lunedì 31 agosto 2009

Un'informazione a puttane

Nessun altro commento per una vicenda che rappresenta un'ulteriore riprova che il Paese è ormai senza speranze.


Fate quel che dico, ma non dite quel che faccio
da bamboccioni alla riscossa - 31 agosto 2009

Da una parte la (presunta) coda di paglia dei cavalieri senza macchia. E la (presunta) solidarietà pelosa della Casta dei giornalisti. Dall’altra le notizie usate non per informare, ma come arma per atterrare l’avversario in una guerra tra poteri forti. Anzi, tra bande. Comunque la si voglia girare la parabola umana di Dino Boffo - da direttore dell’Avvenire, quotidiano dei vescovi; a protagonista dell’ennesima (presunta) vicenda boccaccesca di questa tragicomica estate italiana - è una brutta storia. Tutta italiana. E - come da consolidata tradizione del Belpaese dei misteri - tutta da chiarire.

Passo indietro indispensabile. Tra ieri e oggi - con una tecnica di distrazione di massa consolidata - giornali e tiggì hanno seppellito... quer pasticciaccio brutto di Piazza carbonari (dove ha sede appunto il giornale dei vescovi) con la parola “polemica”. Perchè nel nostro Belpaese è così: quando una vicenda è scottante diventa “motivo di polemiche”. Ma le polemiche - cioè gli urlacci e le risse - da che mondo e mondo non aiutano a capire. Solo a far caciara. E allora, appunto: è meglio - per spiegare cosa diavolo è successo anche a chi fosse digiuno di quanto accaduto (ma gli altri questa parte, se la possono saltare) - tornare a ieri. Quando il quotidiano berlusconiano “Il Giornale” ha pubblicato ampi stralci da una nota informativa che accompagnava il rinvio a giudizio - disposto dal giudice per le indagini preliminari di Terni - del direttore di “Avvenire”. Nota informativa che lasciava - per lo meno in apparenza - poco spazio per dubbi e fantasie.

«…Il Boffo - recita uno degli stralci della nota informativa pubblicata da “Il Giornale” - è stato a suo tempo querelato da una signora di Terni destinataria di telefonate sconce e offensive e di pedinamenti volti a intimidirla, onde lasciasse libero il marito con il quale il Boffo, noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni, aveva una relazione»

Come è andata a finire la querela? Semplice. Un altro stralcio della solita nota pubblicata dal solito “Il Giornale” spiegava che:

«Rinviato a giudizio il Boffo chiedeva il patteggiamento e, in data 7 settembre del 2004, pagava un’ammenda di 516 euro, alternativa ai sei mesi di reclusione»

Per altro:

«Precedentemente il Boffo aveva tacitato con un notevole risarcimento finanziario la parte offesa che, per questo motivo, aveva ritirato la querela…»

In pratica. Per quel che par di capire: il direttore del giornale dei vescovi sarebbe gay. Avrebbe avuto una relazione con un altro uomo. E avrebbe - telefonicamente e non solo - per giunta molestato la moglie di quell’uomo. Ma tutto questo - la vicenda sentimental-giudiziaria e il patteggiamento - risalirebbero a parecchi anni addietro. Le telefonate sconce e i pedinamenti addirittura al 2001 e al 2002. Il patteggiamento, appunto, al 2004. E qui viene il bello. Perchè un altro giornalista, Mario Adinolfi - che nulla a che fare con “il Giornale” e con Berlusconi; e che invece ha lavorato proprio all’Avvenire - giura che la vicenda era ben nota nelle redazioni di mezza Roma. Ma tutti si erano ben guardati dallo scrivere una riga che fosse una. Fino a ieri, appunto. Quando - tanto per cambiare e con l’unica eccezione de “Il Giornale” - invece dello scandalo, sono esplose le “polemiche”.

Possibile? Beh, per quanto la vicenda a questo punto acquisti le tinte del surreale, la risposta è: parrebbe di sì. Perchè proprio Adinolfi - che oggi milita nel Piddì ed è in forza a Red Tv, televisione satellitare vicina a Massimo D’Alema - nel 2005 (ben prima del’inizio della stagione di papi e pupe; e quindi in tempi non sospetti) sul suo blog aveva scritto nero su bianco che:

Pare che il direttore di un quotidiano cattolico abbia ricevuto un decreto penale di condanna. Ma non oggi, l’anno scorso. Tutti i giornali ne sono a conoscenza, a Roma se ne chiacchiera con gusto giusto da un anno, ma per quello strano patto che fa sì che i direttori di giornali si proteggano tra loro, sui giornali non troverete una riga sull’argomento.

Adinolfi, in quel post del 20 settembre 2005, chiedeva al direttore in questione di farsi avanti e raccontare cos’era successo. Ma niente, silenzio. Per quattro anni. Poi, ieri, sempre Adinolfi è tornato sull’argomento proprio per ribadire che sì quel direttore di quel giornale cattolico era proprio lui, Dino Boffo.

La storia di Dino Boffo, direttore di Avvenire, e dei suoi rapporti omosex sfociati in una condanna per molestie era nota ai giornali da almeno cinque anni e ai lettori di questo blog da tre. Il titolone con cui Il Giornale di Vittorio Feltri, per primo, ha rotto un muro di omertà attorno a questa vicenda chiama in causa ipocrisie e giornalismi all’italiana.

Non solo. Ma oggi Adinolfi ha pure aggiunto un altro particolare non di poco conto. Scrivendo che:

La citazione, poi, dei comportamenti omosessuali di Boffo “attenzionati” dalla polizia inquieta qualcuno, mentre i più sanno che è conseguenza delle frequentazioni del direttore di Avvenire dei luoghi della prostituzione maschile milanese.

Ma Adinolfi è stato uno dei pochissimi giornalisti italiani - ad eccezione va da sè di quelli de “Il Giornale” - a salutare con favore lo stop dell’embargo alla notizia. “La Repubblica”, per mano del vicedirettore Giuseppe D’Avanzo, ha parlato di “aggressione come” nuova strategia berlusconiana (e praticamente non ha minimamente spiegato la disavventura sentimental-giudiziaria di Boffo). “La Stampa”, per voce del direttore Mario Calabresi, ha chiesto di mettere la parola “fine” all’”estate dei veleni” (e tanto per cambiare non ha minimamente spiegato la disavventura sentimental-giudiziaria di Boffo). Il Sole 24 ore, per bocca di Stefano Folli, ha dottamente spiegato che “la strategia (aridanghete) delle ritorsioni non conviene a nessuno (e per non sbagliarsi non ha minimamente spiegato la disavventura sentimental-giudiziaria di Boffo). E perfino l’Antefatto - il blog che fa da anteprima a “Il Fatto”, il nuovo quotidiano targato Travaglio&Padellaro - ha parlato di informazione fatta con i “manganelli” (copyright Luca Telese) e di una strategia (ari-aridanghete) che sarebbe controproducente per il Cavaliere (copyright Travaglio). Ma a dispetto del nome del giornale che verrà, anche qui il fatto - quello con protagonista Boffo, il presunto amante e la moglie del presunto amante - non era minimamente ricostruito. Magari con un intervista proprio a Boffo. Anche perchè - già nel pomeriggio di ieri - il direttore del giornale dei vescovi aveva vergato sull’edizione elettronica di “Avvenire” parole piene di sdegno:

La lettura dei giornali di questa mattina mi ha riservato una sorpresa totale, non tanto rispetto al menù del giorno, quanto riguardo alla mia vita personale. Evidentemente «il Giornale» di Vittorio Feltri sa anche quello che io non so, e per avallarlo non si fa scrupoli di montare una vicenda inverosimile, capziosa, assurda. Diciamo le cose con il loro nome: è un killeraggio giornalistico allo stato puro, sul quale è inutile scomodare parole che abbiano a che fare anche solo lontanamente con la deontologia. Siamo, pesa dirlo, alla barbarie.

Nel confezionare la sua polpettona avvelenata Feltri, tra l’altro, si è guardato bene dal far chiedere il punto di vista del diretto interessato: la risposta avrebbe probabilmente disturbato l’operazione che andava (malamente) allestendo a tavolino al fine di sporcare l’immagine del direttore di un altro giornale e disarcionarlo. Quasi che non possa darsi una vita personale e professionale coerente con i valori annunciati. Sia chiaro che non mi faccio intimidire, per me parlano la mia vita e il mio lavoro(…).

Parole piene di sdegno, dicevamo. Ma che lasciavano - per lettori, elettori e comuni mortali - una lunghissima scia di punti interrogativi. Dino Boffo è davvero omosessuale? Ha davvero avuto una relazione con un uomo sposato? Ha davvero patteggiato quell’ammenda per quelli che lui chiama semplici “fastidi telefonici”? E’ vero, come ha scritto sempre il quotidiano diretto da Vittorio Feltri, che del reato che ha commesso e delle debolezze ricorrenti di cui soffre e ha sofferto il direttore Boffo, «sono indubbiamente a conoscenza il cardinale Camillo Ruini, il cardinale Dionigi Tettamanzi e monsignor Giuseppe Betori»? E se quei pochi stralci della nota informativa pubblicati da “Il Giornale” non sono stati montati ad arte, ma raccontano la pura e semplice verità, che ci fa Boffo ancora alla guida di un giornale che dell’etica cattolica non fa solo la sua bandiera, ma la sua ragion d’essere?

Tante domande. Nessuna risposta. Perchè cane non mangia cane. E i giornalisti - a quanto pare - non sono abituati a fare domande scomode in generale. E figuriamoci ai colleghi giornalisti. Neppure quelli de “Il Giornale”. Che a Boffo - come ha scritto nero su bianco lo stesso Boffo - non hanno chiesto nulla. Del resto a Vittorio Feltri, neo direttore del foglio berlusconiano, evidentemente interessava solo poter dire che “nessuno, tantomeno al Giornale, si sarebbe occupato di una cosa simile se lui (Boffo, NdA), il Principe dei moralisti, non avesse fatto certe prediche dal foglio Cei (sigla che sta per Conferenza episcopale italiana, NdA) per condannare le presunte dissolutezze del Cavaliere”. Cioè levare a Berlusconi Silvio, fratello del suo editore Berlusconi Paolo, le castagne dal fuoco di escort e Noemi varie. E oggi, nel suo ultimo editoriale, appunto, c’è finalmente riuscito.

Lo avevamo scritto al principio: una storia tutta italiana, insomma. Dove nessuno fa quel che dovrebbe fare. Ma tutti dicono cosa dovrebbero fare gli altri. Ma continuiamo pure così. Finchè dura.


Dov'è finita l'informazione
di Edmondo Berselli - La Repubblica - 31 Agosto 2009

Esploso in questi mesi come una battaglia di verità, davanti alle contraddizioni e alle bugie del premier, lo scandalo Berlusconi diventa oggi un problema di libertà, come sottolineano tutti i grandi quotidiani europei, evidenziando ancor più il conformismo silente dei giornali italiani. Prima la denuncia giudiziaria delle 10 domande di "Repubblica", un caso unico al mondo: un leader che cita in giudizio le domande che gli vengono rivolte, per farle bloccare e cancellare, visto che non può rispondere. Poi l'intimidazione alla stampa europea, perché non si occupi dello scandalo. Quindi il tentativo di impedire la citazione in Italia degli articoli dei giornali stranieri, in modo che il nostro Paese resti all'oscuro di tutto. Ecco cosa sta avvenendo nei confronti della libertà di informazione nel nostro Paese.

A tutto ciò, si aggiunge lo scandalo permanente, ma ogni giorno più grave, della poltiglia giornalistica che la Rai serve ai suoi telespettatori, per fare il paio con Mediaset, l'azienda televisiva di proprietà del premier. È uno scandalo che tutti conoscono e che troppi accettano come una malattia cronica e inguaribile della nostra democrazia. E invece l'escalation illiberale di questi giorni conferma che la battaglia di libertà si gioca soprattutto qui.

