mercoledì 23 novembre 2011

Crisi economica - update

Un'altra serie di articoli su questa infinita crisi economica di sistema che stiamo vivendo ormai da più di 4 anni.



GEAB n.59: entro l'inizio del 2013 spariranno 30mila miliardi di dollari in asset fantasma. La crisi entra in una fase di sconto diffuso del debito pubblico occidentale.
da www.leap2020.eu - 15 Novembre 2011
Tradotto da http://informazionescorretta.blogspot.com/#ixzz1eCSzmJy7

Vi proponiamo – come in altre occasioni – il più recente bollettino redatto dagli analisti economici del Global Europe Anticipation Bulletin (GEAB), fra i più attenti ragionatori rispetto alla Grande Crisi.

Il blog
Informazione Scorretta ha già proposto per il bollettino n.59 una traduzione che ci siamo permessi di ritoccare qui in alcuni punti. Il documento è incentrato su una previsione: 30 trilioni di dollari che spariranno entro il 2013. Come sempre, molto utili le fonti, i grafici e i collegamenti utilizzati, specie in nota.

Buona lettura.


Arrivati alla fine della seconda metà del 2011 è immediato realizzare che, a partire dallo scorso Luglio, 15mila miliardi di dollari di asset fantasma sono andati in fumo, proprio come avevamo anticipato (GEAB N.56). Secondo noi, questo processo continuerà con lo stesso ritmo per tutto l'anno a venire.

Noi infatti pensiamo che, con l'introduzione di un haircut (in finanza, un haircut è la percentuale sottratta al valore di mercato di un asset usato come collaterale, ndt) del 50% sul debito pubblico greco, la crisi sistemica globale sia entrata in una nuova fase: quella del taglio generalizzato del debito pubblico occidentale e del suo corollario, la frammentazione dei mercati finanziari globali.

Il nostro team crede che il 2012 porterà un haircut medio del 30% sul totale del debito pubblico occidentale (1), più un ammontare equivalente di perdite, in termini di asset, dai bilanci delle Istituzioni Finanziarie di tutto il mondo.

In particolare, LEAP/E2020 anticipa la perdita di 30mila miliardi di asset fantasma per l’inizio del 2013 (2), con un'accelerazione nel 2012 del processo di compartimentazione del mercato finanziario globale (3) in tre aree valutarie sempre più scollegate fra loro: quella del Dollaro, dell’Euro e dello Yuan.

Questi due fenomeni si alimenteranno a vicenda.

Essi saranno anche la causa di un forte calo del 30% dal lato della valuta degli Stati Uniti nel 2012 (4), come abbiamo anticipato lo scorso Aprile (GEAB N°54), calo che potrebbe verificarsi nel bel mezzo sia di una forte riduzione della domanda di Dollari USA, sia dell'aggravarsi della crisi del Debito governativo degli Stati Uniti.

La fine del 2011 vedrà quindi la crisi del debito pubblico europeo fungere da detonatore per la “bomba” degli Stati Uniti.

In questo GEAB N.59 analizzeremo nel dettaglio sia questa nuova fase, sia il peggioramento della crisi del debito degli Stati Uniti.

Inoltre, cominceremo a presentare, come indicato nei precedenti GEAB, le nostre previsioni sul futuro degli Stati Uniti, fra il 2012 ed il 2016, (5) a partire da un aspetto fondamentale del rapporto Europa-USA (e, più in generale, del sistema mondiale in vigore dal 1945), e cioè le relazioni strategiche e militari tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Riteniamo che, entro il 2017, l'ultimo soldato Usa avrà lasciato il suolo continentale europeo. Infine, LEAP/ E2020 presenterà le sue raccomandazioni che si occuperanno, questo mese, di valute, di oro, di pensioni (quelle a capitalizzazione), del settore finanziario e delle commodity.

In questo bollettino pubblico abbiamo scelto di presentare i vari elementi che determineranno la successiva escalation della crisi del debito degli Stati Uniti, nel mentre terremo un bilancio dei due summit di Ottobre, quello dell’UE e quello del G20 a Cannes.

L'Europa continentale

Come anticipato da LEAP/E2020 per parecchi mesi, il vertice del G20 a Cannes si è rivelato un fallimento clamoroso, con la conseguente incapacità di prendere misure significative riguardo il sistema finanziario internazionale, la ripresa economica e la riforma della governance globale.

Se la questione greca è stata la protagonista del summit, è anche perché quest'ultimo era privo dei contenuti per poter cominciare sul serio. George Papandreou ha permesso ai Leaders del G20 di andare avanti "come se" gli affari greci avessero giusto interrotto il loro lavoro (6), quando in realtà la crisi greca ha permesso loro di nascondere l’incapacità di predisporre un programma comune.

Nel frattempo, le decisioni del vertice UE della settimana precedente quello di Cannes, hanno segnalato la comparsa ufficiale di Eurolandia (con ormai due vertici annuali) (7), il cui primato, rispetto ai singoli Paesi, le conferirà di fatto l'autorità per prendere decisioni al suo interno (8).

La pressione di questa crisi ha contribuito, in questi ultimi giorni, a costruire le capacità politiche di Eurolandia, mettendola sul cammino di una maggiore integrazione (9), senz’altro un prerequisito per eventuali sviluppi positivi verso il mondo del post-crisi (10).

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Comparazione dei bilanci e debiti nazionali italiano (rosso), tedesco (blu) e francese (grigio), in percentuale del PIL (2002-2011). Fonte: Spiegel, 10/2011.

Con un Governo di Unità Nazionale finalmente insediatosi in Grecia, (11) uno stato moderno dovrà essere costruito partendo letteralmente da zero, con un giusto Catasto ed un’efficiente Amministrazione, che permetta ai greci di diventare membri "normali" di Eurolandia, non più soggetti a un sistema feudale dove le principali famiglie e la chiesa si dividevano ricchezza e potere.

Trent'anni dopo la sua incondizionata integrazione nella Comunità Europea, la Grecia deve passare attraverso una fase di transizione lunga cinque o dieci anni, simile a quella dei paesi dell'Europa Centrale ed Orientale, prima della loro adesione all'Unione Europea: dolorosa, ma inevitabile.

L’Italia, nel frattempo, è riuscita a liberarsi di un tipico leader del mondo pre-crisi, caratterizzato

dal suo stile vistoso, dal suo racket, dall’acquisizione senza scrupoli di denaro, dalla sua infondata auto-soddisfazione, dalla sua presa sui media, dalla sua costante euro-critica e dal suo nazionalismo-spazzatura (12), per non citare la sua traboccante libido.

Le scene di gioia lungo le strade d'Italia dimostrano che non tutto è sbagliato in questa crisi sistemica globale! Come abbiamo indicato nel GEAB precedente, crediamo che il 2012 sarà per Eurolandia un anno di transizione verso il mondo del post-crisi, invece che un anno di sola sofferenza per il collasso del sistema.

Cartoline da Londra

Allo stesso tempo, il Regno Unito è stato praticamente buttato fuori delle riunioni di Eurolandia (13). I membri dell'Unione Europea al di fuori dell’Eurozona, hanno sostenuto Eurolandia quando questa ha rifiutato di sostenere la proposta britannica concernente il diritto di veto dei 27 singoli Paesi sulle decisioni di Eurolandia.

La deriva del Regno Unito è stata stimolata dagli sforzi degli euroscettici britannici (di solito le fanterie della City) (14) che cercano di tagliare il più rapidamente possibile i legami più forti con l'Europa continentale (15).

Lontano dall'essere la prova del successo della loro politica, tutto ciò è piuttosto l'ammissione di un completo fallimento (16). Dopo vent’anni di continui sforzi, non sono riusciti a distruggere il processo d’integrazione europea, che è stato invece rianimato dalla pressione della crisi.

Così ora stanno "mollando gli ormeggi" per il timore (fondato, tra l'altro) (17) di vedere il Regno Unito assorbito da Eurolandia entro la fine di questo decennio (18).

Nel complesso si tratta di un disperato passo in avanti che, come ha sottolineato Will Hutton in un lucidissimo articolo sul Guardian del 30/10/2011, non può che portare la Gran Bretagna verso la rottura con la Scozia [che cerca di recuperare non solo la sua indipendenza (19), ma anche il suo ancoraggio europeo], ed anche verso la condizione socio-economica di un mercato finanziario off-shore, senza protezione sociale (20) o base industriale (21): insomma, un Regno Dis-Unito alla deriva (22).

E con l’alleato Stati Uniti in una situazione disperata, la deriva può trascinare alla sventura per anni il popolo britannico, che guarda alla City con sempre maggiore aggressività. Anche i “veterani di guerra” stanno cominciando ad unirsi al movimento “Occupy the City” (23); ovviamente, su questo punto, c'è piena convergenza tra le opinioni del popolo britannico e quelle di Eurolandia!

Per consolarsi, i finanzieri britannici possono affermare di detenere la maggior quantità di asset giapponesi esistenti fuori dal Giappone, ma quando il FMI mette in guardia il Giappone dal rischio sistemico costituito dal suo debito pubblico, superiore al 200% del PIL (24), che consolazione è mai questa?

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Allocazione degli asset giapponesi (Stati Uniti, Regno Unito, Eurolandia, Cina, Asia) in (1) percentuale del PIL dei Paesi e (2) percentuale degli asset stranieri totali – Fonte: Banca Centrale Europea, 06/2011.

Washington, il grande malato

Parlando di debito pubblico, è il momento di volgere lo sguardo agli Stati Uniti d’America.

Le prossime settimane ricorderanno al mondo che è questo paese, e non la Grecia, a trovarsi nell’epicentro della crisi sistemica globale.

