultato di ottenere le dimissioni di ben due governi guidati dall’attuale partito di opposizione - il Puea Thai, che all’epoca si chiamava ancora PPP - legato all’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra estromesso dal potere con il golpe incruento del settembre 2006.

Il 2011 invece è cominciato con le manifestazioni di piazza sia dei rossi che dei gialli, oltre che di altri gruppi più piccoli legati ai due principali dell’UDD e PAD.

I gialli sono ritornati alla ribalta delle cronache già da alcuni giorni, dopo che il 29 dicembre scorso un deputato del partito democratico - che guida il governo di coalizione in carica del premier Abhisit Vejjajiva - e 6 militanti di un movimento ultra-nazionalista legato ai gialli, il TPN (Thai Patriots Network), sono stati arrestati dalle autorità cambogiane per aver illegalmente oltrepassato il confine. Due di loro sono stati anche incriminati per spionaggio.

Cinque sono stati infine condannati a 9 mesi ma liberati su cauzione, mentre i due accusati di spionaggio, tra cui uno dei leader del TPN, sono ancora detenuti in Cambogia in attesa della sentenza che dovrebbe arrivare il 1 febbraio.

I gialli del PAD sembrano comunque intenzionati a prolungare le loro proteste fino a quando il governo non cederà alle loro tre richieste: ritirare la Thailandia dal Comitato dell’Unesco, revocare il memorandum of understanding sul confine Thai-Cambogiano firmato nel 2000 ed espellere le persone di nazionalità cambogiana dalle aree di confine in disputa.


Insomma, la solita atavica rivalità tra Thailandia e Cambogia che ruota intorno all’area dove sorge il tempio Preah Vihear, già oggetto di scaramucce armate tra i due eserciti nel 2008 in seguito alla decisione dell’Unesco di inserirlo nella lista dei Patrimoni dell’Umanità, strumentalizzata dal PAD per ottenere le dimissioni del governo di allora, guidato dal defunto Samak Sundaravej.


Ma la novità del 2011 è che il PAD oggi si scaglia contro quello stesso governo che aveva contribuito a far nascere nel dicembre del 2008. Ciò però non sorprende visto che da un anno e mezzo i gialli hanno dato vita a un proprio partito politico, il New Politics Party, che pesca nello stesso bacino elettorale del partito democratico del premier Abhisit.

E il 2011 sarà l’anno delle elezioni politiche che si preannunciano molto combattute, sul filo di lana.


Ma anche i rossi sono scesi in piazza nei giorni scorsi, in particolare ai primi di gennaio a Bangkok, con un’imponente manifestazione a cui hanno partecipato oltre 30.000 persone. Lo faranno di nuovo il 13 febbraio e almeno una volta ogni mese.


L’altra novità del 2011 è però rappresentata dal fatto che i gialli e i rossi condividono lo stesso obiettivo di far cadere il governo, anche se con diverse motivazioni, e ci sono già evidenti segnali di come stiano giocando di sponda tra loro.


Pochi giorni fa infatti la polizia ha sequestrato bombe artigianali, RPG e granate vicino alla zona dove è sorto il presidio dei gialli e ha arrestato 5 persone che avrebbero confessato di far parte delle guardie di sicurezza dei rossi e di aver pianificato un attentato contro i gialli.


Ma in una successiva conferenza stampa esponenti dei gialli e dei rossi hanno accusato il governo di aver costruito una messinscena per screditare i due gruppi e farli scontrare tra loro in modo da giustificare poi un colpo di stato.


Quindi un’inedita alleanza tra rossi e gialli sembra all’orizzonte con l’obiettivo comune di screditare e costringere alle dimissioni il governo per andare al più presto a nuove elezioni.


Ma restano le incognite dell’evoluzione di queste proteste, che certamente si prolungheranno nel tempo, e soprattutto quella del comportamento che adotterà l’esercito che dal 1 ottobre scorso è guidato da un nuovo comandante, il generale Prayuth Chan-ocha, considerato molto più deciso e fermo del suo predecessore.


Se le proteste “giallo-rosse” degenereranno e altro sangue verrà versato nelle strade di Bangkok, il caos che ne scaturirà sarà il sicuro pretesto per un nuovo golpe ai danni di un governo già debole, con le elezioni rimandate a tempi “migliori”.


Nel frattempo l’esercito thailandese ha deciso ieri di svolgere nei prossimi giorni delle esercitazioni militari ai confini con la Cambogia, proprio vicino al tempio di Preah Vihear.


Quindi la tensione tra i due Paesi è destinata ad aumentare dopo che pochi giorni fa è comparso un cartello a 300 metri dal tempio in questione che recitava : “Qui è il luogo dove le truppe thailandesi hanno invaso il territorio cambogiano il 15 Luglio 2008 e si sono ritirate alle 10.30 del 1 Dicembre 2010”.


Al che il governo e l’esercito thailandese hanno reagito chiedendo alla Cambogia la rimozione del cartello, situato secondo loro in una zona la cui sovranità è ancora in disputa. E il governo cambogiano ha sì rimosso il cartello, sostituendolo però con un altro che recita: “Qui è Cambogia”.


Pare che anche questo cartello sia stato ora rimosso ma la saga Thailandia-Cambogia continuerà, mentre le strade di Bangkok ricominciano a colorarsi sempre più di giallo e rosso.

martedì 25 gennaio 2011

Dopo la "rivoluzione dei gelsomini" quella "delle mozzarelle"?...

Qualche articolo sulla cosiddetta "rivoluzione dei gelsomini" in Tunisia.

Un'altra "rivoluzione colorata"? Mah, forse sì forse no...

Restiamo comunque in trepidante attesa di quella "delle mozzarelle"...


La rivolta in Tunisia: un'altra operazione Soros/Ned?
di Dr. K R Bolton - www.foreignpolicyjournal.com - 18 Gennaio 2011
Traduzione a cura di Gianluca Freda

Manifestazioni “spontanee” di giovani che sciamano nelle strade con tale forza da costringere alla fuga un presidente in carica da anni... Di quale paese stiamo parlando: Georgia, Serbia, Myanmar [1], Ucraina, Polonia, Cecoslovacchia, Iran, Ungheria...? Stavolta tocca alla Tunisia.

Tutte queste “rivolte” seguono lo stesso canovaccio. La rivolta tunisina viene già definita “rivoluzione colorata” dai media e dai sapientoni della politica e le è stato perfino assegnato un nome: “Rivoluzione dei Gelsomini” [2], come le abortite rivoluzioni “Verde” e “Zafferano” e come le rivoluzioni “di Velluto”, “delle Rose”, “Arancione”, “dei Tulipani”, ecc., che hanno invece avuto successo.

Queste “rivoluzioni colorate” hanno uno schema comune perché sono tutte progettate dagli stessi strateghi; e cioè dalla rete Open Society dello speculatore George Soros, che fa le veci di un moderno Jacob Schiff [3] nel finanziare rivoluzioni; e dalla National Endowment for Democracy, quest’ultima una fondazione post-trotzkista, finanziata dal Congresso, una specie di “Comintern” che promuove “rivoluzioni democratiche nel mondo” al servizio della plutocrazia e sotto la maschera della libertà.

Ecco alcuni scenari tipici delle “rivoluzioni colorate”. Confrontateli con i caratteri della “Rivoluzione dei Gelsomini” e con i finanziamenti forniti dalla National Endowment for Democracy agli “attivisti tunisini”, come vengono descritti più avanti: “[l’Open Society Institute di Soros]... inviò in Serbia un attivista trentunenne di Tbilisi di nome Giga Bokeria per incontrarsi con membri del movimento Otpor (Resistenza) e imparare da loro in che modo avessero sfruttato le manifestazioni di piazza per rovesciare il dittatore Slobodan Milosevic. Poi, durante l’estate, la fondazione di Soros pagò agli attivisti dell’Otpor un viaggio in Georgia, dove costoro tennero corsi della durata di tre giorni ciascuno per insegnare a più di 1.000 studenti come mettere in scena una rivoluzione pacifica. [4]

Nel commentare la “Rivoluzione di Velluto” che aveva appena colpito la Georgia, MacKinnon descrisse le operazioni che erano state poste in atto e che seguivano lo stessa schema visto in altre nazioni prese di mira da Soros [5]: Il Liberty Institute che Bokeria aveva contribuito a fondare divenne uno strumento per organizzare le proteste di piazza che alla fine costrinsero Shevardnadze a rassegnare le dimissioni. Bokeria afferma che fu a Belgrado che egli comprese l’importanza dell’acquisire e mantenere una posizione di superiorità morale e fu lì che imparò a sfruttare la pressione dell’opinione pubblica; tattiche che si sono rivelate molto persuasive anche nelle strade di Tbilisi, dopo le elezioni parlamentari truccate di questo mese. A Tbilisi, il legame con l’Otpor è visto come soltanto uno di molti esempi del considerevole appoggio fornito da Soros al movimento anti-Shevardnadze: egli ha contribuito anche a fondare un’emittente televisiva di opposizione popolare che è stata di cruciale importanza per mobilitare i sostenitori della “Rivoluzione di Velluto” di questa settimana; inoltre ha fornito supporto finanziario ai gruppi giovanili che hanno guidato le proteste di piazza [6].

La NED e Soros lavorano in tandem, prendendo di mira gli stessi regimi ed utilizzando gli stessi metodi. Il presidente della NED, Carl Gershman, scrivendo delle centinaia di ONG che lavorano per i “cambi di regime” nel mondo, dedica un tributo particolare alla Fondazione Ford e “alle fondazioni istituite dal filantropo George Soros” [7].

Seguire il denaro

Come recita il noto adagio, se volete capire chi è a capo di qualcosa, seguite la traccia del denaro. Osservando i finanziamenti erogati dalla NED nel 2009 (ultimi dati disponibili) troviamo quanto segue:

Al-Jahedh Forum for Free Thought (AJFFT)
$131,000

Per rafforzare le capacità dei giovani attivisti tunisini e costruire una cultura della democrazia. L’AJFFT promuove incontri di discussione su problemi contemporanei legati all’Islam e alla democrazia, dibattiti tra studiosi arabi su problemi sociali, conferenze sull’Islam, sulle politiche economiche e sulle relazioni internazionali e incontri di presentazione editoriale. L’AJFFT organizza tirocini di formazione alla leadership, sostiene progetti culturali della gioventù locale...”
[8]

Lo scopo è fin troppo chiaro: creare una schiera di giovani attivisti attraverso i “tirocini di formazione alla leadership”. Ancora una volta, si tratta esattamente della stessa strategia utilizzata dalla NED e da Soros in altre nazioni infettate dalle “rivoluzioni colorate”. Esattamente la stessa.