La falsificazione dei fatti, la mortificante soppressione delle notizie ridotte a pasticcio incomprensibile, rendono impossibile il formarsi di una pubblica opinione informata e consapevole, dunque autonoma. Anzi, il degrado dei telegiornali fa il paio con il pestaggio mediatico dei giornali berlusconiani. Molto semplicemente, il congresso del pd, invece di contemplare il proprio ombelico, dovrebbe cominciare da viale Mazzini, sollevando questa battaglia di libertà come questione centrale, oggi, della democrazia italiana.

In quest'ultima stagione del berlusconismo abbiamo contemplato l'apice del conflitto d'interessi, l'anomalia più grave (a questo punto la mostruosità) della politica italiana. Si è vista l'occupazione della Rai e specialmente dei vertici dei telegiornali, cioè ruoli pubblici trasformati in postazioni partigiane; e nello stesso tempo la blindatura militare dei media di proprietà diretta o indiretta del capo del governo.

Berlusconi voleva un'anestesia della società italiana, in modo da poter comunicare ai cittadini esclusivamente le sue verità, i successi, le vittorie, le sue spettacolari "scese in campo" contro i problemi nazionali. L'immondizia a Napoli, il terremoto in Abruzzo, la continua minimizzazione della recessione. Una e una sola voce doveva essere udita, e gli strumenti a disposizione hanno fatto sì che fosse praticamente l'unica a essere diffusa e ascoltata.

Ma evidentemente tutto questo non bastava. Non bastava una maggioranza parlamentare praticamente inscalfibile. Non bastava al capo del governo neppure il consenso continuamente sbandierato a suon di sondaggi. Nel momento in cui la libertà di informazione ha investito lo stile di vita di Berlusconi, e soprattutto il caotico intreccio di rozzi comportamenti privati in luoghi pubblici o semi-istituzionali, il capo della destra ha deciso che occorreva usare non uno bensì due strumenti: il silenziatore, per confondere e zittire l'opinione pubblica, e il bastone, per impedire l'esercizio di un'informazione libera.

Negli ultimi mesi chiunque non sia particolarmente addentro alla politica ha potuto capire ben poco, in base al "sistema" dei telegiornali allineati, dello scandalo che si stava addensando sul premier. Un'informazione spezzettata, rimontata in modo incomprensibile, privata scientemente delle notizie essenziali, ha occultato gli elementi centrali della vicenda della prostituzione di regime.

Allorché alla lunga lo scandalo ha bucato la cortina del silenzio, è scattata la seconda fase, quella dell'intimidazione. L'aggressione contro il direttore di Avvenire, Dino Boffo, risulta a questo punto esemplare: il giornale di famiglia, riportato rapidamente a una funzione di assalto, fa partire il suo siluro; nello stesso tempo l'informazione televisiva, con una farragine di servizi senza capo né coda, rende sostanzialmente incomprensibile il caso.

Come in una specie di teoria di Clausewitz rivisitata e volgare, il killeraggio giornalistico, cioè una forma di guerra totale, priva di qualsiasi inibizione, si rivela un proseguimento della politica con altri mezzi. In grado anche di fronteggiare le ripercussioni diplomatiche con la segreteria di Stato vaticana e con la Cei. La strategia rischia di essere efficace, peccato che configuri un drammatico problema di sistema.

Ossia una ferita gravissima a uno dei fondamenti della democrazia reale (non dell'astratta democrazia liberale descritta dai nostri flebili maestri quotidiani). Purtroppo non si sa nemmeno a quali riserve di democrazia ci si possa appellare. Ci sono ancoraggi, istituzioni, risorse di etica e di libertà a cui fare riferimento? Oppure il peggio è già avvenuto, e i principi essenziali della nostra democrazia sono già stati frantumati?

Basta una scorsa alla più accreditata informazione straniera per rendersi conto del penoso provincialismo con cui questo problema viene trattato qui in Italia, della speciosità delle argomentazioni, del servilismo della destra (un esponente della maggioranza ha dichiarato ai tg che la rinuncia di Berlusconi a partecipare alla Perdonanza, dopo l'attacco del Giornale a Boffo, "disgustoso" per il presidente della Cei Angelo Bagnasco, era un atto "di straordinario valore cristiano").

Oltretutto, risulta insopportabile l'idea che nel nostro futuro, cioè nella nostra politica, nella nostra cultura, nella nostra idea di un paese, ci sia un blocco costituito dall'informazione di potere, un consenso organizzato mediaticamente nella società, e al di fuori di questo perimetro pochi e rischiosi luoghi di dissenso. Questa non è una democrazia. È un regime che non vuole più nemmeno esibire una tolleranza di facciata. Quando tutti se ne renderanno conto sarà sempre troppo tardi.


Il giornalismo italiano non può non prendere parte alla mobilitazione
di Roberto Morrione - www.liberainformazione.org - 30 Agosto 2009

Dopo l’orgia delle nomine Rai di mezz’estate, antica consuetudine bi-partisan, ma con i diktat e la diretta supervisione del premier nella scelta dei direttori ( in puro stile berlusconiano) si accende ora lo scontro su Rai 3 e TG 3, che nello schema della lottizzazione storica dominante nel Servizio Pubblico spettano alle scelte del PD, ma che il premier dichiaratamente non sopporta, per i contenuti antitetici al suo modello di informazione allineata, asettica, priva di denuncia critica e autonoma.

Sullo sfondo, nel paludoso quadro della gestione aziendale dominata dal conflitto d’interessi, dalla legge Gasparri e dai proconsoli della maggioranza di governo, sembra riaprirsi così una giostra di nomi, il cui esito dipenderà da giochi di potere, anche con personalismi all’interno del CDA, non certo da oggettive valutazioni sulle professionalità e le esperienze acquisite, la qualità dei contenuti, i bilanci degli ascolti, il consenso di quella parte dei cittadini che, considerate le scelte delle altre Reti, già permeate dal modello evasivo e propagandistico caro al premier, su Rai 3 appuntano i residui motivi di affezione al Servizio Pubblico.

Il PD a sua volta, immerso a testa bassa solo nel confronto congressuale, sembra vivere su un altro pianeta e rischia di essere posto all’angolo, assumendosi brutalmente l’immagine del lottizzatore, per di più sprovveduto e attaccabile “da sinistra”, secondo una definizione di un tempo magari declinabile oggi in chiave “dipietrista”…

E tutto questo passerà largamente al di sopra della società italiana, tramortita da un quadro dell’informazione televisiva fatto del nulla, dove la banalità e il conformismo affogano gli enormi problemi della realtà, della crisi, delle tragedie collettive sul mare e di quelle quotidiane di milioni di persone rese realmente “clandestine”, dell’assenza di legalità e di responsabilità, in un Paese sempre più irriconoscibile e privato della parte migliore delle proprie radici, in un mondo di contraddizioni e drammi che la TV del consumo e dell’effimero ignora.

E’ su questi contenuti che occorre invece puntare e farlo subito, prima che con l’Autunno si profili minaccioso il piano di definitiva occupazione mediatica annunciato da Berlusconi, a partire dalla legge sulle intercettazioni, il cui contrasto non potrà essere affidato solo alla vigilanza costituzionale e all’intervento del Presidente Napolitano.

E’ decisivo comprendere come gli attacchi di Berlusconi a Rai 3 e il tentativo di cambiarne assetti, gestione e probabilmente scelte editoriali non sono cosa diversa, ma costituiscono una parte essenziale di questo piano, che non si accontenta più del servilismo dell’impero mediatico, sul parametro del TG 1, ma che esige un bavaglio più stretto, rifiutando anche sprazzi di verità, di memoria critica, attraverso inchieste, news non reticenti, uso della diretta giornalistica nel vivo delle situazioni sociali e delle battaglie sui diritti.

Sull’obiettivo di salvare e rendere anzi più incisivi i Report, gli approfondimenti del TG 3, le serate di Lucarelli, le inchieste di Jacona, come la satira intelligente e creativa, si può saldare subito uno schieramento, che veda insieme i tanti giornalisti e tecnici Rai che non accettano di esercitare il mestiere ammanettati dal potere e da direttori grati a chi li ha messi a quel posto e gli autori, i programmisti, gli sceneggiatori, i tanti collaboratori esterni e soprattutto la parte responsabile della società civile.

Anche riaprendo un’analisi intelligente sulla fiction, come hanno fatto con grande incisività i Procuratori di Palermo Ingroia e Scarpinato ponendo interrogativi reali su come la TV pubblica e privata stia trattando da anni i temi della lotta alla mafia, con esiti culturali e sociali, soprattutto fra i giovani, estremamente rischiosi e problematici.

Il giornalismo italiano, attraverso le sue rappresentanze sindacali, ma anche quella parte di redazioni che non vuole rinunciare a esprimere un approccio con la realtà tetragono all’edulcorato appiattimento sul potere, non può non rispondere a questo tipo di mobilitazione. Libera Informazione, come Articolo 21, faranno la loro parte, ma spetta alla FNSI il compito di muoversi subito per coordinare e attivare queste energie, fissare un programma d’azione, collegarsi a chi – come il segretario del PD Franceschini ha fatto in una dichiarazione importante, ma finora solitaria – ha preannunciato per Settembre una forte protesta popolare per fermare il disegno berlusconiano.

Non dimentichiamoci la scena finale del “Caimano” di Nanni Moretti: quando si accendono roghi, niente di meglio della stampa per alimentarli e le immagini, come i byte, ardono benissimo.


sabato 29 agosto 2009

Il Risiko delle pipelines

Una serie di articoli su ciò che si sta muovendo in Asia Centrale tra accordi militari e corridoi energetici in conflitto tra loro, con ovvie ripercussioni nell'UE e nei rapporti tra UE e USA.


Gli Stati Uniti accellerano il passo in Asia Centrale
di M. K. Bhadrakumar - Asia Times - 25 Agosto 2009

Quando giovedì scorso a Taškent il capo del Comando Centrale degli Stati Uniti Generale David Petraeus e il Ministro della Difesa uzbeko hanno firmato un accordo militare tra gli Stati Uniti e l'Uzbekistan, la posizione geopolitica di quest'ultimo è radicalmente mutata.

L'accordo prevede “un programma di contatti militari, compresi futuri scambi nei settori della formazione e dell'addestramento”, secondo la concisa dichiarazione dell'Ambasciata americana.

L'Ambasciata ha dribblato i comunicati stampa russi secondo cui gli Stati Uniti mirerebbero a ottenere basi militari in Uzbekistan, affermando che le informazioni su “discussioni a proposito di una base militare non corrispondono alla realtà”. Ma le speculazioni continuano, soprattutto perché si è svolto un significativo colloquio Petraeus e il Presidente uzbeko Islam Karimov su “cruciali questioni regionali”e in particolare sulla situazione in Afghanistan.

Karimov, le cui dichiarazioni sono sempre caute, ha fornito un resoconto positivo dell'incontro: “L'Uzbekistan attribuisce grande importanza all'ulteriore sviluppo delle relazioni con gli Stati Uniti ed è pronto a espandere la costruttiva cooperazione multilaterale e bilaterale basata sul reciproco rispetto e l'equa collaborazione... Le relazioni tra i nostri Paesi sono in ascesa. Il fatto che ci incontriamo nuovamente [per la seconda volta in sei mesi] dimostra che entrambe le parti sono interessate a rafforzare i legami”. (Corsivo aggiunto.)

Secondo il portavoce di Karimov, “Petraeus ha detto a Karimov che l'attuale amministrazione statunitense è interessata alla cooperazione con l'Uzbekistan in diversi settori. Durante la conversazione le due parti hanno scambiato opinioni sul futuro delle relazioni uzbeko-statunitensi e su altre questioni di comune interesse”.

Si è tentati di interpretare questo sviluppo come una risposta rapida di Taškent alla mossa russa di costruire una seconda base militare in Kirghizistan nelle vicinanze della Valle di Ferghana. Ma le mosse della politica estera uzbeke sono sempre ponderate. È del tutto evidente che quando Taškent mira a una cooperazione militare con gli Stati Uniti e con l'Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO) si tratta di ben più di un riflesso istintivo.

