giovedì 30 settembre 2010

News shake

Ritorna la rubrica News shake, mix di notizie a caso ma non per caso...














Il dibattito indiretto Ahmadinejad-Obama

di Thierry Meyssan* - www.voltairenet.org - 26 Settembre 2010
Tradotto per www.comedonchisciotte.org a cura di Matteo Bovis

I presidenti iraniano e statunitense si sono appena dedicati ad un insolito torneo verbale che è stato riferito in maniera frammentaria e deformata dai media occidentali. Mahmaoud Ahmadinejad si è espresso il 23 settembre 2010 nel pomeriggio dalla tribuna dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite [1].

Barack Obama gli ha risposto la mattina dopo al microfono della televisione BBC in persiano [2]. I due interventi formano un insieme che illustra il cambio di strategia da una parte e dall'altra. Non si tratta più di atteggiarsi a campione di due campi avversari, di due visioni del mondo, di scambiarsi invettive, ma di chiamare le rispettive popolazioni alla rivoluzione.

Un anno fa, Washington sperava di poter rovesciare l'amministrazione Ahmadinejad manipolando le folle nell'ennesima ripetizione delle sedicenti rivoluzioni colorate [3]. L'operazione, condotta in occasione dell'elezioni presidenziali del 2009, è fallita. Tuttavia, ha permesso di fissare nell'immaginario occidentale una rappresentazione fantasmagorica dell'Iran che sarebbe una dittatura.

Nel paese, ha avuto l'effetto opposto a quello atteso. Gli elettori dell'opposizione sono stati grandemente sorpresi e indignati dalla malafede del loro candidato e dalla sua volontà di prendere il potere mediante la piazza e non attraverso le urne.

Quanto al vincitore delle elezioni, ha perso il gusto al compromesso e deciso di ravvivare la Rivoluzione islamica nella sua radicalità. Il fossato tra le classi popolari e l'alta borghesia mercantile si è approfondito. La CIA e il NED pianificano nuove azioni, ma non si tratta più di rovesciare il regime nell'immediato, quanto di destabilizzarlo per indebolirlo sul piano internazionale.

Da parte sua, Teheran non ha mai pensato di fare guerra agli Stati Uniti. Per lungo tempo questi sono stati considerati come un blocco, una potenza coloniale alleata che succedeva all'Impero britannico, un Grande Satana che proteggeva i crimini israeliani. Oggi, l'amministrazione Ahmadinejad ha annodato relazioni con intellettuali e artisti dissidenti.

Ai suoi occhi, gli Statunitensi sono persone di buona volontà che prendono lentamente coscienza di essere governati da tiranni. Alla fine sono prevedibili rivolte che possono prendere forma rivoluzionaria o di secessione. La Rivoluzione islamica deve allearsi con gli attuali dissidenti per combattere insieme il sistema dominante.

E' qui che interviene il discorso di Mahmaoud Ahmadinejad. Prima di tutto, ha ricusato la teoria dello scontro di civiltà, enunciata da Bernard Lewis e resa popolare da Samuel Huntington [4]. Per questi pensatori, lo scontro è inevitabile. Gli Occidentali non hanno altra scelta che prepararsi militarmente allo scopo di uccidere per non essere uccisi. Per il presidente iraniano, tutto questo è assurdo.

All'epoca della globalizzazione, lo sviluppo negli scambi commerciali e culturali permette alla gente di scoprirsi e apprezzarsi reciprocamente. Quanto agli ebrei, ai cristiani e ai musulmani, la loro fede comune nel Dio unico deve condurli a stabilire relazioni armoniose.

Tuttavia, per Ahmadinejad se lo scontro di civiltà è un'ideologia artificialmente promossa dal movimento sionista allo scopo di dividere il mondo e dominarlo, esiste in effetti un conflitto che attraversa l'umanità: quello che oppone i valori materiali del capitalismo e della società dei consumi ai valori spirituali della Rivoluzione che sono la giustizia e l'eroismo.

Ciò detto, il nemico non è l'Occidente ma il materialismo da cui gli Occidentali sono affetti e che contamina il resto del mondo.

L'attuale sistema di dominazione s'iscrive nel prolungamento dello schiavismo, del colonialismo e dell'imperialismo. E' messo in atto da un gruppo transnazionale che per raggiungere i suoi scopi si appoggia principalmente sul Regno Unito, gli Stati Uniti e Israele.

Tenuto conto della superiorità militare di questi Stati rispetto a tutti gli Stati del mondo intero messi insieme, è illusorio sperare di vincere con le armi. Ma sapendo che spesso utilizza i Britannici, gli Statunitensi e gli Israeliani a loro danno, è possibile allearsi con questi popoli contro tale sistema di dominio.

Così come Marx immaginava di unire i proletari di tutti i paesi contro lo sfruttamento capitalistico, Ahmadinejad pensa che sia possibile unire gli oppressi contro il sionismo. In questa prospettiva, devono essere intrapresi degli sforzi per mostrare agli Statunitensi che sono essi stessi vittime di un sistema di cui credono a torto di avvantaggiarsi.

Indirizzandosi all'Assemblea generale, il presidente Ahmadinejad ha chiesto la creazione di una commissione d'inchiesta internazionale sugli attentati dell'11 settembre.

Rivolto agli Stati membri dell'ONU, ha sviluppato l'argomento della competenza. La risposta portata unilateralmente dagli Stati Uniti a questi attentati ha messo il Medio Oriente a ferro e fuoco senza risolvere il problema del terrorismo.

Per essere efficace, si sarebbe dovuto, nove anni fa, creare questa commissione d'inchiesta, analizzare i suoi risultati in seno all'ONU e concordare su scala internazionale una strategia antiterrorista. Non è mai troppo tardi per agire bene, le Nazioni Unite devono riprendere le loro prerogative per vincere il terrorismo e raggiungere la pace.

Per il pubblico statunitense, Ahmadinejad, basandosi su un recente sondaggio, ha evocato le tre ipotesi citate più frequentemente. Primo, gli attentati sono dovuti a un potente gruppo straniero; secondo, sono stati realizzati da un gruppo straniero ma hanno beneficiato della complicità passiva di elementi interni; terzo, sono stati orditi da elementi interni.

Contrariamente al discorso comune, non ha presentato Osama bin Laden come islamico ma citando il fatto che lui e la sua famiglia hanno affari in comune con i Bush. Informazioni che avevo rivelato nell'ottobre 2001 sul principale settimanale politico in lingua spagnola dell'America del Nord, Proceso, e che erano state riprese al Congresso dalla rappresentante Cynthia McKiney.

Questa presentazione mira ad inquadrare il dibattito: il problema non è lo scontro tra l'islam e l'Occidente, ma la dominazione del mondo da parte di una cricca che comprende i Bush e Osama bin Laden.

Nel corso dell'esposizione, l'ambasciatore degli Stati Uniti si è alzato e ha lasciato l'Assemblea generale. Su sua richiesta o su suo ordine gli ambasciatori di numerosi Stati hanno fatto lo stesso.

La consueta macchina di propaganda si è attivata per deformare e minimizzare le affermazioni di Mahmoud Ahmadinejad. I media atlantisti si sono sforzati di far credere che il presidente iraniano avrebbe insultato le vittime dell'11 settembre, nella stessa New York, pretendendo che gli Stati Uniti non siano le vittime ma i colpevoli.

E' sufficiente riferirsi al testo del discorso per verificare la manipolazione. Ora, in questo documento, Ahmadinejad esprime la sua desolazione per le vittime. Le pone subito allo stesso livello delle centinaia di migliaia di morti, di feriti e di profughi della guerra al terrorismo.

Si sofferma a considerare che le sofferenze degli uni sono uguali alle sofferenze degli altri. E torna ancora una volta ad affermare che lo scontro di civiltà è un'illusione e che siamo tutti vittime del medesimo sistema.

Il Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, riunitosi d'urgenza, ha deciso che Barack Obama si sarebbe indirizzato al più presto agli Iraniani chiamandoli all'insurrezione per dissuadere Teheran dal proseguire la sua offensiva.

E' stata organizzata un'intervista sulla rete televisiva della BBC in persiano, che gode in Iran di maggiore audience dei canali televisivi statunitensi in persiano. Tecnicamente, questo compito sarebbe spettato al Consigliere per la sicurezza nazionale incaricato delle comunicazioni strategiche, Ben Rhodes.

Accade che il signor Rhodes sia la persona che ha redatto il rapporto della Commissione presidenziale Kean-Hamilton sull'11 settembre. A tale titolo, è lui ad aver inciso nel marmo la teoria del complotto islamico con i suoi 19 kamikaze e il suo sardonico Bin Laden nascosto in una grotta afghana.

Il presidente Obama è stato intervistato da Bahman Kalbasi, un giornalista iraniano che pretende di essere scappato dal suo paese nel 2001 per sfuggire alla dittatura e che nondimeno ha potuto liberamente tornare sul posto per realizzare dei documentari.

Per cominciare, Kalbasi ha chiesto al presidente Obama di commentare le affermazioni del suo omologo iraniano sull'11 settembre. Questi ha risposto: "E' stato scioccante. E' stato odioso. E ha fatto queste dichiarazioni qui a Manhattan, proprio a nord di Ground Zero, dove delle famiglie hanno perduto i loro cari ... gente di tutte le religioni, di tutte le origini vedono questi attentati come la tragedia essenziale di questa generazione. Per lui aver fatto questo tipo di affermazioni non è scusabile."

Hanno voglia gli Iraniani di rileggere il discorso di Ahmadinejad, non ci troveranno niente di scioccante né di odioso. Nessuna provocazione, solo domande legittime. Poco importa, Obama prosegue stabilendo una distinzione tra la reazione emotiva degli Iraniani all'indomani dell'11 settembre, fatta come dappertutto nel mondo di compassione per le vittime, e quella del "regime".

Nel resto dell'intervista, egli spiega che la politica dell'amministrazione Ahmadinejad è a un'impasse. Secondo lui, non può portare frutti e provoca sanzioni di cui gli Iraniani subiscono e subiranno le dure conseguenze nella loro vita quotidiana. Sviluppa questa logica in vari campi e conclude sulla questione palestinese. Assicura anche in questo caso che il radicalismo non porta da nessuna parte e che la pace laggiù passa per un compromesso con Israele.

Questa intervista è una messa in guardia non velata verso le intenzioni di Teheran: non provate a seminare turbamento nella popolazione statunitense o noi faremo lo stesso con voi. Si basa sull'idea che gli Iraniani sconfesserebbero una politica per la quale pagano un prezzo alto senza ricevere per il momento nulla in cambio. Annuncia una nuova operazione di destabilizzazione in occasione delle riforme economiche.

Per evitare l'asfissia, l'Iran, sottomesso a un embargo da parte dell'ONU e ad altri embargo unilaterali, deve liberarsi dei suoi prezzi sovvenzionati e liberalizzare il suo mercato interno. Questo brutale adattamento non mancherà di provocare malcontento. Washington intende coalizzarlo contro il governo attorno alla figura di Hossein Moussavi.

Tuttavia questo progetto deve superare diversi ostacoli. In primo luogo, gli scontenti della riforma economica possono dubitare della capacità di Moussavi di rappresentarli. Infatti, durante la sua campagna elettorale, [Moussavi] ha difeso il principio di un'economia liberale all'americana. Non sembrerebbe quindi nella posizione ideale per opporsi in maniera credibile ad una liberalizzazione del mercato interno.

Secondariamente, l'argomento di un prezzo troppo alto di una politica radicale ha poche possibilità di fare presa in Iran, uno Stato rivoluzionario dove, da 32 anni, viene coltivato l'eroismo. Anzi, per molti può risultare insultante.

Infine, la scelta di concedere l'intervista alla BBC in persiano è maldestra. Invitato da Talebzadeh a Secrets, la principale trasmissione politica del paese, in occasione della commemorazione dell'11 settembre, avevo esposto la necessità di una commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite e avevo affrontato l'implicazione della BBC nel complotto dell'11 settembre.

Ci si ricorda che quel giorno la Torre 7 del World Trade Center, detta Torre dei Salomon Brothers, è crollata nel pomeriggio senza essere stata colpita da alcun aereo. Per evitare che questo avvenimento spingesse la gente a porsi domande più approfondite sul crollo delle Torri gemelle, i complottisti avevano imposto una spiegazione immediata.

Le Torri nel loro crollo avrebbero fatto tremare il terreno e indebolito le fondamenta della Torre 7. Per assicurarsi che questa versione venisse ripresa, i complottisti la diffusero attraverso la BBC addirittura prima della caduta della Torre 7. .

Su questo video, si vede la giornalista della BBC commentare il crollo mentre si vede alle sue spalle l'edificio intatto che crollerà solo 12 minuti più tardi. La televisione pubblica britannica ha condotto un'operazione di disinformazione caratteristica. Notiamo di passaggio che ciò implica una responsabilità del Regno Unito in quanto Stato nella creazione del mito.