Il 23 Novembre, la "Supercommissione" del Congresso, incaricata di ridurre il deficit federale degli Stati Uniti, ammetterà la sua incapacità di acquisire risparmi per 1.500 miliardi di dollari in dieci anni.

Ogni parte in causa sta già lavorando per dare la colpa all'altra (25).

Per quanto riguarda Barack Obama, a parte ogni considerazione sul suo lezioso passaggio televisivo con Nicolas Sarkozy, ora sta guardando alla situazione in modo passivo, pur rilevando come il Congresso abbia fatto a pezzi il suo grande progetto sulla creazione di posti di lavoro, introdotto solo 2 mesi fa (26).

E non è l'annuncio del tutto irrealistico di una nuova Area di Libera Circolazione di beni e servizi (esclusa la Cina) (27), alla vigilia di un vertice APEC, dove cinesi ed americani si confronteranno duramente l'uno con l'altro, che rafforzerà la sua statura di statista, per non parlare poi delle sue possibilità di rielezione.

Il prevedibile fallimento della "Supercommissione", che riflette la paralisi generale del sistema politico federale degli Stati Uniti, avrà una drastica ed immediata conseguenza: una nuova serie di peggioramenti dei suoi rating creditizi.

L’agenzia cinese Dagon ha già aperto il fuoco, confermando che abbasserebbe ancora una volta il rating, come conseguenza del fallimento della "Supercommissione" (28).

S&P probabilmente lo abbasserebbe di nuovo, mentre Moody’s e Fitch non avrebbero poi altra scelta che salire anch’essi a bordo, dopo aver dato tregua agli Stati Uniti fino alla fine di quest'anno, con la condizione del raggiungimento di risultati efficaci nella riduzione del disavanzo pubblico.

Per inciso, al fine di diluire il flusso di informazioni negative, è probabile che ci sia un nuovo tentativo di rafforzare la crisi del debito pubblico in Europa (29), abbassando il rating della Francia, allo scopo di indebolire il Fondo Europeo per la Stabilità Finanziaria (30).

Tutto questo farà sì che ci sarà una stagione ricca di eventi per i mercati finanziari e monetari, che darà colpi durissimi ai sistemi bancari occidentali e a tutti i detentori di T-Bonds degli Stati Uniti.

Ma, al di là del fallimento della "Supercommissione" nel ridurre il deficit federale, sarà l’intera piramide del debito degli Stati Uniti ad essere accuratamente esaminata, in un contesto di recessione sia globale sia, naturalmente, statunitense: entrate fiscali in calo, aumento della disoccupazione e del numero dei disoccupati che non ricevono più i benefit (31), ulteriore discesa dei valori immobiliari, etc.

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Il settore privato USA (in rosso) e greco (in blu) in percentuale del PIL (200-2010) – Fonte: SuddenDebt, 03/2011.

Teniamo a mente che la situazione del debito privato americano è di gran lunga peggiore di quella greca! In questo contesto, siamo vicini al panico riguardo la capacità degli Stati Uniti di rimborsare il proprio debito, se non con una moneta svalutata.

La fine del 2012, poi, vedrà molti detentori del debito statunitense fare serie considerazioni su questa capacità, e sul preciso momento in cui questa potrebbe improvvisamente essere messa in discussione da tutti i player finanziari (32).

Cosa potrebbero offrire gli Stati Uniti, dopo il fallimento della loro "Supercommissione"?

Non molto, soprattutto in un anno elettorale! Da un lato essa è stata creata perché le altre azioni non funzionavano, mentre dall'altro il problema non è tanto sulla quantità, ma sulla capacità di intraprendere una duratura e significativa riduzione del deficit federale.

Il fallimento della "Supercommissione" sarà giustamente considerato come prova di questa incapacità.

In termini di somme in gioco, il rapido calcolo di un lettore statunitense del GEAB dà il senso di quanto lo "sforzo" intrapreso per ridurre il deficit di bilancio sia ridicolo, in rapporto alle necessità: se si tratta il bilancio federale degli Stati Uniti come quello di una famiglia, le cose diventano molto chiare. Basta rimuovere 8 zeri dal bilancio federale, e questo diventerà significativo per il cittadino medio:

    • Reddito familiare annuo (imposta sul reddito): + 21.700
    • Carichi familiari (bilancio federale): + 38.200
    • Nuovo debito da carte di credito (nuovi debiti): + 16.500
    • Debito consolidato da carte di credito (debito federale): + 142.710
    • Tagli di bilancio già fatti: - 385
    • Obiettivi di riduzione del bilancio della Supercommissione (per un anno): - 1.500

Come si può facilmente vedere, la Supercommissione (così come il Congresso, lo scorso agosto) non riesce nemmeno a mettersi d’accordo su una riduzione del 10% ... dell'aumento annuale del debito federale. Questa è la situazione.

A differenza dell’Europa, che nel corso dei mesi ha introdotto nuovi meccanismi, e che si adopera per ridurre le spese ed i debiti (33), gli Stati Uniti continuano semplicemente a precipitarsi a tutto gas dentro un debito crescente.

È un dato di fatto, nel prossimo semestre Washington prevede di emettere 846 miliardi di Dollari di T-Bonds, il 35% in più rispetto allo scorso anno (34).

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Settembre 2011: Inizio della perdita di fiducia da parte delle bance centrali straniere rispetto al Tesoro USA – I trend nelle transazioni delle bance centrali straniere riguardanti il Tesoro USA e le agency holding (2000-2011) (in marrone: incrementi mensili/ linea verde: sopra, le bance centrali stanno acquistando; sotto, stanno vendendo i buoni del tesoro) – Fonte: Casey Research, 10/2011.

Con il fallimento del fondo d'investimento globale MF, abbiamo visto come i Titani di Wall Street possano crollare all’istante, a causa degli errori compiuti riguardo il debito pubblico in Europa. Jon Corzine non è Bernard Madoff..

In termini morali, gli è forse vicino, ma, per il resto, non c'è paragone. Madoff era un cane sciolto di Wall Street, ma Corzine era un membro della sua aristocrazia: ex Amministratore Delegato della Goldman Sachs, ex governatore del New Jersey, principale donatore della campagna per le presidenziali del 2012 di Obama, ritenuto un possibile sostituto di Timothy Geithner (Segretario al Tesoro) lo scorso Agosto (35), ed infine uno dei "creatori" di Obama già nel 2004 (36).

Questa vicenda va dritta al cuore del rapporto incestuoso tra Wall Street e Washington, ed ora viene denunciata dalla maggioranza degli americani (37).

Nel mese di agosto, sembrava che fosse un intoccabile sulla cima di Wall Street, tuttavia aveva completamente sbagliato le valutazioni sul corso degli eventi. Credeva che il mondo non fosse cambiato, e che i creditori privati avrebbero continuato ad essere pagati “sull’unghia”. Il risultato: perdite enormi, fallimento, innumerevoli clienti frodati e 1.600 datori di lavoro in mezzo alla strada (38).

Avevamo annunciato, nel GEAB precedente, di essere entrati in una fase che comporterà la decimazione delle banche occidentali.

Questa fase sta ora veramente cominciando, e i clienti di tutti gli operatori finanziari (banche, assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione) (39) stanno ora ponendosi domande sulla solidità di queste istituzioni.

Come è evidente dalla vicenda Corzine, i clienti non dovrebbero presumere che queste istituzioni siano a priori più forti delle altre, solo perché i loro leader sono famosi o godono di una solida reputazione (40).

Non è la conoscenza delle regole del gioco finanziario di ieri, quelle che hanno formato le reputazioni, che ora conta qualcosa, ma è piuttosto la consapevolezza che le regole sono cambiate, ad essere diventata cruciale.


Note:

(1) Che ammonta a più di 45.000 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti, Regno Unito, Giappone ed Eurolandia.

(2) Più la crisi peggiora, più aumenta la quantità di asset fantasma. Questo processo continuerà fino a quando si tornerà ad un rapporto attività finanziarie/beni reali compatibile con uno sviluppo socio-economico funzionante, vicino a quello degli anni 1950-1970.

(3) L'impegno contro la crisi del debito greco, significa la rapida liberazione dal dollaro del sistema finanziario di Eurolandia. Il fatto che questo processo sia stato inizialmente avviato da Wall Street e dalla City, allo scopo di "spezzare" l'Eurozona, illustra da un lato l'ironia della storia, e dall'altra che tutte le azioni dei player mondiali stanno tornando indietro a perseguitarli.

(4) Perfino il Financial Times riconosce che il dollaro è diventato più fragile dell'Euro. Fonte: FT, 2011/04/11.

(5) Le nostre previsioni per quanto riguarda l'Unione Europea ed Eurolandia saranno presentate in una prossima edizione del GEAB.

(6) L'unica cosa che è stata fortemente ostacolata dalla situazione greca, è il piano del presidente francese Nicolas Sarkozy di utilizzare il summit europeo e del G20 come un doppio trampolino di lancio per cercare di recuperare credibilità con i francesi. Questo piano si è rivelato, tuttavia, un doppio fallimento.

Lungi dall'essere risolta, come aveva annunciato in televisione, la crisi greca è esplosa di nuovo alla vigilia del G20, quanto a quest’ultimo il risultato nullo dà il voto ai suoi organizzatori: zero! LEAP/E2020 coglie l'occasione per ribadire la sua previsione del 15 novembre 2010 [il GEAB N°49 sosteneva che il candidato dell'UMP (Sarkozy o un altro), non parteciperà al secondo turno delle elezioni presidenziali francesi del 2012, che saranno invece decise tra il candidato del Partito Socialista, François Hollande, ed il candidato del Fronte Nazionale, Marine Le Pen].