Associazione per la Promozione dell’Educazione (APES)
$27,000

Per rafforzare la capacità degli insegnanti tunisini delle scuole superiori di promuovere valori democratici e civili all’interno delle loro classi. L’APES organizzerà tirocini di formazione degli insegnanti per 10 professori universitari e ispettori scolastici e terrà tre seminari di rafforzamento delle capacità, della durata di due giorni, per 120 insegnanti di scuole superiori, riguardanti gli approcci pedagogici per la diffusione dei valori civili e democratici. Attraverso tale progetto, l’APES intende introdurre nel sistema educativo secondario della Tunisia i valori della tolleranza, del relativismo e del pluralismo. [9]

Il programma sembra avere lo scopo di diffondere la base dottrinaria per la rivoluzione; i “valori democratici e civili” sono presumibilmente quelli della post-sinistra propagandati da Soros e dalla NED, cioè valori che generalmente vanno contro le tradizioni delle società in cui operano Soros e la NED.

Mohamed Ali Center for Research, Studies and Training (CEMAREF)
$33,500
Per addestrare un gruppo scelto di giovani attivisti tunisini alla leadership e alle abilità organizzative e per incoraggiare il loro coinvolgimento nella vita pubblica. Il CEMAREF organizzerà un corso intensivo di addestramento alla leadership e all’acquisizione di capacità organizzative della durata di quattro giorni per 10 giovani attivisti civili tunisini; addestrerà inoltre 50 attivisti, di sesso maschile e femminile e di età compresa tra i 20 e i 40 anni, alla leadership e al potenziamento decisionale; e lavorerà con gli attivisti addestrati eseguendo 50 visite pratiche alle loro rispettive organizzazioni
[10].

In questo caso, la terminologia non ricorre neppure agli eufemismi: “Addestrare un gruppo scelto di giovani attivisti tunisini...”. Non è forse lecito sospettare che l’intenzione sia quella di costituire una giovane élite rivoluzionaria finalizzata al “cambio di regime”, seguendo esattamente lo stesso schema utilizzato per orchestrare le “rivoluzioni colorate” nei paesi ex sovietici e altrove?

Visto l’acuto interesse manifestato dalla NED verso la Tunisia, è ingenuo pensare che la “Rivoluzione dei Gelsomini” sia una semplice “manifestazione spontanea di rabbia popolare” e che non sia stata pianificata con largo anticipo, attendendo l’evento che facesse da catalizzatore.

Le organizzazioni appena citate ed altre, hanno ricevuto dalla NED i finanziamenti indicati di seguito insieme agli anni di riferimento: 2006: Al-Jahedh Forum for Free Thought (AJFFT), $51,000; American Center for International Labor Solidarity, $99,026, il cui scopo è quello di coltivare relazioni con il giornalismo tunisino; Arab Institute for Human Rights (AIHR) $37,500, per addestrare un gruppo scelto di insegnanti sul tema dei “valori civici”;” Committee for the Respect of Freedom and Human Rights in Tunisia (CRLDH) $70,000, per richiedere l’amnistia di prigionieri politici; e

Mohamed Ali Center for Research, Studies and Training (CEMAREF)
$39,500

Per addestrare 50 attivisti, di sesso maschile e femminile e di età compresa tra i 20 e i 40 anni, alla leadership. L’organizzazione terrà cinque seminari della durata di quattro giorni ciascuno, ognuno destinato a dieci attivisti, sulle tecniche della leadership, inclusi decision making, time management, risoluzione dei conflitti, problem solving e comunicazione. Il CEMAREF seguirà l’addestramento con visite in loco ai gruppi d’appartenenza degli allievi allo scopo di valutare i risultati.
[11]

2007: L’AJFFT ha ricevuto 45,000$. L’Arab Institute for Human Rights ha ricevuto 43,900$ per addestrare insegnanti a diffondere l’ideologia dei cosiddetti “valori civici”, focalizzandosi sulle scuole primarie e sottoponendo all’addestramento anche gli ispettori scolastici.

Il Center for International Private Enterprise (CIPE) ha ricevuto 175, 818$ per inculcare la dottrina della libera impresa tra gli uomini d’affari tunisini, il che rivela a cosa stia realmente mirando la NED con la sua promozione di “democrazia e valori civici”: la globalizzazione.

Il summenzionato Mohamed Ali Center for Research, Studies, and Training ha ricevuto 38,500$ nel 2007. Inoltre, nello stesso anno:

Moroccan Organization for Human Rights
(OMDH) $60,000

Per motivare un gruppo di giovani avvocati tunisini a mobilitare i cittadini sul tema delle riforme. OMDH provvederà ad addestrare un gruppo di 20 avvocati tunisini alla mobilitazione civica e fornirà loro supervisione ed assistenza per implementare i loro progetti di mobilitazione
.[12]

2008: L’Al-Jahedh Forum for Free Thought ha ricevuto 57,000$; il Center for International Private Enterprise, 163,205$; il Centre Mohamed Ali de Reserches d’Etudes et de Formation, 37,800$; il Tunisian Arab Civitas Institute, 43,000$, con la finalità di formare insegnanti sulle ideologie dei “valori civici” care alla NED. [13]

C’è bisogno di essere più espliciti? La NED ha sostenuto in Tunisia, come in altre zone del mondo, gruppi rivoluzionari composti da giovani e da professionisti allo scopo di rovesciare un regime visto come un’anomalia nel contesto del “new world order”.

Per quanto i regimi presi di mira possano spesso essere deprecabili, la retorica della “democrazia”, dei “valori civici” e della “società aperta” propagata dalla NED, da Soros e dalla miriade di funzionari e istituzioni sparsi per il mondo, è nient’altro che una truffa propagandistica, progettata, come sempre accade in queste circostanze, per distogliere l’attenzione dalle reali cause e finalità delle “sollevazioni spontanee”.

I commentatori stanno già sottolineando l’impeto della “rivolta spontanea” ad opera delle “organizzazioni della società civile”, il che è un eufemismo per riferirsi alle organizzazioni sponsorizzate dalla NED e da Soros: “...In tal modo, un’ampia coalizione di organizzazioni della società civile ha riunito insieme le rivendicazioni occupazionali con esigenze che concernono la questione della legalità e quella dei diritti umani...”. [14]

Le “rivoluzioni colorate” devono molto al patrocinio offerto alle reti di comunicazione anti-regime, con finanziamenti diretti a stazioni radio e televisive, come nell’esempio relativo alla Georgia menzionato più sopra.

Nel caso della Tunisia, questo compito sembra essere stato assegnato a Radio Kalima. Se ne è occupata l’organizzazione “International Media Support” che, dopo i raid della polizia del gennaio 2009, ha iniziato ad operare al di fuori della Tunisia. Per citare le parole del direttore della radio, Sihem Bensedrine:
“I finanziamenti offerti da International Media Support e dall’Open Society Institute ci hanno consentito di pagare i nostri giornalisti e di mantenere un gruppo di lavoro stabile. Questo rende la nostra radio più forte e più efficiente”. [15]

La manipolazione del dissenso


Lo sfruttamento delle masse per avallare interessi finanziari non è certo un fenomeno nuovo. Esempi noti di “rivoluzioni borghesi” organizzate in nome degli umili sono quelli della rivoluzione inglese di Cromwell e della Rivoluzione Francese. Oswald Spengler fa risalire il fenomeno all’antica Roma: “Le idee del Liberalismo e del Socialismo vengono poste concretamente in atto solo tramite il denaro. Fu il ricco partito degli equites a rendere possibile il movimento popolare di Tiberio Gracco; e non appena la parte di riforma ad essi vantaggiosa fu trasformata in legge con successo, essi si ritirarono e il movimento si disgregò”. [16]

La “Nuova Sinistra” ha perseguito gli stessi scopi nel corso degli anni ’60 e ’70, adottando strategie simili a quelle delle odierne “rivoluzioni colorate” e degli altri progetti sponsorizzati da Soros, dalla NED, ecc.

Questi “ribelli” che si opponevano all’”Establishment”, tra i quali si annoverano femministe come Gloria Steinem [17] e guru psichedelici come Timothy Leary [18], erano in realtà leccapiedi della CIA, sostenuti fin dall’inizio dai ricchi padroni. Gli studenti radicali che protestavano negli anni ’60 erano manipolati da interessi simili a quelli che oggi sponsorizzano i “manifestanti” delle “rivoluzioni colorate”; si va dalla National Student Association americana, finanziata dalla CIA [19], fino alla Students for a Restructured University, finanziata dalla fondazione Ford e affiliata alla SDS (Students for a Democratic Society) [20].

Se l’“Establishment” ha in realtà finanziato, decenni or sono, i suoi presunti nemici giurati come parte di un programma di manipolazione dialettica – e le fonti non sono difficili da controllare – non c’è da sorprendersi che anche al giorno d’oggi sia in atto una manipolazione globale, fondata su idee similari, diretta a soggetti similari e mossa da similari interessi.

National Endowment for Democracy

La National Endowment for Democracy è stata fondata nel 1983 su interessamento dell’attivista post-trotzkista Tom Kahn e opera sotto il patrocinio del Congresso e della grande finanza americana allo scopo di promuovere quella “rivoluzione globale” che era negli ideali di Trotzky e del presidente americano Woodrow Wilson, suo contemporaneo.

La NED persegue un programma di “iniziative democratiche” (sic) ed opera in Polonia (attraverso il sindacato Solidarność), in Cile, in Nicaragua, in Europa Orientale (per agevolare la transizione alla democrazia dopo il crollo del blocco ex sovietico), in Sudafrica, in Birmania, in Cina, in Tibet, in Corea del Nord e nei Balcani. “Gli sconvolgimenti elettorali avvenuti in Serbia dell’autunno 2000” furono ottenuti attraverso il finanziamento di “una quantità di gruppi civici”. “Più di recente, dopo l’11/9 e dopo l’adozione da parte del consiglio direttivo della NED del suo terzo documento strategico, finanziamenti speciali sono stati offerti ai paesi a maggioranza musulmana in Medio Oriente, Africa e Asia”. [21]

Almeno 10 dei ventidue direttori della NED sono anche membri del Council on Foreign Relations, il noto think tank plutocratico, e tra di essi vi sono alcuni direttori dei programmi del CFR [22].

Ad esempio Carl Gershman, fondatore e presidente della NED, viene annoverato come membro del Comitato Programmi di Washington nell’esecutivo del CFR.[23] Tra i membri del CFR che fanno anche parte della dirigenza della NED possiamo citare: Nadia Diuk, Vice Presidente, Programmi: Africa, Europa Centrale ed Eurasia, America Latina e Caraibi; e Louisa Greve, Vice Presidente, Programmi: Asia, Medio Oriente & Nord Africa, nonché membro temporaneo del progetto del CFR sulla sicurezza nazionale USA “Nuove Minacce in un Mondo in Trasformazione”.[24]

La risposta statunitense

Sebbene alcuni entusiasti sostenitori della “società aperta” abbiano lamentato l’apparente ritrosia degli Stati Uniti nel criticare l’ex presidente tunisino, Ben Ali, ciò che si recita – o non si recita – sul palcoscenico globale è in genere un riflesso assai pallido degli eventi che si svolgono dietro le quinte.