Riassumendo, il presidente della Repubblica islamica dell'Iran ha dichiarato al mondo in generale ed agli Stati Uniti in particolare che i morti dell'11 settembre non sono vittime dell'islam. Ha auspicato una commissione d'inchiesta internazionale i cui risultati possano mostrare che i morti USA come i morti del Medio Oriente sono ugualmente vittime del sistema di dominazione mondiale.

Da parte sua, il presidente degli Stati Uniti si è indirizzato agli Iraniani su un canale televisivo i cui dirigenti hanno partecipato all'intossicazione dell'11 settembre per suggerire loro di non porre domande su questi attentati altrimenti avranno nuove sanzioni da sopportare.

In definitiva, la vivacità della reazione di Washington rivela la sua debolezza. Se è stato deciso di far esporre con urgenza il presidente Obama vuol dire che la casa è in pericolo. Il 74% degli Statunitensi pensano che elementi dell'amministrazione abbiano perpetrato l'11 settembre o che l'abbiano lasciato perpetrare.

Ciononostante, non si rivoltano contro l'autorità che considerano responsabile della morte di circa 3000 propri concittadini. Perché fino a adesso sono stati persuasi che i fanatici della sicurezza nazionale possano commettere crimini contro la popolazione se questi sono ritenuti utili alla grandezza del paese.

Ora, quello che il presidente Mahmoud Ahmadinejad suggerisce è al contrario che i complottisti hanno agito nell'interesse di un gruppo transnazionale a danno degli interessi degli Statunitensi, considerati alla stregua di carne da cannone destinata ad agonizzare sui campi di battaglia del Medio Oriente allargato. Questa idea mette in pericolo il sistema di dominazione mondiale perché è capace di risvegliare la coscienza del popolo statunitense e di spingerlo alla rivolta.

* Thierry Meyssan, Analista politico francese, presidente-fondatore del Réseau Voltaire e della conferenza Axis for Peace. Pubblica ogni settimana cronache di politica estera sulla stampa araba e russa. Ultima opera pubblicata: L’Effroyable imposture 2, éd. JP Bertand (2007).

NOTE

1] « Discours à la 65ème Assemblée générale de l’ONU », di Mahmoud Ahmadinejad, Réseau Voltaire, 23 settembre 2010. [Una traduzione italiana del discorso pronunciato da Ahmadinejad alle Nazioni Unite si può leggere sul sito www.luogocomune.net, a cura di Massimo Mazzucco, NdT] .

[2] « Interview with Barack Obama by BBC Persian », Voltaire Network, 24 settembre 2010. .

[3] « La CIA et le laboratoire iranien », « La "révolution colorée" échoue en Iran », di Thierry Meyssan ; « Iran : le bobard de l’élection volée », di James Petras, Réseau Voltaire, 17, 19 e 24 giugno 2009. .

[4] « La "Guerre des civilisations" », di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 4 giugno 2004. .


Quello che l'America si è lasciata dietro in Iraq
di Nir Rosen* - Foreign Policy.com - 7 Settembre 2010
Traduzione di Ornella Sangiovanni per www.osservatorioiraq.it

E' ancora peggio di quello che si pensa

Centinaia di auto che aspettano nel caldo di passare lentamente attraverso uno delle decine di checkpoint e le perquisizioni che devono sopportare quotidianamente. Il frastuono costante dei generatori.

L'odore del carburante, dei liquami, del kebab. Armi automatiche che ci si trova puntate alla testa e che escono da veicoli militari, da fuoristrada dai vetri oscurati. Montagne di rifiuti. Voci sull'ultimo omicidio o sull'ultima esplosione.

Benvenuti nel nuovo Iraq, uguale al vecchio – anche se Barack Obama ha dichiarato finita l'Operazione Iraqi Freedom di George W. Bush, e ha annunciato l'inizio della sua Operazione Nuova Alba, e il Primo Ministro iracheno Nuri al-Maliki ha dichiarato l'Iraq indipendente e sovrano.

Dichiarazioni di sovranità l'Iraq ne ha avute diverse – dalla prima nel giugno 2004. Come è stato per le tappe fondamentali precedenti, non è chiaro che cosa significhi esattamente quest'ultima.

Da quando gli americani hanno dichiarato la fine delle operazioni di combattimento, gli Stryker e i veicoli MRAP statunitensi si possono vedere mentre fanno pattugliamenti in alcune parti del Paese senza essere accompagnati dagli iracheni, e gli americani continuano a condurre operazioni militari unilaterali a Mosul e altrove, anche se sotto la parvenza di "forza di protezione" o di "neutralizzazione degli ordigni esplosivi improvvisati".

Ufficiali delle forze armate americane in Iraq mi hanno detto di essere arrabbiati per l'annuncio politicamente motivato della Casa Bianca sul ritiro delle truppe da combattimento. Quelle che restano si considerano ancora truppe da combattimento, e i comandanti dicono che poco è cambiato nelle loro regole di ingaggio – reagiranno ancora alle minacce in modo preventivo.

L'Iraq è tuttora ostacolato rispetto a una piena indipendenza – e non solo dalla presenza di 50.000 soldati statunitensi. Lo Status of Forces Agreement, che specifica che le forze Usa se ne saranno andate completamente entro il 2011, priva l'Iraq di una sovranità totale.

Le sanzioni del Capitolo 7 delle Nazioni Unite lo costringono a pagare il 5 % dei suoi proventi petroliferi in risarcimenti, soprattutto ai kuwaitiani, negando agli iracheni una piena sovranità e isolandoli dalla comunità finanziaria internazionale. Anche l'ingerenza saudita e iraniana, sia politica che finanziaria, ha limitato le possibilità dell'Iraq riguardo a democrazia e sovranità.

Per tutta la durata dell'occupazione, le decisioni principali relative a quale forma dovesse avere il Paese sono state prese dagli americani, senza input o voce in capitolo da parte degli iracheni: il sistema economico, il regime politico, l'esercito e la sua lealtà, il controllo sullo spazio aereo, e la formazione di milizie e gruppi tribali di tutti i tipi. Gli effetti rimarranno per decenni, a prescindere da qualsiasi tappa fondamentale futura gli Stati Uniti possano volere annunciare.

Gli americani, nel frattempo, sono preoccupati di perdere la loro influenza in un momento in cui sono ancora forti le preoccupazioni su una ripresa della rivolta, sulle milizie sciite, e sull'esplosione della polveriera arabo-kurda di cui tutti parlano da sette anni. Nell'ambasciata Usa a Baghdad in molti si chiedono quale sia la visione di Obama per l'Iraq. Arrivati all'estate 2006, Bush si svegliava tutti i giorni e voleva sapere cosa stava succedendo in Iraq. Obama è molto più distaccato.

I diplomatici americani sono preoccupati inoltre di perdere presto la loro capacità di capire e influenzare il Paese. Oltre a Baghdad, presto ci saranno solo altre quattro sedi. In gran parte del sud gli Stati Uniti non avranno una presenza: non ci saranno americani fra Bassora e Baghdad, e neppure nelle province di Anbar o di Salahuddin. In ambasciata, alcuni temono di stare abbandonando il "cuore sciita".

I diplomatici che sono ancora nel Paese avranno meno mobilità e accesso, anche se nominalmente stanno assumendo il comando subentrando alle forze armate, perché sarà più difficile trovare scorte militari quando vorranno viaggiare. "Non si può tenere un rapporto da pendolari", mi è stato detto.

Nella migliore delle ipotesi, impossibilitati a proteggere zone da visitare in elicottero o a comunicare con gli iracheni che si destreggiano nella scocciatura di cercare di entrare nella Green Zone, i diplomatici nei quattro avamposti faranno da posti di ascolto o da prima linea di difesa. Sperano di venire considerati come il mediatore onesto fra kurdi e arabi in nord Iraq, dove si è spostato il focus degli americani come parte del consolidamento dei "risultati strategici".

Ma si lamentano di non avere i fondi per poter fare bene il loro lavoro, anche se le quattro sedi fuori Baghdad verranno a costare molto. Dicono che gli Stati Uniti hanno speso centinaia di miliardi di dollari nella guerra in Iraq, ma adesso stanno facendo gli spilorci sugli stipendi dei funzionari di livello inferiore.

Una speranza di cambiamento dipendeva dalle elezioni nazionali di quest'anno, che si sono tenute il 7 marzo, e sono finite praticamente in un pareggio fra il partito Iraqiya dell'ex Primo Ministro Ayad Allawi e la Coalizione dello Stato di Diritto di Maliki. Le elezioni tuttavia hanno rappresentato una pietra miliare nell'evoluzione politica del Paese.

A prescindere dall'esito - Maliki ha contestato il conteggio dei voti ma non è riuscito a ribaltarlo – le elezioni non accelereranno un ritorno alla guerra civile. Lo Stato è forte, e le forze di sicurezza prendono sul serio il proprio compito – forse troppo sul serio. Le milizie confessionali sono state sconfitte ed emarginate, e i sunniti hanno accettato il fatto di avere perso la guerra civile.

Ma le controversie che circondano la competizione tuttora irrisolta indicano alcune gravi spaccature politiche a lungo termine. Il ritmo sempre più sostenuto del ritiro statunitense, assieme allo stato ancora irrisolto della mappa politica e all'ingerenza da parte degli Stati Uniti, dei sauditi, dell'Iran, e persino della Turchia, hanno portato a una competizione violenta a somma zero mentre i leader iracheni lottano per il potere.

Maliki era un candidato popolare, appoggiato dagli iracheni per avere schiacciato sia i gruppi armati sunniti che quelli sciiti, e come politico singolo è arrivato primo, staccando di molto Allawi - secondo. Ma i suoi candidati sono arrivati secondi, superati di poco da Iraqiya – una sorpresa dopo il risultato deprimente di Allawi nel 2005.

Dalla parte di Allawi ci sono i sunniti, inquieti per quella che percepiscono come influenza iraniana nel Paese. L'opposizione a Maliki spesso è incentrata sui suoi sospetti legami con l'Iran – un'illazione che echeggia l'idea tendenziosa dei sunniti secondo la quale un arabo non può avere una forte identità sciita senza essere filo-iraniano.

E malgrado l'approccio "dell'80%" da parte dell'amministrazione Bush – concentrarsi sugli sciiti e sui kurdi e ignorare i sunniti – la frustrazione del gruppo potrebbe portare alla destabilizzazione. Forse i sunniti non riuscirebbero a rovesciare il nuovo ordine dominato dagli sciiti, ma possono ancora montare una sfida limitata nei suoi confronti.

I kurdi, che per amici avevano solo le montagne (per parafrasare un detto kurdo), sono stati capaci di destabilizzare l'Iraq per 80 anni. Gli arabi sunniti sono presenti in molta più parte del Paese e hanno alleati in tutto il mondo arabo che possono rifornirli a sufficienza per destabilizzare l'Iraq più di quanto i kurdi non siano mai riusciti a fare.

Gli americani vogliono tenersi vicino Allawi proprio per questa ragione: ritengono che stia placando la rabbia dei sunniti. "Vorremmo vedere un ruolo importante per Allawi", ha detto l'ambasciatore Usa James Jeffrey durante una conferenza stampa in agosto, sostenendo che l'ex ba'athista sciita è riuscito a organizzare un cambiamento storico nella dinamica politica del dopoguerra mettendo insieme in una coalizione le forze sunnite e quelle laiche dietro un nuovo processo democratico.

Diplomatici statunitensi a Baghdad mi dicono che il comandante Usa uscente, Generale Raymond Odierno, è estremamente preoccupato della possibilità di una nuova rivolta se Iraqiya, la lista di Allawi, non dovesse essere soddisfatta.

Non è possibile fare Allawi Primo Ministro tout court, dato che non ha un appoggio traversale agli schieramenti politici. Gli potrebbe invece venir data una presidenza della Repubblica valorizzata con maggiori poteri, assieme ad alcuni controlli sul Primo Ministro Maliki - fra i quali un limite al mandato.

Nel frattempo, gli sciiti e i membri del gruppo di Maliki non sono affatto contenti all'idea di un Allawi presidente. Il ministro del Petrolio, Hussein Shahrastani, che è vicino a Maliki, ha avvertito gli americani che in molti all'interno dell'elite sciita considererebbero una forte presidenza Allawi come un golpe, che rovescia il nuovo ordine e riporta i brutti vecchi tempi di Saddam. Molti nel partito di Maliki sono fortemente anti-sunniti, proprio come molti nel partito di Allawi sono fortemente anti-sciiti, e temono che la storia si ripeta.

Maliki ha detto ai suoi confidenti che se lascerà la carica tutto ciò per cui ha lavorato negli ultimi quattro anni andrà a pezzi. Ritiene di aver ricostruito lo Stato iracheno quasi da solo. Senza di lui il partito dello Stato di Diritto non esiste, dato che è stato costruito attorno alla sua reputazione, e Maliki è il candidato che ha ottenuto il maggior numero di voti a livello individuale. Allora i sadristi diventerebbero il più forte blocco sciita, e si tornerebbe all'anarchia e alla sofferenza del 2006.