(7) E non possiamo non constatare che saranno due Decisori di livello europeo (Mario Monti, ex commissario europeo italiano, e Lucas Papademos, ex vice-presidente greco della BCE) che, in Italia ed in Grecia, stanno assumendo le redini del potere, fornendo così un altro segnale di accelerata integrazione dell’Eurozona - anche a livello politico.

Questo rafforzerà, inoltre, l'urgenza di riforme istituzionali per un democratico governo di Eurolandia, poiché la gente non accetterà per più di un altro anno ancora di essere semplice spettatrice dello svolgimento di questi sviluppi.

Si noti che la maggioranza dei tedeschi, dei francesi, degli italiani, degli spagnoli, etc. non hanno trovato aberrante la proposta greca di un referendum sulle misure anti-crisi, a differenza dei loro leader. Senza rendersene conto, George Papandreou ha probabilmente fatto aumentare la richiesta per un futuro referendum pan-europeo, riguardo il futuro della governance dell’Eurozona, per il 2014/2015. Inoltre, si veda l'articolo di Franck Biancheri, pubblicato sul Forum Anticipolis, il 06/10/2011.

(8) Il Regno Unito sta pagando un prezzo immediato (come vedremo in questo GEAB), con la sua confermata e rafforzata marginalizzazione, e con la perdita della sua capacità d’influenzare Eurolandia. Come segno dei tempi, Nicolas Sarkozy ha duramente rimproverato David Cameron, dicendo che i leader dell’Eurozona erano stanchi di ascoltare i consigli di Cameron per una corretta gestione del partenariato dell’Euro, pur essendo quest’ultimo fondamentalmente contrario alla moneta europea. Nicolas Sarkozy sa essere forte solo con i deboli, e questo è un indizio della dimensione della caduta di Cameron. Fonte: AlJazeera, 24/10/2011.

(9) Fonte: Business Week, 14/11/2011

(10) Ciò non significa che LEAP/E2020 ritenga che la situazione in Eurolandia vada bene nel suo complesso, con l'UE già in recessione (come gli Stati Uniti), con la sfida del debito pubblico ancora aperta (anche se gli strumenti per affrontare il problema si stanno moltiplicando, compresi i nuovi tagli del debito pubblico), e con la rabbia popolare che, come altrove nel mondo, si è amplificata, in particolare nei paesi in cui non sembra possibile un'alternativa politica. Fonte: Le Monde, 17/10/2011, Libération, 18/10/2011, La Tribune, 2011/07/11, ANSA, 2011/08/11, Spiegel, 2011/11/11, Les Affaires, 10/11 / 2011.

(11) Una prima nella storia. Fonte: Spiegel, 2011/07/11.

(12) Entrambe le tendenze vanno di pari passo con i leader politici. Il loro euroscetticismo è in gran parte la medicazione ideologica di una realtà molto più terra-terra: il desiderio di continuare a esercitare il potere a proprio piacimento nei loro paesi.

Da Vaclav Klaus nella Repubblica Ceca, agli euroscettici conservatori in Gran Bretagna; dall’Euro-critica di erlusconi, a quella dell’élite euroscettica svedese, c’è una cosa in comune: “facciamo come vogliamo nel nostro paese, e non venite a disarticolare i nostri cittadini con idee esterne”. Per influenzare l'opinione pubblica, basta cambiare il "noi", dal suo senso “maestoso” a quello “collettivo”, e la si rende consapevole che è il potere dei leader a essere messo in causa dall'integrazione europea!

Questo, di solito, funziona piuttosto bene, dato l'attuale numero di cittadini che giustamente risente della mancanza di un dibattito democratico sui meccanismi finanziari attuati in Eurolandia per gestire la crisi, e che alzano grida, insieme ai leader dei loro paesi euroscettici ... quando in realtà essi non hanno spesso idea di come questi meccanismi stessi funzionino nel loro paese.

Prendiamo l'esempio della Francia, dove coloro che hanno denunciato l'interazione tra banche private e debito pubblico, in forza del Trattato di Maastricht, non sono a conoscenza che questa era già in essere in Francia dal 1973!

(13) Fonte: Spiegel, 31/10/2011.

(14) Una "City" descritta da David Cameron come "sotto assedio" da parte di Eurolandia. Per caso, questa dichiarazione del Primo Ministro britannico conferma che c'è davvero una guerra tra la City e l'Euro, contrariamente a quanto dicono i media anglo-sassoni. Fonte: Telegraph, 28/10/2011.

(15) Fonte: Telegraph, 28/10/2011.

(16) Fonte: The Guardian, 23/10/2011.

(17) Secondo LEAP/E2020, l'inevitabile fallimento della “Sonderweg” (cfr. Heidegger, ndt) britannica entro il 2020, porterà l'Inghilterra sulle stesse posizioni della Scozia e del Galles, che si rifiutano di seguire "la strada verso il nulla" ... portasse questa finanche in America! Inoltre, anche nell’euroscettico Daily Telegraph, dove la qualità dell’analisi è spesso in grado di superare l’ideologia, si fa menzione del fatto che una crisi di Eurolandia approfondirebbe quella del Regno Unito. Fonte: Telegraph, 09/11/2011.

(18) Questo isterico atteggiamento britannico verso l'integrazione di Eurolandia (chiamata, Oltremanica, "Euro-crisi"), è caratterizzato da fantasie deliranti, pubblicate sulla stampa mainstream, che uniscono alla nostalgia per la vittoria del 1945, un vulnerabile sentimento, senza precedenti in Gran Bretagna, secondo il quale l’integrazione franco-tedesca diventa una specie di macchina da guerra volta contro la Gran Bretagna. Per gli appassionati di questo genere, l'articolo pubblicato il 31/10/2011 sul Daily Mail è una lettura obbligata. Allo stesso modo, il Telegraph non ha potuto resistere alla tentazione di scrivere, in un articolo del 22/10/2011, di un "Nuovo Impero Europeo".

(19) L'ex capo dell'esercito britannico sta anche considerando l’opportunità di aprire un dibattito sul futuro delle forze armate scozzesi, alla luce della proposta di un referendum per l'indipendenza, in arrivo tra tre o quattro anni. Fonte: GoogleNews, 18/10/2011

(20) Con una massiccia disoccupazione ed i giovani abbandonati a se stessi, senza istruzione, senza lavoro e senza prospettiva futura. Fonti: Guardian,14/11/2011; Telegraph, 14/11/2011.

(21) Fonte: Telegraph, 2011/01/11.

(22) ... che continuerà la sua discesa nella classifica delle economie più importanti del pianeta, con il Brasile pronto quest’anno a superarla. Con la continuazione della crisi finanziaria, il declino della City ridurrà notevolmente la dimensione dell'economia del Regno Unito, che dipende così tanto da questo centro finanziario mondiale. Fonte: Telegraph, 31/10/2011.

(23) Fonte: Guardian, 2011/12/11.

(24) Si tenga presente che il debito pubblico in Italia è pari solo al 120% del suo PIL. Fonte: Ahram,2011/12/11.

(25) Fonte: New York Times, 2011/08/11.

(26) Fonte: Newsdaily, 2011/03/11.

(27) A parte l'assenza della Cina dal progetto, questa dichiarazione d’intenti è stata fatta senza alcun dettaglio, rimandando ad un secondo momento gli aspetti concreti. Ma questa è solo una mera promessa: “ci sarà un'unione doganale”! Gli scenari dei film di Hollywood sono spesso irrealistici, ma questa storia è veramente fiabesca.

(28) Fonte: Guardian, 2011/12/11.

(29) Anche la più moderata delle voci, Jean-Pierre Jouyet, presidente dell'Autorità Francese per i Mercati Finanziari, ora riconosce che c'è una guerra tra il Dollaro e l'Euro. Fonte: JDD, 2011/12/11.

(30) Questo si tradurrà, in ordine d’importanza crescente, nella riduzione delle prospettive elettorali di Nicolas Sarkozy, nell'accelerazione dell'integrazione finanziaria e fiscale in Eurolandia, e nell'idea che il grande debito pubblico di Eurolandia debba disimpegnarsi, una volta per tutte, dai mercati finanziari anglo-sassoni. Quest’ultima opzione, secondo noi, dovrebbe essere messa in atto entro la prima metà del 2013. Discuteremo della sua natura in un altro bollettino GEAB.

(31) Tralasciamo il fatto che la disoccupazione dia l'impressione di migliorare - non torneremo sulla questione dell’affidabilità delle statistiche sulla disoccupazione negli Stati Uniti, che è già stata affrontata in un precedente GEAB. Due fatti possono però essere riconosciuti: l'anno scorso, in questo periodo, il 75% dei disoccupati era sotto indennità, rispetto al 48% di oggi, ed inoltre più di 26 milioni di americani sono ormai considerati sotto-occupati, un record storico. Fonti: CNBC, 05/11/2011, Business Insider, 20/10/2011.

(32) Questi fenomeni, essendo essenzialmente di tipo psicologico, possono manifestarsi all'improvviso.

(33) Ad eccezione della Francia, dove Nicolas Sarkozy, insieme al suo primo ministro François Fillon, ha continuato a degradare la finanza pubblica, moltiplicando misure in miniatura, con una ben scarsa efficienza di lungo termine, nella speranza di contribuire alla propria rielezione. La Commissione Europea ha suonato l’allarme proprio su questo argomento.

(34) Questo ammontare è da solo il triplo del debito pubblico totale della Grecia, prima dell’haircut! Fonte: ZeroHedge, 01/11/2011.

(35) Fonte: New American, 05/08/2011.