A Taškent c'è crescente apprensione per il fatto che nella corsa alla leadership regionale il Kazakistan abbia cominciato a mettere in ombra l'Uzbekistan. Taškent diffida anche del possibile rafforzamento della presenza militare russa in Asia Centrale. Nel frattempo, la politica per l'Asia Centrale dell'amministrazione Barack Obama si è decisamente cristallizzata nell'obiettivo di contrastare l'influenza della Russia nella regione. Anzi, gli Stati Uniti hanno ripetutamente assicurato che non perseguiranno una politica intrusiva per quanto riguarda gli affari interni dell'Uzbekistan.

Taškent e la ricomparsa dei taliban

Taškent ha messo in conto tutti questi fattori. Tuttavia il fatto cruciale è la situazione afghana. Taškent deve prepararsi in fretta a gestire la ricomparsa dei taliban nella regione dell'Amu Darya.

Sta per configurarsi una situazione simile a quella di dieci anni fa. Ancora una volta il Movimento islamico dell'Uzbekistan (IMU), che fa base in Afghanistan e sarebbe armato e addestrato dai taliban, sta conducendo incursioni in Asia Centrale. Fino al 1998 Rashid Dostum agiva come guardia di frontiera dell'Amu Darya. Taškent lo finanziava, lo armava e lo coccolava. Ma nell'ottobre del 1998, quando i taliban fecero il loro ingresso nella regione dell'Amu Darya, Dostum fuggì. Karimov non glielo perdonò mai. Dostum dovette rifugiarsi in Turchia.

Inoltre c'è il cosiddetto “fattore tagiko”. Ci sono più tagiki in Afghanistan che in Tagikistan. Il nazionalismo tagiko continua a preoccupare Taškent. Dostum era in grado di tenere bada il fattore tagiko. Occasionalmente aveva inoltre svolto azioni di disturbo con il Tagikistan, con la copertura di Taškent, per innervosire la dirigenza di Dušanbe. Taškent inoltre offriva rifugio al ribelle di etnia uzbeka Mahmud Khudaberdiyev proteggendolo dal Tagikistan e usandolo per attacchi oltrefrontiera. Ma la presenza militare russa in Tagikistan dall'aprile del 1998 aveva impedito a Taškent di intimorire il paese vicino.

Dunque c'è oggi un cambiamento di clima nella regione dell'Amu Darya. Essenzialmente Taškent deve dipendere dai contingenti NATO per perché questi facciano da cuscinetto tra il territorio taliban e quello uzbeko, il che non è realistico. I contingenti tedeschi della NATO, che sono posizionati nella regione dell'Amu Darya, operano nell'ambito di restrizioni nazionali all'impiego delle truppe, i cosiddetti caveat. La futilità della loro presenza è messa in luce dal fatto che i taliban hanno consolidato la loro presenza nella provincia di Kunduz.

Ma soprattutto è in ebollizione la Valle di Ferghana. Dato il modo in cui viene percepita l'intesa Russia-Tagikistan e le tensioni generate dal conflitto irrisolto sulla questione della nazionalità uzbeko-tagica – l'eredità di Josif Stalin – Taškent non può contare su Mosca come arbitro della stabilità regionale. Inoltre Mosca appoggia Dušanbe nella disputa tra quest'ultima e Taškent sulla spartizione dell'acqua che origina dai ghiacciai del Pamir, questione esplosiva e carica di immense conseguenze per la sicurezza regionale.

L'eredità timuride

Nella seconda metà del 1999, quando Taškent cominciò a fare la pace con il regime taliban a Kabul, gli osservatori diplomatici furono colti di sorpresa: la retorica uzbeka improvvisamente non caratterizzava più i taliban come la “principale fonte di fanatismo ed estremismo nella regione” ma come un “partner nella lotta per la pace regionale” e Karimov cominciò a suggerire che valeva la pena di prendere in considerazione il riconoscimento del regime taliban.

Il voltafaccia di Taškent di oggi e quello di allora mostrano parallelismi stupefacenti. Anche nel 1999 Karimov giunse alla conclusione che i taliban fossero il minore dei due mali che minacciavano la visione uzbeka dell'Asia Centrale, mentre il male maggiore era rappresentato da una rafforzata presenza militare russa. Dieci anni fa, in circostanze analoghe, Mosca cominciò energicamente a consolidare le intese per la sicurezza collettiva tra la Russia e gli Stati centroasiatici.

Nell'ottobre del 1999 Mosca firmò un patto formale con diversi Stati centroasiatici per uno spiegamento rapido di truppe, straordinariamente simile all'attuale iniziativa russa nell'ambito dell'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Collective Security Treaty Organization, CSTO) per la creazione di una forza di reazione rapida. Taškent uscì dall'intesa per la sicurezza collettiva sotto la leadership russa. Nell'ottobre del 1999 Taškent aveva giù avviato colloqui con i taliban.

Taškent ha sempre diffidato delle motivazioni della Russia e della sua presenza militare in Asia Centrale, che ritiene possa insidiare la posizione dell'Uzbekistan come unica potenza militare della regione. Tutto considerato, dunque, non dovrebbe sorprendere che Taškent abbia deciso che è preferibile accumulare un po' di capitale politico risuscitando le relazioni con gli Stati Uniti.

Taškent si sente più minacciata dall'IMU che dai taliban. In altre parole, non vorrebbe inimicarsi i taliban. Nel 1999 offrì il riconoscimento diplomatico del regime dei taliban in cambio della rinuncia all'IMU da parte di questi ultimi.

Gli uzbeki si sentono gli eredi di Tamerlano. La riconciliazione con i taliban permette a Taškent di realizzare l'ambizioso obiettivo di diventare il principale architetto della pace nella regione; di respingere la presenza militare russa in Asia Centrale; e di promuovere lo status dell'Uzbekistan come potenza egemonica nella regione.

La complessa mentalità uzbeka offre opportunità produttive per la politica degli Stati Uniti nella regione. È indubbio che gli Stati Uniti manipoleranno nelle prossime settimane la creazione di un equilibrio di potere a Kabul assolutamente favorevole al piano americano di riconciliazione con i taliban. Come ha sottolineato il Ministro degli Esteri britannico David Miliband nel suo recente discorso al quartier generale della NATO a Bruxelles, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono oggi aperti alla riconciliazione con i taliban, al punto da consentire ai loro quadri afghani di conservare le armi.

Tuttavia l'accettabilità dei taliban nella regione rimane una questione controversa. Deve esserci un ampio consenso regionale su questo punto. Ed è qui che il voltafaccia di Taškent diventa strategico per Washington. Oltre che sul Pakistan, fautore della riconciliazione con i taliban, Washington può ora contare anche sul consenso di Turkmenistan e Uzbekistan.

Mutamenti nella regione dell'Amu Darya

L'Uzbekistan è un attore chiave nella regione dell'Amu Darya, non meno del Pakistan nelle terre pashtun. Un asse con Taškent nell'Afghanistan settentrionale e con Islamabad nel sud e nel sud-est dell'Afghanistan costituirà la matrice di cui gli Stati Uniti hanno bisogno per la riconciliazione con i taliban e il rientro di questi ultimi nella vita politica afghana.

Washington avrebbe voluto creare un asse simile con Dušanbe, ma è stata bloccata dalla presenza russa in Tagikistan. D'altro canto, gli Stati Uniti possono trarre consolazione dal fatto che i tagiki afghani sono oggi divisi e che alle fazioni “Panjshiri” è stato impedio di compattarsi.

Se gli Stati Uniti riusciranno a far eleggere a Kabul Abdullah Abdullah perché succeda al Presidente Hamid Karzai, ciò contribuirà immensamente a ostacolare gli elementi irredentisti che alimentano il nazionalismo tagiko. Ma se Karzai verrà eletto gli Stati Uniti si ritroveranno a dover affrontare la potenziale sfida rappresentata da Mohammed Fahim, il candidato alla vice presidenza. Fahim, diversamente da Abdullah, che è un uomo da pubbliche relazioni, possiede notevoli trascorsi militari e nei servizi segreti. Di fatto, Fahim e Dostum sono i due “guastafeste” che maggiormente innervosiscono gli Stati Uniti mentre questi ultimi si accingono ad avviare il processo di riconciliazione con i taliban.

Il Turkmenistan e l'Uzbekistan – nonché la Cina – avevano trattato con i taliban negli anni Novanta e non esiterebbero a rifarlo se questo significasse stabilizzare l'Afghanistan. La Cina, in particolare, ha molto da guadagnare dall'apertura dell'Afghanistan come rotta di transito verso i mercati mondiali.

L'energica diplomazia regionale degli Stati Uniti in Asia Centrale è riuscita a strappare il Turkmenistan e l'Uzbekistan all'influenza russa. Washington ha negoziato con loro accordi per la creazione di corridoi di transito e ha cominciato a posizionare il proprio personale militare nella capitale turkmena, Ašgabat. (Il vice capo di stato maggiore delle forze armate britanniche, Jeff Mason, si trova attualmente in visita ad Ašgabat.) Gli Stati Uniti stanno promuovendo rapporti cordiali tra turkmeni e uzbeki (Karimov si sta preparando a visitare Ašgabat). Washington ha offerto opportunità economiche e imprenditoriali legate alla ricostruzione dell'Afghanistan. E infine, ma non meno importante, gli Stati Uniti stanno rafforzando i legami della NATO con questi paesi.

È un successo notevole. Gli Stati Uniti possono ora lavorare a un corridoio di transito per l'Afghanistan dalla Georgia e dall'Azerbaigian via Turkmenistan e Uzbekistan aggirando il territorio russo. In un recente articolo per il New York Times, Andrew Kuchins del Centro Studi Strategici e Internazionali ha sottolineato che a Washington è alto il livello di scetticismo sulle intenzioni della Russia e su “quanto la Russia voglia realmente il successo degli Stati Uniti in Afghanistan”.

L'Iran è in grado di rimescolare le carte

Scrive Kuchins:

Nei recenti colloqui a Taškent con alte cariche del governo uzbeko questo problema si è riproposto ripetutamente, e le risposte che abbiamo ricevuto non sono rassicuranti. Le autorità uzbeke sono profondamente scettiche nei confronti di Mosca. Ritengono che i russi considerino più utile per i loro interessi una condizione di costante instabilità in Afghanistan. L'instabilità aumenterà sia la minaccia terroristica in Asia Centrale che il traffico di droga, e giustificherà un rafforzamento della presenza militare russa nella regione...

Taškent vede la crescente presenza militare russa nella regione come una minaccia alla sicurezza. Lo scetticismo uzbeko nei confronti della Russia è così profondo che diverse figure di spicco hanno fatto capire che per quanto riguarda l'Afghanistan l'Iran sarebbe per Washington un alleato più affidabile di Mosca.

Sicuramente il modo migliore per fronteggiare il “fattore tagiko” in Afghanistan passa attraverso un contatto tra Washington e Teheran. La scorsa settimana l'ambasciatore iraniano a Kabul, Fada Hossein Maleki, ha dichiarato che Teheran è pronta a dialogare con gli Stati Uniti sull'Afghanistan purché Washington si astenga dall'interferire negli affari interni iraniani. Maleki ha detto:

Le parole del Presidente Obama dopo l'elezione indicavano un cambiamento di linguaggio rispetto alla precedente presidenza. Purtroppo dopo la vittoria del Presidente Mahmud Ahmedinejad abbiamo assistito a sconsiderate interferenze da parte degli americani [negli affari interni dell'Iran]. È naturale che se verrà adottato un approccio unico e compatto le nostre autorità lo prenderanno in considerazione e che vi sono molte questioni che riguardano l'Afghanistan sulle quali possiamo cooperare con altri Paesi.