E' difficile non essere d'accordo. Il Primo Ministro ha messo insieme una infrastruttura di potere enorme e relativamente stabile. Rimuovere lui e i suoi consiglieri e le sue istituzioni di sicurezza in un momento come questo potrebbe essere disastroso. Maliki era riuscito a convincere i sunniti scettici dopo il suo attacco contro le milizie sciite nel 2008 e a reinventarsi come un candidato che molti percepivano come un nazionalista laico.

Gli americani certamente ritengono che non esistano scenari senza Maliki, dato il rischio che i sadristi prendano il controllo. "Abbiamo fatto i calcoli", ha detto ad agosto nel corso di un evento il Generale Stephen Lanza, portavoce uscente delle forze armate statunitensi.

"Qui non abbiamo nessun potere o autorità reali", dice l'ambasciatore Usa Jeffrey. "Non abbiamo alcun diritto di intrometterci in modo minaccioso – quale che sia. L'unica cosa che abbiamo detto che si avvicini a un ripensamento delle nostre politiche è che ci fosse un governo nel quale i sadristi hanno un ruolo decisivo, dovremmo veramente domandarci se possiamo avere un futuro in questo Paese, vista la loro posizione politica".

Oltre a andarsene dal Paese, dice Jeffrey, gli Stati Uniti potrebbero fare marcia indietro rispetto alla loro vigorosa iniziativa per convincere le Nazioni Unite a togliere all'Iraq le sanzioni relative al Capitolo 7, se i sadristi dovessero assumere un ruolo dominante nel governo. "Probabilmente non saremmo troppo entusiasti di questa missione", dice Jeffrey, "e ci sono mille altri esempi di questo tipo". Da parte loro, i sadristi rifiutano di incontrare gli americani.

Stanno comunque negoziando con Allawi, offrendo di appoggiarlo in cambio del controllo sul ministero degli Interni e del rilascio di almeno 2.000 dei loro uomini che si trovano nelle carceri irachene. Allawi ha giustificato il suo flirt con i sadristi, che sono violentemente anti-americani, con il fatto che sarebbero soltanto maldestri e possono essere controllati.

E' una mossa che potrebbe seriamente rivelarsi un boomerang. In privato, Maliki dice che i sadristi sono pericolosi. Non crede che Allawi possa controllarli, insistendo che lui viene dal loro mondo e li conosce. Insiste che liberare semplicemente i prigionieri non è fra i suoi poteri legali. E i kurdi sono rimasti costernati dal flirt di Allawi con i sadristi: non vogliono che essi siano l'ago della bilancia.

I kurdi sono inoltre preoccupati per il fatto che molti dei politici sunniti di maggior peso nella lista di Allawi sono ostili alla loro visione del confine che divide il Kurdistan dal resto dell'Iraq. A causa di questo, i kurdi ora sono contrari all'eventualità che Allawi diventi Primo Ministro, e si sono buttati ad appoggiare Maliki.

Frustrato da questa sfilza di sconfitte nel campo delle pubbliche relazioni, Allawi si è rifugiato in alcune visite in Paesi arabi come l'Arabia Saudita, gli Emirati, il Kuwait, e la Siria a mo' di incoraggiamento.

Ma niente di tutto questo è di molto aiuto a Baghdad, dove conta, e sicuramente non lo aiuta in Iran, dove un governo guidato da Allawi verrebbe visto come una vittoria per i rivali di Tehran nella regione, i sauditi, senza parlare di una vittoria per i ba'athisti. L'Iran preferisce Maliki, anche se il loro rapporto non è affatto stretto come viene fatto credere dai sunniti.

In effetti, il potente vicino dell'Iraq non è riuscito a raggiungere molti dei suoi obiettivi. In Iraq l'Iran ha delle pedine ma non degli agenti. Persino il Consiglio Supremo islamico sciita, che venne formato in Iran, in realtà prova avversione per l'Iran.

I suoi membri, ex esuli iracheni che si erano messi insieme a Tehran durante il periodo in cui era al potere Saddam, ricordano l'umiliazione di essere guardati dall'alto in basso dagli iraniani per il fatto di essere arabi. Inoltre, i partiti sciiti hanno anche la loro base di potere, e non hanno bisogno dell'appoggio dell'Iran.

Tuttavia, l'ambasciatore iraniano a Baghdad è ancora molto attivo, e gli americani rifiutano di incontrarlo – un cambiamento sorprendente dati gli incontri che ci furono sotto l'amministrazione Bush.

Quanto ai turchi, vogliono trasformare il Governo regionale kurdo nel nord in uno stato vassallo della Turchia. Sono anche molto coinvolti a Baghdad. L'ambasciatore Jeffrey sostiene che la Turchia può accettare un governo guidato da Maliki, e questo è vero, anche se la Turchia preferisce Allawi; l'ambasciatore turco non ama Maliki, e ha contribuito a organizzare la lista Iraqiya. (Maliki l'ha presa in modo personale e ha temporaneamente privato l'ambasciatore del suo accesso alla Green Zone).

Triste a dirsi, nessuno di questi destreggiamenti in realtà conta poi molto. A prescindere da chi diventerà Primo Ministro o presidente, l'Iraq si avvia a diventare sempre più autoritario. I proventi del petrolio non entreranno per parecchi anni, quindi i servizi non miglioreranno. Anche quando arriveranno nelle casse dello Stato iracheno, i costi per le infrastrutture se li consumeranno tutti per l'immediato futuro.

La carenza di servizi significa che il governo si troverà ad affrontare il malcontento a livello dell'opinione pubblica, e per reazione diventerà più duro e più dittatoriale – anche se rimarrà una facciata democratica.

Dunque, per gli iracheni non se ne vede la fine. Dall'inizio dell'occupazione, nel 2003, oltre 70.000 di loro sono stati uccisi. Molti altri sono stati feriti. Ci sono milioni di nuove vedove e nuovi orfani. In milioni sono fuggiti dalle loro case.

Decine di migliaia di iracheni maschi hanno trascorso anni in carcere. Il nuovo Stato iracheno è fra i più corrotti al mondo. E' efficace solo nell'essere brutale e nel fornire un livello minimo di sicurezza.

Non riesce a fornire servizi adeguati alla sua popolazione, dove in milioni riescono a stento a sopravvivere. Gli iracheni sono traumatizzati. Ogni giorno ci sono omicidi con pistole col silenziatore e le piccole bombe magnetiche che si attaccano alle auto - note come "sticky bombs".

Nei Paesi confinanti, centinaia di migliaia di rifugiati languono in esilio, il settarismo confessionale è in aumento, e armi, tattiche, e veterani del jihad iracheno vanno diffondendosi.

A sette anni dalla disastrosa invasione americana, l'ironia più crudele in Iraq è che, in modo perverso, il sogno dei neo-conservatori di creare un alleato degli Stati Uniti moderato, democratico nella regione, che facesse da contrappeso a Iran e Arabia Saudita, si è realizzato.

Ma anche se la violenza in Iraq continuerà a diminuire e il governo diventerà un modello di democrazia, nessuno guarderà all'Iraq come a un leader. Nella regione, la gente ricorda – anche se l'Occidente se l'è dimenticato – i sette anni di caos, di violenza, e di terrore. Per loro, questo è quello che simboleggia l'Iraq.

Grazie alle guerre in Iraq e in Afghanistan, e ad altre politiche statunitensi fallimentari nel Medio Oriente più in generale, gli Stati Uniti hanno perso la maggior parte della loro influenza sui popoli arabi, anche se sono ancora in grado di esercitare pressioni su alcuni regimi.

La settimana scorsa, i media occidentali sono calati in Iraq per un ultimo 'embed', per uno sguardo all'"eredità", per chiedere agli iracheni se era "valsa la pena".

La notte del 31 agosto, ho sentito per caso un produttore televisivo americano che stava cercando di trovare una famiglia irachena che avrebbe guardato il discorso di Obama sull'Iraq in diretta. A Baghdad il discorso di Obama è andato in onda alle 3 di mattina. Ma Obama nel suo discorso non si è rivolto agli iracheni. E loro comunque non erano interessati.

La maggior parte degli iracheni a quell'ora erano svegli, ma erano a letto a soffrire per il caldo, senza riuscire a dormire, in attesa che tornasse l'elettricità in modo da poter far funzionare i loro condizionatori.


* Nir Rosen
è fellow al New York University Center on Law and Security e autore del libro di prossima pubblicazione Aftermath: Following the Bloodshed of America's Wars in the Muslim World. Le ricerche per questo articolo sono state possibili grazie al supporto del Nation Institute.


Iniziata l'offensiva di Kandahar
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 29 Settembre 2010

In Afghanistan, dopo mesi di rinvii, le truppe americane hanno lanciato nel fine settimana l'operazione 'Dragon Strike'. Dopo la tregua elettorale la Nato è passata all'offensiva in tutto il paese, con raid aerei anche oltre il confine pachistano

Terminata la tregua elettorale, le forze d'occupazione della Nato sono passate all'attacco in tutto il territorio afgano. In particolare a Kandahar, dove è scattata la grande offensiva militare annunciata e rimandata per mesi, e nelle province orientali, da Laghman a Khost, dove l'aviazione alleata ha condotto negli ultimi giorni pesanti bombardamenti, provocando vittime civili e sconfinando anche in territorio pachistano.

Nel fine settimana, dopo mesi di attesa e preparativi, le truppe corazzate americane hanno lanciato l'operazione Dragon Strike (video), volta a strappare ai talebani il controllo dei distretti rurali di Arghandab, Zhari e Panjwai che circondano la città di Kandahar.

I carri armati Abrams, coperti dagli elicotteri Apache, hanno aperto la strada alla fanteria, che sta avanzando lentamente tra i campi di marijuana (nella foto), riparandosi dietro i muretti di argilla e nei fossi.

La resistenza talebana è sostenuta, i combattimenti violenti. Diversi soldati americani sono già stati uccisi, alcuni colpiti dal fuoco nemico, altri saltati in aria sulle trappole esplosive che i guerriglieri hanno avuto tutto il tempo per preparare.

La Nato è passata all'offensiva anche nelle province orientali del paese. Sulle montagne di Laghman, a est di Kabul, truppe Usa e afgane hanno lanciato un'operazione contro le roccaforti talebane del distretto di Alishang.

Sabato è intervenuta l'aviazione, che ha bombardato un villaggio uccidendo una trentina di persone: tutti guerriglieri talebani secondo i comandi Isaf; anche donne e bambini secondo la gente del posto, che ha poi inscenato una manifestazione di protesta dispersa a fucilate dalla polizia afgana.

Più a sud, nella provincia di Khost, la guerra della Nato si sta gradualmente estendo oltre il confine pachistano, finora varcato solo dai droni telecomandati della Cia (venti incursioni dall'inizio del mese, con almeno 120 morti) e da commando di forze speciali Usa sotto copertura.

Nel weekend, elicotteri da guerra americani Apache e Kiowa, con le insegne della missione Isaf sulle fusoliere, sono penetrati ben tre volte nello spazio aereo pachistano per bombardare le basi talebane nella zona di Datta Khel, in Nord Waziristan: almeno una cinquantina i talebani uccisi secondo i comandi americani.

Mentre al fronte la guerra della Nato si fa sempre più dura, i governi alleati fanno sempre più fatica a mantenere il consenso popolare per una campagna militare dai costi umani ed economici sempre più elevati, e dai risvolti sempre più inquietanti e imbarazzanti.

Negli Stati Uniti continua a suscitare sdegno la macabra vicenda dei soldati americani che si divertivano a uccidere civili afgani come passatempo, conservando come trofeo le loro ossa (lunedì è iniziato il processo a loro carico); l'Australia è sotto shock per la condotta delle proprie forze speciali, accusate di aver ucciso dei bambini nel corso di un'operazione.

Dopo nove anni di guerra presentata come un'umanitaria missione di pace, il vero volto dell'occupazione militare dell'Afghanistan sta lentamente emergendo dietro la maschera della propaganda. Non solo per quanto riguarda gli orrori e le brutalità che caratterizzano questo come ogni altro conflitto armato.

Anche i giochi sporchi e i segreti di questa guerra stanno venendo a galla. L'ultimo caso - dopo il ciclone Wikileaks - riguarda il libro 'Operazione Cuore Nero', scritto dal tenete colonnello Anthony Shaffer, ex operativo Cia in Afghanistan: appena uscito in libreria, il Pentagono ha acquistato e distrutto tutte le copie per ''tutelare la sicurezza nazionale''.



Afghan Express
di Enrico Piovesana - Peacereporter - 29 Settembre 2010

Ultimata la prima linea ferroviaria afgana: collegherà Mazar-i-Sharif al confine uzbeco, facilitando commerci, rifornimenti a truppe Nato e traffici di droga

I lavori sono praticamente terminati. I primi convogli di collaudo, trainati da motrici di fabbricazione russa, già sferragliano sui binari appena posati in mezzo alle piatte steppe della provincia settentrionale di Balkh.

Entro fine anno verrà ufficialmente inaugurata la prima ferrovia merci afgana: 75 chilometri di strada ferrata che collegheranno la città afgana di Mazar-i-Sharif al confine uzbeco (varco di Hairatan), facilitando gli scambi commerciali, i rifornimenti militari della Nato e l'export di droga.