(36) Un altro terreno comune tra Barack Obama e Nicolas Sarkozy, due rappresentanti del mondo pre-crisi: la loro contiguità con il settore finanziario. Fonte: Le Monde, 22/10/2011 ; Minyanville, 04/11/2011.

(37) E questo fallimento dimostra che tutto continua a Wall Street esattamente come prima del 2008, nonostante le cosiddette misure di controllo finanziario, adottate dalle autorità statunitensi. Questo scandalo avrà un profondo impatto sulla elezioni del 2012 negli Stati Uniti. Fonti: CNBC, 01/11/2011; USA Today, 18/10/2011.

(38) Fonte: FINS, 11/11/2011.

(39) Per esempio ABP, il più grande fondo pensionistico olandese, dovrà ridurre i pagamenti ai pensionati, a causa delle perdite degli ultimi mesi. Questa è una conseguenza assai realistica della scomparsa di asset fantasma.

(40) Si può notare una crescente preoccupazione tra gli investitori e le imprese che investono a New York e a Londra. Fonte: Huffington Post, 12/11/2011



Usa, niente accordo sui tagli
di Michele Paris - Altrenotizie - 23 Novembre 2011

Allo scoccare della mezzanotte di lunedì, la cosiddetta Supercommissione per la riduzione del deficit negli Stati Uniti ha ufficialmente mancato il proprio obiettivo di trovare un accordo per abbassare il debito pubblico americano di 1.200 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni.

Il fallimento della commissione parlamentare bipartisan dovrebbe ora far scattare tagli automatici per lo stesso importo a partire dal gennaio 2013, riguardanti in ugual misura spese militari e programmi sociali domestici.

Vista la scadenza ancora lontana e i timori per una drastica riduzione del budget del Pentagono, in ogni caso, è probabile che nei prossimi mesi verrà comunque raggiunto un qualche accordo per diminuire il deficit pressoché interamente attraverso il contenimento della spesa pubblica.

La speciale commissione (Joint Select Committee on Deficit Reduction) era stata istituita lo scorso mese di agosto con il Budget Control Act, prodotto delle trattative tra democratici e repubblicani nell’ambito dell’innalzamento del tetto del debito pubblico USA.

Composta da sei deputati e altrettanti senatori equamente divisi tra i due partiti, la Supercommissione avrebbe dovuto adempiere al proprio mandato entro il 23 novembre, una scadenza in realtà anticipata di 48 ore così da garantire all’Ufficio del Budget per il Congresso il tempo minimo per valutare l’effettiva efficacia dell’eventuale accordo.

Le proposte della commissione avrebbero dovuto poi essere sottoposte al voto del Congresso entro il 23 dicembre, senza possibilità di emendamenti o tattiche ostruzionistiche.

L’incapacità dei due partiti di trovare un punto d’incontro era risultato evidente già durante l’estate, nonostante entrambi fossero sostanzialmente in sintonia sui pesantissimi tagli da apportare alla spesa pubblica.

I membri della commissione, per cominciare, avevano impiegato parecchie settimane solo per scegliere i propri staff, mentre le audizioni pubbliche preliminari sono state poche e indette con grave ritardo.

Solo nell’ultimo mese si è vista una parvenza di trattativa, più che altro per convincere un’opinione pubblica sempre più sfiduciata della serietà dei politici di Washington nell’intervenire seriamente sulla questione del debito.

Con l’appressarsi della scadenza, gli esponenti democratici e repubblicani hanno allora iniziato ad attribuire la responsabilità del fallimento ai rispettivi rivali, accusati di non volere smuoversi dalle loro posizioni iniziali.

Già nella giornata di domenica, molti membri della Supercommissione hanno preso parte a varie trasmissioni TV americane per lamentare le ragioni dell’insuccesso e nel pomeriggio di lunedì, rigorosamente dopo la chiusura dei mercati, è giunta la dichiarazione congiunta dei due presidenti della commissione stessa.

La senatrice Patty Murray (democratica, Washington) e il deputato Jeb Hensarling (repubblicano, Texas), non senza una punta d’involontaria auto-ironia, hanno così ammesso che “dopo mesi di duro lavoro e intense deliberazioni, siamo giunti oggi alla conclusione che non è possibile presentare al pubblico un accordo bipartisan prima della scadenza fissata”.

I tagli automatici alla spesa che dovrebbero partire nel 2013, come già anticipato, comprendono identiche riduzioni degli stanziamenti per la difesa e per la spesa pubblica, tra cui un due per cento in meno per i rimborsi previsti dal programma sanitario che copre gli anziani (Medicare), quasi l’otto per cento in meno per altri programmi sociali e il dieci per cento in meno per le spese militari.

Per evitare soprattutto quest’ultimo intervento, alcuni parlamentari repubblicani stanno già studiando misure ad hoc da presentare nelle prossime settimane, come hanno fatto intuire Patty Murray e Jeb Hensarling nella loro dichiarazione ufficiale.

Il presidente Obama, da parte sua, ha però minacciato di mettere il veto su qualsiasi misura del Congresso volta a eludere l’implementazione dei tagli automatici, anche se nel gennaio 2013 alla Casa Bianca potrebbe esserci un inquilino diverso e con una diversa opinione.

Negli ultimi giorni erano emerse alcune bozze su cui, secondo la stampa americana, sembravano poter convergere le due parti. Venerdì scorso, ad esempio, i democratici avevano avanzato una proposta da 900 miliardi di dollari che comprendeva tagli per 225 miliardi a Medicare, 50 miliardi a Medicaid, 100 ad altri programmi di assistenza e 400 miliardi provenienti da misure fiscali come la soppressione di scappatoie legali che permettono alle aziende e ai redditi più alti di pagare meno tasse.

Quando i repubblicani hanno chiesto ulteriori interventi, tra cui l’innalzamento dell’età di accesso a Medicare da 65 a 67 anni e la riduzione degli adeguamenti annuali alle pensioni già erogate, le trattative sono naufragate.

Sempre qualche giorno fa, è toccato poi alla leadership repubblicana proporre un pacchetto meno ambizioso ma che ha avuto identica sorte. Le misure - pari a 643 miliardi di risparmi - erano basate quasi interamente su tagli alla spesa pubblica, con appena 3 miliardi di dollari da recuperare tramite la fine degli sgravi fiscali sugli aerei privati delle corporation.

Nulla da fare, infine, anche per la proposta presentata in extremis lunedì da John Kerry e che intendeva posticipare la delicata riforma del sistema fiscale al prossimo anno.

Ufficialmente, il fallimento della Supercommissione è dovuto all’inflessibilità dei repubblicani nel voler raggiungere un accordo basato esclusivamente su tagli alla spesa pubblica e, parallelamente, dei democratici di voler includere nella trattativa un qualche aumento delle tasse per i redditi più alti, ad esempio attraverso la fine dei benefici fiscali voluti da George W. Bush e prolungati dal Congresso l’anno scorso, in scadenza il 31 dicembre 2012.

In realtà, la pretesa dei democratici di battersi per far pagare a tutti gli americani il prezzo del risanamento in maniera equa e a seconda delle loro possibilità si scontra con la natura delle proposte da loro stessi presentate e con la totale disponibilità ad includere nelle trattative il drastico ridimensionamento di qualsiasi programma pubblico (Medicare, Medicaid, Social Security).

Più di un’offerta democratica, infatti, prevedeva la riduzione del deficit per importi ben superiori ai 1200 miliardi di dollari previsti dal mandato della Supercommissione, sempre da raggiungere con tagli devastanti e misure fiscali poco più che simboliche a carico delle classi privilegiate.

Lo stesso Obama, poco dopo l’annuncio del definitivo fallimento della commissione, ha ribadito il suo impegno per trovare un accordo “in un modo o nell’altro” per ridurre il deficit di 2.200 miliardi di dollari nel prossimo decennio.

Obama, d’altra parte, è costretto a far fronte alle critiche subito sollevate dai candidati alla presidenza per il Partito Repubblicano, i quali lo accusano di aver tenuto un profilo troppo basso nei confronti della Supercommissione.

In realtà, erano stati gli stessi membri di quest’ultima a chiedere alla Casa Bianca di rimanere fuori dai negoziati, presumibilmente per evitare di politicizzare un lavoro che era stato presentato come sforzo bipartisan per il bene del paese. Il presidente, inoltre, aveva rinvigorito le proprie credenziali di falco del deficit inviando una sua proposta di accordo per ridurre il debito di addirittura 3.000 miliardi di dollari, includendo tagli a tutto campo alla spesa pubblica.

Quali che siano le prossime mosse dei vertici repubblicani e democratici, la gran parte degli sforzi saranno dedicati in ogni caso all’approvazione di misure che peggioreranno ulteriormente gli standard di vita della maggioranza della popolazione americana.

Il tutto a fronte di svariati sondaggi che indicano invece come ci sia nel paese un ampio consenso per un aumento consistente del prelievo fiscale a carico dei redditi più elevati e per un’espansione di programmi sociali sempre più necessari in un periodo di crisi e con la disoccupazione alle stelle.

A conferma del totale scollamento tra la politica di Washington e la popolazione statunitense, così come della natura dei provvedimenti che il Congresso partorirà nei prossimi mesi, c’è una prima misura di bilancio che la Camera e il Senato hanno licenziato qualche giorno fa.

La nuova legge, che riguarda cinque ministeri, prevede infatti un taglio di ben 819 milioni di dollari alle spese per il mantenimento e la gestione dell’edilizia pubblica, mentre aumenta in maniera irrisoria (12 milioni) gli stanziamenti per i buoni alimentari (food stamps), proprio mentre continua ad allargarsi drammaticamente in tutto il paese il numero degli americani costretti a sopravvivere al di sotto della soglia di povertà.