L'Iran è in grado di rimescolare le carte. Ma per ballare bisogna essere in due. Oggi la grande questione sul tavolo afghano è se Obama riuscirà a eludere la lobby pro-israeliana nella sua amministrazione e nel Congresso americano e ad aprire la porta alle prospettive di dialogo con i superiori di Maleki a Teheran. Forse dovrebbe imparare le lezione di Karimov.

Traduzione a cura di Manuela Vittorelli, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questo articolo è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne autori, traduttori, revisori e la fonte.


A proposito della strategia AF-PAK

di F. D'Attanasio - http://ripensaremarx.splinder.com - 28 Agosto 2009

La lotta tra potenze imperversa più che mai dunque, ma per accorgersene bisogna scavare molto, oltre le solite apparenze che gli addetti al mondo dell'informazione tendono, al contrario, a presentarci come la "vera" realtà. Il falso mondo ovattato e pieno di buone intenzioni che promanerebbero soprattutto da chi decide delle sorti dell'umanità nei più svariati angoli del mondo, non regge affatto alla prova di certi fatti che ogni giorno trovano concretezza ed ai quali non viene dato affatto il peso che meriterebbero.

Prendiamo spunto dalla guerra che si sta dispiegando in Afghanistan, guerra che vede fortemente impegnati gli Stati Uniti con il solito codazzo degli alleati-sudditi tra i quali l'Italia, e che rientra nella cosiddetta strategia Af-Pak, tesa a normalizzare la situazione socio-politica di questa zona dell'Asia centro-meridionale secondo i voleri della potenza a stelle e strisce.

Le operazioni di carattere militare si svolgono però in un quadro molto più complesso, fatto di un intricato intreccio di strategie di più svariata natura: diplomatiche, politiche, di intelligence, nonché energetiche. Il fine ultimo, di lungo "respiro", è quello di contrastare nella maniera più efficace possibile ogni velleità delle nuove potenze nascenti volte a ritagliarsi un ruolo sempre più influente nel contesto complessivo internazionale.

In realtà, se si tiene conto soprattutto del ruolo della Russia negli ultimi tempi, si tratta molto di più di semplici velleità, essa, grazie ad una dirigenza politica ben decisa e radicata nella propria società, frutto evidentemente di una notevole lungimiranza e senso dello Stato, sta stando non poche preoccupazioni agli USA stessi.

Le operazioni di voto che si starebbero per concludere proprio in Afghanistan, costituiscono un fattore importante nell'evolversi della situazione generale. Secondo Bhadrakumar, noto diplomatico indiano (vedasi i suoi articoli tradotti da Manuela Vittorelli e riportati dalla rete di traduttori per la diversità linguistica: www.tlaxcala.es/entree.asp?lg=it) il candidato prediletto dagli Stati Uniti non è Hamid Karzai bensì il suo rivale Abdullah Abdullah.

Ed un certo ruolo l'avrebbe avuto anche l'Iran soprattutto nel favorire proprio quell'alleanza politica tra Karzai e vecchi capi mujaheddin che il governo di Washington vede come fumo negli occhi; difatti il Dipartimento di Stato americano avrebbe dichiarato: " "Abbiamo spiegato chiaramente al governo dell'Afghanistan le nostre gravi preoccupazioni riguardo al ritorno di Dostum [uno dei capi mujaheddin costretto dai Talebani a rifugiarsi in Turchia svariati anni fa] e a un suo possibile futuro ruolo in Afghanistan".

Il Presidente Barack Obama ha già chiesto ai suoi esperti di sicurezza nazionale ulteriori informazioni sui "trascorsi" di Dostum, compreso il suo sospetto coinvolgimento nella morte di vari taliban fatti prigionieri nella guerra del 2001 durante l'invasione degli Stati Uniti ". Quindi si potrebbe profilare in caso di vittoria di Karzai e della sua coalizione la necessità di creare una "situazione iraniana", difatti non a caso Ahmed Rashid [noto autore pakistano, legato al Pentagono], che conosce l'Afghanistan come le sue tasche, avrebbe dichiarato: " "Penso che dopo queste elezioni, indipendentemente dai risultati, ci saranno pesanti accuse e contro-accuse di brogli".

Prevede poi che se si renderà necessario un ballottaggio "sarà un momento molto pericoloso per l'Afghanistan... Creerà un vuoto di due mesi, ci saranno caos e confusione politica" ". In realtà tutto ciò manderebbe letteralmente all'aria il piano di Stati Uniti, Gran Bretagna, Arabia Saudita e Pakistan volto a cooptare i Talebani nella struttura di potere che si ritiene, secondo appunto la strategia Af-Pak, debba governare l'Afghanistan nei prossimi anni.

Ma le operazioni militari si integrano con ben altre mosse ed iniziative di varia natura, tutte queste sono ben sintetizzate nel cosiddetto progetto di nation-building; la squadra che ad esso si dedicherà sarà composta da diplomatici ed esperti di antiterrorismo del Pentagono, della CIA e dell'FBI e comprenderà anche rappresentanti dell'USAID, l'Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, e noti accademici e membri di think tank, sarà aumentato il personale civile impiegato nell'ambasciata a Kabul che ad esempio salirà a 976 unità dalle 562 dello scorso anno, il tutto senza considerare naturalmente il fiume di denaro che continuerà ad arrivare, destinato a vari progetti di "sviluppo", ma che in realtà servirà a finanziare e sostenere le più disparate operazioni comprese la corruzione e i crimini più efferati.

Tutti questi "civili" chiaramente fanno affidamento sul successo dei militari nell'eliminare i Talebani riottosi e tutti i militanti sia in Afghanistan che Pakistan.
Quello a cui dunque si è assistito (sempre secondo Bhadrakumar) è stata un' "afghanizzazione" di Karzai; " fu alla fine del 2007 che Karzai cominciò a reclamare il diritto di dire la sua sulla presenza militare americana e sulla scala delle operazioni dei contingenti stranieri.

Parlò della necessità di uno Status of Force Agreement (accordo sullo status delle forze armate) sul modello di quello iracheno. Essenzialmente voleva che le forze d'occupazione si conformassero alle leggi afghane. Sollevò poi la questione alle Nazioni Unite: dopo tutto è su mandato ONU che operano le forze NATO in Afghanistan. Poi Karzai cominciò a chiedere che la comunità internazionale si impegnasse insieme al suo governo nelle varie attività di ricostruzione dell'Afghanistan, mentre gli Stati Uniti sono contrari a passare per il governo afghano e preferiscono dispensare i finanziamenti direttamente. Era una situazione da Comma 22. Gli Stati Uniti continuavano a dire che il governo di Karzai non aveva i mezzi per dispensare gli aiuti stranieri.

Ma da qualche parte bisognava pur cominciare. Il fatto è che nel frattempo si sono sviluppati forti interessi acquisiti ". Karzai in definitiva rivendicherebbe un ruolo primario e non certo di rincalzo rispetto agli americani nel processo di pacificazione dell'Afghanistan, compresa la riconciliazione con i Talebani; ma gli americani non possono assolutamente prendere rischi su questo fronte dato che sono in gioco questioni geo-politiche decisive nella lotta per la supremazia mondiale.

Ma un fatto molto importante è accaduto in questi ultimi giorni: un accordo militare di ampia portata tra gli Stati Uniti e l'Uzbekistan che muterebbe completamente la posizione geo-politica della ex repubblica sovietica, la quale non vedrebbe affatto di buon occhio il rinnovato protagonismo russo che potrebbe seriamente stroncare ogni sua aspirazione al ruolo di potenza regionale e preferirebbe quindi, a tal fine, entrare a far parte dell'orbita statunitense; difatti la Russia, fra le altre cose, sarebbe intenzionata a costruire una seconda base militare in Kirghizistan, oltre che ad appoggiare decisamente il Tagikistan in varie contese aperte proprio con l'Uzbekistan.

Al patto formale che Mosca firmò nell'Ottobre del 1999 con diversi Stati centroasiatici per uno spiegamento rapido di truppe, simile all'attuale iniziativa russa nell'ambito dell'Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (Collective Security Treaty Organization, CSTO) per la creazione di una forza di reazione rapida, l'Uzbekistan non aderì; nel frattempo il governo di Taškent ha portato avanti una decisa politica filo talebana fino al riconoscimento di questo regime nel 1999.

In definitiva ci sarebbe una netta convergenza tra la strategia Af-Pak tesa a cooptare i Talebani e le aspirazioni geo-politiche regionali uzbeke, anch'esse facenti perno sulle forze talebane in chiave anti-russa (da considerare che esiste anche un cosiddetto fattore "tagiko", vale a dire una forte minoranza di tagiki in Afghanistan addirittura numericamente superiore a quelli propri del Tagikistan, in grado di alimentare un nazionalismo, sostenuto dalla Russia, fonte di forte preoccupazione per le autorità uzbeke).

L'energica diplomazia regionale degli Stati Uniti in Asia Centrale è riuscita a strappare così il Turkmenistan e l'Uzbekistan all'influenza russa. "Washington ha negoziato con loro accordi per la creazione di corridoi di transito e ha cominciato a posizionare il proprio personale militare nella capitale turkmena, Ašgabat. (il vice capo di stato maggiore delle forze armate britanniche, Jeff Mason, si trova attualmente in visita ad Ašgabat.) Gli Stati Uniti stanno promuovendo rapporti cordiali tra turkmeni e uzbeki (Karimov [l'attuale presidente uzbeko] si sta preparando a visitare Ašgabat).

Washington ha offerto opportunità economiche e imprenditoriali legate alla ricostruzione dell'Afghanistan. E infine, ma non meno importante, gli Stati Uniti stanno rafforzando i legami della NATO con questi paesi. È un successo notevole. Gli Stati Uniti possono ora lavorare a un corridoio di transito per l'Afghanistan dalla Georgia e dall'Azerbaigian via Turkmenistan e Uzbekistan aggirando il territorio russo. In un recente articolo per il New York Times, Andrew Kuchins del Centro Studi Strategici e Internazionali ha sottolineato che a Washington è alto il livello di scetticismo sulle intenzioni della Russia e su "quanto la Russia voglia realmente il successo degli Stati Uniti in Afghanistan" ".

Ma un ruolo chiave, sempre secondo Bhadrakumar, potrebbe giocare l'Iran, un ruolo utile agli americani a riguardo della complessa questione afghana, tant'è che l'ambasciatore iraniano a Kabul, Maleki, avrebbe dichiarato che Teheran è pronta a dialogare con gli Stati Uniti sull'Afghanistan purché Washington si astenga dall'interferire negli affari interni iraniani; " l'Iran è in grado di rimescolare le carte.

Ma per ballare bisogna essere in due. Oggi la grande questione sul tavolo afghano è se Obama riuscirà a eludere la lobby pro-israeliana nella sua amministrazione e nel Congresso americano e ad aprire la porta alle prospettive di dialogo con i superiori di Maleki a Teheran ".

Per concludere dunque sembrerebbe proprio che gli USA abbiano messo a segno un bel colpo in Asia centrale, ancor più se si considera un altro importante versante su cui si sta dispiegando la lotta geo-politica, cioè quello energetico con i due grossi progetti tra loro fortemente concorrenti, i gasdotti Nabucco e Southstream.

Sappiamo che uno dei maggiori ostacoli che potrebbe addirittura impedire la realizzazione del primo (fortemente sponsorizzato dagli USA) risiede nella difficoltà di poterlo sufficientemente alimentare con la materia prima; quando e se sarà terminato, esso prevede il trasporto del gas del Caucaso e del Medio Oriente (partendo, da un lato, dal confine georgiano-turco, e, dall'altro, da quello iraniano-turco) attraverso la Turchia, la Bulgaria, la Romania e l'Ungheria, in Austria e, da lì, dovrebbe raggiungere tutti i mercati dell'Europa Centrale e Occidentale. Finora, l'unico fornitore individuato sarebbe l'Azerbaijan, il quale già rifornisce il gasdotto anglo-americano Baku-Tiblisi-Ceyhan, gestito dalla British Petroleum, che porta il gas dal Mar Caspio in Occidente eludendo del tutto la Russia.