L’establishment statunitense non ha certo mostrato alcuna simpatia per Ben Ali nel momento cruciale. Il “Progetto per la Democrazia in Medio Oriente”, un altro think tank che si dedica a indicare alle nazioni come debbano governare se stesse “alla maniera americana”, riporta una reazione degli ambienti ufficiali USA per bocca di Michael Posner, assistente segretario di Stato nel Dipartimento per la Democrazia, i Diritti Umani e il Lavoro; costui, rispondendo a un inviato del giornale egiziano AlMasry AlYoum: “...ha parlato delle violenze in Egitto e in Tunisia e di come gli Stati Uniti dovrebbero concretamente rapportarsi con quei governi che definiscono “interferenze” le critiche provenienti dall’estero... Gli Stati Uniti, egli ha affermato, perseguono con i paesi come Egitto e Tunisia una politica su più livelli, allo scopo di relazionarsi in modo efficace con i loro governi e allo stesso tempo sostenere gli esponenti della società civile in questi paesi. [Elliott] Abrams ha invece dichiarato che gli Stati Uniti dovrebbero avere con paesi come l’Egitto e la Tunisia una politica su un unico livello, che preveda conseguenze molto gravi per quei capi di Stato che ignorano gli appelli alle riforme e al rispetto dei diritti umani. Se si continuano a perseguire le attuali linee politiche, quei governi penseranno di potere “farla franca” e continueranno a vanificare gli sforzi di riforma e a reprimere il dissenso”. [25]

Elliott Abrams, citato più sopra, è noto per essere stato uno dei globalisti neocon dell’amministrazione di George W Bush, consigliere di sicurezza nazionale per il Medio Oriente ed entusiasta sostenitore dei “cambi di regime” attuati con l’uso di bombe e milizie americane, laddove la manipolazione delle folle non avesse funzionato.

Oggi è membro anziano per gli Studi sul Medio Oriente nel Council on Foreign Relations e, com’era lecito aspettarsi, Abrams è entusiasta degli idealistici eventi verificatisi in Tunisia [26], vista la prospettiva che un nuovo stato-cliente degli USA emerga dalle idealistiche azioni dei soliti “utili idioti”.

Mentre l’inerme Ben Ali era in procinto di cadere, Hillary Clinton ha spiegato al Medio Oriente che Washington “non avrebbe assunto posizioni”, ma poi si è prontamente esibita in una predica rivolta agli stati arabi su ciò che l’America si aspetta da loro.

The Christian Science Monitor
ha osservato che Ben Ali è fuggito il giorno seguente. Al “non assumere posizioni”, ha immediatamente fatto seguito una dichiarazione della Clinton – altro membro progettista del CFR – secondo la quale il presidente Obama salutava “il coraggio e la dignità del popolo tunisino”, aggiungendo che gli Stati Uniti si univano al resto del mondo “nella testimonianza di questa lotta coraggiosa e determinata...”.

Il resoconto diceva esplicitamente che la Clinton stava “mandando un avvertimento” (sic) ai leader mediorientali affinché meditassero sulla rivolta tunisina, per evitare di subire la stessa sorte. “Le parole pronunciate dalla Clinton giovedì scorso fanno eco ad opinioni ben più severe espresse dietro le quinte da funzionari statunitensi...”. “Coloro che si aggrappano allo status quo, possono riuscire ad evitare il pieno impatto con i problemi dei loro paesi per qualche tempo, ma non in eterno”, ha dichiarato la Clinton. Queste parole si sono rivelate profetiche per la Tunisia di Ben Ali, ma sono anche state interpretate da molti esperti della regione come riferibili allo stesso presidente egiziano Hosni Mubarak, antico alleato degli USA, ma ormai ottuagenario e al potere da quasi 30 anni”. [27]

Può sembrare un paradosso che le stesse persone che denunciano le invasioni americane di nazioni come la Serbia e l’Iraq per imporre “cambi di regime” con la forza delle armi, siano invece entusiaste dei “cambi di regime”, attuati nell’interesse dell’egemonia globale americana, quando essi sono condotti da giovani e da professionisti manipolati per ottenere gli stessi risultati attraverso la “protesta spontanea” (sic).

Le “rivoluzioni colorate” sono tanto fasulle quanto le loro antenate gestite dalla “Nuova Sinistra”. Naturalmente la desiderabilità di questi cambi di regime dipende dal punto di vista. Sul lungo periodo, potrebbe anche accadere che nel nome della “democrazia”, così come era avvenuto per lo slogan “Liberté, Égalité, Fraternité” della Rivoluzione Francese, per “Tutto il potere ai Soviet” della Rivoluzione Bolscevica e per “Tutti gli animali sono uguali...”, si stia in realtà compiendo un passo ulteriore verso una tirannia molto più feroce di quella che si desiderava rovesciare.


Note

[1] Open Society Institute, The Burma Network, SE Asia Initiative. http://soros.org/initiatives/bpsai/about

[2] Ad esempio: “A Successful Jasmine Revolution, but what next for Tunisia?”, New Statesman, 15 gennaio 2011.

[3] Robert Cowley, “A Year in Hell,” America and Russia: A Century and a Half of Dramatic Encounters, ed. Oliver Jensen (New York: Simon and Schuster, 1962), pp. 92- 121. Schiff, comproprietario della Kuhn Loeb and Co., finanziò George Kennan per organizzare la ribellione di 50.000 soldati russi in Giappone durante la guerra russo-giapponese e fornì ulteriore supporto anche alla rivoluzione russa del 1917.

[4] M McKinnon, “Georgia revolt carried mark of Soros”, Globe & Mail, November 26, 2003, http://www.theglobeandmail.com/servlet/story/RTGAM.20031126.wxsoros1126/BNStory/Front/

[5] L’associazione Internet Access & Training Program (IATP) di Soros fu istituita come fronte per la creazione di nuovi leader in Bielorussia, Armenia, Azerbaijan, Georgia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Turkmenistan e Uzbekistan. In Serbia, venne finanziato l’Otpor. Il premio in palio era Trepca in Kosovo, una vasta riserva di oro, argento, piombo, zinco e cadmio.

n un articolo pubblicato sul New Statesman, Neil Clark ha affermato che Soros ha avuto un “ruolo cruciale” nel collasso del blocco sovietico. Fin dal 1979 Soros aveva dato milioni di dollari a Solidarność in Polonia, a Charter 77 in Cecoslovacchia e nel 1984 aveva fondato un suo Ufficio d’Influenza Strategica in Ungheria, “pompando milioni di dollari verso i movimenti d’opposizione.” “Apparentemente finalizzate a costruire una nuova ‘società civile’, queste iniziative erano in realtà progettate per indebolire le strutture politiche esistenti e aprire la strada all’eventuale colonizzazione dell’Europa dell’Est da parte del capitale globale”. Neil Clark, “Soros toppled governments in Poland, Czechoslovakia, Hungary,” New Statesman, 2 giugno 2003.

[6] M MacKinnon, op.cit.

[7] Carl Gershman, “Building a Worldwide Movement for Democracy: The Role of Non-Governmental Organizations”, U.S. Foreign Policy Agenda, Vol. 8, No. 1, August 2003. NED: http://www.ned.org/about/board/meet-our-president/archived-remarks-and-presentations/080103

[8] National Endowment for Democracy, 2009 Grants: http://www.ned.org/where-we-work/middle-east-and-northern-africa/tunisia

[9] Ibid.

[10] Ibid.

[11] National Endowment for Democracy, 2006 Grants: http://www.ned.org/publications/annual-reports/2006-annual-report/middle-east-and-northern-africa/description-of-2006-13

[12] National Endowment for Democracy, 2007 Grants: http://www.ned.org/publications/annual-reports/2007-annual-report/middle-east-and-northern-africa/description-of-2007-13

[13]National Endowment for Democracy, 2008: http://www.ned.org/publications/annual-reports/2008-annual-report/middle-east-and-northern-africa/2008-grants/tunisia

>[14] Christopher Alexander, “Tunisia’s Protest Wave: Where it comes form and what it means,” January 3, 2011, Council on Foreign Relations, Foreign Policy, http://mideast.foreignpolicy.com/posts/2011/01/02/tunisia_s_protest_wave_where_it_comes_from_and_what_it_means_for_ben_ali

[15] Tunisia’s only independent radio station fights back,” International Media Support, http://www.i-m-s.dk/article/tunisia%E2%80%99s-only-independent-radio-station-fights-back

[16] Oswald Spengler, The Decline of The West, 1918, 1926. (London : George Allen & Unwin , 1971), Vol. 2, p. 402.

[17] “Gloria Steinem and the CIA: C.I.A. Subsidized Festival Trips: Hundreds of Students Were Sent to World Gatherings,” The New York Times, 21 February 1967. http://www.namebase.org/steinem.html

[18] Mark Riebling, “Tinker, Tailor, Stoner, Spy, Was Timothy Leary a CIA Agent? Was JFK the ‘Manchurian Candidate’? Was the Sixties Revolution Really a Government Plot?,” Osprey, 1994, http://home.dti.net/lawserv/leary.html

[19] Sol Stern: “A Short Account of International Student Politics and the Cold War with Particular Reference to the NSA, CIA, etc,” Ramparts, Marzo 1967, pp. 29-38.

Si veda anche: Philip Agee Jr., “CIA Infiltration of Student Groups: The National Student Association Scandal”, Campus Watch, Autunno 1991, pp. 12-13, http://www.cia-on-campus.org/nsa/nsa2.html

[20] Mike Marqusee, “1968 The mysterious chemistry of social change”, Red Pepper, 6 April 2008, http://74.125.155.132/search?q=cache:Qu0dvzQ7RuIJ:www.redpepper.org.uk/1968-The-Mysterious-Chemistry-

[21] David Lowe, ‘Idea to Reality: NED at 25: Reauthorization’, National Endowment for Democracy: http://www.ned.org/about/history

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[22] Per una storia ufficiale ma ricca di informazioni del CFR, si veda: Peter Grose, Continuing The Inquiry: The Council on Foreign Relations from 1921 to 1996 (CFR, 1996), http://www.cfr.org/about/history/cfr/

[23] “Committees of the Board 1998-1999”, CFR, http://www.cfr.org/content/about/annual_report/ar_1999/100-101committees.pdf (Accessed 8 March 2010).

[24] “Staff,”NED, http://www.ned.org/about/staff (Accessed 7 March 2010). Only a few of the staff profiles are provided by NED.

[25] “POMED Notes: Freedom in the World 2011: The Authoritarian Challenge to Democracy,” http://pomed.org/blog/2011/01/pomed-notes-freedom-in-the-world-2011-the-authoritarian-challenge-to-democracy.html/

[26] Elliot Abrams, “Is Tunisia Next?”, CFR, http://blogs.cfr.org/abrams/2011/01/07/is-tunisia-next/ January 7, 2011.