Incubo downgrade su Sarkozy
di Emanuele Vandac - Altrenotizie - 23 Novembre 2011

Tanto tuonò che (quasi) piovve. Moody’s torna a minacciare il dogma di fede della tripla A del debito sovrano francese: il possibile persistere di un contesto caratterizzato da costi elevati di finanziamento, sostiene l’agenzia di rating, può rendere più ardua la gestione del bilancio pubblico da parte del governo, con implicazioni creditizie negative.

Il pretesto che consente a Moody’s di venire allo scoperto è quello del rialzo dello spread sui titoli di stato francesi nei confronti di quelli tedeschi, registrato nelle ultime settimane: lo scorso 17 novembre, infatti, il suo valore ha sfondato la soglia psicologica dei 200 punti base, mentre attualmente viaggia tra i 155 e i 170 centesimi (un segnale molto preoccupante, visto che, solo quattro mesi fa, il debito italiano si trovava nella stessa posizione).

In effetti, un incremento di un punto percentuale nel rendimento dei titoli di stato equivale ad un aumento di circa 3 miliardi di euro l’anno di spesa per interessi; anche le prospettive di crescita economica della République non sono incoraggianti.

The Economist ricorda come il solitamente aitante ed ottimista Sarkozy abbia dovuto recentemente ammettere in un’intervista che il tasso di crescita del PIL atteso per il 2012 al massimo raggiungerà l’1% (contro l’1,75% programmato).

Le previsioni delle banche, sempre secondo il settimanale britannico, sono ancora più deprimenti, e tendono a divergere sensibilmente in funzione della nazionalità dell’istituto: la francese Natixis la attesta allo 0,5%, mentre alla yankee Citigroup va la palma del pessimismo, convinta come è non andrà oltre un simbolico 0,1%.

Questo vuol dire che, per conseguire i risultati attesi in termini di taglio del deficit, sarebbero necessari, rispettivamente, altri 5 o 9 miliardi di tagli. Sarkozy però difficilmente li metterà in cantiere, considerato che la prossima primavera lo attendono le presidenziali, e che il sentiment dei francesi è di maggior disponibilità verso aumenti delle tasse rispetto che ai tagli del suo imponente apparato pubblico ad un tempo fiore all’occhiello e zavorra finanziaria del Paese.

Non a caso, la gran parte dei provvedimenti che vedranno la luce l’anno venturo sono nuove imposte: IVA, tasse sulle imprese (aumenti del 5%) e sui ricchi.

Che di downgrading francese si parli sempre più spesso tra gli operatori di mercati non è un mistero. La stessa Moody’s il 17 ottobre ha minacciato di mettere il debito sovrano francese sotto negative outlook (la procedura di rivisitazione dei conteggi che potrebbe sfociare in un downgrade).

In quell’occasione, le preoccupazioni dell’agenzia si appuntavano sulla tenuta dei conti francesi dopo la crisi del 2008, che ha lasciato il governo “con uno spazio di manovra limitato”, ulteriormente compresso dal possibile sostegno al sistema europeo (erano i giorni in cui si discuteva febbrilmente del fondo di garanzia ESFS, di cui la Francia è il secondo contribuente per importanza) e/o alle sue banche (ieri e oggi molto esposte sulla Grecia).

Fu in quell’occasione che Moody’s emise quel verdetto che deve essere costato nottate insonni all’orgoglioso Sarkozy: “la Francia è il più debole tra i paesi con la tripla A.” Interessante, a questo proposito, l’incidente in cui è incappata qualche giorno fa Standard & Poor’s, che, a causa di un errore tecnico, ha dato l’impressione che la Repubblica sia in qualche modo sotto osservazione.

Insomma, se ieri il problema erano i vincoli di bilancio e gli shock provocati alla finanza pubblica dai salvataggi (passati e futuri, effettivi o potenziali), oggi la paura arriva da una possibile perdita di fiducia dei mercati nell’emittente Francia.

Il Ministro delle finanze francese ha risposto alle esternazioni di Moody’s in modo piccato, con un comunicato nel quale ha spiegato che le attuali condizioni cui si approvvigiona il tesoro francese sono “molto favorevoli”.

E in effetti, sembra dargli ragione un comunicato della AFT (Agence France Trésor) che spiega che il tasso medio ponderato del debito francese a medio lungo termine si attesta sul 2,78%, uno dei livelli più bassi dalla nascita dell’euro.

Secondo il ministro francese, inoltre, le misure del pacchetto di emergenza da oltre 7 miliardi del 7 novembre sono state studiate per evitare impatti negativi sulla crescita economica.

Si preannunciano tempi particolarmente difficili per Sarkozy: da un lato dovrà continuare la sua lotta maniacale per il mantenimento della tripla A, e dall’altra tenere sotto controllo i conti continuando ad aumentare la pressione fiscale senza poter toccare la spesa.

In fondo, la Francia è il secondo contribuente della European Financial Stability Facilty e il suo merito di credito è uno dei pilastri del gigante dai piedi di argilla, concepito per salvare l’euro.

Dunque la Francia deve mantenere alto il suo merito creditizio per consentire al sistema di sopravvivere e di salvare, tra le altre, anche le banche francesi, zavorrate da tonnellate di titoli greci ed italiani.

Fino a che non si comprenderà che la vera soluzione alla crisi è una banca centrale in grado di mettere tutta la sua forza al servizio del riacquisto del debito pubblico europeo in condizioni di crisi, ogni misura, e ogni sacrificio, rischiano di essere dolorosi ma inutili.



L'Ungheria si rivolege al FMI mentre lo stress sale nell'Europa dell'Est
di Ambrose Evans-Pritchard - www.telegraph.co.uk - 21 Novembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

L’Ungheria si è ripresentata a testa bassa al Fondo Monetario Internazionale dopo buttato fuori gli ispettori lo scorso anno, diventando il primo paese dell’Europa dell’Est a soccombere al contagio arrivato dagli stress test dell’eurozona.

L’aumento degli interessi sui bond e un fiorino debole hanno costretto il governo di Fidesz a ingoiare il proprio orgoglio e a richiedere un credito "precauzionale" sia dal Fondo Monetario Internazionale che dall’Europa, attorno ai 4 miliardi di euro.

La sempre maggiore probabilità che il debito ungherese venga declassato ha accelerato la fuga dei capitali, facendo sì che i rendimenti sul debito a due anni saltassero dal 5,5 al 7,5 per centro da settembre.

"L’Ungheria è un cattivo segnale", ha affermato Neil Shearing di Capital Economics. "È il paese che in quella regione ha i rischi più acuti, quindi è dove ci si aspetta che sorgano i problemi. Temiamo che ciò si possa diffondere all’Ucraina e ai Balcani. L’Europa dell’Est ha enormi necessità di finanziamento per il sistema bancario. Non saranno in grado di rinnovare i debiti se c’è un blocco creditizio in Europa Occidentale."

Shearing ha detto che l’Ungheria dovrà innalzare il finanziamento esterno per il 18 per cento del PIL nel prossimo anno. I dati sono del 14 per cento per la Croazia e del 13 per la Bulgaria.

L’Europa Orientale dipende dai prestatori dell’eurozona e le loro sussidiarie per circa l’80 per cento del suo sistema bancario. Per questo la regione è vulnerabile a una stretta creditizia quando i gruppi stranieri tagliano i propri prestiti – di 3 trilioni di euro in 18 mesi, secondo uno studio di Deutsche Bank – per soddisfare i requisiti dell’UE del 9 per cento per il capitale tier 1.

I regolatori occidentali hanno già iniziato a farsi sentire presso le banche per tagliare la quantità di prestiti concessi all’estero per avviare una stretta in casa.

La banca centrale austriaca ha ordinato a Erste Bank, Raiffeisen e Unicredit Austria di restringere la concessione di prestiti in Europa dell’Est fino a quanto sia possibile con i depositi interni, forse un’iniziativa di Vienna per salvaguardare la tripla A del rating nel mezzo della bufera dell’UEM.

L’esposizione dell’Austria verso l’Europa Orientale è di circa 270 miliardi di dollari, il 70 per cento del PIL. Le sue banche hanno elargito prestiti per il 40 per cento in Croazia, per il 30 in Romania e per il 25 per cento in Ungheria.

Fitch Ratings ha avvertito lunedì che le banche dell’Europa Occidentale potrebbero ritirarsi se la crisi del debito dell’eurozona dovesse aggravarsi. "Lo stress potrebbe diffondersi dall’eurozona alle banche dell’Europa Centrale e Orientale. Anche se le sussidiarie delle banche dell’eurozona riuscissero a sopportare una qualche riduzione nei finanziamenti in arrivo dai controllanti, sarebbero costrette a tagliare la concessione di credito e limitare ancora di più i propri bilanci, con un effetto avverso sulla crescita del PIL", ha affermato.

Lars Christensen di Danske Bank ha detto che gli stati balcanici sono sulla linea di rito mentre gli istituti greci sono corsi ai ripari: "La Bulgaria sta affrontando una stretta significativa perché le banche greche e italiane formano il 60 per cento dei prestiti."

La storia in Ungheria è stata complicata da un governo inaffidabile accusato di aver violato i principi dell’UE su tutta la linea, dalla confisca delle pensioni private alla imposizione di una tassa bancaria ad hoc, dall’abuso giudiziario al limitare la libertà di stampa.

"Non stanno rispettando il ruolo della legge", ha dichiarato Christensen: "Questa ultima mossa di tornare dal FMI puzza di disperazione. Hanno fatto un voltafaccia."