Ma la stessa Azerbaijan gioca anche sul tavolo del potente vicino, difatti ha recentemente siglato con esso un accordo per la fornitura di gas, e comunque anche se Washington dovesse riuscire ad assicurarsi tutto il gas delle riserve azere, ciò non sarebbe ancora sufficiente per le prospettive di serio competitore del Nabucco nei confronti del Southstream.

L'Irak e l'Iran potrebbero rappresentare delle valide opportunità per la difficile realizzazione del progetto, ma le difficoltà politiche in questi casi si moltiplicano a dismisura, anche se questo fatto contribuisce ulteriormente a chiarire del perché gli USA abbiano ultimamente dedicato così tante "attenzioni" alla repubblica islamica. Quindi inevitabilmente nel grande gioco geo-strategico-energetico rientrano Uzbekistan e Turkmenistan.


I tubi di Putin

di Lorenzo Mazzei - www.campoantimperialista.it - 10 Agosto 2009

La rabbia del partito americano per South Stream

“La «guerra dei gasdotti» è la vera partita geostrategica del nostro tempo. Dove si muovevano soldati e divisioni corazzate, oggi si muovono tubi e permessi di transito”. Con questa premessa un po’ troppo enfatica, un’editoriale di Franco Venturini sul Corriere della Sera dell’8 agosto dà la misura dell’irritazione del partito americano stanziato in Europa per il recente accordo sul gasdotto South Stream.

“Relazioni pericolose” è il titolo assai significativo dell’articolo, che dà voce ad una rabbia euroatlantica tanto diffusa quanto interessante. Cerchiamo perciò di capire qual è la reale posta in gioco.

L’accordo di Ankara

L’importanza dell’accordo firmato ad Ankara il 6 agosto non sta tanto nei numeri (che vedremo più avanti), quanto nei suoi risvolti geostrategici. Il nodo è quello del legame energetico tra Russia ed Europa, un rapporto che gli Stati Uniti vorrebbero a tutti i costi incrinare.

E’ una partita complessa, che vede in campo diversi attori – basti pensare al ricorrente contenzioso Russia-Ucraina di cui ci siamo già occupati – ma che è in definitiva riconducibile al tentativo americano di indebolire la Russia. L’Urss è stata sciolta quasi vent’anni fa, l’“Impero del Male” non esiste più, ma non per questo la competizione è meno dura che in passato. Oggi, con le nuove ambizioni di Mosca da un lato, e con l’imporsi della dottrina Bzrezinski a Washington dall’altro, il conflitto è destinato a riaccendersi.

Del resto, per una di quelle strane coincidenze della storia, l’accordo di Ankara è venuto a cadere ad un anno esatto dall’attacco georgiano all’Ossezia del Sud che si risolse in un pesante rovescio politico-militare per Washington e Tbilisi.

Venendo ai gasdotti, la questione è semplice. La Russia, sia per la vicinanza geografica che per la consistenza delle riserve, è la fornitrice naturale dell’Europa, tant’è vero che svolge questo ruolo ormai da decenni.

Il flusso del gas russo incontra però degli ostacoli in alcuni paesi dell’ex Urss (Ucraina e, più recentemente, Bielorussia) ed in altri in passato facenti parte del blocco sovietico (Polonia). Da qui la necessità per Mosca di cercare percorsi alternativi, che hanno assunto il nome di North Stream e di South Stream, capaci di aggirare appunto a nord ed a sud il blocco dei paesi ostili o quantomeno inaffidabili.

Il caso dell’Ucraina è quello più eclatante, dato che è proprio questo paese il boccone più ghiotto del nuovo balzo ad est progettato dalla Nato, fermato per ora dalla debacle georgiana dell’estate 2008.

Mentre il progetto North Stream, che collegherà direttamente il territorio russo alla Germania attraverso il Baltico, va avanti sia pure in mezzo a mille difficoltà, il South Stream ha avuto fino ad oggi un percorso più accidentato.

Stati Uniti ed Unione Europea gli hanno infatti contrapposto un altro progetto, il cosiddetto Nabucco, un gasdotto che dall’Azerbaigian, attraverso la Georgia e la Turchia dovrebbe portare gas “non russo” in Europa. Con Nabucco, presieduto dall’ex ministro degli esteri tedesco Joshka Fisher (oggi membro della fondazione Rockefeller…), l’Unione Europea si è messa completamente in mano ai voleri della Casa Bianca, mentre non si sono invece del tutto allineati alcuni stati membri (Italia in primo luogo) e le rispettive aziende nazionali del settore.
E’ questo il fatto interessante che ha portato all’accordo di Ankara.

“Non si capisce ancora dove lo sdoganeranno, quale gas vi faranno passare, anche perché l’Azerbaigian, dove Nabucco finisce non ha gas a sufficienza”. Con queste parole, che non hanno bisogno di particolari commenti, Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni ha liquidato il progetto Nabucco. Ed in effetti l’idea di un gasdotto che evita sia il territorio che il gas russo si scontra con un problema irrisolto: i paesi dell’Asia centrale non hanno ancora gas a sufficienza per alimentare un simile gasdotto, tant’è che si ipotizzano futuribili diramazioni verso l’Iraq ed addirittura l’Iran (chissà, domani, con un governo amico...).

All’incertezza di questo scenario ha corrisposto la prontezza di Putin nell’andare a chiudere il tassello mancante di South Stream, l’accordo con Ankara per il transito sui fondali del Mar Nero nelle acque territoriali turche. Va detto, però, che di un ultimo passo si è trattato, perché non meno importante era stato l’accordo di Gazprom con la Bulgaria, del gennaio 2008, che prevede la comproprietà del tratto bulgaro del gasdotto ed un patto “gas in cambio dell’attraversamento” che Sofia non ha potuto respingere.

South Stream attraverserà dunque il Mar Nero dalla città russa di Beregovaya fino a quella bulgara di Varna, mentre il tratto continentale non è stato ancora definito. Sono allo studio due direttrici: la prima, verso nord, attraverso la Romania, la Serbia, l’Ungheria e l’Austria (in questo caso la rete italiana verrebbe connessa attraverso il valico di Tarvisio); la seconda, verso ovest, passando per la Grecia, con destinazione Italia attraverso il canale d’Otranto.

L’accordo di Ankara ha dato dunque il via al progetto voluto da Putin. Non è detto che questo segni necessariamente la morte del concorrente Nabucco, ma questa è l’ipotesi più probabile. Oltretutto la potenzialità a regime di South Stream (63 miliardi di metri cubi all’anno) è doppia di quella ipotizzata per Nabucco (30 miliardi di metri cubi).

L’accordo è stato firmato da Gazprom ed Eni, che gestiranno l’impresa al 50% (costo previsto 20 miliardi di euro), e dalla Turchia che ha ricevuto in cambio la partecipazione di aziende italiane e russe ad alcuni progetti industriali nel paese.

La stretta di mano tra Putin, Erdogan e Berlusconi ha mandato su tutte le furie il partito americano che attraversa trasversalmente gli schieramenti politici europei. L’accusa è quella di “essersi messi definitivamente nelle mani dei russi”, in pratica un’accusa di tradimento rivolta in particolare al capo del governo italiano.

Alcuni dati

Per inquadrare correttamente la questione è necessario conoscere alcuni dati.
La dipendenza europea dal gas russo è rilevante, ma non così schiacciante come si vorrebbe far credere. Nel 2007, secondo i dati dell’Aie (Agenzia Internazionale dell’Energia) le importazioni dalla Russia coprivano solo il 24% dei consumi di gas europei. Al 43% prodotto negli stessi paesi dell’UE, va aggiunto il 15% proveniente dalla Norvegia, mentre la restante parte viene importata da Algeria (11%), Libia, Qatar e Nigeria.

E’ noto, però, che l’offerta di gas di produzione europea è in forte declino, mentre i consumi continuano a crescere al di là della crisi. L’Unione Europea stima un aumento della domanda interna dagli attuali 524 miliardi di metri cubi annui ai 636 previsti per il 2020. Di questi ultimi, 179 dovrebbero essere forniti dalla Russia. Una cifra enorme, ma pur sempre soltanto il 28% dei consumi finali. Tenendo conto che il gas naturale rappresenta circa il 25% delle fonti primarie utilizzate in Europa, ne consegue che l’importazione di gas dalla Russia (di cui quello proveniente dal South Stream sarebbe comunque soltanto un terzo) arriverà a coprire il 7% dei consumi energetici complessivi dell’UE. Un po’ poco per gridare alla sudditanza all’orso russo.

Se dal dato generale passiamo ad analizzare la dipendenza dal gas russo nei singoli paesi, quel che risulta chiaro è che essa deriva non da scelte politiche, ma da banalissime ragioni geografiche.

La dipendenza è infatti massima ad est, con punte del 100% in Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania e Slovacchia. Seguono Bulgaria (90%), Grecia (81%), Repubblica Ceca (78%), Austria (67%), Ungheria (65%), Slovenia (51%).

All’opposto, non consumano neppure un metro cubo di gas russo i seguenti paesi: Gran Bretagna, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia, Cipro e Malta.
In mezzo si collocano tre grandi paesi della UE: la Germania con il 39%, l’Italia (27%), la Francia (16%).

Questi dati ci dicono che nel settore del gas i fattori geografici sono tuttora dominanti, ed è logico che sia così. L’unico modo per stravolgerli si chiama rigassificazione, uno spreco enorme di risorse per il trasporto, l’impiantistica ed i rischi connessi. Uno spreco voluto in nome del “mercato”, ma sponsorizzato per evidentissime ragioni strategiche.
Nonostante tutto ciò non è difficile prevedere che il peso della rigassificazione, non fosse altro per la sua anti-economicità, resterà ancora a lungo marginale.

Questi richiami agli aspetti tecnici e geografici ci servono per mostrare quanto sia pretestuosa l’argomentazione del partito americano, quanto siano assurde le sue pretese. Tanto assurde da provocare un fuggi fuggi delle stesse multinazionali europee del settore: non solo l’Eni, ma anche le tedesche Basf ed E.on che partecipano con Gazprom al progetto North Stream, tra l’altro presieduto dall’ex cancelliere Schroeder, giusto per sottolineare la frattura che attraversa la classe dirigente tedesca.

L’indecente sezione italiana del partito americano (leggere per credere)

A questo punto ogni persona normale dovrebbe chiedersi: ma di che si impicciano gli americani? Cosa c’entrano con l’approvvigionamento del gas europeo? Si tratta di una merce che non devono né vendere né acquistare, perché sono così prepotenti?
Queste domande, talmente banali da apparire ingenue, non sfiorano neppure la sinistra italiana, tutta intenta a demonizzare Berlusconi quando irrita gli americani, quanto silenziosa, complice e plaudente quando il governo ne asseconda in toto le richieste (vedi Afghanistan).

Leggere per credere.
C’è un quotidiano di questa “sinistra” che il 7 agosto ha dedicato integralmente 5 pagine all’accordo di Ankara con i seguenti titoli:
“La banda del tubo – Berlusconi sensale dell’affare del secolo tra Putin ed Erdogan – Joint-venture per far fuori l’Europa e l’America” (pagina 1).
“Gas, Berlusconi lega il Paese ai voleri della Russia di Putin” (pagina 4).
“Così l’Italia dà a turchi e russi tutto il potere sull’Europa” (pagina 5).
“La «guerra dei gasdotti» che spiazza la UE e irrita Obama” (pagina 6).
“Donne e gas – La lunga amicizia di Silvio e Vladi” (pagina 7).

La citazione di questi titoli a tutta pagina dà l’idea del contenuto degli articoli che battono tutti sullo stesso chiodo: l’accordo di Ankara lega il futuro energetico dell’Europa alla Russia di Putin, il traditore Berlusconi (ma anche il traditore Erdogan, che però interessa meno alla bassa cucina politica del nostro paese) ha avuto la condanna di Barak Obama. Una condanna, si precisa, “senza appello”.