[27] “Events in Tunisia bear out Hillary Clinton’s warning to Arab world,” Christian Science Monitor, January 14, 2011, http://www.csmonitor.com/USA/Foreign-Policy/2011/0114/Events-in-Tunisia-bear-out-Hillary-Clinton-s-warning-to-Arab-world



La Tunisia e i diktat: come la politica economica provoca la povertà e disoccupazione in tutto il mondo
di Michel Chossudovsky - www.globalresearch.ca - 20 Gennaio 2011

Il generale Zine el Abidine Ben Ali, l'ex presidente deposto della Tunisia è definito dai media occidentali, in coro, come un dittatore.

Il movimento di protesta tunisino è descritto distrattamente come l'effetto di un regime antidemocratico e autoritario, che sfida le norme della "comunità internazionale".

Ma Ben Ali non era un "dittatore". I dittatori decidono e comandano. Ben Ali era un servo degli interessi economci occidentali, un fedele burattino politico che obbediva agli ordini, con il sostegno attivo della comunità internazionale.

L'ingerenza straniera negli affari interni della Tunisia non è menzionata nei report dei media. Gli aumenti dei prezzi alimentari nion erano "imposti" dal governmo di Ben Ali. Erano imposti da Wall Street e dal FMI.

Il ruolo del governo di Ben Ali è stato di far rispettare la micidiale ricetta economica del FMI, che in un periodo di oltre 20 anni ha portato al risultato di destabilizzare la economia nazionale e impoverire la popolazione tunisina.

Ben Ali come capo di stato non ha deciso nulla di sostanziale. La sovranità nazionale era già perduta. Nel 1987, al culmine della crisi del debito, il governo di sinistra di Habib Bourguiba è stato sostituito da un nuovo regime, fortemente impegnato sulle riforme del "libero mercato".

La gestione macroeconomica sotto la guida del FMI era oramai nelle mani dei creditori esteri della Tunisia. Nel corso degli ultimi 23 anni, la politica economica e sociale della Tunisia è stata dettata dal "Washington Consensus".

Ben Ali rimase al potere, perché il suo governo obbediva ed attuava in maniera efficace il diktat del FMI, al servizio sia degli USA che della Unione europea.

Questo modello è stato seguito in numerosi paesi.

La continuità delle micidiali riforme del FMI richiede una "sostituzione" del regime. L'instaurazione di un burattino politico assicura l'attuazione del programma neoliberista, creando le condizioni per l'eventuale destituzione di un governo corrotto e impopolare che venga rappresentato come causa dell'impoverimento di un'intera popolazione.

Il movimento di protesta

Non sono Wall Street e le istituzioni finanziarie internazionali con sede a Washington, ad essere il bersaglio diretto del movimento di protesta. L'esplosione sociale si è rivolta contro il governo piuttosto che contro l'ingerenza delle potenze straniere nella conduzione della politica di governo.

Dall'inizio, le proteste non sono partite da un movimento politico organizzato contro l'imposizione delle riforme neoliberiste.

Inoltre, vi sono indicazioni che il movimento di protesta sia stato manipolato al fine di creare il caos sociale, e insieme garantire la continuità politica. Ci sono rapporti non confermati di atti di repressione e di intimidazione da parte di milizie armate nelle principali aree urbane.

La questione importante è come si evolverà la crisi? Come sarà affrontato dal popolo tunisino il più grave problema dell'ingerenza straniera?

Dal punto di vista di Washington e Bruxelles, il regime autoritario impopolare è aspramente criticato allo scopo di sostituirlo con un nuovo governo fantoccio. Le elezioni sono previste sotto la supervisione della cosiddetta comunità internazionale, con i candidati pre-selezionati.

Se questo processo di cambiamento di regime viene effettuato per conto degli interessi stranieri, il nuovo governo dovrà senza dubbio garantire la continuità della politica neoliberista, che è servita a impoverire la popolazione tunisina.

Il governo ad interim guidato dal presidente incaricato Fouad Mebazza è attualmente in una situazione di stallo, con una feroce opposizione proveniente dal movimento sindacale (UGTT). Mebazza ha promesso di "rompere con il passato", senza peraltro precisare se ciò significhi l'abrogazione delle riforme economiche neoliberiste.

Cenni storici

I media in coro hanno presentato la crisi in Tunisia come una questione di politica interna, senza una visione storica. La presunzione è che con la rimozione del "dittatore"e la instaurazione di un governo regolarmente eletto, la crisi sociale finirà per essere risolta.

La prima "rivolta del pane" in Tunisia risale al 1984. Il movimento di protesta del gennaio 1984 è stato motivato da un aumento del 100 per cento del prezzo del pane. Questo ricaro era stato chiesto dal FMI nel quadro del programma di aggiustamento strutturale (SAP) della Tunisia . L'eliminazione dei sussidi alimentari era di fatto una condizione del contratto di prestito con il FMI.

Il Presidente Habib Bourguiba, che aveva svolto un ruolo storico nella liberazione del suo paese dal colonialismo francese, dichiarò lo stato di emergenza in risposta ai disordini:

Mentre risuonavano gli spari, le truppe della polizia e dell'esercito in jeep e blindati occupavano la città per sedare la "rivolta del pane". La dimostrazione di forza infine produsse una calma inquieta, ma solo dopo che più di 50 manifestanti e passanti erano stati uccisi. Poi, in una drammatica trasmissione radiotelevisiva di cinque minuti, Bourguiba annunciò che avrebbe riportato indietro l'aumento dei prezzi. (Tunisia: Bourguiba Lets Them Eat Bread - TIME, gennaio 1984)
In seguito alla ritrattazione del presidente Bourguiba, l'impennata del prezzo del pane fu invertita. Bourguiba licenziò il suo ministro degli Interni e rifiutò di rispettare le richieste del Washington Consensus.
L'agenda neoliberista comunque aveva sortito i suoi effetti, portando all'inflazione galoppante e alla disoccupazione di massa. Tre anni dopo, Bourguiba e il suo governo furono rimossi in un colpo di stato incruento "per motivi di incompetenza", portando all'insediamento del presidente generale Zine el Abidine Ben Ali nel novembre 1987. Questo colpo di Stato non era diretto contro Bourguiba, era destinato a smantellare in modo permanente la struttura politica nazionalista inizialmente istituita a metà degli anni '50, per poter così privatizzare i beni dello Stato.
Il colpo di stato militare, non solo segnò la fine del nazionalismo post-coloniale che era stato guidato da Bourguiba, ma contribuì anche a indebolire il ruolo della Francia. Il governo di Ben Ali era allineato a Washington piuttosto che a Parigi.

Pochi mesi dopo l'insediamento di Ben Ali' a presidente del paese, venne firmato un accordo importante con il FMI. Fu raggiunto anche un accordo con Bruxelles sull'istituzione di un regime di libero scambio con l'UE. Un ampio programma di privatizzazioni fu messo sotto il controllo della Banca Mondiale e del FMI. Con paghe orarie dell'ordine di 0.75 euro all'ora, la Tunisia diventò inoltre una sacca di manodopera a buon mercato per l'Unione Europea.

Chi è il dittatore?

Una revisione dei documenti del FMI suggerisce che dall'instaurazione di Ben Ali' nel 1987 ad oggi, il suo governo si era attenuto fedelmente alle condizioni del FMI- Banca mondiale, compreso il licenziamento dei lavoratori del settore pubblico, l'eliminazione dei controlli sui prezzi dei beni di consumo essenziali e l'attuazione di un ampio programma di privatizzazioni. La sospensione delle barriere commerciali ordinata dalla banca mondiale portò ad un'ondata di fallimenti.

A seguito di queste dislocazioni dell'economia nazionale, le rimesse degli operai tunisini dall' Unione Europea divennero una fonte sempre più importante di valuta estera. Ci sono circa 650.000 tunisini che vivono oltremare. Le rimesse totali degli emigranti nel 2010 sono state dell'ordine di US$ 1.960 miliardi di USD, in aumento del 57 per cento rispetto al 2003. Una grande parte di queste rimesse in valuta sono usate per servire il debito estero del paese.
L'aumento speculativo nei prezzi mondiali degli alimenti.

Nel settembre 2010, è stata raggiunta un'intesa fra Tunisi ed il FMI, che raccomandava la rimozione delle ultime sovvenzioni come mezzo per realizzare l'equilibrio fiscale:
Il rigore fiscale rimane una priorità assoluta per le autorità [tunisine], che sentono l'esigenza nel 2010 di continuare con una politica fiscale rigorosa nel contesto internazionale corrente. Gli sforzi sostenuti nell'ultima decade per abbassare il livello del debito pubblico non dovrebbero essere compromessi da una politica fiscale troppo lassista. Le autorità sono impegnate a controllare saldamente le spese correnti, comprese le sovvenzioni… http://www.imf.org/external/pubs/ft/scr/2010/cr10282.pdf

Vale la pena notare che l'insistenza del FMI sull'austerità fiscale e la rimozione delle sovvenzioni hanno coinciso cronologicamente con un nuovo aumento nei prezzi degli alimenti sui mercati di Londra, di New York e di Chicago.

Questi aumenti dei prezzi sono in gran parte il risultato di operazioni speculative da parte di importanti interessi finanziari e corporativi del settore dell'agribusiness.

Sono il risultato di un'autentica manipolazione (non di penuria), e hanno impoverito la gente a livello globale. La corsa nei prezzi degli alimenti costituisce una nuova fase del processo dell'impoverimento globale.

"I media hanno fuorviato l'opinione pubblica sulle cause di questi aumenti dei prezzi, fissando l'attenzione quasi esclusivamente sugli aumenti dei costi di produzione, il clima ed altri fattori che riducono l'offerta e che potrebbero contribuire ad accrescere il prezzo degli alimenti.
Anche se questi fattori possono entrare in gioco, sono di importanza limitata nella spiegazione dell'aumento impressionante e drammatico nei prezzi dei beni. Essi sono in gran parte il risultato di manipolazioni del mercato. Sono in gran parte attribuibili alle operazioni speculative sui mercati delle merci. I prezzi del grano sono stati amplificati artificialmente da speculazioni su grande scala nei mercati a termine di Chicago e di New York. …

La speculazione sul grano, il riso o il mais, si può fare senza nessuno scambio reale di merci. Le istituzioni che speculano nel mercato del grano non sono necessariamente coinvolte nella vendita o nella reale consegna del grano.
Le transazioni possono usare i fondi indicizzati sulle materie prime che sono scommesse sul movimento rialzista o ribassista dei prezzi dei beni. Una "put option" è una scommessa sul ribasso del prezzo, una "call option" è una scommessa sul rialzo. Con manipolazioni concordate, gli investitori istituzionali e le istituzioni finanziarie possono far salire il prezzo e quindi scommettere su un movimento rialzista di una materia prima in particolare.
La speculazione genera la volatilità del mercato. A sua volta, l'instabilità che ne risulta incoraggia l' ulteriore attività speculativa.
I profitti sono realizzati quando il prezzo sale. Per contro, se lo speculatore gioca al ribasso, vendendo sull mercato, guadagnerà quando il prezzo sprofonda.
Questo recente rialzo speculativo nei prezzi degli alimenti è stato causa di una carestia su scala mondiale senza precedenti" (Michel Chossudovsky, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=8877)

Dal 2006 al 2008, c'è stato un drammatico rialzo nei prezzi di tutte le importanti materie prime alimentari, compreso riso, grano e mais. Il prezzo del riso è triplicato nell'arco di cinque anni, da circa 600 $ la tonnellata nel 2003 a più di 1800 $ la tonnellata nel maggio 2008. (Michel Chossudovsky, http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=9191 , per ulteriori particolari, si veda Michel Chossudovsky, http://globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=20425 )

Il recente rialzo nel prezzo del grano rientra in un aumento del 32 per cento dell' indice composito dei prezzi degli alimenti della FAO registrato nella seconda metà del 2010.