La linea, realizzata nel giro di un anno da un'impresa statale uzbeca e finanziata dalla Banca per lo Sviluppo Asiatico (controllata da Washington), attraversa l'unico territorio afgano ancora 'sicuro', dove la guerriglia talebana non è ancora arrivata.

I lavori di costruzione sono andati lisci, ma il rischio che questa ferrovia diventi obiettivo di attacchi è elevato, vista la sua importanza strategica militare.

A proteggerla ci sarà la polizia afgana, che ha costruito baracche lungo tutto il tragitto, ma sopratutto i miliziani del generale Abdul Rashid Dostum, il signore della guerra uzbeco che da decenni regna incontrastato su queste regioni.

La linea che collega Mazar all'Uzbekistan rappresenta solo il primo tratto di una rete ferroviaria nazionale da duemila chilometri (e 6 miliardi di dollari) per trasporto merci ma anche passeggeri, che il governo di Kabul ha deciso di realizzare per collegare le principali città del paese tra loro e con i paesi confinanti.

La scorsa settimana le autorità afgane e i rappresentanti della China Metallurgical Group Corporation (Mcc) hanno siglato un accordo per la costruzione di 700 chilometri di ferrovia che collegheranno Mazar a Kabul, valicando l'Hindu Kush, e Kabul al confine pachistano (varco di Torkham, sul Khyber Pass), via Jalalabad.

Scopo dichiarato di questa linea sarà il trasporto del rame estratto dalla grande miniera di Aynak, a sud di Kabul, di proprietà della stessa compagnia cinese Mcc.

L'altro tratto ferroviario in fase di realizzazione, ma bloccato da problemi di finanziamento, è quello da 140 chilometri tra la città afgana nordoccidentale di Herat - sede del contingente militare italiano - e il confine iraniano (varco di Islam Qala).

I lavori, iniziati già nel 2007, sono fermi da tempo per il mancato arrivo dei fondi che il governo afgano avrebbe dovuto ricevere dall'Arabia Saudita.

Per il resto, la rete ferroviaria nazionale afgana prevede collegamenti tra Herat e il confine turkmeno (varco di Towraghondi), tra Herat e Mazar-i-Sharif, tra Sheberghan e il confine turkmeno (varco di Aqina), tra Mazar e il confine tagico (varco di Shir Khan Bandar), tra Kabul e il confine iraniano (varco di Zaranj) via Kandahar e Lashkargah, e tra Kandahar e il confine pachistano (varco di Spin Boldak).

Ma questi sono solo ambiziosi progetti sulla carta, probabilmente destinati a rimanere tali.



Sorridi, Fiamma Nirenstein!
di Miguel Martinez - http://kelebeklerblog.com - 29 Settembre 2010

L’onorevole berlusconiana Fiamma Nirenstein (da non confondere con Fiamma Nait e Deborah Firenstein), fautrice della Censura Planetaria, sta organizzando in questi giorni una grande manifestazione a Roma a sostegno di Israele, su cui speriamo di poter tornare.

Intanto, Fiamma Nirenstein supera se stessa (non è facile) con un articolo sul Giornale del 18 settembre, intitolato “L’Occidente reagisca alle minacce prima che sia tardi“.

Il presunto piano per uccidere il Papa significa quello che si sospettava, ma che troppi cercavano di ignorare: l’islam radicale vuole colpire al cuore la nostra civiltà, puntando sui suoi emblemi. Gli arresti dei sei algerini arrivano dopo settimane di tensione e di segnali trascurati. L’islamismo violento parla attraverso fatti, più che con le parole: mirare al Papa vuol dire essere determinati a cancellare i pilastri dell’Occidente. Il pastore Terry Jones è un stolto che voleva bruciare il Corano. E dall’altra parte sono arrivati gli incidenti nel Kashmir con 15 morti e le chiese assaltate, e adesso ecco il progetto – almeno così sembra – di uccidere Ratzinger.

L’islam più fondamentalista non vuole parlare, vuole solo comandare, colonizzando l’Europa, e gli Stati Uniti, vuole l’annientamento di Israele. È un’invasione potenziale e reale che sottovalutiamo troppo spesso. I posteri si ricorderebbero di noi non per la nostra tolleranza, ma per la nostra colpevole arrendevolezza.

Basta pensare alla storia della moschea di Ground Zero. Quello è un santuario del nostro mondo con la sua libertà oltraggiosa per altre culture: là ci si concentra e si ripensa alle vittime di un assassinio di massa compiuto in nome del fascismo islamista, come lo chiamò adeguatamente George Bush. Se ci siete stati, sapete che ci si sente come in una chiesa, o in una sinagoga. E proprio questo è il punto. Là si colpì un simbolo dell’America giudaico cristiana. Là una Moschea rovescerebbe i significati, costruirebbe un centro di presenza islamica proprio un luogo che, per antonomasia, non lo è.”

Il resto sul blog della stessa Nirenstein.

Ora, si dà il caso che sul nostro blog abbiamo analizzato in dettaglio esattamente i tre “segnali” della “minaccia islamica” che lei ha scelto.

Uno. Sei spazzini algerini si scambiano delle battute sul Papamobile, vengono fermati e subito rilasciati. Fiamma ce lo racconta così: “l’islam radicale vuole colpire al cuore la nostra civiltà, puntando sui suoi emblemi“.

Poiché la signora Nirenstein si dichiara di fede ebraica, ci incuriosisce il fatto che lei ritenga il Pontefice Romano il “cuore” e l’emblema della “nostra civiltà”. Brevemente, le ricordiamo l’articolo XXXII dell‘Editto sopra gli ebrei di Papa Pio VI (1775 -1793):

“Che secondo le proibizioni contenute nella Bolla della san. mem. di Paolo IV la 3′, e nella 6. di 5. Pio V. e nella 19. della san. mem. di Clemente VIII. che incomincia Caeca & obdurata, gli Ebrei non giuochino, nè mangino, nè bevano nè abbiano altra familiarità, o conversazione con i Cristiani, nè questi con essi tanto ne’ Palazzi. Case. o Vigne. che nelle Strade. Ostarie. Bettole. Botteghe. o altrove, e gli Osti, Bettolieri. e Bottega i non permettano la conversazione tra Cristiani, ed Ebrei, sotto pena agli Ebrei di scudi dieci e del Carcere ad arbitrio, ed a’ Cristiani di scudi dieci e di altre corporali ad arbitrio.”

Ma anche i papi diventa Pilastri, quando si tratta di lanciare il progetto della “ Destra Giudeo-Cristiana“.

Due. I 15 morti del Kashmir – che poi sono 16 - sono musulmani , uccisi dalla polizia indiana , non hanno assaltato chiese (bensì una scuola) e non hanno agito in risposta al pastore Terry Jones, ma a un altro episodio.

Tre. Non c’è alcuna moschea a Ground Zero. Nel senso che non è a Ground Zero, né è una moschea ma un semplice luogo di preghiera, gestito da un imam sul ">libro paga dell’ufficio propaganda del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

Visto che si vive meglio senza tante paure? Che oggi è pure una bella giornata.


Palestina, riprende la colonizzazione israeliana in Cisgiordania
di Carlo M. Miele - www.osservatorioiraq.it - 29 Settembre 2010

La colonizzazione israeliana della Cisgiordania riprende a pieno ritmo.

Come annunciato nelle scorse settimane, Tel Aviv non ha prorogato la moratoria sugli insediamenti sancita lo scorso novembre e scaduta ieri a mezzanotte.

Ancor prima della scadenza ufficiale del provvedimento, i bulldozer israeliani hanno ripreso i lavori ad Adam, nel nord della Cisgiordania, dov’è prevista la costruzione di una trentina di nuovi appartamenti.

Ma altri interventi sono previsti in almeno otto altre colonie sparse nei Territori palestinesi occupati, come Kiryat Arba, presso Hebron.

Complessivamente - secondo quanto reso noto dalla radio nazionale dello Stato ebraico - verranno ripresi “immediatamente” i lavori per non meno di 1500 nuove unità abitative, per le quali esiste già l’autorizzazione delle autorità israeliane.

La ripresa della colonizzazione è stata celebrata ieri dai coloni in due diverse manifestazioni, cui hanno preso parte anche diversi deputati ed esponenti del governo israeliano.

“Il congelamento è terminato”, ha dichiarato Danny Danon, membro del Likud, il partito del primo ministro Benjamin Netanyahu, in un raduno che ha visto la partecipazione di circa 2mila persone.

Visibilmente soddisfatto anche Danny Dayan, dirigente di Yesha, la principale organizzazione dei coloni della Cisgiordania, che ha preso parte alla cerimonia tenuta nell’insediamento di Revava, nella parte nord dei territori occupati.

“La missione del sionismo – ha detto Dayan – è quella di costruire sulla terra di Israele e da questa sera noi riprenderemo questa missione”.

“Adesso potremo tornare alla normalità”, ha fatto sapere David Haivri, presidente del consiglio regionale della Samaria (parte nord della Cisjordania).

Negoziati a forte rischio

La ripresa delle colonie mette a forte rischio i negoziati ripresi lo scorso 2 settembre tra Israele e Autorità nazionale palestinese (Anp), visto che proprio lo stop agli insediamenti rappresenta la precondizione posta dai palestinesi per trattare con la controparte.

Nei giorni scorsi - e nonostante le pressioni della comunità internazionale - il governo di Tel Aviv aveva respinto l’ipotesi di un prolungamento della moratoria sulle colonie (che tra l’altro non aveva mai compreso Gerusalemme est), proponendo in cambio una colonizzazione “rallentata”, ossia “non troppo visibile”, con un massimo di circa 2mila nuove abitazioni per anno.

L’escamotage israeliano non ha accontentato l’Anp, che tuttavia ha chiesto una settimana di tempo (fino al 4 ottobre) prima di rendere nota la propria posizione ufficiale in merito.

Diverse formazioni palestinesi, tuttavia, stanno facendo pressione sul presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) perché abbandoni il tavolo sin da subito.

Il Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp) ha fatto sapere che la ripresa dei negoziati rappresenta una “ritrattazione” della decisione presa dal Consiglio centrale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e ha annunciato il boicottaggio delle prossime riunioni, in segno di protesta.

Duro anche Mustafa Barghouthi, leader del movimento Mubadara, che ha definito i negoziati in corso “una copertura che consente l’annessione israeliana, la consacrazione del regime di apartheid e la liquidazione dei diritti dei palestinesi”.


Arriva la superstangata UE. Italia come la Grecia?
di Marcello Foa - http://blog.ilgiornale.it - 29 Settembre 2010

Come capita di sovente le notizie più importanti sono quelle che sfuggono al radar dei grandi media. E infatti questa notizia non la trovate sulla home page dei principali quotidiani nazionali (tranne quella del Giornale.it), ma solo su quelli economici come il Sole 24 Ore, ma con tono anodino, tranquillizzante.

E invece è una bomba, che annuncia una superstangata europea per l’Italia, che rischia di dover adottare misure simili a quelle imposte alla Grecia.

Infatti la Commissione europea ha adottato la proposta legislativa che riscrive il Patto di Stabilità. I dettagli tecnici e la versione soft li trovate in questo articolo del Sole 24 Ore ( http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2010-09-29/nuovo-patto-stabilita-stretta-130210.shtml?uuid=AYM8spUC ), ma le sue implicazioni sono spiegate molto bene in questo pezzo del Fattoquotidiano ( http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/27/ue-conti-pubblici-berlino-detta-la-linea-dura-e-per-l’italia-sono-guai/65182/ ).

In sintesi.

- I Paesi caratterizzati da un rapporto debito/Pil superiore al 60% dovranno infatti tagliare l’eccesso del proprio debito di almeno un ventesimo all’anno se vorranno evitare di incorrere nelle sanzioni di Bruxelles.

Dunque l’Italia dovrà tagliare otto punti in tre anni, pari a 130 miliardi di euro

- Chi non ottempera deve pagare una multa pari allo 0,2% e subire tagli ai fondi per lo sviluppo e ai sussidi agricoli, sospensione del diritto di voto nel Consiglio dei ministri dell’Unione per quegli Stati membri incapaci di adeguarsi alle direttive.

A spingere in questa direzione è l’establishment europeo del misterioso presidente Von Rompuy, che il Financial Times considera molto influente (guarda caso), e della Germania che guida il drappello dei “duri e puri”.

Non è ancora detto che il Patto di stabilità venga adottato in questa forma. L’Italia si oppone, la Francia anche. Ma la direzione è quella e d’altronde lo stesso Tremonti, nell’intervista che poche settimane fa ho citato su questo blog, ha lasciato intendere che la decisione ormai è presa. L’Italia potrà limare e attenuare, ma non potrà spingersi oltre.

Da parte mia alcune considerazioni.

- Che l’Italia debba ridurre il debito è fuor di dubbio, ma imporre una tabella di marcia di questo tipo mi sembra folle, perché significa uccidere qualunque speranza di crescita e, anzi, in epoca di deflazione come questa, provocare un arretramento dell’economia reale e uno suo depauperamento, questo sî strutturale. Crollo dei consumi, moria di piccoli commerci e piccole imprese, aumento della disoccupazione. Il rimedio è peggiore del male?