Domanda da un euro: qual è il nome della testata che ha ospitato questo fulgido esempio di giornalismo? L’“Unità”, ovvero quel giornale, che volendo offendere la memoria oltre che il buon senso, continua a riportare la dicitura “Fondata da Antonio Gramsci nel 1924”.

Che dire? Se la sezione europea del partito americano, particolarmente potente nei palazzi dell’Unione, è trasversale agli schieramenti politici del continente, in Italia brilla per servilismo la cosiddetta “sinistra”. E con il dilagare dell’obamismo sarà sempre peggio.

Perché Berlusconi ha sgarrato?

Se l’opposizione parlamentare fa veramente schifo, resta da capire il perché della politica governativa e di Berlusconi in particolare.
Tenendo conto della situazione energetica italiana, e di quella delle forniture di gas in particolare, l’accordo di Ankara è assolutamente logico. Si prende il gas dove c’è, con accordi diretti con chi lo produce, per trasportarlo dove dovrà essere consumato: cosa c’è di strano? Il linguaggio attuale definisce questi accordi win win, dato che entrambi i contraenti hanno evidenti motivi di soddisfazione.

Abbiamo già detto che il gas russo copre il 27% dei consumi italiani, che corrisponde al 31% di quello importato (c’è infatti da considerare anche la produzione interna, pari al 13% dei consumi). La quota russa è addirittura superata da quella algerina (33,2%), mentre anche Libia (12,5%), Olanda (10,9%) e Norvegia (7,5%) detengono una fetta non disprezzabile. Solo una propaganda sfacciata può vedere in questa situazione una dipendenza assoluta da Mosca.
Lo ribadiamo: dal punto di vista degli interessi nazionali l’accordo di Ankara, che vede in gioco anche il ruolo dell’Eni, è assolutamente logico. Solo il partito americano può negarlo, continuando ad emettere minacce e condanne attraverso i multiformi canali dei suoi mezzi di disinformazione.

Resta però la domanda: perché Berlusconi ha sgarrato, perché non si è allineato ai voleri di Washington, esponendosi così alla pesante condanna della Casa Bianca? Ci sono tre tipi di spiegazione: una gossippara, una economicista, una politica.

Quella gossippara, che riportiamo per dovere di completezza ma anche per mostrare fino in fondo il tipo di lotta ingaggiata dal partito americano, si basa su una sorta di scambio “bionde per gasdotti”, un traffico che porterebbe addirittura la mafia russa nelle stanze dei bottoni dello stato italiano.

Anche qui, leggere per credere la già citata “Unità” che riprende nell’occasione il Nouvel Observateur: “Il feeling italo russo si ferma alla luce del sole? Se lo chiede il Nouvel Observateur di questa settimana riprendendo indiscrezioni provenienti da Bari: la presenza di «intere barche di ragazze dell’Est, russe e ucraine» fatte venire alle feste di Villa Certosa da Tarantini, imprenditore con frequenti viaggi a Mosca dove è consulente societario. «Con queste ragazze c’è la droga – scrive il settimanale francese citando un poliziotto antimafia – E’ la stessa filiera». Insomma attraverso la pista della cocaina seguita dai pm «l’ipotesi di un’infiltrazione della mafia russa al vertice dello stato italiano prende consistenza»”.

La spiegazione economicistica è meno contorta: Berlusconi fa prevalere gli affari sopra ogni altra considerazione. Siccome sono in ballo gli investimenti dell’Eni ed anche la penetrazione di alcuni grandi gruppi italiani in Russia (ma anche in Turchia), ogni altro elemento di valutazione è passato in secondo piano.

E se invece la spiegazione fosse ancora più semplice? Se, cioè, per una volta avessero davvero prevalso gli interessi nazionali? Naturalmente questi ultimi non sono una cosa astratta, ed in una società capitalista corrispondono inevitabilmente a precisi interessi di classe.
Ovviamente, gli “interessi nazionali” così come possiamo intenderli noi sono cosa ben diversa da quelli eventualmente perseguiti dalle forze capitalistiche.

Una domanda provocatoria

Ma – domanda provocatoria – se al posto di Berlusconi vi fosse in Italia un governo socialista ed antimperialista avrebbe dovuto sottoscrivere l’accordo di Ankara, oppure no?

Io ritengo di sì, per almeno 5 motivi.
1. L’accordo garantisce forniture certe di una fonte energetica che sarà fondamentale ancora per molti anni e che è la più pulita tra i combustibili fossili disponibili.
2. Mentre non è vero che esso renda eccessivamente dipendente l’Italia dalla Russia, è certo che la strada opposta avrebbe condotto alla necessità di un elevato numero di rigassificatori, negativi sotto ogni profilo (ambientale, economico, di sicurezza).
3. Dire di no a South Stream avrebbe voluto dire sì all’offensiva della Nato verso est. E’ francamente impossibile non rendersene conto.
4. L’imperialismo americano rimane il principale nemico dei popoli e della pace, il principale presidio dell’ordine capitalistico mondiale. Ad Ankara ha preso un calcio negli stinchi, dovremmo dolercene?
5. La storia ci insegna che per la lotta antimperialista ed anticapitalista il multipolarismo è meglio dell’unipolarismo. Crea più spazi alle lotte dei popoli e degli sfruttati. Sia chiaro, il multipolarismo è di là da venire, ma se gli Usa avessero vinto la partita dei gasdotti l’unipolarismo a stelle strisce si sarebbe ulteriormente rafforzato.

Conclusione

Tornando alle scelte del governo italiano (certamente contrastate da una parte consistente della stessa maggioranza parlamentare), quel che Ankara fa intravedere è un possibile, parziale, ritorno alla politica estera democristiana, pur in un mutato contesto. La Dc, e poi il Psi, erano assolutamente filo-atlantici, ma nelle maglie della guerra fredda trovavano il modo di sviluppare (ad esempio verso il Medio Oriente, ma non solo) una propria iniziativa, corrispondente a dei precisi interessi. Il tutto avveniva dentro limiti rigorosi, e se qualcuno li varcava anche di poco (Craxi a Sigonella) si trovava il modo di fargliela pagare.

Poi la guerra fredda è finita, e anche quei piccoli margini alla politica estera italiana sono scomparsi. L’impero americano non ammetteva più neppure la più piccola autonomia.
Ma con il fiasco dell’offensiva bushiana e con l’esplosione della crisi economica non siamo forse entrati in una nuova fase? Forse è proprio questo che ci dice l’accordo di Ankara, che può essere letto come un momento di riemersione politica di due sub-imperialismi (Italia e Turchia), che certo non mettono in discussione la fedeltà atlantica, ma che intendono ritagliarsi un proprio piccolo spazio approfittando del momento di passaggio in atto negli equilibri mondiali.

Se adottiamo questa chiave di lettura tutto risulta assai più chiaro. La versione economicista (gli affari prima di tutto!) può benissimo integrarsi con quella politica e, se proprio lo si vuole, perfino con quella gossippara. Quando i pasciuti ministri democristiani trafficavano con il mondo arabo non dimenticavano mai né gli interessi dei maggiori gruppi capitalistici italiani, né la riscossione di laute tangenti. Non per questo possiamo dire che non si muovessero dentro un preciso disegno politico.

Un disegno politico che oggi sta riemergendo secondo le vecchie direttrici di un tempo. Pretendere di ricondurre questo fatto evidente nel classico schema antiberlusconiano è il peggiore degli errori che si possano commettere. Del resto, rimanendo al caso in oggetto, vogliamo forse dimenticare che il memorandum di intesa tra Eni e Gazprom su South Stream fu firmato già il 23 giugno 2007, cioè in pieno governo Prodi?

Ed a proposito di presente e passato, ricordiamoci che mentre si muovevano con una qualche (sempre parzialissima) autonomia sull’altra sponda del Mediterraneo, i governi di centrosinistra della Prima repubblica accoglievano gli euromissili destinati a spianare la strada all’impero americano. Ugualmente, oggi, il premier dell’accordo di Ankara è lo stesso che incrementa le truppe in Afghanistan, che appoggia totalmente Israele, che lavora per la piena americanizzazione culturale e sociale.

E’ dunque un premier da combattere con ogni mezzo, ma stando sempre ben attenti (vedi anche il caso libico) a non diventare strumenti magari inconsapevoli del ben più pericoloso partito americano, oggi forte soprattutto a “sinistra”.

venerdì 28 agosto 2009

Il Libano finalmente verso un governo di unità nazionale

In Libano, a quasi tre mesi dalle elezioni, le estenuanti negoziazioni per raggiungere l'equilibrio necessario a formare un nuovo governo sembrano essersi concluse positivamente, anche se persistono tuttora alcuni interrogativi riguardo ai tempi per la sua entrata in carica ufficiale.

Ma tutto lascia supporre che un governo di unità nazionale, con all'interno anche Hezbollah, vedrà presto la luce. D'altronde è una strada obbligata per il Paese, se vuole mantenere una relativa stabilità interna.

Inoltre ieri con un voto unanime e senza modificarne i compiti, il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha esteso sino al 31 agosto 2010 il mandato del contingente Unifil di 12 mila soldati, presente nel Libano meridionale.


Ma di fronte a tutto ciò, Israele non resterà di certo a guardare con le mani in mano...


Libano, la mossa di Hariri
di Christian Elia - Peacereporter - 27 Agosto 2009

''Il governo di unità nazionale includerà anche Hezbollah, che a Israele piaccia o meno. Gli interessi del Libano richiedono che tutte la parti in causa vengano coinvolte in questo esecutivo''. Poche parole quelle di Saad Hariri, ma diritte al nodo gordiano della questione.

Mossa a sorpresa? Hariri, il figlio dell'ex premier libanese Rafik assassinato a Beirut a febbraio del 2005, guiderà quindi un esecutivo di unità nazionale, che vedrà seduti l'uno al fianco dell'altro ministri del gruppo '14 marzo', quello dello stesso Hariri, e gli acerrimi nemici del blocco '8 marzo', che comprende il partito sciita filo iraniano Hezbollah e i cristiani guidati dal generale Aoun.

Le elezioni, all'inizio di giugno scorso, sono state vinte dalla coalizione di Hariri, che aveva cavalcato i temi noti fin dai tempi dell'assassinio del padre: l'opposizione alle ingerenze iraniane, la necessità di disarmare Hezbollah (che controlla il Libano meridionale), la vocazione 'occidentale' di un Paese che mira a ritenersi nella sfera d'influenza degli Stati Uniti e in buoni rapporti con Israele.

Hariri più di una volta durante la campagna elettorale aveva ammonito i libanesi a non dare fiducia a Hezbollah, la cui vittoria sarebbe stata causa a suo dire di un nuovo attacco israeliano sul Libano come quello dell'estate 2006. Dopo la vittoria elettorale, che garantiva al blocco guidato da Hariri 71 seggi contro i 58 degli avversari nell'Assemblea di Beirut, i giochi sembravano fatti per un governo che escludesse Hezbollah, entrato nel governo di unità nazionale che ha gestito il Paese dopo l'attacco israeliano nel quale i ministri sciiti avevano avuto potere di veto.

Ieri, all'improvviso, la svolta. Inattesa, però, solo per coloro che non avevano già intuito che un accordo era nell'aria da tempo. Avevano lasciato di stucco, infatti, a poche ore dallo scrutinio dei voti, le tempestive ammissioni di sconfitta del generale Aoun e di Hezbollah. Alcuni osservatori internazionali non si erano ancora pronunciati sulla trasparenza del voto, che già gli avversari di Hariri incoronavano quest'ultimo quale legittimo vincitore della tornata elettorale.