"I prezzi in ascesa dello zucchero, del grano e dei semi oleosi hanno portato a un record nei prezzi mondiali degli alimenti a dicembre, superando i livelli del 2008 quando il costo del cibo ha fatto scoppiare tumulti nel mondo e lanciare avvertimenti sui prezzi entrati in "zona pericolosa".
Un indice mensile delle Nazioni Unite a dicembre superava il picco mensile precedente - del giugno 2008 - per raggiungere il livello più elevato dal 1990. Pubblicato dall'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura con sede a Roma (la FAO), l'indice riporta i prezzi di un paniere di cereali, semi oleosi, latticini, carne e zucchero, aumentato per sei mesi consecutivi"; (The Guardian, 5 gennaio 2011)

Amara ironia: in un contesto di aumento dei prezzi degli alimenti, il FMI suggerisce la rimozione delle sovvenzioni allo scopo di raggiungere l'obiettivo dell' austerità fiscale.

Manipolazione dei dati su povertà e disoccupazione
Un'atmosfera di disperazione sociale prevale, le vite della gente sono distrutte. Mentre il movimento di protesta in Tunisia è visibilmente il risultato diretto di un impoverimento totale, la banca mondiale sostiene che i livelli di povertà sono stati ridotti dalle riforme di liberalizzazione del mercato adottate dal governo del Ben Ali.

Secondo il rapporto sul paese della Banca Mondiale, il governo tunisino (con il supporto delle istituzioni di Bretton Woods) è stato fondamentale nel ridurre i livelli di povertà al 7 per cento (inferiore sostanzialmente a quello registrato negli Stati Uniti e nell'UE):

La Tunisia ha realizzato notevoli progressi nell'equità dello sviluppo, nel combattere la povertà e nel raggiungimento di buoni indicatori sociali. Ha riportato un tasso di crescita medio del 5 per cento in questi ultimi 20 anni, con un aumento constante nel reddito pro capite e un aumento corrispondente nel benessere della popolazione che registra un livello di povertà del 7%, fra i più bassi nella regione.
L'aumento constante nel reddito pro capite è stato il motore principale per la riduzione della povertà. … Le strade nelle aree rurali sono state particolarmente importanti nell'aiutare i poveri di queste aree a collegarsi ai mercati ed ai servizi urbani. I programmi sulle abitazioni hanno migliorato il livello di vita dei poveri ed inoltre hanno reso disponibile il reddito risparmiato per la spesa in alimenti e articoli non-alimentari, con impatti positivi di attenuazione della povertà. I sussidi alimentari, destinati ai poveri, anche se non in maniera ottimale, hanno tuttavia aiutato i poveri urbani. (Banca mondiale - Tunisia - Country Brief)

Queste stime sulla povertà, senza accennare ad alcuna "analisi" economica e sociale, sono autentiche montature. Presentano il libero mercato come il motore di un'attenuazione della povertà. L'impalcatura analitica della Banca Mondiale è usata per giustificare un processo di "repressione" economica che è stato applicato universalmente in più di 150 pæsi in via di sviluppo.

Con il 7 per cento della popolazione che vive nella povertà (come suggerito dalla "stima" della banca mondiale) e il 93 per cento della popolazione coi bisogni fondamentali soddisfatti in termini di alimenti, abitazione, salute e formazione, non ci sarebbe stata crisi sociale in Tunisia.

La Banca Mondiale è attivamente impegnata nella manipolazione dei dati e nella distorsione della difficile situazione sociale della popolazione tunisina.

Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 14 per cento, ma il livello reale di disoccupazione è molto più alto. La disoccupazione giovanile registrata è dell'ordine del 30 per cento. I Servizi Sociali, compreso la sanità e la formazione sono sprofondate nell'urto delle misure di austerità economica della Banca Mondiale e del FMI .

Più in generale, "la dura realtà economica e sociale che sta alla base dell'intervento del FMI consiste nei prezzi degli alimenti in ascesa, carestie a livello locale, licenziamenti massicci degli operai urbani e degli impiegati pubblici, e distruzione dei programmi sociali. Il potere di acquisto interno è sprofondato, ospedali e scuole sono stati chiusi, a centinaia di milioni di bambini è stato negato il diritto all'istruzione primaria."; (Michel Chossudovsky, Global Famine, op cit.)



Washington affronta l'ira del popolo tunisino
di Thierry Meyssan* - www.voltairenet.org - 23 Gennaio 2011
Traduzione a cura di Alessandro Lattanzio

Mentre i media occidentali celebrano la “Jasmine Revolution”, Thierry Meyssan svela il piano statunitense per cercare di fermare l’ira del popolo tunisino e mantenere questa discreta retroguardia della CIA e della NATO. Secondo lui il fenomeno insurrezionale non è finito e la vera rivoluzione, tanto temuta dagli occidentali, potrebbe presto cominciare.

L’esercito tunisino è stato ridotto al minimo, ma il paese serve da retroguardia per le operazioni “anti-terrorismo” e dispone dei porti regionali necessari per il controllo del Mediterraneo da parte della NATO. Le grandi potenze non amano i rivolgimenti politici fuori dal loro controllo e che contrastano i loro piani. Gli eventi che hanno scosso la Tunisia il mese scorso, non fanno eccezione a questa regola, anzi.

È quindi tanto più sorprendente che i principali media internazionali, scagnozzi indefettibili del sistema di dominio mondiale, siano improvvisamente entusiasti per la “rivoluzione dei gelsomini” e che moltiplichi le inchieste e gli articoli sulle fortune di Ben Ali, che ignoravano nonostante il loro lusso ostentato.

È che gli occidentali corrono dietro a qualcosa che gli è sfuggito dalle mani e che vorrebbero recuperare descrivendolo secondo i loro desideri. Innanzitutto, si deve rilevare che il regime di Ben Ali è stato sostenuto da Stati Uniti e Israele, Francia e Italia. Considerata da Washington come uno stato di secondaria importanza, la Tunisia è stato utilizzata sul piano della sicurezza, più che economico.

Nel 1987, un colpo di stato morbido fu organizzato, rimuovendo il presidente Habib Bourguiba a favore del suo ministro degli interni, Zine el-Abidine Ben Ali. Questi è un agente della CIA addestrato alla Senior Intelligence School di Fort Holabird. Secondo alcune voci recenti, l’Italia e l’Algeria erano associate alla conquista del potere [1].

All’arrivo al Palazzo della Repubblica, ha istituito una Commissione Militare congiunta con il Pentagono. Si riuniva ogni anno, a maggio. Ben Ali, che era diffidente nei confronti dei militari, la mantenne in un ruolo marginale e subalterno, con l’eccezione del Gruppo delle Forze Speciali che si addestrava con i militari statunitensi e si occupava di “anti-terrorismo” regionale. I porti di Biserta, Sfax, Susa e Tunisi sono aperti alle navi della NATO e nel 2004, la Tunisia fece parte del “Dialogo Mediterraneo” dell’Alleanza.

Washington non si aspettava nulla di speciale da questo paese economicamente, lasciando quindi che Ben Ali tosasse la Tunisia. Qualsiasi azienda che si sviluppa riceveva la richiesta di cedere il 50% del suo capitale e dei dividendi che ne ne derivavano. Tuttavia, le cose si guastarono nel 2009, quando la famiglia al potere, passò dal mangiare all’avidità, intendendo sottomettere anche le imprese statunitensi al suo racket.

Da parte sua, il Dipartimento di Stato anticipò l’inevitabile fine del presidente. Il dittatore ha accuratamente eliminato i suoi rivali e non ha successori. Bisognava immaginare una successione solo se morisse. Una sessantina di persone che potessero svolgere un ruolo politico ulteriore furono assunte. Ciascuno ricevette un addestramento di tre mesi a Fort Bragg e, quindi, uno stipendio mensile [2]. Il tempo passa …

Anche se il presidente Ben Ali continua la retorica anti-sionista, in vigore nel mondo musulmano, la Tunisia offre varie strutture all’insediamento ebraico di Palestina. Gli israeliani di origine tunisina sono autorizzati a viaggiare e a commerciare nel paese. Ariel Sharon stesso viene invitato a Tunisi.

La rivolta

L’auto-immolazione di un venditore ambulante, Mohamed Bouazzi, il 17 dicembre 2010, dopo che la sua bancarella e i suoi prodotti sono sequestrati dalla polizia, ha dato il segnale delle prime rivolte. Gli abitanti di Sidi Bouzid si riconoscono in questo dramma personale e si sollevano.

Gli scontri si diffondono in diverse regioni, quindi nella capitale. Il sindacato UGTT e un gruppo di avvocati manifestano, suggellando senza rendersene conto, l’alleanza tra borghesia e classi popolari in una organizzazione strutturata.

Il 28 dicembre, il Presidente Ben Ali cerca di prendere le cose in mano. Si reca al capezzale del giovane Mohamed Bouazizi e la sera s’indirizza alla nazione. Ma il suo discorso televisivo esprime la sua cecità.

Ha denunciato i manifestanti come estremisti e mercenari agitatori, e annuncia una feroce repressione. Lungi dal calmare gli eventi, il suo intervento trasforma la rivolta popolare in insurrezione. Il popolo tunisino semplicemente non contesta più l’ingiustizia sociale, ma il potere politico.

A Washington, vedono che “il nostro agente Ben Ali” non controlla più nulla. I consiglieri della Sicurezza Nazionale Jeffrey Feltman [3] e Colin Kahl [4], concordano sul fatto che sia giunto il momento di mollare questo dittatore usurato e di organizzare la sua successione prima che la rivolta si trasformarsi in una vera e propria rivoluzione, vale a dire in una sfida al sistema.
Si è deciso di mobilitare i media in Tunisia e all’estero, per contenere l’insurrezione.

Si concentra l’attenzione dei tunisini sulle questioni sociali, la corruzione di Ben Ali e la censura della stampa. Tutto, purché non si discuta delle ragioni che hanno portato Washington a installare il dittatore, 23 anni prima, e a proteggerlo mentre monopolizzava l’economia nazionale.

Il 30 dicembre, il canale televisivo privato Nessma sfidava il regime diffondendo le notizie sulla rivolta e organizzava un dibattito sulla necessaria transizione verso la democrazia. Nessma TV appartiene al gruppo italo-tunisino di Tarak Ben Ammar e Silvio Berlusconi.