Non è chiaro come il FMI risponda, dato che i dirigenti ungheresi hanno promesso di resistere alle richieste straniere per i cambi da apportare in politica. "Il FMI semplicemente non rinnoverà e non creerà nuovi strumenti per l’Ungheria quando assiste a politiche su cui è in disaccordo", ha detto Peter Attard Montalto di Nomura.

La dura realtà potrebbe dettare gli eventi. Il debito pubblico è vicino all’80 per cento del PIL, alto per un’economia con una crescita vicina allo zero e con costi per il debito tra il 7 e l’8 per cento.

L’Ungheria deve rimborsare 5,9 miliardi di prestiti dell’UE e del FMI, partendo dall’inizio di quest’anno. Le necessità lorde di finanziamenti esterni per il 2012 sono pari al 34 per cento del PIL, banche incluse.

Quasi due terzi dei debito per i mutui e le imprese sono nel potentissimo franco svizzero, creando così una discrepanza letale con il traballante fiorino. La banca centrale potrebbe dover alzare i tassi per puntellare la moneta, anche se ci sono le minacce recessive. L’Ungheria ha contratto il classico vizio del debito estero.


Fossi pazzo a pagare i debiti di gioco delle banche
di Gene Kerrigan - www.independent.ie - 20 Novembre 2011
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raduzione di Anna Bissanti per Megachip


A un anno dal bailout di Ue e Fmi lo stato continua a pagare somme esorbitanti per rimborsare gli investitori, ma nessuno ne parla. Solo gli abitanti di uno sperduto villaggio irlandese continuano la loro battaglia contro quest'ingiustizia.

L’invito per la prima manifestazione è stato stampato otto mesi fa su un normale foglio A4, e il suo contenuto era l’essenza stessa dell’educazione: “Breve, incisiva, silenziosa”.

E ancora: “Nessun cartello, nessuno slogan”. In pratica, tutti coloro che si sentivano arrabbiati per quello che stava accadendo erano invitati a ritrovarsi al parcheggio della chiesa locale e a marciare in silenzio fino al cartello del limite di velocità all’ingresso del piccolo villaggio. Niente discorsi. “Portate soltanto la vostra rabbia”.

Domenica scorsa nel villaggio di Ballyhea, nella contea di Cork, era previsto che dopo la seconda messa si svolgesse la trentottesima marcia settimanale, una passeggiata di una decina di minuti dal parcheggio della chiesa di St. Mary fino ai confini del paese.

La marcia ha adottato uno slogan: “Ballyhea dice no al bailout dei detentori di obbligazioni!”. Una sorta di piccola dimostrazione d’orgoglio in un paese spaventato e diffidente.

Tutto ha avuto inizio con Diarmuid O'Flynn, giornalista sportivo dell’“Irish Examiner” che vive a Ballyhea: aveva scritto ai rappresentanti della Camera bassa per protestare contro il bailout e aveva ricevuto come risposta alcune lettere formali.

Nel marzo scorso, O’Flynn ha telefonato ai suoi amici e parenti e una dozzina di persone si sono presentate nel parcheggio della chiesa, per poi sfilare in silenzio e con decoro. E nessuno si è accorto di niente.

O’Flynn considera il bailout dei banchieri la chiave di ciò che è successo all’Irlanda: decine di miliardi di debiti di imprese private, gettati sulle spalle dei cittadini, hanno reso impossibile allo stato prendere in prestito capitali a tassi di interesse sostenibili.

Egli ritiene che con gli interessi il costo complessivo del bailout raggiungerà negli anni a venire la cifra di cento miliardi di euro. “La Bce ci permette di prendere in prestito cento miliardi da spendere per ripagare i detentori di obbligazioni”.

Col passare dei mesi la marcia nel piccolo villaggio è arrivata a veder sfilare una settantina di persone. Questa comunità è parte dell’Associazione Atletica Gaelica (che promuove la cultura, la musica, la danza e la lingua irlandese), è un villaggio tranquillo, conservatore, che difficilmente si fa notare.

Se i ragazzi hanno bisogno di un passaggio per la partita o se i coltivatori hanno troppo lavoro da sbrigare nei campi, le fila dei manifestanti si assottigliano. In ogni caso, però, mese dopo mese il villaggio ha continuato a ribadire il suo no a questa follia.

Le speranze che la protesta si allargasse fuori dal villaggio non si sono concretizzate. Da Fermoy per un po’ è arrivata qualche risposta, ma si è subito smorzata. Una marcia su Dublino è stata accolta con indifferenza.

O’Flynn considera sensate le proteste su argomenti specifici – la chiusura degli ambulatori del pronto soccorso nelle campagne, la reintroduzione delle tasse universitarie – oppure il movimento Occupy, ma parlando con i singoli manifestanti, consapevoli dell’oneroso fardello rifilato loro e dell’effetto che ciò avrà per le finanze dello stato, è stato indotto a riflettere: “Amici, non riuscite a capire il nesso?”.

O’Flynn ha aperto il blog bondwatchireland.blogspot.com, nel quale documenta ogni pagamento, individuando la banca che se ne fa carico. Alla fine del mese fornisce il totale, il totale del mese seguente e dichiara se il debito è garantito oppure no.

Questione di dignità

Domani, come appurerete da Bondwatch Ireland, pagheremo generosamente altri 11.280.000 euro a detentori di obbligazioni non garantite che hanno scommesso su Irish Life & Permanent.

È solo un piccolo assaggio rispetto a quello che arriverà in seguito. Quindici giorni dopo pagheremo 43.275.094 euro che qualche incauto speculatore ha puntato sugli investimenti della Banca d’Irlanda.

Della dozzina di pagamenti che ci aspettano prima della fine dell’anno solo uno è garantito. Gli altri sono scommesse perse che secondo il capitalismo dovrebbero essere pagate dagli speculatori irresponsabili. Ma la Bce pretende che siano i cittadini a pagarle, anche se non ne sapevano niente.

Il "Billion Dollar Bond" che di recente siamo stati obbligati a pagare per i titoli della Anglo-Irish Bank ha scatenato la rabbia della nazione, ma O’Flynn fa notare che il mese prossimo saremo obbligati a pagare ancora di più. E a gennaio dovremo mettere insieme circa tre miliardi di euro.

Per tutto questo tempo, l’aria si riempirà di discorsi sui più minimi dettagli dell’ultimo bilancio. Si parlerà del debito dello stato e di come tenere in funzione i bancomat, ma il nesso di fondo con l’illegittima estorsione, l’incessante iniezione di miliardi di euro nelle tasche di sconsiderati speculatori privati, resterà inosservato. Tranne che nelle piccole sacche di resistenza civile come Ballyhea.

Queste manifestazioni sono piccole, isolate, forse addirittura inutili, ma stiamo vivendo un periodo storico nel quale le nazioni più piccole sono soggiogate, mentre le grandi potenze si battono per proteggere come meglio possono la loro ricchezza.

I piccoli gesti di resistenza fanno parte della lotta, ma sono soprattutto una questione di dignità, di moralità, di principio. E mantengono accesa una fiamma.

Fonte: http://www.independent.ie/opinion/columnists/gene-kerrigan/gene-kerrigan-lest-we-forget-the-madness-of-paying-banks-gambling-debts-2940173.html

Tratto da http://www.presseurop.eu/it/content/article/1199501-ballyhea-sfida-le-banche.


Contesto:

Un anno di tagli

Un anno dopo il bailout da 85 miliardi che ha salvato l'Irlanda dal tracollo economico, l'ex Tigre celtica continua soffrire l'austerity e i tagli ai salari e all'assistenza sociale. Secondo le ultime statistiche il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 14,4 per cento. L'emigrazione non si ferma e i prezzi degli immobili continuano a crollare, riporta l'Irish Times.

Le uniche buone notizie arrivano dalle esportazioni, aumentate del 23,9 per cento rispetto all'anno scorso, e dalla crescita del pil (1,6 per cento). Di contro, nel secondo trimestre del 2011 la domanda interna è calata del 2,2 per cento.

La settimana scorsa dal parlamento tedesco è arrivato un'ulteriore segno della perdita di sovranità economica dell'Irlanda. Il 18 novembre l'Irish Times ha rivelato che il prossimo bilancio, che dovrebbe essere approvato il 6 dicembre, è stato presentato a un comitato finanziario del Bundestag. Ciò significa che i deputati tedeschi hanno conosciuto le proposte del governo di Dublino prima dei parlamentari irlandesi.

Il ministro delle finanze irlandese ha ammesso di "non poter escludere ulteriori fughe di notizie riservate […], a causa della documentazione richiesta dall'Europa per continuare a erogare i fondi", riferisce il quotidiano.

A giudicare dalle indiscrezioni arrivate da Berlino la prossima manovra economica sarà particolarmente dura, e dovrebbe prevedere tagli per 3,8 miliardi di euro e un aumento dell'iva di 2 punti percentuali (fino al 23 per cento).


La BCE esclude "prestiti o salvataggi" illimitati

da www.insurgente.org - 19 Novembre 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

È la richiesta di Bundesbank e della Merkel: Draghi chiede ai governi che rispettino gli impegni e che facciano le riforme

Mario Draghi, presidente della BCE, ieri ha fatto propria la tesi della cancelliera tedesca Angela Merkel e ha lasciato capire che la banca non andrà a soddisfare i desideri dei francesi, degli italiani o degli spagnoli di acquistare, senza limiti, il debito dei paesi in difficoltà, tanto meno nel convertirsi in un prestatore di ultima istanza.

Se Rajoy, Monti o Papademos chiedono tempo per consentire ai propri governi di iniziare ad applicare le misure, sembra chiaro che la BCE non renderà le cose semplici, ma che dovranno guadagnarselo convicendo i mercati.