Oggi, dopo due mesi, Hariri esce allo scoperto e rende ufficiale quello che tutti sanno: nessuno può governare il Libano senza Hezbollah. Troppo forte e organizzato il partito armato per tagliarlo fuori dalla gestione del potere in un Paese da sempre diviso in tre anime: cristiani, musulmani sciiti e musulmani sunniti. Sarebbe stato come premere un pulsante per dare inizio alla guerra civile, che in Libano dal 1975 al 1990 ha causato la morte di centinaia di migliaia di persone. D'altra parte, Hezbollah è consapevole che non potrà mai aspirare al dominio assoluto sul Libano, perché troppe sarebbero le resistenze interne ed esterne a questa evoluzione.

Israele alla finestra. Il governo israeliano, come era prevedibile, non ha reagito con gioia alla notizia. Il premier di Tel Aviv Benjamin Nethanyau ha commentato che, con Hezbollah al governo, Israele riterrà colpevole l'intero esecutivo senza distinzioni di un eventuale attacco. La sensazione, però, è che il governo israeliano tenga pubblicamente un atteggiamento duro, ma che nelle staze degli ambienti diplomatici abbia già accettato l'idea di un coinvolgimento politico di Hezbollah.

Alla fine anche a Tel Aviv conviene che un partito come Hezbollah sia più coinvolto nell'ambito della politica che in quella della lotta armata. Il movimento sciita, per altro, ha mostrato di non aver alcuna intenzione bellicosa, dando la caccia a quei gruppi di miliziani che avevano tirato razzi sulle cittadine settentrionali israeliane. Adesso si aspetta di conoscere la composizione del governo, ma per molti osservatori i posti da ministro saranno ripartiti 15 a 10 in favore del blocco di Hariri.

Quest'ultimo si troverà a presiedere un Consiglio dei Ministri dove sederanno alcune persone che Hariri ritiene coinvolti nell'omicidio del padre. Ma i libanesi non si stupiscono più di niente.


A tre mesi dal voto il Libano non ha ancora un governo
di Carlo M. Miele - www.osservatorioiraq.it - 27 Agosto 2009

A quasi tre mesi dal voto il Libano è ancora privo di un governo.

Più arduo del previsto si sta rivelando il compito di Saad Hariri, rappresentante della maggioranza filo-occidentale 14 Marzo, incaricato lo scorso 27 giugno di mettere in piedi un esecutivo di unità nazionale.

In base al sistema confessionale previsto dalla Costituzione libanese, la compagine di governo dovrà includere gli esponenti delle maggiori comunità musulmane e cristiane del Paese, ossia anche i rappresentanti del blocco 8 Marzo, sconfitto alle elezioni dello scorso 7 giugno, tra cui gli sciiti del movimento Hezbollah e i cristiani del generale Michel Aoun.

Al termine di lunghe trattative, le due parti si sono accordate su una formula che prevede l’assegnazione di 15 seggi alla maggioranza, 10 all’opposizione e 5 di nomina presidenziale, ma non sono riuscite a trovare un intesa sui vari dicasteri.

Nodi interni e internazionali

A creare maggiori problemi ad Hariri – secondo quanto riportato dai media libanesi – è Michel Aoun, leader del Movimento libero patriottico, che chiede sei ministeri (tra cui quello dell’Interno) e la conferma di suo cognato, Gibran Basil, a capo delle Telecomunicazioni.

Incertezza sta creando anche il riposizionamento di Walid Jumblatt, leader druso e pilastro della coalizione 14 Marzo, che all’inizio del mese ha fatto sapere che la sua presenza all’interno della maggioranza filo-occidentale non è più scontata.

Ma sull’assetto del futuro esecutivo di Beirut gravano anche gli equilibri regionali. Non è un caso che nelle ultime ore il partito di Hariri, al-Mustaqbal, se la sia presa proprio con l’ingerenza delle forze straniere.

A condizionare la vita politica libanese sono innanzitutto i contrasti tra Arabia Saudita e Siria, a cui sono legate rispettivamente maggioranza e opposizione libanese. Secondo diversi analisti, sarà difficile trovare un equilibrio all’interno del Libano fino a quando non vi sarà un miglioramento delle relazioni tra Riyadh e Damasco.

Peso analogo ha l’atteggiamento di Israele. Proprio ieri Hariri ha risposto allo Stato ebraico, che aveva minacciato ritorsioni in caso di inclusione di Hezbollah all’interno del nuovo governo, confermando la presenza del movimento islamico “che Tel Aviv lo voglia o meno”.

Insofferenza

Intanto in Libano lo stallo attuale sta creando sempre più insofferenza..

L’associazione vicina alla maggioranza Multazimun (Impegnati), che riunisce giornalisti, intellettuali ed esponenti della società civile, è scesa in piazza a Beirut per protestare contro gli ostacoli interni e regionali che impediscono la nomina del nuovo esecutivo di unità nazionale.

La situazione attuale non piace nemmeno al presidente della Repubblica, Michel Suleiman, che ha chiesto ad Hariri e alle altre parti coinvolte di velocizzare il completamento della formazione del governo per non allungare il vuoto nel potere esecutivo, ed evitare così una impasse già più volte sperimentata dal Libano con risultati deleteri.

La formazione del nuovo governo, in ogni caso, non è attesa a breve. Le previsini degli analisti variano tra la fine del mese di Ramadan (seconda metà di settembre) e l’inizio del 2010.

"Finché i contatti continuano, tanto a livello locale che regionale, non bisogna perdere la speranza”, ha dichiarato all’agenzia spagnola Efe una fonte anonima vicina al presidente del Parlamento Nabih Berri. "Una sorpresa è sempre possibile”.


Giochi libanesi
di Marcello Brecciaroli - Peacereporter - 27 Agosto 2009

La coalizione guidata da Hezbollah ha perso le elezioni del mese scorso, oggi però il presidente Hariri vuole farli entrare nel governo. Israele storce il naso e tutti sembrano minacciare tutti. Cerchiamo di fare il punto della situazione con il professor Nicola Pedde, direttore del think tank di studi strategici Global Research, dell'Institute for Global Studies e editor della rivista Journal for Middle Easthern Geopolitics.

Professor Pedde, il presidente libanese Hariri ha dichiarato che Hezbollah entrerà a far parte del suo governo: siamo alla riedizione di un governo di unità nazionale cme quello precedente le elezioni?
L'ingresso di Hezbollah nel governo è anche parte di un processo di trasformazione interna al movimento. L' Hezbollah di oggi è molto diverso da quello che era due anni fa, così come è diversa la sua capacità di poter giocare un ruolo positivo all'interno di un governo. Oggi ha delle priorità e delle prospettive che sono senza dubbio differenti da quelle del passato.

Durane la campagna elettorale il blocco cristiano guidato da Michel Aoun ha sostenuto che includere Hezbollah in un governo è anche l'unico modo per disarmarlo.
Indubbiamente l'inclusione e quindi la trasformazione di Hezbollah in un elemento del processo di dialogo è una strategia vincente. Questo è stato premiante in molti casi nella regione, l'Organizzione per la Liberazione della Palestina (Olp) è forse l'esempio più calzante in questo senso. Che poi l'Olp non abbia avuto la capacità di rigenerarsi e quindi si sia suicidato da un punto di vista politico è un altro discorso, ma il fatto di averlo incluso nel processo politico ha contribuito enormemente a demilitarizzarlo.

Perché, stando a quanto sostiene Hariri, è assolutamente indispensabile inserire Hezbollah nel governo?
Perché Hezbollah è la forza politica probabilmente più importante del Libano a livello organizzativo e di controllo capillare del territorio. Averli contro la vedo come una mossa se non suicida quantomeno controversa. Sono senza dubbio una realtà imprescindibile della politica e soprattutto della società libanese.

Però Hariri ha vinto le elezioni anche ponendo l'accento sul fatto che una vittoria di Hezbollah avrebbe riproposto il rischio della guerra con Israele. Adesso questo pericolo non c'è più?
Io non credo che Hezbollah abbia alcun interesse oggi a scatenare un conflitto con Israele.

Quindi lei non vede la mossa di aver ammassato 40mila razzi al confine con Israele come un'esibizione di forza e una minaccia?
Queste minacce vanno innanzitutto verificate: credo che ci sia, purtroppo, ancora un'area grigia approposito di armamenti, non abbiamo esattamente il metro di quello che stà accadendo. Difficile dire se siamo in presenza di un riarmo cosi massiccio da parte di Hezbollah o se invece queste informazioni sono frutto di una retorica politica locale. Vorrei ricordare che il controllo degli armamenti da part del contingente internzionale è estremamente rigido, mi sembra perciò improbabile che Hezbollah sia riuscito davvero ad ammassare un tale arsenale. E poi ripeto, da un punto di vista politico e tenendo presente il futuro del movimento, penso che Hezbollah non possa trarre nessun vantaggio dal perseguire qualsiasi disegno bellico contro Israele.

Il premier israeliano Netanyahu ha dichiarato che se Hezbollah verrà inserito nel governo riterrà l'intero esecutivo responsabile per ogni tipo di attaco al suo territorio. Cosa significa?
E' il tentativo di mettere comunque Hezbollah dall'altra parte della barricata come un nemico. Bisogna ricordare che di recente sono stati lanciati dei razzi dal Libano meridionale e Hezbollah è stata la forza che più si è prodigata per individuarne i responsabili.

Lei crede che queste tensioni, seppur solo politiche, possano avere dei risvolti pratici per le popolazioni che vivono al confine e per la forza internazionale lì dislocata?
Fino a quando la tensione rimarrà elevata sarà difficile attrarre investimenti nella zona. Senza uno sviluppo economico adeguato saremo costretti ad avere una militarizzazione dell'area, anche se positiva come quella delle forze Onu. Prima ci sarà una normalizzazione e prima avremo investimenti e sviluppo sul territorio, consentendo alle forze Onu di ritirarsi.


Niente di nuovo al confine
di Marcello Brecciaroli - Peacereporter - 27 Agosto 2009

Intervista al Colonnello Perrone, portavoce del comandante del contingente italiano della missione Unifil

Colonnello com'è la situazione sul campo?
Direi che posso definirla estremamente calma, anche perché siamo nel mese del Ramadan che è una festività che viene rispettata da tutti, anche dalla popolazione cristiana. La convivenza delle varie confessioni qui è molto buona.

Colonnello i suoi uomini si occupano anche di monitorare il movimento di armamenti nell'area non è vero?
Questo per noi è uno preciso compito, controlliamo rigorosamente che non ci sia afflusso di armamenti nelle zone sotto il controllo Unifil.

Il giornale Ha'aretz ha denunciato che Hezbollah avrebbe ammassato 40 mila razzi al confine con Israele in vista di un attacco, vuole commentare?
Questo mi sembra un numero di pura invenzione. Anche noi abbiamo letto la notizia, ma ribadisco che garantire il rispetto della risoluzione 1701 sul controllo degli armamenti è una nostra priorità.
Noi effettuiamo pattugliamenti su tutta la blu line tra lo stato di Israele e il Libano.

Avete contatti con i media israeliani?
No, loro non vengono qui e il fatto che tra Israele e Libano non ci siano relazioni diplomatiche non consente neanche altri tipi di contatti.

Per quanto riguarda la parte israeliana invece avete notato situazioni anomale?
Anche Israele è costantemente monitorato e anche li siamo in uno stato di calma e di routine.

Per quanto riguarda il territorio invece, come interagite con la popolazione?
La nostra missione comprende un comparto SIMIC che si occupa della cooperazione civile-militare che porta avanti attività di grande impatto sulla popolazione. L'opera di sminamento che gli italiani portano avanti è estremamente rilevante per la popolazione che può riprendere possesso delle terre, attivando così un circolo virtuoso.
I nostri reparti medici inoltre operano nelle zone rurali dove altrimenti sarebbe difficile ricevere cure adeguate.