Il messaggio è perfettamente comprensibile per gli indecisi: il sistema è incrinato. Contemporaneamente, gli esperti degli Stati Uniti (così come serbi e tedeschi) sono inviati in Tunisia per incanalare l’insurrezione.

Sono loro che, cavalcando le emozioni collettive, cercano di imporre slogan nelle manifestazioni. Secondo la tecnica delle cosiddette “rivoluzioni” colorate, sviluppata dall’Albert Einstein Institution di Gene Sharp [5], concentrano l’attenzione sul dittatore, per evitare qualsiasi discussione sul futuro politico del paese. Questo è lo slogan “Ben Ali sloggia!” [6].

Nascosto sotto lo pseudonimo di Anonimo, la cyber-squadra della CIA, già utilizzata nei confronti dello Zimbabwe e l’Iran, hackerizza i siti ufficiali tunisini e installa un minaccioso messaggio in inglese. L’insurrezione I tunisini continuano spontaneamente a sfidare il regime, a scendere in massa nelle strade, bruciando stazioni di polizia e negozi appartenenti a Ben Ali.

Con coraggio, alcuni di loro pagano col sangue. Patetico, il dittatore esautorato s’agita senza capire. Il 13 gennaio ha ordinato all’esercito di sparare sulla folla, ma il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito si rifiuta.

Il generale Rashid Ammar, che è stato contattato dal comandante di Africom, generale William Ward, annuncia al presidente che Washington gli ha ordinato di andarsene. In Francia, il governo di Sarkozy non è stato informato della decisione degli Stati Uniti e non ha analizzato i vari cambi di casacca.

Il ministro degli Esteri, Michele Alliot-Marie, si propone di salvare il dittatore inviandogli consiglieri e attrezzature per l’applicazione della legge, per mantenerlo al potere attraverso processi più puliti [7].

Un aereo cargo è stato noleggiata Venerdì 14. Quando le procedure di sdoganamento sono finite a Parigi, è troppo tardi: Ben Ali non ha bisogno di aiuto, è già fuggito.

I suoi ex amici di Washington e Tel Aviv, Parigi e Roma, gli rifiutano l’asilo. Finisce a Riad, non prima di prendere con sé 1,5 tonnellate di oro rubato dal Ministero del Tesoro.

Dei gelsomini per calmare i tunisini

I consulenti della comunicazione strategica degli Stati Uniti, quindi, tentano di fischiare la fine della partita, mentre il primo ministro uscente forma un governo di continuità. E’ qui che le agenzie stampa lanciano la “Jasmine Revolution” (in inglese per favore).

I tunisini, garantiscono, hanno conseguimento la loro “rivoluzione colorata”. Un governo di unità nazionale è formato. Tutto è bene quel che finisce bene.

Il termine “Jasmine Revolution” lascia un gusto amaro ai tunisini più anziani: è quello che la CIA aveva usato per comunicare durante il golpe del 1987 che pose Ben Ali al potere.

La stampa occidentale, ora più controllata dall’Impero che non la stampa tunisina- ha scoperto la ricchezza illecita di Ben Ali che ignorava finora. Si dimentica la soddisfazione accordata dal direttore del FMI, Strauss-Kahn Domique, ai dirigenti del paese, pochi mesi prima dei disordini [8].

E si dimentica l’ultimo rapporto di Transparency International, che aveva dichiarato che la Tunisia era meno corrotta rispetto a degli stati dell’Unione Europea come l’Italia, Romania e Grecia [9].

I miliziani del regime, che avevano diffuso il terrore tra i civili durante i disordini, costringendoli a organizzarsi in comitati di autodifesa, scompaiono nella notte.

I tunisini ritenuti spoliticizzati e manipolati, dopo anni di dittatura, si mostrano assai maturi. Scoprono che il governo di Mohammed Ghannouchi è “Benalismo senza Ben Ali”. Nonostante alcune operazioni di facciata, i capi del partito (RCD) conservano i ministeri sovrani. I sindacalisti della UGTT rifiutano di aderire alle manifestazioni degli Stati Uniti e si dimettono dalle cariche che gli sono state assegnate.

Per grazia del produttore Tarak Ben Ammar (padrone di Nessma TV), la regista Moufida Tlati diventa ministro della Cultura. Meno spettacolare, e più significativo, Ahmed Najib Chebbi, una pedina del National Endowment for Democracy, diventa ministro per lo Sviluppo regionale.

O ancora, l’oscuro Amanou Slim, un blogger rotto ai metodi dell’Albert Einstein Institute, diventa ministro della Gioventù e dello Sport, a nome del fantomatico Partito Pirata collegato all’auto-proclamato gruppo Anonymous.

Naturalmente, l’Ambasciata degli Stati Uniti non ha chiesto al Partito comunista di far parte di questo cosiddetto “governo di unità nazionale“.

Al contrario, hanno riportato indietro da Londra, dove aveva ottenuto asilo politico, il leader storico del Partito Rinascita (Ennahda), Rached Ghannouchi. Islamista ex-salafita, ha predicato la compatibilità tra Islam e democrazia e preparato un lungo riavvicinamento con il Partito democratico progressista del suo amico Ahmed Najib Chebbi, un socialdemocratico ex-marxista. In caso di fallimento del “governo di unità nazionale“, questo tandem filo-Usa può fornire l’illusione di un’alternativa.

Ancora una volta, i tunisini si sollevano, diffondendo il loro slogan che gli è stato soffiato, “RCD sloggia!”. Nei comuni e nelle imprese, i lavoratori stessi cacciano i collaboratori del regime decaduto.

Verso la rivoluzione?

Contrariamente a quanto è stato detto dalla stampa occidentale, l’insurrezione non è ancora finita e la Rivoluzione non è ancora iniziata. E’ chiaro che Washington non l’ha incanalata del tutto, tranne che per i giornalisti occidentali. Ancora di più oggi che a fine dicembre, la situazione è fuori controllo.


*Thierry Meyssan, Analista politico francese, fondatore e presidente del Réseau Voltaire e della conferenza Axis for Peace. Pubblica rubriche settimanali di politica estera sulla stampa araba e russa. Ultimo libro pubblicato: L’Effroyable imposture 2, ed. JP Bertand (2007).



La Tunisia fra l’incudine degli interessi italo-francesi e il martello della corruzione
di Enrico Oliari - Italia Sociale - 25 Gennaio 2011

Intervista in esclusiva a Saber Yakoubi del partito islamico moderato “Al Nahda”

Indipendente dalla Francia dal 20 marzo 1956, la Repubblica tunisina conta oggi quasi dieci milioni e mezzo di abitanti, un PIL di 82.226 milioni di $ (72esimo nella scala mondiale) e un PIL pro capite di 8.002 $ (2008, 90esimo nella scala mondiale).


La crisi politica di questi giorni, che ha portato alla fuga del presidente – dittatore Zine El Abidine Ben Alì e della sua famiglia, è scoppiata in tutta la sua forza dopo che a Sidi Bouzid, nel centro del paese, il giovane Mohamed Bouazizi si era dato fuoco per protesta contro il governo: da quel giorno di dicembre in Tunisia vi è stato un crescendo di proteste e di scioperi che in diversi casi si sono evoluti in atti di vera e propria violenza.


Curiosamente, nonostante la Tunisia disti ad una manciata di chilometri dalle coste italiane e nel paese africano vi trovino residenza circa 3000 nostri concittadini, le notizie sul bunga bunga di Arcore hanno assorbito l’opinione pubblica italiana al punto che alla polveriera tunisina è stato destinato nei notiziari uno spazio quasi marginale.


Le radici della protesta affondano nell’alto tasso di disoccupazione, nella corruzione dilagante e nel classicissimo costo del pane, ma non è solo di questi giorni il malcontento popolare nei confronti di una dittatura nella quale l’Italia ha investito non pochi interessi.


Nonostante i gravi fatti accaduti in questi giorni, il 10 ottobre scorso il Governatore della Banca Centrale di Tunisi, Taoufik Baccar, aveva affermato sostanzialmente che la crisi finanziaria internazionale era cosa estranea alla Tunisia e, come esempio, aveva portato la crescita del 13.7% dei depositi bancari nell’agosto 2007- agosto 2008, cioè la prova di una consolidata fiducia dei tunisini nelle banche del proprio paese.


Gli aveva fatto eco qualche giorno dopo il ministro delle Finanze, Mohamed Ridha Chalghoum, il quale, concludendo a Tunisi i lavori della prima conferenza sulla finanza internazionale ed i ruoli delle banche, aveva parlato di una Tunisia che ben aveva contrastato gli "effetti perversi" della crisi finanziaria mondiale grazie a scelte strategico-economiche pertinenti e ad una politica equilibrata. Sempre Ridha Chalghoum aveva poi spiegato il programma presidenziale 2009 – 2014, che voleva il paese mediterraneo al livello dei Paesi sviluppati.


Le cose stavano tuttavia diversamente, se si è arrivati ad eccessi come gli scontri dell’11 gennaio, quando, verso le 23.00, nel quartiere popolare di Hayy Ettadhamen è stata data alle fiamme la stazione di polizia e la folla inferocita ha assediato il Centro della Guardia Civile: rimane ancora imprecisato il numero delle vittime che è seguito alla reazione della polizia.


Se le forze di sicurezza hanno fatto quadrato intorno al presidente, il Capo di Stato Maggiore dell'esercito tunisino, Rashid Ammar, si è rifiutato di usare la forza contro i manifestanti e testimoni oculari raccontano che nella città di Regueb l'esercito ha puntato le armi contro i poliziotti intimandoli a fermarsi, permettendo così ai manifestanti di salvarsi.


Il 13 gennaio l’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Navi Pillay, ha chiesto che le forze di sicurezza cessassero le azioni di repressione dei manifestanti ed ha dichiarato che “i resoconti indicano che la maggior parte delle proteste sia stata di natura pacifica, e che le forze di sicurezza abbiano reagito con eccessiva forza in violazione degli standard internazionali”.


Nel frattempo il presidente Ben Alì preparava la sua fuga verso Gedda, in Arabia Saudita, dal momento che Parigi gli aveva rifiutato asilo; già il giorno successivo il premier Mohammed Ghannouchi ha annunciato di aver assunto ad interim la guida della Tunisia, nominando un governo di transizione.


"Invito i tunisini, tenendo presente ogni sensibilità politica e regionale, a dare prova di patriottismo e di unità", aveva dichiarato alla televisione, mentre per le strade della capitale si udivano ancora spari; il premier ha comunque garantito elezioni politiche entro sei mesi, la libertà di informazione e il sistema multipartitico.


Ghannouchi, nel tentativo di ottenere la riappacificazione nazionale, ha incluso nel governo di transizione anche membri dell’opposizione, fra i quali Najib Chebbi, Ahmed Ibrahimi e Mustafa Ben Jafaar, rispettivamente del Partito Democratico Progressista, del Movimento Ettajdid e dell’Unione per la Libertà e il Lavoro.