- Che senso ha punire con multe stratosferiche un Paese che non ha risorse finanziarie per rispettare la tabella di marcia? E’ come chiedere soldi a un imprenditore sul lastrico. Non li ha e così accentui le sue difficoltà. Misura strampalata.

- Dietro questo percorso vedo delinearsi due disegni.

Quello dell’establishment europeo che si batte per il definitivo disgregamento degli Stati nazionali e un trasferimento di potere e sovranità a Bruxelles, ma senza consenso popolare diretto; dunque gestendo l’Europa secondo gli attuali nebulosissimi criteri, che attribuiscono all’Europarlamento poteri marginali.

E quello della Germania la quale pretende che l’Europa si adegui ai propri standard, senza chiedersi se tutti i Paesi possano adottare le sue strutture economiche, finanziarie e sociali.

Come ho già scritto, riconosco ai tedeschi molti meriti, ma il loro modello non è applicabile dappertutto e non può essere esportato in modo rigido, perché implica, alla lunga, l’eliminazione delle peculiarità di Paesi come l’Italia, che hanno un alto debito, ma anche virtù industriali proprie.

Il rischio è di appiattire tutta l’Europa, rendendola nominalmente più stabile ma di fatto più povera, molto più povera, per compiacere la Germania. Ne vale la pena?

Entrambi gli scenari mi sembrano molto inquietanti. Ma sui giornali nessuno (o quasi) ne parlerà in questi termini. Prevarrà la retorica, prevarranno il provincialismo e la pavidità delle nostre élite (anche giornalistiche)

O no?



L'Islanda chiede il conto all'ex premier
di Antonio Marafioti - Peacereporter - 29 Settembre 2010

Geir Haarde, ex capo del governo di centro destra, è stato deferito dal parlamento a un tribunale speciale per "negligenza" nel crack delle banche nel 2008. E' la prima volta che un leader politico affronterà un processo simile.

L'ex primo ministro islandese Geir Haarde è stato deferito a un tribunale speciale con l'accusa di "negligenza" nella prevenzione della crisi economica globale. È la prima volta nella storia che un ex capo di governo subirà un processo in base a questo capo d'accusa.

Votazione. Dopo aver accolto all'unanimità le conclusioni del rapporto nero di 2,300 pagine, stilato da una commissione governativa e che raggruppa tutti gli errori politici legati al crack bancario del 2008, i 63 parlamentari islandesi si sono pronunciati sulla mozione di processabilità di Haarde.

L'ex premier, a differenza di tre ministri del suo governo, ha subito una sconfitta per 33 voti favorevoli all'impeachment contro 30 contrari. "Voglio rispondere a tutte le accuse davanti al giudice e sarò vendicato" ha commentato a caldo l'ex leader del partito Indipendentista.

Oltre alla sua imputabilità i membri della Althingi, il parlamento islandese, dovevano anche pronunciarsi su quella di Arni Mathiesen, Ingibjorg Gisladottir e Bjorgvin Sigurdsson, rispettivamente ex titolari dei dicasteri di Finanza, Affari Esteri e Commercio.

Le loro responsabilità sarebbero, secondo i legislatori, inferiori rispetto a quelle del loro ex numero uno dimessosi lo scorso 25 gennaio all'indomani dello scoppio della crisi. La parola sulle sorti di Haarde, che nove mesi fa aveva annunciato anche di essere affetto da un tumore maligno alla gola, passerà alla magistratura a cui, per ora, spetta il compito di fissare la data della prima udienza del processo.

Tribunale ad hoc. Oltre l'inedito capo d'imputazione il processo prevede anche un'altra novità: il tribunale giudicante. L'organo, chiamato a pronunciarsi sul caso, sarà composto da cinque giudici della Corte suprema, dal presidente di una corte distrettuale, da un professore di diritto costituzionale e otto persone selezionate dal parlamento.

In caso di colpevolezza l'ex capo del governo di Reykjavík potrebbe essere condannato fino a due anni di reclusione. Pena che, secondo i rappresentanti del popolo, sarebbe appropriata per chi ha permesso che lo Stato isolano passasse da una situazione di crescita economica prodigiosa a un crack finanziario di proporzioni internazionali.

Il fallimento di due delle tre più grandi banche nazionali, la Kaupthing e la Landsbanki, aveva infatti coinvolto direttamente l'economia della Gran Bretagna, dai patrimoni dei privati agli investimenti delle grosse società finanziarie.

Solo i 300mila i risparmiatori privati inglesi che avevano aperto un conto on-line, attratti dalle promesse dei loro alti tassi d'interesse, hanno visto nel tempo sparire dalle casse delle loro banche di fiducia ben 4.5 miliardi di sterline.

Non è andata meglio alle aziende. La Chelsea Building Society, una delle 13 imprese di costruzione che si erano affidate alla Landsbanki, ha visto andare in fumo i fondi dei suoi depositi, 50 milioni di sterline, nel giro di poche ore. E ancora enti locali, multinazionali e perfino il West Ham United, squadra di calcio della Premier League inglese, sarebbero state coinvolte nel crack delle banche islandesi.

Ma il primo ministro continua a respingere tutte le accuse sostenendo "Ho la coscienza pulita. Queste denunce a mio carico trovano fondamento su una tattica persecutoria di carattere politico".

Non credono a questa versione gli islandesi che, afflitti da un tasso di disoccupazione sempre crescente, chiedono a gran voce che anche i tre ex ministri di Haarde siedano al banco degli imputati del Tribunale speciale.


Silvio il venerabile
di Giusy Arena e Filippo Barone* - www.ilfattoquotidiano.it - 28 Settembre 2010

In un libro un capo massone rivela: ha la sua loggia, ne fanno parte Previti e molti leader Pdl. Gioele Magaldi: "Le decisioni ufficiali del partito vengono prese in privato dagli affiliati e poi comunicate a tutti gli altri"

Dall’altro lato del pianeta massonico (…) si leva una voce che sembra dare corpo a una interpretazione molto più “forte” della P3: non si tratta di quattro sfigati (…). A sostenerlo è Gioele Magaldi, massone a capo di una nutrita corrente di dissidenti, il Grande Oriente Democratico (…) dietro di lui non meno di settemila massoni (…).

Una pesante lettera aperta compare in Internet il 26 luglio, Magaldi invita il “fratello Berlusconi” a ritirare alcuni provvedimenti, in particolare il Lodo Alfano e il disegno di legge sulle intercettazioni (…) Un terremoto silenzioso.

Dal premier nessuna risposta o smentita (…). La voce di Magaldi appare ferma, sicura. (…): “I rapporti di Berlusconi con la massoneria non sono mai cessati”. Ma prima fa una premessa: quello che fu scoperto nella casa di Gelli, l’elenco di 962 nomi più documenti, è solo una parte del materiale sulla P2.

Il resto – secondo lui la parte più scottante – non è stato divulgato. (…) Materiale custodito in almeno quattro parti diverse, perché potrebbe avere “conseguenze piuttosto traumatiche”. (…)

E oggi, questa P3 in che rapporti sta con quella P2?


FormalmentelaP3èun’invenzione della stampa, non è una loggia regolarmente costituita all’interno del Grande Oriente d’Italia, a differenza di quanto era avvenuto per la P2. Ma sostanzialmente esiste, eccome.

Chi sta in cima?

Si dice ci sia Berlusconi, più giù Dell’Utri e ancora Verdini, Carboni, e poi gli altri, i Martino, i Lombardi. La manovalanza…

Berlusconi e la massoneria…


Non fu un fatto superficiale l’adesione di Berlusconi alla P2 di Gel-li, come tante volte si è sentito dire. Non è finita lì. Il suo interesse alla massoneria, al mondo dell’esoterismo e dell’iniziazione lo coinvolge da sempre in modo significativo. Lui, che aveva già fatto studi esoterici prima, viene iniziato ai riti massonici da Giordano Gamberini e Licio Gelli. Entrambi in rapporti organici e strutturati con la Cia.

Tramite Flavio Carboni e Giuseppe Pisanu è stato in grandi e costanti rapporti con Armando Corona, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1982 al 1990. Poi, sempre tramite Carboni, Pisanu e Corona, è stato in rapporti stretti con lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Questo in gioventù, e poi?

Berlusconi è una sorta di maestro illuminato che, autonomamente, ha conquistato i gradi della sua successiva iniziazione. Ha frequentato direttamente il vertice, prima Gelli, poi il Gran Maestro Corona e altri del suo entourage. Non ha fatto vita di loggia,cessata la P2 non si è iscritto altrove. Ne ha fatta direttamente una sua…

In che senso?


Nei primi anni ’90 si dice che abbia ritenuto di aver compiuto il proprio percorso di formazione massonica in modo così adeguato da poter costituire un gruppo autonomo e indipendente (…). È una persona con un’altissima percezione di sé.

Che riconoscimento ha questa “loggia fatta in casa”, da parte delle altre logge?


Berlusconi ha rapporti con tutti gli ambienti internazionali massonici. Il problema è che oggi questi rapporti sono in crisi. È il suo problema più grande: la parte maggioritaria (…) ritiene che Berlusconi sia diventato un problema per l’Italia e non una soluzione.

Perché non offre un progetto strategico che possa essere in linea con l’idea massonica della società. Non ha fatto le riforme strutturali e ha attentato alle libertà fondamentali di uno Stato democratico e occidentale.

Berlusconi a capo di un gruppo autonomo. Gli altri?

È una loggia di cui farebbero parte alcuni suoi stretti collaboratori. Gustavo Raffi mi raccontò dell’affiliazione di Cesare Previti, tramite una loggia romana.

Carboni, Confalonieri, Letta, Verdini? Magaldi sorride, non si esprime ma sembra annuire. Andiamo per esclusione: Bossi, Tremonti?


No.

Bondi?

Lo escludo categoricamente

A un certo punto sembra sfuggirgli una precisazione, al nome di Dell’Utri lui specifica.

C’è chi racconta che Marcello Dell’Utri e suo fratello siano molto, diciamo, affascinati dal milieu massonico e farebbero parte di questo ambito così riservato, costituito da Berlusconi (Marcello e Alberto Dell’Utri, quindi)

Berlusconi, Verdini, Dell’Utri… sembra un normale vertice di partito, con l’anomalia d’essere fatta in casa. Perché scandalizzarsi?

Non proprio un vertice di partito. Non se si usano i paramenti e i rituali della massoneria. Non se partecipano fratelli non appartenenti alle forze politiche ufficiali o provenienti da paesi stranieri. E, soprattutto, se ne sono esclusi altri protagonisti del Pdl.

Quindi il problema sta nella cabina di regia…

Il problema è se le decisioni vengano prese in organi ufficiali del partito Pdl o vengano prese altrove. Si dice che le riunioni avvengano in luoghi significativi nelle varie case del premier. Vi sarebbe un luogo, una loggia massonica fatta in casa da Berlusconi che pianifica le strategie più importanti in ambito politico, aziendale… su tutti i piani dei suoi interessi.

È li che va cercata l’origine delle decisioni, di tutto ciò che poi tracima a diversi livelli. In questo modo le riunioni del Pdl sono svuotate di vero significato, perché non c’è una discussione, ma solo distribuzione di compiti e ordini imposti.

Ci sono persone all’interno della loggia che non fanno parte dell’entourage politico?


Direi di sì (…).

Massoni e partiti politici, quanti e dove?


Sono ovunque: nel Pdl, certo, ma in tutta la politica, anche Pd.

E nella Lega Nord?


Molti leghisti hanno il dente avvelenato perché sono stati rifiutati. (…) La massoneria ha molto caro il processo risorgimentale che ha portato all’Unità d’Italia. È interessante notare quanti leghisti di giorno suonano contro la massoneria e l’Unità e di notte vengono a chiederci di poter aderire…

Parlava di massoni dell’ex Forza Italia che sarebbero in dissenso con Berlusconi…


Quelli che ci hanno contattato sinora sono un gruppetto, ma il numero è significativo, quanto basta in questo periodo per far ballare la maggioranza.

Quindi: la P3 esiste, è una loggia massonica autonoma, creata e guidata da Silvio Berlusconi, si riunisce nelle sue case dove vengono svolti riti massonici, si sovrappone e sostituisce nelle decisioni ai vertici ufficiali e legittimi del Pdl, prende decisioni sulla politica nazionale come sugli affari privati del premier e comprende i membri dell’inchiesta che abbiamo fino ad ora raccontato.

*Autori del libro: “P3: tutta la verità” Editori Riuniti, 2010

martedì 28 settembre 2010

Sakineh-Lewis: disgustoso doppiopesismo


Oggi il procuratore generale iraniano Gholam-Hossein Mohseni-Ejei ha annunciato la condanna a morte di Sakineh Mohammadi Ashtani, la donna accusata di complicità nell’omicidio del marito e di adulterio.

Sakineh, secondo quanto scrive il Teheran Times, è stata condannata per la complicità nell'omicidio, ma non per l'adulterio, e sarà giustiziata per impiccagione.