Se gli italiani sparano ad Hezbollah...
di Simone Santini - www.clarissa.it - 20 Agosto 2009

L'11 agosto 2006 la risoluzione ONU 1701 dava mandato ai caschi blu della missione Unifil, composta da militari italiani, francesi, spagnoli, di schierarsi come forza di interposizione di pace nel sud del Libano al confine con Israele. Erano le premesse per la cessazione delle ostilità della cosiddetta "terza guerra libanese" scoppiata per incidenti di confine tra le milizie sciite di Hezbollah e l'esercito di Tel Aviv.

I 34 giorni di conflitto avevano causato la morte di alcune migliaia di civili libanesi, quasi un milione di rifugiati e pesanti danni alle infrastrutture del Paese dei Cedri in seguito ai massicci bombardamenti dell'aviazione e l'invasione del sud da parte dell'esercito israeliano.

Tuttavia l'incapacità delle preponderanti forze di Tsahal (l'esercito israeliano) di piegare la tenace resistenza militare di Hezbollah e infine l'accettazione da entrambe le parti della risoluzione ONU, hanno lasciato la generale impressione di una vittoria, quanto meno politica, del Partito di Dio libanese.

Ma osservando i fatti in un contesto più ampio ed in una prospettiva di periodo, altre considerazioni si possono aggiungere. Israele fronteggia quattro scenari di possibile guerra o guerriglia. I "fronti interni" palestinesi (in particolare la Striscia di Gaza governata da Hamas), i confini nord con appunto Libano e poi Siria, e il nemico "finale" Iran, specialmente se quest'ultimo dovesse continuare la politica di dotarsi (come pretende la diplomazia occidentale) di armamenti atomici.

Israele ha considerato e sta considerando di affrontare uno scontro militare diretto contro l'Iran, che sarebbe soprattutto un confronto aereo e missilistico. In un tale drammatico contesto la sicurezza del paese necessiterebbe che le retrovie fossero poste sotto stretto controllo.

Infatti, con l'operazione Piombo Fuso dello scorso inverno, Israele sembra avere definitivamente invalidato la possibilità di Hamas di proporre con una qualche efficacia operazioni militari contro lo stato ebraico. Allo stesso modo la guerra del Libano del 2006 sembra aver posto sotto tutela eventuali velleità di Hezbollah.

La missione Unifil, fortemente voluta in Italia dall'allora governo Prodi, ed in particolare dal ministro degli Esteri Massimo D'Alema, col consenso pressoché unanime di tutte le maggiori componenti politiche anche d'opposizione, si insediò e partì con una ambiguità di non poco conto. Se la risoluzione 1701 prevedeva infatti, accanto al ritiro dell'esercito israeliano, il disarmo di Hezbollah da compiersi da parte dell'esercito regolare libanese e della stessa Unifil, fin da subito le forze in campo ritennero impraticabili operazioni di disarmo delle milizie combattenti, salvo doversi scontrare apertamente con esse.

Hezbollah ha quindi mantenuto la sua capacità militare, e gli uomini dell'Unifil si trovano tra due fuochi costantemente sul punto di riaccendersi. In questi tre anni non sono mancate provocazioni e rotture della tregua, sia da parte israeliana che da parte di groppuscoli riferibili alla resistenza libanese. Nel 2007 un attentato colpiva la missione provocando sei vittime nel contingente spagnolo.

E le notizie che arrivano in quest'ultimo periodo dal Libano non sono affatto rassicuranti. Il britannico Times ha riportato che Hezbollah ha ammassato al confine circa 40mila razzi di medio raggio in grado di colpire Tel Aviv. I comandi militari ebraici sostengono che "la guerra può scoppiare da un minuto all'altro".

Nel contempo il leader del Partito sociale progressista, appartenente alla componente drusa, Walid Jumblatt, ha dichiarato di voler lasciare la coalizione filo-occidentale appoggiata dall'Arabia Saudita che ha recentemente vinto le elezioni (in seggi anche se non in voti) ed ha espresso il primo ministro Saad Hariri. Questo rimescolerebbe le carte delle complesse alchimie ed alleanze che caratterizzano il panorama politico libanese, nonché determinare un momento di destabilizzazione e vuoto di potere.

In Italia è del tutto assente un dibattito politico ed intellettuale sulle sorti della missione nel caso che la situazione precipiti. Eventualità non certo trascurabile. Il rischio evidente è che la nostra classe politica possa trovarsi, come spesso accade, impreparata (volutamente impreparata?) agli eventi e quindi facilmente trascinata dentro scenari allestiti da chi possiede capacità strategiche e di analisi ben più sviluppate.

Fin dalla metà degli anni '90 i think tanks usraeliani concepirono la strategia che avrebbe improntato, fino ai nostri giorni ed a seguire, le mosse politiche di Tel Aviv, l'ormai celeberrimo Clean Break che avrebbe garantito ad Israele una pace duratura su una posizione di potenza nella regione.

In questo contesto tre sono i possibili scenari pesantemente critici:
- Israele attacca preventivamente l'Iran e lascia all'Unifil il compito di fermare con la forza una eventuale reazione delle milizie filo-iraniane di Hezbollah;
- incidenti di confine, provocazioni e contro-provocazioni, fanno divampare di nuovo la guerra e l'Unifil si trova nel mezzo degli scontri: se colpita, reagirà e contro chi?;
- l'instabilità politica interna libanese provoca una guerra civile sostanzialmente combattuta per procura, tra Iran e Siria da una parte ed Arabia Saudita e Israele dall'altra, attraverso le varie fazioni del paese.

Se all'Unifil venisse chiesto, come da suo mandato originario, di disarmare Hezbollah, come si dovrà comportare?

Un incubo è ricorrente nelle tre ipotesi. La missione di pace a guida italiana potrebbe essere costretta da eventi determinati da forze esterne ad entrare in armi nel conflitto contro una delle componenti sul terreno, Hezbollah e la resistenza libanese.

Rientra questo negli scenari previsti ed accettati dalla nostra classe politica, dall'intelligence, dai vertici delle Forze Armate? Più in generale corrisponde alla vocazione italiana che ha costruito tra innumerevoli difficoltà, e spesso con arditi equilibrismi geopolitici, una solida tradizione di mediazione e pacificazione nel Mediterraneo ed in Medio Oriente?
Siamo pronti a buttare al vento in questa partita decenni di politica internazionale? Perché siamo in Libano? Quali sono i nostri obiettivi strategici? Chi sono, se ci sono, gli alleati e chi i nemici? Quali regole di ingaggio devono adottare i nostri militari?

Furono probabilmente ben pochi gli italiani che nella matura estate del 2006 si posero queste domande. Ora devono essere molti meno visto che della nostra missione Unifil in Libano non si parla praticamente più. Invece è necessario che ogni cittadino che ha a cuore il destino del Paese si interroghi e ponga con forza alla nostra classe dirigente queste stesse domande, nel modo e con la possibilità che ognuno ha.

Altrimenti, a giochi fatti, potremmo ritrovarci a piangere nostri soldati, a celebrare nostri eroi, caduti, come troppo spesso negli ultimi anni, in una guerra forse non nostra, e combattuta per altri.


Libano. La tensione, a sud del Litani, torna a salire
di Dagoberto Husayn Bellucci - www.ariannaeditrice.it - 14 Agosto 2009

La frontiera meridionale che separa il Libano dalla Palestina occupata 'brulica' nelle ultime ore di movimenti 'cingolati'. Dall'una e dall'altra sponda della cosiddetta linea 'blu' che divide il paese dei cedri dall'"accampamento militare" sionista in Terrasanta si sono ammassati diversi mezzi corazzati e cingolati dei due eserciti contrapposti.

La linea blu è la linea di demarcazione ufficiale che separa Libano e entità criminale sionista ma vi sono ancora diverse zone occupate da "Israele": le fattorie di She'eba, le colline di Kfar Shouba e il villaggio di Ghajar sono tutti territori libanesi sotto occupazione israeliana.

Alcuni giorni or sono il "Times" (...occorrerebbe 'leggerne' il 'titolo' al 'contrario' si 'capirebbero' molte più cose...) di Londra aveva diramato la notizia secondo la quale Hizb'Allah ed il suo braccio militare, la Resistenza Islamica, fossero in stato di allerta per prevenire qualsiasi aggressione sionista. Qualche indiscrezione riferita dal quotidiano britannico riportava la disponibilità di oltre quarantamila tra razzi kathiusha e altri missili - fra i quali i Khaibar 2 di fabbricazione iraniana - nelle mani dell'organizzazione di resistenza del partito sciita filo-iraniano di Sayyed Hassan Nasrallah.

Ovviamente tali indiscrezioni, coperte dall'anonimato, reali o meno 'risultano' comunque 'sgradite' alle sempre 'pronte' 'attenzioni' israeliane. I sionisti dall'ultima aggressione dell'estate 2006 - e della quale tra quattro giorni ricorrerà il terzo anniversario di quella che gli sciiti libanesi riconoscono come la "vittoria divina" - contro il paese dei cedri non hanno mai smesso di indirizzare nuove minacce contro il Libano e Hizb'Allah.

La reazione del regime d'occupazione sionista non si è fatta attendere: alle voci che vorrebbero Hizb'Allah pronto a qualsiasi evenienza in caso di nuovi attacchi israeliani le autorità d'occupazione avevano già replicato con nuove minacce di 'farla finita' una volta e per sempre con il movimento islamico libanese. Minacce che si assommano a quelle che oramai da quasi tre anni continuano quasi quotidianamente a giungere da Tel Aviv.

Alcuni giorni or sono il vice-ministro degli Esteri del regime d'occupazione israeliano, Daniel Ayalon, aveva esortato Nethanyahu ed il suo esecutivo ad un nuovo attacco contro il Libano per chiudere "definitivamente i conti" con Hizb'Allah sostenendo palesemente quanto - da queste parti - più o meno sanno anche i sassi ovvero che "il prossimo confronto con Hizb'Allah è diventato inevitabile e arriverà presto".

I principali responsabili del partito di Dio sciita-libanese affatto intimoriti hanno replicato che "qualora il regime sionista pensasse di lanciare una nuova aggressione contro il paese ci troverebbero pronti a rispondere con ogni mezzo a nostra disposizione". E di mezzi a disposizione la Resistenza Islamica ne avrebbe, a sentire le ultime indiscrezioni uscite anche sulla stampa locale ed araba in queste ultime ore, parecchi e tutti 'puntati' contro l'entità criminale sionista in direzione Tel Aviv.

Dalle prime ore di questa mattina l'esercito libanese è entrato in stato d'allerta ed ha cominciato a presidiare la frontiera meridionale da quando - stando a fonti militari di Beirut - tre blindati israeliani accompagnati da un veicolo civile sarebbero stati avvistati nei pressi dell'area agricola formata dalle fattorie di She'eba ai piedi del monte Hermon occupate da "Israele" oramai dal 1967.

Questa zona si trova al centro, oramai da oltre quarant'anni, di un lungo contenzioso di confine tra il regime d'occupazione sionista, il Libano e la Siria. Secondo quanto riporta stamani l'agenzia ufficiale libanese, Nna, questi movimenti di truppe di 'tsahal' = l'esercito d'occupazione sionista, interesserebbero in particolar modo le coline di Kfar Shuba poco distanti dalla fattorie di She'eba.

Non sarebbero apparentemente state fornite motivazioni ufficiali da parte ebraica per il dispiegamento di queste unità militari anche se la stampa ebraica, Ha'aretz ed altri quotidiani sionisti, riportano di attività a "protezione di unità impegnate nel rafforzamento delle barriere di filo spinato" nell'area contesa. Lo stesso quotidiano aveva, non più di una settimana or sono, riportato di "movimenti di truppe libanesi" del quale nessuno ha visto traccia.

Anche l'Unifil, allertata dalle manovre militari israeliane che potrebbero creare i presupposti per la riapertura del fuoco incrociato tra i due eserciti, ha inviato nella zona alcune pattuglie per monitorare l'evoluzione della situazione.

La tensione, a sud del Litani nella fascia di confine tra Libano e Palestina occupata, torna a salire.