Con la calma rassicurante a cui ci ha abituati, il 18 gennaio scorso Franco Frattini, ministro degli Esteri italiano, comunicava dalle pagine di Libero che la situazione in Tunisia andava normalizzandosi, ma già il giorno successivo cinque esponenti di opposizione del nuovo governo si sono dimessi per protesta contro la decisione di lasciare al partito dell’ex presidente Ben Alì, il “Raggruppamento Costituzionale Democratico” (RCD), i ministeri chiave.


La folla, scesa in piazza nuovamente, ha chiesto la messa al bando del partito RCD e, mentre Moody’s ha declassato a Baa3 le valutazioni della Banca Centrale tunisina, sulle coste della Sicilia sono ripresi gli sbarchi di persone in fuga da una situazione sempre più incerta.


L’agenzia Tap ha informato che è stata aperta un’inchiesta nei confronti di Ben Alì e della sua famiglia per appropriazione di beni pubblici (in un primo momento la moglie dell’ex-presidente era stata accusata di aver lasciato il paese con una tonnellata e mezza d’oro) e nella confederazione elvetica sono stati bloccati i conti dell’ex presidente.


Per capire meglio la delicata situazione tunisina, abbiamo intervistato il dottor Saber Yakoubi, membro del partito islamico moderato “Al Nahda”, quarantenne, appena rientrato in Italia dai disordini di Tunisi: Il generale Ben Alì è stato presidente della Tunisia, eletto e rieletto per ben 5 volte con risultati che rasentavano il cento per cento dei consensi – racconta in esclusiva per Italia Sociale e per Rinascita.

Aveva deposto con un colpo di stato il primo presidente, Habib Bourguiba, nel 1987: un vero e proprio golpe definito “bianco” per via del fatto che ben sette medici lo avevano dichiarato affetto da demenza senile. Fu un’operazione nella quale si intrecciava la politica con il malaffare, promossa e sponsorizzata dai servizi segreti italiani.


In che senso?

Come dichiarò alla Commissione Stragi nel 1999 il generale Fulvio Martini, che aveva guidato il Sismi sotto i governi Craxi, Fanfani, Goria, e Andreotti, furono proprio i servizi segreti italiani a organizzare il colpo di stato nel mio paese per deporre Bourguiba e mettere al suo posto Ben Alì. Non a caso lo stesso Craxi possedeva la famosa villa di Hammame.


Che interessi poteva avere l’Italia verso la Tunisia?

Bourguiba, che era avvocato, era stato a capo della lotta per l'indipendenza, intendeva modernizzare la società tunisina attraverso la diffusione di un codice etico che ridimensionava il potere dei capi religiosi pur restando l'Islam la religione di Stato. Fu abolita la poligamia, introdotto il divorzio al posto del ripudio e persino legalizzato l’aborto. L’ascesa di Bourguiba nel ’56 era stata sponsorizzata dalla Francia, che lo aveva preferito ad Hached Farhat, sindacalista di sinistra, ucciso poi dalla “Mano Rossa”, un organo dei servizi segreti favorevole alla presenza francese in Tunisia. Bourguiba era comunque filo francese, o meglio, solo filo francese, mentre gli italiani volevano un presidente che fosse anche filo – italiano.

Anche se all’inizio l’ascesa di Ben Alì venne salutata molto positivamente dalla popolazione, da subito si intuì che dietro a lui stavano interessi italiani, basti pensare che ancora oggi, nonostante i 140 km di mare che separano Capo Bon dalle coste siciliane (73 km da Pantelleria), gli sbarchi degli immigrati partono dalla Libia, che ha una distanza costiera assai superiore.


Che significato hanno i disordini di questi giorni e la cacciata di Ben Alì?

Non si tratta di disordini, bensì di una vera e propria rivoluzione. In questi giorni in Tunisia si è cominciato a respirare aria di democrazia, sono tornati i dibattiti pubblici, cosa alla quale non si era più abituati. C’è stata un’amnistia che ha riguardato i prigionieri politici, molti esuli sono potuti rientrare. Con Ben Alì, in teoria, coesistevano 7 partiti, ma in realtà si trattava solo di una messinscena per compiacere alle potenze occidentali. Il partito al potere, RCD, ha dettato legge e promosso uno stato di grave corruzione nel paese. Gli oppositori al regime di Ben Alì sono stati arrestati e persino torturati, altri sono stati allontanati dal paese, fra i quali il leader del mio partito, Rachid Al Ghannouchi (solo omonimo del premier, ndr.), che si trova dal 1991 in esilio, diciamo ‘volontario’, a Londra.


Ma Al Ghannouchi non è un fondamentalista islamico?

Assolutamente no! Al Ghannouchi aveva preso parte alle elezioni politiche del 1989 con la sua formazione chiamata ‘La Rinascita’ (Hizb al-Nahda) ed aveva raccolto un consenso ben superiore a quel 14,5 % dichiarato ufficialmente. Nel 1991 Hizb al-Nahda fu messo fuori legge da Ben Alì, che costrinse alla fuga Al Ghannouchi.

Le tesi di Al Ghannouchi parlano di fratellanza musulmana, ma respingono la violenza e chiedono l’abbandono della lotta armata.


Quindi Al-Nahda non è, come alcuni accusano, vicino ad Al Qaeda?

Il nostro è un partito islamico moderato, che non esclude dalla scena politica gli altri partiti e che crede nella democrazia. Nonostante, tuttavia, le promesse dell’attuale premier, non vi è stata ancora amnistia per Al Ghannouchi. Probabilmente alla base di tale indecisione vi sono pressioni che arrivano dall’estero, oserei dire dalla Francia.


Torniamo ai fatti di questi giorni: cosa c’è alla base della rivolta popolare contro Ben Alì?

Per quanto Chirac abbia definito la Tunisia “un miracolo economico”, la ricchezza del paese si trova nelle mani di pochissimi. La gente qualunque ha di che sopravvivere e in un sistema dove ogni anno si laureano 60.000 giovani su una popolazione di dieci milioni di abitanti, questo la dice lunga.

Il governo non è riuscito a garantire l’occupazione ai molti laureati e sono loro oggi a protestare. Ciò non accade, ad esempio, in Egitto o in Algeria, dove la disoccupazione giovanile è direttamente proporzionale alla bassa scolarizzazione.

Sono i laureati senza lavoro ad aver iniziato le proteste: lo stesso Mohamed Bouazizi, che si è dato fuoco per protesta dopo che la polizia gli aveva portato via la carriola con cui faceva l’ambulante, era dottore in informatica.


Perché polizia ed esercito hanno avuto due approcci diversi nei confronti dei manifestanti?

In Tunisia le forze di scurezza contano 200.000 agenti, mentre l’esercito ha soltanto 40.000 effettivi. Si tratta, o meglio, si trattava, di un vero e proprio regime di polizia, voluto dal presidente per proteggere innanzitutto sé stesso, i propri interessi e la propria famiglia. Molto efficiente, in grado di blindare intere città.


Che significato assume la rivolta popolare tunisina nello scacchiere del mondo arabo?

Innanzitutto bisogna dire che se le vittime tra la popolazione sono state diverse, siamo oltre il centinaio, fra le forze di sicurezza non ci sono stati morti. Questo perché si è trattato di una forma di protesta, salvo qualche raro eccesso, fatta a mani nude.

Il fattore saliente, tuttavia, è la profonda inquietudine che si sta estendendo a macchia d’olio fra i vari capi dei paesi arabi: sempre per protesta, in questi giorni 5 persone si sono date fuoco in Algeria, 3 in Egitto, 3 nello Yemen, una in Mauritania.

Si tratta di forme di lotta popolare verso governi che si appoggiano sulla corruzione, dove gli interessi economici di pochi prevalgono su quelli di molti. Al Jazeera e i vari media mandano di continuo informazioni su disordini che scoppiano un po’ ovunque, poiché la maggior parte della popolazione ha difficoltà ad arrivare alla fine del mese.

Proprio oggi a Sharm el Sheik si sono incontrati i vari capi di stato del mondo arabo, ma, invece che discutere di economia com’era nel programma, hanno incentrato la riunione sui disordini in Tunisia e la possibile escalation che si può manifestare nelle aree del Nord Africa e del Medio Oriente. Non a caso hanno deciso di stanziare 2 miliardi di euro per i giovani del Kuwait: temono insurrezioni anche in quel paese.


Un’ultima battuta sull’Iraq: come ha visto la ‘missione di pace’ che ha portato alla cattura di Saddam Hussein?

L’Iraq è la macchia nera del mondo occidentale: l’idea di esportare ‘democrazia e libertà’ nella culla della civiltà ha causato milioni di morti. Si è trattato di un’operazione che ha portato solo distruzione e desolazione.


Petrolio?

Petrolio.



Il "fusibile" Ben Ali e i furbacchioni occidentali
di Alberto B. Mariantoni - www.mirorenzaglia.org - 24 Gennaio 2011

Purtroppo per noi, i manipolatori dell’informazione conoscono bene il loro mestiere.

Essi sanno perfettamente, infatti, che con “l’arte del dire”… al “popolo bue” – via i consueti imbonitori embedded della maggior parte dei canali televisi o dei media cartacei – si può facilmente raccontare qualunque cosa e riuscire tranquillamente a fargli credere qualsiasi “favola”.

Anche quella, ad esempio, della già avvenuta “rivoluzione dei gelsomini”, in Tunisia, e la prossima instaurazione, in quel Paese, di un vero e proprio regime liberale, democratico, parlamentare e sicuramente rispettoso (questa volta…) della famosa Carta universale dei Diritti dell’Uomo.

E, come al solito, il “popolo bue” abbocca all’amo o continua a farsi prendere nella nassa della disinformazione! Come sappiamo, la tecnica di dominio neo-coloniale è sempre la stessa… La “marmitta” popolare di qualche Paese che interessa l’Occidente affarista e mercante, tende a “bollire” un po’ troppo? “Il fine giustifica i mezzi” (Machiavelli)… E’ sufficiente alzare leggermente il coperchio… Fare copiosamente evaporare il tutto… Ed il gioco è fatto!

Non dimentichiamo, infatti, che – nella vicinissima (71 chilometri da Pantelleria e 110 dalla Sicilia) Repubblica tunisina (al-Jumhūriyya al-Tūnusiyya) e sotto la guida dell’allora Presidente a vita Habib Bourguiba, il “Combattente Supremo” (Al Moujahid Al Akbar) – simili o paragonabili “giochini” sono già avvenuti, a diverse riprese.

In particolare: nel Gennaio 1969, con decine di morti; nel Gennaio del 1978, con centinaia di morti, e nel Dicembre 1983 / Gennaio 1984, con altre centinaia di morti ugualmente.

Nel primo caso, come era facile immaginarlo, venne fatto saltare il “fusibile” Ahmed Ben Salah (l’allora Primo ministro)… che fu immediatamente sostituito da Bahi Ladgham e, subito dopo, da Hédi Nouira; nel secondo caso, il “fusibile” Hédi Nouira venne quasi subito rimpiazzato dal nuovo Primo ministro Mohamed Mzali; nel terzo caso, il “fusibile” Mohamed Mzali venne dapprima alternato dal Pemier Rachid Sfar e, qualche mese dopo, dal nostro lupus in fabula, Zine el Abidine Ben Ali.