Comunque il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Ramin Mehman-Parast, ha poi fatto sapere in mattinata che "le procedure legali non sono concluse, un verdetto sarà deciso quando saranno terminate", lasciando intendere come siano possibili ancora piccoli margini di manovra per evitarle il cappio al collo.

Margini che invece non ci sono stati per Teresa Lewis, giustiziata con iniezione letale la settimana scorsa negli Usa per ever commesso lo stesso crimine di cui è accusata Sakineh. Ma nessuno in Occidente ha mosso un dito nè ha lanciato petizioni per raccogliere firme contro l'esecuzione della sua condanna a morte.

Il solito noioso e disgustoso doppiopesismo che ha veramente nauseato.


La Sakineh di Teheran è viva. Quella della Virginia é morta.
di Pino Nicotri - www.pinonicotri.it - 24 Settembre 2010

La Sakineh di Teheran è viva. Quella della Virginia, l’handicappata Teresa Lewis, è stata invece uccisa questa notte. Nel vergognoso silenzio dei professionisti dei due pesi e due misure come Bernard Levy e Carla Bruni Sarkozy. Woody Allen: “La stampa racconta balle”. As usual

E dunque la Sakineh statunitense che risponde al nome di Teresa Lewis e di cui tutti ce ne siamo bellamente fregati, anzi strafregati, è stata puntualmente giustiziata. Ovvero uccisa legalmente.

Con una iniezione letale dopo averla legata come un Cristo donna a un lettino a forma di croce per poterle infilare il veleno nelle arterie. Ci sono giornali che pudicamente, o meglio ipocritamente, nascondo tutto sotto il tappeto di “un cocktail di barbiturici che le ha fermato il cuore”.

Insomma, un po’ come se fosse andata al bar e avesse bevuto un cockail sbagliato, o meglio: il cocktail della Giustizia… Made in Usa. Più esattamente, in Virginia.

Quando l’hanno uccisa in Europa erano le 3 di notte. Anche in Francia, e la signora Carla Bruni sposata Sarkozy se la dormiva beatamente come il figo filosofo maestrino di pensiero Bernard Levy, che si mobilita solo se c’è da dare addosso all’Iran. Che miserabili.

I fatti.

Alla pari della coetanea iraniana Sakineh, Teresa Lewis è stata condannata a morte per avere in qualche modo collaborato all’uccisione di suo marito Julian e del figliastro Charles, delitti compiuti nel 2002 allo scopo di incassare i soldi di una polizza di assicurazione, 250mila dollari, e fuggire con l’amante.

Intervistata in carcere dal Washington Post, Teresa ha ammesso le sue responsabilità ed espresso rimorso senza accampare scusanti: “Non ho premuto il grilletto quel giorno, però feci del male, lasciai che due persone fossero uccise. Questo lo so. Ho tradito due persone che amavo. Ma ho paura della morte, vorrei continuare a vivere”. Desiderio non esaudito: di continuare a vivere non gliel’hanno permesso.

Questa condanna a morte ha vari lati orribili, oltre a quello intrinseco di ogni condanna capitale. Il primo è che Teresa è una ritardata mentale, il suo quoziente di intelligenza è solo 72: vale a dire, appena due punti sopra l’incapacità di intendere e di volere.

Il secondo è che la sua domanda di grazia è stata respinta proprio perché per quei due miserabili punti: “Teresa Lewis non rientra nella definizione legale di una ritardata mentale”, ha seraficamente dichiarato il governatore Robert McDonnell.

La definizione legale scatta infatti a quota 70. Ma è il terzo lato orribile il più incredibile e orribile di tutti: mentre lei è stata condannata a morte, gli autori materiali del delitto - tali Shallenber e Fuller - sono stati invece condannati NON alla pena capitale, bensì all’ergastolo. Incredibile, ma vero. Orribile, ma vero.

A dire il vero di lato orribile ce n’è un altro: si tratta infatti di una sentenza chiaramente discriminatoria verso le donne. Gli esecutori materiali, coloro cioè che il grilletto lo hanno premuto, sono di sesso maschile, e pur avendo la responsabilità maggiore non sono stati condannati a morte, anche se pare che uno dei due si sia suicidato in carcere.

Il giudice Charles Strauss si è scagliato principalmente contro Sakineh, pardòn, Teresa, definendola “la testa del serpente” del duplice delitto. Come faccia un “serpente” con la testa da handicappato a subornare due uomini fino a renderli assassini è un bel mistero, ma mister Strauss non bada a queste quisquillie. Lui, da bravo yankee pronipote dei cow boy dalla pistola e dall’impiccagione facile, nonché inventori del linciaggio, è un vero macho e spara sentenze.

Come si vede, i casi della Sakineh iraniana e della Sakineh statunitense di nome Teresa Lewis sono pressocché identici, ma il secondo è più grave. E’ più grave sia per l’handicap della Sakineh della Virginia sia per il fatto che a differenza della Sakineh iraniana è stata uccisa per davvero. Nella nostra beata indifferenza.

Non ha detto “bah” neppure l’eroica signora Carla Bruni in Sarkozy, che credo avrebbe fatto meglio a firmare prima di tutto contro la decisione di suo marito di spingere i rom a togliersi dai piedi della Francia. Per non parlare del filosofo fighetto Bernard Levy, l’organizzatore della campagna a favore della Sakineh di Teheran: per quella della Virginia ha preferito fottersene.

Embé, i due pesi e due misure mica sono pizza e fichi! Tanto meno lo sono la forsennata volontà di diffamare l’Iran in ogni modo per poter facilitare la sospirata invasione o almeno gli agognati bombardamenti “chirurgici”. La gente miserabile a volte è molto miserabile. Si parva licet, dove sono i Marco Tempesta che reclamano attenzione per TUTTI e comunque MAI per i casi disperati? Vallo a sapere. Dormono beati il sonno del giusto. O della ragione?

Non è la prima volta che negli Usa mandano a morte un handicappato e - se non ricordo male - perfino una persona che aveva commesso il delitto quando era minorenne. Ma neppure questo è bastato ai pii e virtuosi Carla Bruni e Bernard Levy per mobilitarsi o almeno interessarsi della povera disgraziata d’Oltreoceano. Su Carla Bruni non c’è molto da dire: scegliersi la causa umanitaria “giusta”, indovinata, aiuta la propria immagine, la promuove, provoca buona pubblicità.

Sul signorino Levy vale però la pena aggiungere qualche parola. Questo autentico fissato contro l’Iran è uno dei massimi teorici dell’impossibilità di usare con Teheran qualsiasi carota, qualsiasi deterrente che non sia la guerra o almeno una grandinata di bombe.

Ecco cosa ha dichiarato il fighetto parigino il 22 agosto del 2006 al Wall Street Journal, ovviamente glissando sul fatto che le armi atomiche le ha la sua amatissima Israele e non altri in Medio Oriente: “C’è una differenza radicale tra la Repubblica islamica dell’Iran e gli altri governi con armi nucleari. Questè differemza è dovuta alla visione apocalittica del mondo degli odierni governanti dell’Iran. Questa visione […] condiziona chiaramente la percezione e le linee politiche di Ahmadinejad.

La minaccia di una rappresaglia [nucleare] contro l’Iran è inefficace di fronte al complesso del suicidio e del martirio che affligge oggi parte del mondo islamico […]. In questo contesto, la reciproca distruzione assicurata, cioè il deterrente che ha funzionato così bene durante la Guerra Fredda non avrebbe alcun significato […]. Per gente che la pensa a quel modo non sarebbe un freno, ma al contrario un incentivo”.

Questa idiotissima tesi dell’aspirazione al suicidio atomico di buona parte dell’Islam, e comunque dell’Iran, è stata ripresa nello stesso periodo - guarda caso sempre nel 2006 - in Italia da Mario Pirani su Repubblica.

Pirani è un ottimo giornalista, ma è legittimo pensare che gli faccia velo l’avere partecipato alla guerra del ‘48 in Israele contro arabi e palestinesi. Inoltre, come ho già avuto modo di dire in precedenza, ha disinvoltamente confuso tra bombe atomiche, A, e bombe H, all’idrogeno, enormemente più potenti, pur di accreditare - già 4 anni fa! - l’idea che l’Iran punti perfino alle H. Ma ovviamente tacendo che, secondo vari autori ed esperti, ad avere la bombe H oltre alla atomiche è Israele!

Ho detto che si tratta di una tesi idiotissima, e aggiungo che è falsa in modo dimostrabile: finora infatti il regime iraniano, per quanto detestabile come tutti i regimi teocratici, ha mostrato una grandissima elasticità e capacità di compremessi e moderazione pur di NON offrire né agli Usa né a Israele la scusa buona per attaccarlo. Anche perché l’Iran porta ancora le ferite degli 8 anni di guerra scatenatagli contro dall’Iraq di Saddam, aizzato dall’Occidente, ed è in piena ricostruzione e rilancio. Meno propensi al suicidio di così…

Levy dunque mente. E, spiace dirlo, sulla sua scia sbaglia Pirani. Ma proseguiamo. Il fighetto di Parigi in quell’indecorosa e alluncinata intervista al Wall Steet Journal del 6 agosto 2006 arriva al ridicolo. Ha infatti anche affermato che per l’allora imminente 22 agosto di quell’anno, 2006, probabilmente Ahmadinejad tramava qualcosa di apocalittico. Perché? Perchè qual giorno il calendario musulmano celebra l’ascesa al cielo di Maometto sul suo celebre cavallo.

Motivo per cui secondo l’imbecillità in malafede del monsieur parisienne quella poteva essere la data migliore, la più appropriata per Ahmadinejad per scatenare - udite udite!!! - la fine apocalittica di Israele e se necessario del mondo! Roba da ricovero immediato alla neuro dell’aspirante ma fallito profeta biblico di Parigi. Mestatore da strapazzo, ma riverito maestrino del pensiero (agitato, affabulatorio e ipercinetico quanto il nostro filosofo fighetto politicamente inconcludente Massimo Cacciari, ma tralasciamo).

Levy dovrebbe semmai prendersela con quella parte di rabbinato fanatico e con gli altrettanto fanatici fondamentalisti cristiani degli Usa che - come a volte ricorda Noam Chomsky, ebreo contrario al sionismo - sognano per davvero l’Armageddon, detto anche Apocalisse o Fine del Mondo, e cercano pure di favorirlo: i primi non so bene per quale motivo religioso, i secondi perché con l’Apocalisse tornerebbe finalmente Gesù Cristo sulla terra e instaurerebbe finalemente il regno dei cieli…. C’è bisogno di commenti? Non credo.

La conclusione però è che qualunque cosa dica monsieur Levy non gli si può credere, stando la sua cantonata galattica dell’agosto 2006, per non parlare delle altre. Vedasi il continuo battere e ribattere non solo suo, ma di tutti un po’, sulle “bombe atomiche iraniane”. Che non solo non esistono, ma l’Iran, come ha dichiarato anche Ahmadinejad all’Onu ieri, non ha nessuna intenzione di produrre. Ovviamente l’Iran chiede che se ne privino anche gli altri, compresa Israele.

Purtroppo però Levy non lo hanno ricoverato al manicomio. E così ha potuto continuare a straparlare, seminando altro veleno contro l’Iran, gli arabi e l’islam, e lanciando la bufala della “lapidazione” di Sakineh, quella iraniana, perché colpevole di adulterio quando invece è stata condannata a morte sì, ma per concorso in omicidio:reato piuttosto grave, come dimostra il caso della sua omologa della Virginia. O no?

A me risulta che in Iran la lapidazione non esiste più da anni, però sospendo il giudizio in attesa di notizie più certe: purtroppo infatti i miei contatti in Iran pare siano svaporati o privati del telefono o hanno cambiato numero. I rifugiati politici che vivono a Roma mi hanno detto che la lapidazione esiste, ce ne sono 12 in attesa e una sarebbe stata eseguita un anno fa vicino Teheran, ma dei rifugiati politici non sempre c’è da fidarsi.

Non voglio pensare che abbia mentito perfino Amnesty International, ma è un fatto che sulla motivazione della condanna a morte ha mentito. Ecco infatti cosa si legge sul suo sito all’URL http://www.amnesty.it/pena_di_morte_Iran_lapidazione_adulterio : ” Sakineh Mohammadi Ashtiani è stata condannata nel maggio 2006 per aver avuto una “relazione illecita” con due uomini ed è stata sottoposta a 99 frustate, come disposto dalla sentenza. Successivamente è stata condannata alla lapidazione per “adulterio durante il matrimonio” “. Come si vede, anche Amnesty il concorso in omicidio lo nasconde sfacciatamente!

Dell’Iran ancora un paio di anni fa si diceva e si scriveva ovunque la gigantesca frottola e calunnia che per poter eseguire le condanne a morte di donne minorenni o nubili, e perciò ufficialmente vergini, quelle disgraziate venivano date in pasto a carcerieri perché le stuprassero, in modo da poterle giustiziare perché la legge vieta l’esecuzione capitale di vergini.