Per Draghi, "la credibilità la si può perdere molto rapidamente e la storia ci ha dimostrato che recuperarla comporta alti costi economici e sociali". Queste le sue affermazioni al XX Congresso Europeo della Banca, che ha avuto luogo a Francoforte.

Il massimo dirigente dell’istituzione europea è preoccupato per la piega che sta prendendo la crisi e per il conseguente impatto dei mercati sugli spread.

Facendo sfoggio di una dura reprimenda, in perfetta sintonia con la cancelliera tedesca Angela Merkel, Draghi ha sollecitato i paesi in difficoltà a realizzare le riforme pattuite per soddisfare le decisioni adottate nell’ultima riunione di ottobre tenuta a Bruxelles. "Non dobbiamo attendere oltre", ha affermato l’italiano, che ritiene che solo così l’Europa potrà porre fine alla crisi.

Non è da sorprendersi che il banchiere stia cercando di alleggerire la pressione sulla BCE, dato che nelle ultime settimane non hanno smesso di alzarsi le voci di politici, esperti ed economisti di tutto il globo, i quali fanno appello alla Banca Centrale perché compri il debito in modo illimitato, per tranquillizzare i mercati.

Soluzione politica

Una misura a cui la Germania si oppone dall’inizio della crisi. Così si è espressa in varie occasioni la cancelliera, e lo stesso ha fatto ieri il ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble. "Non è pensabile che alla fine si debba assumere il ruolo della BCE", ha insistito il politico della CDU.

Secondo lui, la soluzione alla crisi passa per un avvicinamento delle posizioni politico-economiche degli Stati membri, che dovrebbero implementare alcune regole comuni. "Solo così i mercati si convinceranno che l'euro è una moneta stabile."

Finora la BCE ha comprato il debito dei paesi sotto attacco dei mercati, ma l'ha fatto su scala più ridotta di quanto gradirebbero queste nazioni. In questo senso, il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung ieri ha assicurato che il Consiglio della BCE è fortemente diviso sui termini dell'intervento e che per questo motivo lo stesso consiglio ha deciso di fissare il limite massimo da stabilire per l’acquisto di obbligazioni, fissato in 20 miliardi di euro la settimana. Si è cercato di tenere “segreta” questa cifra per disincentivare le speculazioni.

Tuttavia, ogni volta la posizione del Consiglio si avvicina sempre più al rifiuto del programma di acquisto che fu introdotto nel maggio di 2010 per salvare la Grecia, e che ha fornito fino ad ora un intervento pari a 187 miliardi di euro.

Il 61,3 per cento di questa somma è stato destinato per gli acquisti realizzati dal passato 8 agosto, quando l'ente decise di venire in soccorso di Spagna e Italia.

In realtà, secondo Faz, è proprio questo scetticismo che avrebbe provocato il ribasso del limite massimo alla votazione dei membri del Consiglio fino a 20 miliardi.

Cameron: tutti con l'euro

Nel frattempo il Primo Ministro britannico, David Cameron, ieri ha espresso la sua fiducia per l’impegno della Germania per garantire il successo dell'euro in una sua dichiarazione rilasciata dopo una riunione con Angela Merkel.

"È un periodo difficile, si può vedere dai mercati, ma non sottovaluto, nemmeno per un istante, l’impegno di paesi come la Germania e gli altri dell’eurozona per difendere la moneta", ha riferito alla stampa Cameron, la cui nazione non appartiene alla zona euro. "Tutte le istituzioni dell’eurozona devono appoggiare la moneta unica per difenderla", ha detto il primo ministro, in una conferenza stampa congiunta con la Merkel.


Non svendere il patrimonio pubblico

di Ugo Mattei - Il Corriere della Sera - 22 Novembre 2011

Caro direttore, per incassare 6 miliardi, circa l'8% di quanto paghiamo di interessi sul debito pubblico ogni anno, pare andranno in vendita 338.000 ettari di terreni agricoli che oggi sono proprietà pubblica.

Se non si farà attenzione, le conseguenze di una tale scelta, che in Africa è nota come land grab (appropriazione di terra) operata da grandi gruppi multinazionali, potrebbero essere serie, e portarci verso la dipendenza alimentare dall'agrobusiness.

Potrebbero derivarne danni sociali ingenti subiti in primis dai nostri piccoli agricoltori che non potendo competere con quei colossi nell'acquistare, finirebbero per vendere anche i loro appezzamenti (come già avvenne quando i latifondisti comprarono le proprietà comuni messe in vendita da Quintino Sella).

La scelta di vendere è definitiva e ci riguarda tutti, presenti e futuri. Andrebbe fatta con grande cautela soprattutto quando ci si trova sotto pressione internazionale.

Il processo di elaborazione teorica e pratica della categoria giuridico-costituzionale dei beni comuni discende da questa considerazione.

Il cambiamento dei rapporti di forza fra settore privato azionario e settore pubblico a favore del primo rende i governi così deboli da non poter operare nell'interesse del popolo sovrano.

La necessità urgente di forte tutela giuridica dei beni comuni come proprietà di tutti che i governi devono amministrare fiduciariamente nasce da questo squilibrio di potere prodotto dalla globalizzazione.

Lo Stato italiano è proprietario, direttamente o tramite enti pubblici, di ingenti beni che fanno gola a molti.

Gran parte di questi, che forniscono utilità indispensabili per garantire la sovranità dello Stato o la sua capacità di offrire servizi pubblici, non possono essere trattati come fossero proprietà privata del governo in carica.

Alcuni dei beni dello Stato sono costituiti da edifici, acquedotti e terreni agricoli che soccorrono direttamente bisogni fondamentali della persona come coprirsi, bere o nutrirsi.

Altri sono infrastrutture, come strade, autostrade, aeroporti, e porti che richiedono un assiduo investimento in manutenzione.

Altri sono beni che i giuristi classificano come immateriali come le frequenze radiotelevisive, gli slot aeronautici (per esempio la tratta aerea Milano-Roma), i brevetti ottenuti con la ricerca pubblica, le partecipazioni pubbliche nell'industria produttrice di beni o servizi.

Ancora, importanti beni servono allo Stato per erogare i suoi servizi alla collettività: scuole, ospedali, caserme, università, cimiteri, discariche, ambasciate.

Ci sono poi i beni culturali: statue, monumenti, dipinti, reperti archeologici, lasciti del passato che dobbiamo trasmettere ai nostri successori.

Per farlo occorre mantenerli accessibili a tutti godendone in comune, al di fuori dal modello del «divieto di accesso» che è tipico della proprietà (sia essa pubblica o privata).

Beni comuni, governati dalla stessa logica di accesso sono poi i parchi, le foreste, i ghiacciai, le spiagge, il mare territoriale, l'aria da respirare o l'acqua da bere, a loro volta beni di grande valore collettivo il cui ingente valore d'uso non è tradizionalmente patrimonializzato.

Sebbene dotato di un patrimonio ingentissimo (fra cui ingenti riserve auree), il nostro settore pubblico è impoverito.

I Comuni sono sul lastrico; gli edifici pubblici cadono spesso a pezzi e il territorio non riceve manutenzione.

L'Italia è come un nobile decaduto che non sa gestire le sue ingenti proprietà, viene truffato dal maggiordomo e continua a indebitarsi per poter mantenere il proprio dispendioso stile di vita.

Proprio come la nobiltà francese finì per svendere i propri palazzi, anche l'Italia, oberata dai debiti, sta vendendo (spesso svendendo) il suo patrimonio pubblico per «far cassa» e tirare avanti.

Eppure se il patrimonio pubblico rimasto fosse amministrato davvero nell'interesse comune si potrebbero ottenere parecchi quattrini: molte concessioni (acque sorgive, autostrade, stabilimenti balneari, frequenze radiotelevisive, cave) sono rilasciate molto al di sotto del valore di mercato.

La Gran Bretagna dando in affitto il suo etere ottiene circa 5 miliardi di sterline l'anno (grosso modo quanto si incasserebbe vendendo una tantum i terreni agricoli) contro i poco più di 50 milioni di euro che ottiene l'Italia.

Una buona amministrazione del patrimonio pubblico richiede sopratutto ordine, chiarezza nelle regole del gioco e democrazia nel decidere sulle cose di tutti. Le regole attualmente vigenti sono obsolete, oscure e quindi agevolmente eludibili. È importante farne di nuove e dotarle di innovativi strumenti applicativi.

Una legge delega sulla riforma di beni pubblici predisposta dalla Commissione Rodotà contenente chiarezza su quali beni siano comuni e come vadano amministrati non è mai stata neppure discussa.

Proprio nei momenti di maggior crisi sarebbe bene che alla logica della svendita subentrasse quella del buon padre di famiglia.


*Ugo Mattei (Professore di Diritto internazionale comparato all'Università della California di San Francisco)


Che prezzo ha la nuova democrazia? Goldman Sachs conquista l'Europa

da The Independent - 18 Novembre 2011

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Mentre le persone comuni sono in agitazione per l’austerità e il lavoro, il palazzo dell’eurozona si sta sottoponendo a una trasformazione radicale

La nomina di Mario Monti alla carica di primo ministro è importante per una quantità incommensurabile di motivi. Sostituendo lo schivatore di scandali Silvio Berlusconi, l’Italia ha smosso l’inamovibile. Mettendo al potere i tecnocrati non eletti, ha sospeso le normali regole della democrazia e forse la democrazia stessa.

E ponendo un esperto consulente di Goldman Sachs al comando di una nazione occidentale, ha portato a nuove vette la potenza politica di una banca di investimento che si poteva pensare che invece fosse politicamente tossica.