Un personaggio quest’ultimo che, da Primo ministro in carica, il 7 Novembre del 1987 – adducendo ufficialmente a pretesto un’avanzata e degenerante senilità dell’allora Presidente Habib Bourguiba, ed aiutato sottobanco dai Servizi segreti italiani, francesi e statunitensi – realizzò un vero e proprio Colpo di palazzo nei confronti del suo predecessore e si impadronì direttamente del potere.

Insomma, per riassumere, ogni volta, in Tunisia, quando il popolo incomincia a ribellarsi, in quanto non riesce più a sopportare le angherie poliziesche o a sbarcare semplicemente il proprio lunario, il Sistema medesimo (quello, cioè, inizialmente strutturato, sperimentato e consolidato dal primo Presidente tunisino, Bourguiba) si inventa un capro espiatorio, lo espone al pubblico ludibrio e – pur di tentare, con qualsiasi espediente, di sopravvivere a se stesso – lo getta pubblicamente ed impietosamente in pasto alla folla e, mettendo in prima fila altri “cavalli” del medesimo “allevamento”, continua a governare il Paese, come prima o peggio di prima, anche se – come di consueto – esclusivamente in nome e per conto di alcune e ben individuate potenze straniere!

E’ ciò che è avvenuto, con lo stesso Presidente Zine el Abidine Ben Ali (o Zayn al-‘Ābidīn bin ‘Alī), il 14 Gennaio scorso, quando – dopo all’incirca un mese di minacciose proteste popolari e di sanguinose ed indiscriminate repressioni (si parla di più di 60 morti e di centinaia di feriti) che avevano preso maggior vigore dopo il 18 Dicembre 2010, a partire dalla pubblica immolazione, con il fuoco, di un giovane abitante della cittadina di Sidi Bouzid – l’attuale Capo di stato maggiore dell’Esercito tunisino, il generale Rachid Ammar (a sua volta, “caldamente incoraggiato” nel suo gesto “umanitario” da alcuni inviati speciali di Washington) avrebbe fraternamente “consigliato” al Presidente tunisino ed alla sua famiglia di andarsi momentaneamente a fare un giretto da qualche altra parte…

Preferibilmente, in Arabia Saudita, dove da prima della Seconda guerra mondiale esiste un particolare regime autocratico e nepotista che è praticamente legato mano e piedi agli USA.

In altre parole, è stata la classica e ripetitiva “parata” dei soliti Stati Uniti che, per non essere pubblicamente costretti a spiattellare ai quattro venti le loro turpi ed inconfessabili responsabilità politiche e morali in tutta questa faccenda, hanno preferito – come nel caso di Fulgencio Batista (Cuba) Luis Somoza Debayle (Nicaragua), Mohammed Reza Pahlavi (Iran), Ferdinand Marcos (Filippine), Mobutu Sese Seko (Zaire), Alfredo Stroessner (Paraguay), Alberto Fujimori (Perù), etc. – abbandonare alla sua sorte uno dei loro più fedeli e collaudati maggiordomi.

Ed ordinare, per giunta, a due dei principali “cavalli di razza” della suddetta “scuderia”, Mohamed Ghannouchi e Fouad Mbazaa (o Fouad Mebazaâ o Fūad al-Mebaza) di offrire sommariamente in pasto all’opinione pubblica tunisina e mondiale, il solito e proverbiale “coniglio di pezza” da rincorrere ed azzannare: l’ex Presidente Ben Ali, il “cattivo di turno”!

Come è facile immaginarlo, i due principali uomini “nuovi” dell’attuale “nuovo” Governo tunisino, apertamente appoggiati da Washington e dalla maggior parte delle Capitali europee, “nessuno”, nella loro Patria, li conosce…

Il primo, infatti, Mohamed Ghannouchi, dal 27 Ottobre 1987 al Novembre 1999, è stato successivamente – sempre sotto la presidenza Ben Ali – Ministro del Piano, Ministro delle Finanze, Ministro dell’Economia, Ministro della Cooperazione internazionale; e, dulcis in fundo, perfino Primo ministro, dal 17 Novembre 1999 ad oggi.

Dal canto suo, il secondo uomo “nuovo” del panorama politico tunisino, Fouad Mbazaa o Fouad Mebazaâ o Fūad al-Mebaza, è stato ininterrottamente, già dall’epoca del Presidente Bourguiba: Sindaco-Governatore di Tunisi dal 1969 al 1973; Ministro della Gioventù e dello Sport dal 30 Novembre 1973 al 1978; Ministro della Sanità dal 13 Settembre 1978 al 1979; Ministro Degli Affari culturali e dell’Informazione dal 7 Novembre 1979 al 1981; Ambasciatore presso le Nazioni Unite di Ginevra dal 1981 al 1986; Ambasciatore in Marocco dal 1986 al 1987; di nuovo, il 27 Ottobre 1987, Ministro della Gioventù e confermato nel medesimo dicastero, il 7 Novembre 1987, dall’appena insediato Presidente Ben Ali, fino alla sua nomina, il 14 Ottobre 1997, a Presidente della Camera dei deputati, nonché, dal 15 Gennaio 2011 ad oggi, Presidente della Repubblica ad interim, in applicazione dell’articolo 57 della Costituzione tunisina; il tutto, ovviamente, senza contare che dal 1969 al 1987 ha fatto parte del Partito Socialista Desturiano (PSD), il partito unico di Bourguiba, e dal 1987 al 18 Gennaio 2011, è stato addirittura membro dell’ufficio politico del Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD), il partito unico di Ben Ali.

Capisco la Casa Bianca e la maggior parte delle Capitali europee… che, oggi – come se il caso tunisino fosse improvvisamente balzato fuori dal cappello di un mago – si affrettino a congelare ovunque gli averi della famiglia Ben Ali e di sua moglie Leïla Trabulsi (quando, invece, li pirateggiavano liberamente nel loro Paese e li versavano copiosamente nei numerosi conti delle diverse banche occidentali, andava benissimo!), avendo aggiuntivamente la faccia tosta di dirsi francamente sorpresi e profondamente scandalizzati dai metodi di governo di un uomo di Stato che – grazie ai loro indicibili ed inconfessati interessi – è stato incessantemente ed impunitamente al potere per ben 23 anni.

Ma figuriamoci – potrebbero ribattermi i miei pseudo “colleghi” della stampa embedded… – se i Governi occidentali potevano saperlo o sospettarlo! Tanto più che nella sua biografia ufficiale, l’ex Presidente tunisino, ora in esilio, tendeva pomposamente a sottolineare: «Liberale per convinzione, oltre che per temperamento, il Presidente Ben Ali fa della Tunisia un paese pioniere in materia di difesa dei diritti dell’Uomo.
Una concezione globale che coniuga i diritti economici, sociali e culturali con i diritti civili e politici» [leggere QUI - http://www.khaoula.com/benali.htm].

E poi, perbacco, non dimentichiamolo: il Presidente Ben Ali, con in concorso dell’UNICEF, aveva solertemente reso obbligatori, in tutte le scuole e le università del suo Paese, i corsi sulla Shoa!

Io, invece, già dal 5 Maggio del 1990, sul Journal de Genève [si veda l'articolo intitolato: Le régime tunisien côté cour, pp. 1 e 2] che cosa osavo scrivere a proposito del suo regime?

«(…) centinaia di prigionieri politici marciscono nelle galere di Sawaff, El-Houareb, Borj Errouni o Tunisi. I partiti politici, a dispetto della loro legalità acquisita, sono sistematicamente impediti a svolgere la loro attività. Ed i loro principali leader, sono costantemente tenuti nel collimatore della polizia…».

E, nel 1991, nell’introduzione di uno dei miei libri (Gli occhi bendati sul Golfo, Jaca Book, Milano, 1991, pp. 12 e 13), così mi permettevo di ribadire: «Nonostante l’eliminazione politica del “Combattente supremo” (l’anziano Habib Bourguiba) nel 1987, la Tunisia ed il regime del Presidente Ben Ali continuano a degenerare. Eppure una promessa di liberalismo politico, mai mantenuta, aveva fatto posto alle «tempeste di sabbia» originate da Bouguiba negli ultimi anni del suo «regno».

Poi, quasi immediatamente, Ben Ali si è ricordato che era stato allievo della scuola militare francese di Saint Cyr, che era stato responsabile della polizia tunisina e ministro degli Interni. Il suo regime si è quindi strutturato ad immagine di un sistema poliziesco ed inquisitore.

Inutile meravigliarsi dell’assenza di libertà di stampa e d’opinione, nonché della mancanza di elementari garanzie legali e costituzionali. La società tunisina è in effervescenza: i conflitti sociali aumentano d’intensità, la repressione s’intensifica e le prigioni sono piene».

Ora, di due cose l’una: o il sottoscritto, in quel tempo, era (e continua ad esserlo tutt’oggi…) uno sfacciato, incallito e fraudolento ingannatore dell’opinione pubblica, al servizio, magari, di qualche recondita e pericolosissima causa sovversiva mondiale; o gli Stati ed i Governi occidentali che per ben 42 anni (19 durante la presidenza Bourguiba + 23 anni, nel corso di quella di Ben Ali) hanno sistematicamente, proditoriamente ed interessatamente chiuso gli occhi sull’effettiva realtà tunisina, lo hanno fatto, come al solito, per il “bene dell’umanità” o per contrastare il “terrorismo islamico”…

Vale a dire, in questo caso, per meglio potersi assicurare: il controllo delle miniere di fosfati e di ferro di quel Paese; il monopolio delle sue forniture militari; la possibilità di installare, nelle sue contrade – a bassissimo costo – la maggior parte delle industrie manufatturie europee; il vantaggio di potere liberamente ed impunemente scaricare sotto le sabbie dei suoi deserti – a prezzi irrisori – innumerevoli e rischiose scorie radioattive ed infinite tonnellate di fastidiosi ed ingombranti cascami biologici e chimici fortemente inquinanti; l’esclusiva fondiaria o commerciale sui numerosi alberghi, residence, casinò, sontuose ville e molteplici ed accoglienti infrastrutture turistiche e balneari; senza contare il comodato d’uso – da parte della VI Flotta USA – dell’ampio e strategico Porto militare di Biserta.

Insomma, in proposito, decida il lettore!

La prova del nove, in ogni caso, l’avremo nelle prossime settimane. Vedremo, allora, se il popolo tunisino continuerà a farsi perennemente turlupinare dai soliti furbacchioni dei Governi occidentali o se, al contrario, memore delle numerose e reiterate fregature già incassate nel corso del suo recente passato, continuerà nella lotta ad oltranza, per potere finalmente riconquistare quella libertà, indipendenza, autodeterminazione e sovranità politica, economica, culturale e militare che, fino ad ora, gli sono state ignominiosamente negate.