A che bassezze spinge l’odio e la volontà belluina di aggredire un Paese “nemico”. Lo stupro delle vergini condannate a morte, la “bomba atomica iraniana”, la volontà dell’Iran di “distrugere a tutti i costi Israele”… e via mentendo e ingannando.

Ecco perché questa storia della lapidazione nell’Iran di oggi è da prendere con beneficio di inventario. In un regime teocratico non si può purtroppo eslcudere nulla, perché sono da sempre i regimi delle peggiori nefandezze, vedasi l’intera storia dello Stato pontificio. Però prima di accettare versioni sicuramente non disinteressate è bene dubitare. E informarsi.

Ripeto, a scanso di equivoci: ho firmato e ho proposto ai lettori di questo blog di firmare l’appello a favore della Sakineh di Teheran, perché sono contro qualunque tipo di pena di morte, comprese quelle per impiccagione usate in Iran e quelle di vario tipo usate negli Stati Uniti.

Che, forse il nostro fighettone di Parigi non lo sa, sono il Paese che - in brutta compagnia con l’Iran, la Cina e l’Arabia Saudita - ha una Giustizia che le condanne morte più le usa e le abusa. Levy in tema di lapidazioni si dia da fare contro il nostro alleato politico militare Arabia Saudita, che ancora le imbastisce, per giunta in piazza. Magari getti nella spazzatura la bibbia almeno nelle parti in cui alla lapidazione si applaude.

E magari rifletta anche sull’orribile armamentario dei vari tipi di pena di morte negli amati Stati Uniti: frittura sulla sedia elettrica, soffocamente nella camera a gas, crocifissione al lettino con le iniezioni mortali e, usata di recente anche se rarissima, riduzione a colabrodo con la fucilazione. L’Iran e la Cina hanno meno fantasia: il primo impicca, il secondo fucila. Non gasano né crocifiggono né arrostiscono i condannati.

Ho firmato per la Sakineh di Teheran. Ma sono stato ingannato e defraudato perché nessuno ha detto che c’era una Sakineh in Virginia, Teresa Lewis, per la quale valeva pure la pena firmare un appello perché fosse lasciata vivere. Ho così scoperto una cosa che onostante la mia età ed esperienza non avevano ancora capito: a volte i benefattori hanno in realtà la coscienza e almeno una mano lorde di sangue.

Preferisco non commentare il nuovo schiaffo di Israele sferrato in queste ore all’Onu in faccia ad Obama con la ridicola scusa dell’”importante festa religiosa”. Mi limito a ripetere che la famosa minaccia di “distruzione di Israele” attribuita nell’autunno 2005 ad Ahmadinejad - e da allora incollatagli addosso per giustificare l’ingiustificabile, compreso i bassi deliri levyani - è una balla.

Lo ha già chiarito lo stesso Ahmadinejad più volte, anche in tv a New York nel programma di Larry King. Non è certo un caso che Ahmadinejad, per me comunque indigesto al pari di un Avigdor Lieberman, abbia cordiali rapporti con non piccole fette di rabbinato, a partire dai Naturei Karta.

Anche a voler tralasciare Ahmadinejad, che potrebbe avere mentito a Larry King, c’è da dire che il docente Juan Cole, dell’Università del Michigan, è tra gli studiosi che hanno già messo in chiaro come il leader iraniano sia rimasto vittima di una cattiva traduzione: NON ha mai parlato della necessità di “cancellare Israele”, ma si è invece limitato a ripetere in lingua farsi un concetto già espresso a suo tempo da Khomeini: vale a dire, che spesso Paesi potenti “svaniscono dalla pagina della Storia”. “Come l’Unione sovietica e la stessa monarchia iraniana”, ha aggiunto Ahmadinejd nel suo discorso “stranamente” travisato e stravolto.

Dov’è la minaccia di “distruzione”, per giunta nucleare, nel dire che “Israele svanirà dalla pagina della Storia come l’Unione Sovietica e la monarchia iraniana”? Oltretutto, si noti bene, questi due regimi, quello sovietico e quello dello scià, sono “svaniti” senza neppure sparare un colpo!

Non una bomba atomica, si noti altrettanto bene, bensì neppure una bombetta a mano o una fucilata. Grosso modo, e a occhio e croce, è la fine che farà il castrismo a Cuba: svanirà forse perfino prima dello svanire all’altro mondo dei fratelli Castro. Svanirà pacificamente, almeno si spera.

Senza dimenticare che a volerlo fare sparire nel sangue sono stati non l’Iran, ma gli Usa. Esattamente come hanno fatto con le democrazie locali in Cile, in Argentina, in Congo, in Indonesia e altrove. Lo hanno fatto anche in Iran, assieme al lacché inglese, quando vi hanno organizzato il colpo di Stato che uccise la neonata democrazia iraniana strangolando il governo democraticamente eletto di Mossadeq.

Questi sono i fatti e questa è la Storia. Non le puttanate dei vari Levy e altri furbi “umanitari”. Ambé, certo: poi c’è papa Ratzinger che a Londra rifila balle su “Hitler ateo”, quando invece era cattolico e il cocco di papa Pio XII oltre che dell’intera gerachia della Chiesa tedesca, e ci sono milioni di “credenti” (alle balle) che ci credono onde liberararsi dei sensi di colpa e delle code di paglia lunghe mille chilometri.

E che anche a Londra, come già a New York e in Australia, oltre che in Vaticano-Italia, rifila la balla della “scarsa vigilanza” della Chiesa sulla pedofilia di troppo suoi preti e vaste masse di “credenti” (alle balle) se la bevono di corsa perché, as usual, certe verità non potranno mai ammetterle.

Il buon papocchio tedesco, volontario della Gioventù Hitleriana fino alla bella età di anni 16, è assecondato da tutti i mass media nel suo continuo nascondere che a dare l’ordine, per iscritto, di tacere alle autorità civili qualunque notizia sui preti pedofili è stato lui, in tandem con Tarcisio Bertone, oggi segretario di Stato del Vaticano cioè Numero Due dopo il Numero Uno papa Ratzinger.

L’anno infatti firmato loro, nel giugno 2001, quello sciagurato ordine ai vescovi di tutto il mondo, in qualità rispettivamente di capo e vice capo della Congregazione per la dottrina della fede (l’ex orripilante Sant’Uffizio).

E se non fosse stato per lo stop imposto da George W. Bush a un tribunale del Texas l’ottimo papa Ratzinger per quell’ordine scritto sarebbe stato processato e sicuramente condannato dai giudici che si occupavano di uno dei tanti casi di stupro di preti ai danni di minori.

Che pena vedere Bertone, l’impresentabile complice dell’ordine planetario “Salvate il prete pedofilo”, affianco al nostro presidente della Repubblica per festeggiare la breccia di Porta Pia e la presa di Roma.

Il Vaticano avrebbe dovuto avere almeno il buon gusto e la decenza di mandare a quella cerimonia, la prima con un prelato in sua rappresentanza ufficiale, qualcun altro, ma NON il cardinal Dentone, pardòn, Bertone, coprotettore del clero pedofilo.
Povera Italia.

Deve essere vero che il papa ha inviato felice il suo pur impresentabile segretario di Stato perché è ormai chiaro come la breccia di Porta Pia non sia servita tanto all’Italia per dilagare a Roma e nello Stato Pontificio quanto invece al Vaticano per dilagare in Italia…

E che pena vedere i giornali intossicati dai veleni e dalle grasse corruzioni berluscone abboccare come gonzi all’amo del “clamoroso documento” dello Stato caraibico di S. Lucia, che avrebbe dovuto dimostrare come il famoso appartamento di Montecarlo è stata un rapina di Gianfanco Fini pro domo mulieris.

Ai mascalzoni strapagati, già rei di assassinio professionale ai danni di Dino Boffo, sono sfuggite sia le grossolanità del “documento” (anche un orbo vede che manca il numero di protocollo) sia la memoria del “conte Igor”.

Vale a dire, non si ricordano più neppure della delinquenziale truffa che alcuni membri berluscon-finiani della commissione parlamentare Telecom Serbia ordirono con un rottame umano per diffamare in un sol colpo sia Massimo D’Alema che Romano Prodi accusandoli, con prove false, di avere lucrato una marea di miliardi con la (s)vendita di Telecom Serbia. Il “conte Igor”, il “supertestimone” mitomane e/o comprato, è finito in galera, i commissari felloni invece no, sono pure stati rieletti.

E i giornalisti sensibili al soldo berluscone, velocissimi a dare credito al “conte Igor” e alle sue miserabili panzane, hanno pure fatto carriera, vedi Belpietro, autore di una memorabile porcata televisiva, pardòn, autore di un memorabile servizio televisivo pro domine berluscone sulla frottola Telecom Serbia.

Non a caso oggi l’ottimo Belpietro è in prima fila nel “riferire obiettivamente la notizia” del documento caraibico. Anche se invece di essere una notizia è una cagata.
Essì, povera Italia. Con un giornalismo sempre più ossequioso. Ormai quasi da carta igienica.

A proposito di Carla Bruni e frottole spaziali: pochi giorni fa il regista Woody Allen, altro ebreo sideralmente lontano dal sionismo, in una intervista ha raccontato d’essere rimasto sbalordito quando ha letto sui giornali che la breve scena da lui affidata alla Bruni la si è dovuta ripetere ben 14 volte e che il presidente francese Sarkozy è piombato sul set infuriato e un po’ bevuto facendo scenate a dritta e a manca.

“Tutte balle”, ha in pratica sintetizzato Woody. Che ha concluso: “Mi chiedo se ci raccontano balle così inventate di sana pianta anche riguardo la guerra in Afganistan”. Beh, sull’Iraq ci sono le prove che ce le hanno raccontate.

Le raccontarono anche nel corso della guerra di Bush padre & C all’Iraq provocata dall’invasione del Quwait (autorizzata preventivamente dall’ambasciatrice Usa a Bagdad, con una trappola mortale per l’Iraq in attesa di quella mortale anche per Saddam con la seconda guerra all’Iraq). Per stimolare lo sdegno contro gli iracheni, la stampa mondiale scrisse che a Quwait City i soldati avevano rubato e portato via perfino le incubatrici dell’ospedale per bambini.

Poi però è saltato fuori che era una balla colossale, addirittura quell’ospedale non era neppure dotato di nessuna incubatrice. Lo ha dimostrato, tra varie altre balle smascherate, una tesi di laurea che qualche anno fa è stata premiata dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia.

Che però si è ben guardato dal cacciare dalla professione Carlo Rossella, il direttore di Panorama che - per “aiutare” il capo del governo italiano, che guarda caso era anche il suo editore e datore di lavoro Berlusconi, a far contento Bush Junior - avvalorò con uno “scoop sensazionale” la balla dell’uranio del Niger “venduto all’Iraq per le bombe atomiche di Saddam”.

Ecco perché quando si tratta di certe accuse contro “i soliti noti” da parte dei “soliti ignoti” è meglio andar cauti. Chiedendo magari anche come mai sulla Sakineh della Virginia si tace, come del resto si tace sulle adultere lapidate sì, ma in Arabia Saudita. Con i soliti due pesi e due misure della nostra vergognosa, gigantesca e non disinterresata ipocrisia.

La Sakineh della Virginia è stata uccisa. Quella di Teheran continua a vivere, almeno per ora. Dovremmo sprofondare dalla vergogna.



Allora io dico liberiamo anche l'omicida di Treviso
di Massimo Fini - www.ilfattoquotidiano.it - 21 Settembre 2010

LA PROVOCAZIONE SU SAKINEH

Io propongo un appello e una mobilitazione internazionale per Laura “subito libera”. Chi è costei?

È Laura De Nardo, la donna di 61 anni di Conegliano (Treviso) che è stata sbattuta in galera perché accusata di aver tradito il marito e poi di averlo fatto accoppare da un paio di suoi amanti.

Che differenza c’è con Sakineh, l’iraniana per la quale tutto il mondo occidentale s’è mobilitato, che dopo aver tradito il marito è accusata di averlo fatto accoppare dal proprio amante?

Certo, la De Nardo ha confessato alla polizia, mentre, per quel che ne sappiamo, Sakineh solo alla tv iraniana. Inoltre, la De Nardo rischia solo l’ergastolo mentre il rischio è che Sakineh sia condannata alla lapidazione, che è una pena ripugnante. Ma buona parte della mobilitazione occidentale non chiedeva semplicemente che all’iraniana fosse risparmiata una punizione così arcaica e inccettabile, voleva Sakineh “subito libera”.

Davanti a una gigantografia della bella Sakineh che, per iniziativa del governo italiano, campeggia da giorni davanti all'ingresso di Palazzo Chigi (pretendo che la stessa iniziativa sia presa per la 61enne De Nardo, che a differenza di Sakineh è vecchia e per nulla attraente, non potendo nemmeno immaginare che le femministe italiane, che tanto si sono battute per l'iraniana, facciano dei distinguo di questo genere), il ministro degli Esteri Frattini e quello per le Pari opportunità Carfagna hanno dichiarato: “Finché Sakineh non sarà salva e libera il suo volto ci guarderà dal Palazzo del governo italiano”.