La cosa più clamorosa: un passo da gigante, o persino l’apice del successo, per il progetto di Goldman Sachs.

E non si parla solo di Monti. La Banca Centrale Europea, un altro attore cruciale nel dramma del debito sovrano, è sotto la gestione di un ex di Goldman, e gli allievi della banca di investimento hanno una grande influenza nei luoghi di potere di quasi tutte le nazioni europee, così come avvenuto negli USA nel corso della crisi finanziaria.

Fino a mercoledì, anche la divisione europea del Fondo Monetario Internazionale era capeggiata da un uomo di Goldman, Antonio Borges, che si è dimesso per motivi personali.

Anche prima dello scompiglio occorso in Italia, non c’era alcun segnale che Goldman Sachs desiderasse scrollarsi di dosso il soprannome di "Calamaro Vampiro” e, ora che i suoi tentacoli hanno raggiunto la cima dell’eurozona, gli scettici stanno mettendo all’indice la sua influenza.

Le decisioni politiche che verranno prese nelle prossime settimane determineranno se l’eurozona potrà pagare i propri debiti, e gli interessi di Goldman sono intimamente collegati alla risposta da fornire a questa domanda.

Simon Johnson, ex economista del Fondo Monetario Internazionale, nel libro “13 Bankers” ha affermato che Goldman Sachs e le altre maggiori banche sono diventate così sodali ai governi nell’aggravarsi della crisi finanziaria che gli Stati Uniti sono effettivamente da considerarsi un’oligarchia.

Almeno i politici europei non sono "comprati e stipendiati" dalle grandi aziende come negli Stati Uniti: "Invece, quello che avete in Europa è un approccio comune tra l’élite politica e i banchieri, un insieme condiviso di obbiettivi e un mutuo rafforzamento di illusioni."

Questo è il progetto Goldman Sachs. In parole povere, si tratta di portare a sé i governi. Ogni impresa vuole rafforzare i propri interessi con i controllori che potrebbero mettersi di traverso e con i politici che possono fornire vantaggi fiscali, ma questo non è la solita iniziativa di lobby.

Goldman in questo caso vuole fornire consulenze ai governi e concedere finanziamenti, collocare i propri uomini ai posti di comando per poi riservare posti di lavoro remunerativi alle persone che escono dai governi.

Il Progetto vuole creare un cambiamento profondo riguardo le persone, le idee e il denaro, in modo che sia impossibile scovare la differenza tra l’interesse pubblico e quello di Goldman Sachs.

Il signor Monti è uno dei più eminenti economisti italiani, e ha trascorso gran parte della carriera nell’accademia e nei think tank, ma fu quando Berlusconi lo nominò nel 1995 alla Commissione Europea che Goldman Sachs iniziò a interessarsi a lui.

Prima come commissario per il mercato interno, poi in modo particolare sulla concorrenza, prese decisioni che potevano influire sulle acquisizioni o le fusioni su cui i banchieri di Goldman stavano lavorando o a cui stavano fornendo finanziamenti.

Monti più tardi prese posto nella commissione sul sistema bancario e finanziario del Tesoro italiano, che formò le politiche finanziarie della nazione.

Date queste premesse, era naturale che Goldman lo invitasse a unirsi al suo tavolo di consulenti internazionali. I venti e più consiglieri internazionali della banca si muovono come lobbisti informali con i politici che regolano il loro lavoro.

Tra i consulenti c’è anche Otmar Issing che, come membro del consiglio della tedesca Bundesbank e poi della Banca Centrale Europea, è stato uno degli architetti dell’euro.

Forse il più importante ex politico al momento nella banca è Peter Sutherland, Procuratore Generale dell’Irlanda negli anni ’80 e anche lui ex Commissario alla Concorrenza dell’UE.

Ora è direttore non esecutivo della divisione britannica, Goldman Sachs International, e fino al suo collasso e alla nazionalizzazione era anche direttore non esecutivo di Royal Bank of Scotland.

È stato una voce importante in Irlanda sul salvataggio da parte dell’UE, e affermò che i termini dei prestiti di emergenza dovevano essere edulcorati, in modo da non esacerbare le sofferenze finanziarie della nazione. L’UE ha acconsentito quest’estate a tagliare i tassi di interesse concessi all’Irlanda.

Prendere in carico i politici con buone conoscenze quando escono dai governi è solo metà del Progetto, far arrivare gli allievi di Goldman negli esecutivi è l’altra. Come Monti, Mario Draghi, che è diventato Presidente della BCE il 1° novembre, non ha fatto altro che entrare e uscire dai governi e da Goldman.

Era membro della Banca Mondiale e direttore di gestione del Tesoro italiano prima di trascorrere tre anni come dirigente esecutivo di Goldman Sachs International tra il 2002 e il 2005, per poi tornare al governo come presidente della banca centrale italiana.

Draghi è stato molto criticato per i suoi trucchi contabili suggeriti all’Italia e alle altre nazioni della periferia dell’eurozona quando un decennio fa cercarono di stringersi in una moneta unica.

Usando complessi derivati, l’Italia e la Grecia furono in grado di far dimagrire le dimensioni apparenti del proprio debito pubblico, che le regole dell’euro sancivano che non dovesse essere superiore al 60 per cento del PIL. E i cervelloni dietro molti di questi derivati erano uomini e donne di Goldman Sachs.

I trader della banca crearono una quantità di accordi finanziari che consentirono alla Grecia di reperire soldi per coprire immediatamente il passivo di bilancio, in cambio di pagamenti da versare nel corso degli anni.

In un accordo del 2002, Goldman veicolò 1 miliardo di dollari di finanziamenti al governo greco in una transazione chiamata cross-currency swap.

All’altro lato del tavolo dell’accordo, al lavoro alla Banca Nazionale della Grecia, c’era Petros Christodoulou, che aveva iniziato la carriera proprio a Goldman, e che era stato promosso a guidare l’ufficio che gestiva il debito greco.

Lucas Papademos, ora nominato Primo Ministro nel governo di unità nazionale, era un tecnocrate che dirigeva al tempo la Banca Centrale della Grecia.

Goldman dice che la riduzione del debito collegata a questi swap era trascurabile per le regole dell’euro, ma espresse anche qualche rimpianto per l’affare.

Gerald Corrigan, un collaboratore di Goldman che entrò nella banca dopo aver guidato la filiale di New York della Federal Reserve, lo scorso anno disse nel corso di un’audizione parlamentare nel Regno Unito: "Col senno di poi, è evidente che gli standard di trasparenza potevano e probabilmente dovevano essere più alti."

Quando la questione fu sollevata nelle udienze di conferma al Parlamento Europeo per il suo incarico alla BCE, Draghi disse che non era coinvolto nelle trattative degli swap né al Tesoro, né a Goldman.

Per la Grecia è oramai diventato impossibile mantenersi in sella e, seguendo le ultime proposte dell’UE, ha davvero sofferto un default sul suo debito chiedendo ai creditori un taglio "volontario" del 50 per cento sulle obbligazioni, ma al momento nell’eurozona c’è un consenso sul fatto che i creditori di nazioni più grandi come Italia e Spagna debbano essere rimborsati in toto.

Questi creditori, naturalmente, sono le grandi banche del continente, e la loro ricchezza è la prima preoccupazione dei politici. La contemporaneità delle misure di austerità imposte dai nuovi governi tecnocratici ad Atene e a Roma e dai dirigenti delle altre nazioni dell’eurozona, come Irlanda, e i fondi di salvataggio dal FMI e dalla struttura fondamentalmente sulle spalle della Germania, l’European Financial Stability Facility possono essere motivati da questo consenso.

"I miei ex colleghi al FMI stanno facendo l’impossibile per cercare di giustificare salvataggi tra 1,5 e i 4 trilioni di euro, ma cosa significa tutto questo?", afferma Simon Johnson. "Significa salvare i creditori al 100 per cento. È un altro bailout bancario, come nel 2008: il meccanismo è differente, dato che in questo caso avviene al livello sovrano e non bancario, ma i motivi sono gli stessi."

Le élite finanziarie sono così certe che le banche verranno salvate, che alcuni stanno facendo scommesse su un tale esito. Jon Corzine, ex direttore esecutivo di Goldman Sachs, è tornato lo scorso anno a Wall Street dopo dieci anni trascorsi in politica e ha preso il controllo di un’azienda storica, chiamata MF Global. Ha piazzato una scommessa da 6 miliardi di dollari con i soldi della propria ditta, sul fatto che il governo italiano non andrà in default.

Quando lo scorso mese la scommessa venne rivelata, i clienti e i collaboratori di trading decisero che fosse troppo rischioso fare affari con MF Global e l’azienda collassò in pochi giorni. È stata una delle dieci più grandi bancarotte della storia degli Stati Uniti.

Il grave pericolo è che, se l’Italia smettesse di pagare i propri debiti, le banche creditrici potrebbero diventare insolventi. Goldman Sachs, che ha contratto più di due trilioni di dollari in assicurazioni, incluso un ammontare non rivelato sul debito dei paesi dell’eurozona, non ne uscirà senza danni, specialmente se una parte dei due trilioni di assicurazioni acquistate provenissero da una banca che è andata sotto.

Non c’è banca – e certamente non il Calamaro Vampiro – che possa facilmente districare i propri tentacoli dalle spire dei propri simili.

Questa è la ragione per i salvataggi e per le austerità, il motivo per cui c'è sempre più di mezzo Goldman, e mai meno. L’alternativa è la seconda crisi finanziaria, un secondo collasso economico.

Illusioni condivise, forse? Chi si azzarda a testarle?