Nelle molte manifestazioni che si sono svolte si inneggiava alla libertà di Sakineh. E nello stesso appello di Bernard Henri Lévy, che ha dato inizio alla campagna, se ne pretendeva la scarcerazione immediata.

Ma da questo punto di vista Laura e Sakineh sono sullo stesso piano: non sono due perseguitate politiche, ma detenute comuni accusate entrambe dello stesso reato, l'uxoricidio.

Dice: ma non ci si può fidare dei tribunali iraniani.

E perché mai ci si dovrebbe fidare di quelli italiani, quando sono 15 anni che il presidente del Consiglio, tanto certo dell'iniquità della nostra giustizia da pretendere di esservi sottratto per legge, va dicendo che “i giudici sono dei pazzi antropologici” e afferma che la Magistratura in Italia “è il cancro della democrazia”, concetti ribaditi in un recente convegno internazionale ad altissimo livello, cui partecipavano coreani, giapponesi, americani, canadesi, australiani, neozelandesi oltre che rappresentanti dei Paesi europei, sputtanando così l’Italia del diritto, e l’Italia tout court, davanti al mondo intero?

Quindi Laura De Nardo “subito libera”. E sono certo che Bernard Henri Lévy, difensore professionale dei “diritti umani” in ogni parte del globo, non si sottrarrà al dovere morale di firmare questo appello.


Addio alla Sakineh americana

di Roberto Zavaglia - www.lineaquotidiano.it - 26 Settembre 2010

E se un giorno Ahmadinejad intimasse al governo italiano di sospendere la pena dell’ergastolo per Rosa e Olindo, i coniugi assassini di Erba, poiché la loro vita è sotto la responsabilità della Repubblica islamica iraniana?

E’ un’ipotesi assurda, ma è quello che ha fatto Sarkozy nei confronti di Teheran a proposito della condanna a morte di Sakineh. In entrambi i casi siamo di fronte a crimini “comuni”, con almeno un elemento di somiglianza.

Anche i legali di Rosa e Olindo, come quelli della donna iraniana, sostengono che la confessione dei loro assistiti è stata estorta dagli inquirenti.

Nessuno si stupisce che Sarkozy pretenda di far valere la sovranità francese in Iran, perché si parte dall’implicito presupposto che i “nostri” sistemi giudiziari garantiscono ogni diritto, mentre quelli degli “altri” sono semplici imposture per nascondere la sopraffazione, essendo in vigore fra popoli ancora semibarbari.

Qualche giorno fa, però, i lettori dei giornali hanno scoperto che c’è una Sakineh anche nella “più grande democrazia del mondo”.

Si chiama Teresa Lewis ed è stata condannata a morte e giustiziata per lo stesso identico crimine di Sakineh: concorso nell’omicidio del marito, materialmente eseguito dal suo amante. Chi ha difeso la Lewis sostiene, come nel caso dell’iraniana, che la sentenza capitale è ingiusta perché il tribunale non ha tenuto conto degli elementi a sua discolpa.

In particolare, la Corte d’Appello non ha accettato le dichiarazioni con cui l’assassino, poi suicidatosi in carcere, ha confessato di essere stato l’ideatore del delitto e di avere coinvolto la sua amante grazie al dominio psicologico che esercitava su di lei.

Secondo le perizie psichiatriche, la 41enne statunitense ha un quoziente di intelligenza bassissimo, ma il giudice non si è fatto alcun problema a condannare alla pena capitale quella che è da considerarsi una disabile mentale.

L’opinione pubblica internazionale ha avuto conoscenza di questo caso solo perché il presidente iraniano Ahmadinejad, negli Usa per partecipare all’Assemblea generale dell’Onu, ne ha parlato in un discorso pubblico, per sottolineare il diverso standard occidentale sui diritti dell’uomo: indignazione collettiva per Sakineh, disinteresse totale per la Lewis.

Nei media si è subito alzato un coro che nega ogni possibile paragone. Pierluigi Battista, per esempio, sulla prima pagina del Corriere della Sera di giovedì, ha parlato di “sfrontatezza” di Ahmadinejad. Secondo il molto liberale editorialista, “la pena di morte rappresenta un orrore, sempre”, ma in Iran lo è molto di più.

A inorridire Battista è il sistema della lapidazione, che disgusta profondamente anche noi, ma sul quale torneremo più avanti. L’impossibilità di raffrontare le due identiche condanne sarebbe rappresentato dal fatto che in Iran, anche per i reati comuni, manca ogni garanzia giudiziaria, la tortura è pratica quotidiana, gli avvocati sono imbavagliati e, insomma, è inesistente “ogni parvenza di Stato di diritto”.

Dall’esame di quali atti giudiziari Battista tragga questa sua convinzione non è dato di sapere, ma ovviamente nessuno gli chiederà mai di dimostrare le sue drastiche osservazioni.

Il suo sillogismo è il seguente: il sistema politico iraniano non è di tipo liberale, i non liberali sono dei bruti, l’Iran è un posto brutale. Dall’apparato giuridico, fino a, immaginiamo, la produzione agricola o l’edilizia popolare tutto è nequizia.

Sul caso Sakineh è difficile avere notizie certe, per quanto ci si sforzi a cercarle. La stessa “Amnesty International” ha dichiarato di non conoscere gli atti giudiziari. Per la grande stampa occidentale si tratta di una condanna comminata per un semplice adulterio. Navigando fra i siti di “controinformazione” non si riesce a chiarire tutti i dubbi.

Quello che siamo riusciti a capire, collazionando una serie di fonti diverse e con il beneficio di inventario, è che la condanna a morte è stata inflitta per il concorso nell’omicidio del marito e non per il solo adulterio.

Della lapidazione, che giustamente preoccupa Battista, non ci dovrebbe essere pericolo perché l’Iran ha rinnovato, nel 2008, la moratoria già stabilità sei anni prima nei confronti di questo genere di esecuzione, mentre in Parlamento è depositato un progetto di legge per la sua abolizione.

Almeno secondo le fonti ufficiali, non esistono, negli ultimi anni, casi di lapidazione, che era in voga ai tempi del filo occidentale Reza Pahlevi ed è tuttora applicata dall’altrettanto filo occidentale Arabia Saudita, senza che Battista e il suo giornale se ne diano grande pena.

Sul capo di Sakineh (voglia Iddio che l’informazione sia vera) non pende “da un momento all’altro” l’esecuzione in modo arbitrario, perché il suo caso sarebbe tuttora all’esame della Cassazione, dopo i due primi gradi di giudizio.

Il quadro che ragionevolmente ci si può fare è semplicemente quello di una persona la quale è stata condannata, con prove che nessuno in Occidente è in grado di valutare, a causa di un reato per il quale in Iran, come in diverse decine di altri Stati, è prevista la pena di morte.

L’enorme eco suscitata dalla vicenda è frutto della campagna organizzata dal giro del solito Bernard Henry Lévy che, da sempre, è alla ricerca di crimini dei nemici dell’Occidente, con i quali commuovere l’opinione pubblica e dare una lucidata da coraggioso difensore dei diritti umani alla sua immagine di attempato playboy zazzeruto, con l’eterna camicia bianca sbottonata fino all’ombelico.

La strumentalizzazione del dramma di Sakineh, più in piccolo, ripropone quella della frase di Ahmadinejad sulla “cancellazione dalla mappa di Israele”, gabellata per un proposito genocida, quando invece si trattava di un auspicio, legittimo come era quello sul crollo del comunismo in Russia, della fine dell’identità sionista dello Stato, con l’instaurazione di pari diritti per arabi ed ebrei.

Con ciò non esprimiamo alcuna fede nella perfezione del sistema giuridico iraniano, il quale sarà pieno di difetti come altri, e ammettiamo che, se accusati di qualche crimine, preferiremmo essere giudicati a Londra (a New York no, a meno di possedere una fortuna per pagare avvocati di grido in grado di farci assolvere pure se colpevoli) piuttosto che a Teheran. Non ci sembra che, però, tutte le eventuali storture dipendano dal “dispotismo” della Repubblica Islamica.

Chi ricorda il film “Fuga di mezzanotte” non ha nessuna voglia di provare di persona se i giudici e i secondini della pur laica e democratica Turchia sono davvero così fetenti come li si rappresentava…

Con o senza lapidazione, la pena capitale di Stato è già una tortura: anni interi passati ad aspettare nella cella della morte che la burocrazia faccia il suo corso; notti infinite in cui si alternano speranza e disperazione. Le campagne propagandistiche a senso unico rendono più difficile lottare contro questa barbarie e, demonizzando il “nemico”, preparano il terreno ad altre Abu Ghraib.


Good-bye USA-KINEH

di Gabriele Adinolfi - www.noreporter.org - 24 Settembre 2010

Qui la civiltà; i barbari stanno fuori

Teresa Lewis è morta in Virginia, lo Stato guida di quel sud che fu “liberato” un secolo e mezzo fa dagli apostoli del progresso.
E' morta di notte perché nei civilizzatissimi States non si ha più l'abitudine di offrire al condannato l'ultima alba.

E' stata giustiziata perchè, accusata di aver avuto una qualche complicità nell'uccisione del marito, fu riconosciuta colpevole, esattamente come l'iraniana Sakineh e malgrado i suoi ritardi psichici lasciassero adito a più di un dubbio. La mobilitazione per salvare la Lewis non ha avuto paragone con quella ancora in atto per la detenuta iraniana.

L'Occidente si scandalizza per l'orribile pena cui quest'ultima è destinata: la lapidazione.
E' giusto inorridire per la lapidazione.

La Lewis invece è stata eliminata pulitamente. L'hanno soppressa con un'iniezione letale.
Detta così potrebbe lasciar pensare ad una sorta di sonnifero per cui uno si addormenta e non si sveglia più.

Invece si tratta di ben altro fenomeno. Il composto iniettato nelle vene, quello che porta all'annunciato “arresto cardiaco” produce un progressivo irrigidimento delle membra, dei muscoli, l'atrofia dei polmoni, fino ad un senso insopportabile di soffocamento. Un'agonia ignobile e interminabile.

Non ha l'aspetto barbaro delle pietre scagliate su di una persona sepolta fino al collo, ma non è pratica migliore.

Negli Usa, nel paradiso democratico, nella nazione guida del fondamentalismo biblico in salsa liberal, c'è di peggio. Si può venire fritti a fuoco lento su di una sedia elettrica, oppure soppressi in un'agonia di ore nella camera a gas. Un modo di morire così lungo e complesso che dovrebbe indurre a riflettere. Oppure si può semplicemente venire impiccati. Un sistema rapido, secco: con l'osso del collo che si spezza di colpo? Non proprio.

Basti pensare che i boia di Norimberga si attrezzarono per far durare ogni agonia più di tre quarti d'ora. E, non contenti, fecero le botole così strette che le vittime si contusero e si ferirono in sopraggiunta.

Solo ogni tanto c'è un po' dignità umana nelle esecuzioni americane – che comunque avvengono solitamente dopo quindici o vent'anni di galera – ed è nei pochi casi in cui il condannato viene fucilato.

Questo almeno è un modo pulito, l'unico che non mette in evidenza innanzitutto e solo la perversione subumana del carnefice veterotestamentario.

Tutto questo non è però oggetto d'indignazione pubblica. Gli Usa sono gli Usa, il mondo di Hollywood e della Cnn, il mondo dei telefilms, quello dei Buoni. Quando si tratta di loro, al massimo ci si mobilita per “sensibilizzarli”.

Per inorridirsi no. Per quello abbiamo il mostro, quello che dobbiamo tenere lontano dalle nostre case e che a questo scopo ci fa acclamare ed amare le stelle le strisce del Grande Fratello.

Salvo poi, sulla falsa riga delle demagogie di Fini e Vendola, invitarlo in casa nostra fino ad offrirgli la nazionalità. Secondo l'ultima bestemmia internazionalista che confonde il sangue, il suolo, i Lari e la cultura con il codice fiscale e la partita Iva.

Noi, politicamente corretti e quotidianamente idioti, non dobbiamo pensare ma soltanto reagire emotivamente a comando, e possiamo inorridire solo per ciò che è ufficialmente barbaro.
E nemmeno sempre per quello. Bisogna che l'oggetto di violenza del barbaro sia una categoria che fa lobby: le donne, i gay, o gli animali (quelli per interposta persona ovviamente).

Perché il mondo liberal è così. Non soltanto si è stratificato su di una serie di orrori quotidiani che Attila non avrebbe neppure osato immaginare, non soltanto è ingiusto, sperequativo e liberticida come nemmeno il più fantasioso Polpot avrebbe osato sognare, ma concede la possibilità di lamentarsi per le libertà, per le dignità delle minoranze, vere o presunte che siano.

Le libertà e le dignità, cavalli di battaglia delle generazioni della nevrosi postsessantottina, hanno ucciso, nella pluralità indifferenziata, la libertà, la dignità.

E non c'è più alcuna possibilità di difesa per chiunque sia un cittadino comune. Il quale può solo indignarsi per Sakineh e mugugnare un po' per la Lewis, ma non potrà impedire di essere sepolto sotto i detriti del progresso.