domenica 22 luglio 2012

Update italiota

Alcuni articoli sulle ultime vicende italiote, relative in particolar modo all'approvazione del Fiscal Compact da parte del Parlamento.



Fiscal Compact: la sovranità dal popolo all'Europa
di Alberto Lucarelli - Il Fatto Quotidiano - 21 luglio 2012

In nome della crescita europea l’Italia sacrifica il suo fondamento costituzionale: approvando, senza dibattito e in via definitiva il disegno di legge di ratifica del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria (il cosiddetto fiscal compact), la Camera ha spostato la sovranità dal popolo (come recita l’art. 1 della Costituzione) alla burocrazia europea.

In pratica, il voto impone all’Italia di tagliare per 20 anni 45 miliardi di debito pubblico all’anno: solo per dare un’idea della dimensione della scure Ue, a confronto la spending review cancella spese per un di 29 miliardi in tre anni.

A questo esborso, inoltre, va aggiunto quello previsto dal trattato istitutivo del Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità), ratificato contestualmente al fiscal compact, che impegna l’Italia a versare 15 miliardi in 5 anni per la realizzazione di un fondo “paracadute” per le banche.

Quella che può essere considerata una vera e propria cessione all’Europa della sovranità politica economica e fiscale, è irrigidita da una serie di clausole “di rigore”, tese a sanzionare a sanzionare gli inadempienti con una multa fino allo 0,1% del Pil.

Un Paese, dunque, non può rifiutarsi né di ridurre il debito né di obbedire alle correzioni richieste. Un meccanismo, voluto dall’Eurogruppo, che indebolisce la commissione europea, rafforzando un’Europa intergovernativa fortemente voluta dai governi di destra negli ultimi anni.

Oltre ad immaginare dove il Governo andrà ad operare questi tagli (dove l’ha fatto finora, penalizzando ulteriormente il welfare e accelerando le politiche di privatizzazione), il fiscal compact ci impone una riflessione sul grado di democrazia operante oggi, ma direi sin dalla sua fase costitutiva, all’interno dell’Unione.

L’unico principio all’interno dell’Europa che sembra orientato ad esprimere una dimensione democratica è il principio di coesione economico sociale quale paradigma dei diritti sociali.

Tale principio, seppur tra mille contraddizioni, va considerato quale vero e unico fondamento “costituzionale” europeo, dal valore prescrittivo e non meramente programmatico, tale da costituire il presupposto di un ampio concetto di partecipazione alla convivenza sociale, politica ed economica.

Questo principio, finora assolutamente disatteso, deve essere messo in grado di attivare politiche pubbliche tese a realizzare un governo europeo dei beni comuni, in contrapposizione al modello mercantile e concorrenziale che sempre più spesso viene utilizzato quale paravento a scelte di politiche pubbliche.

Su questo versante tutte le norme relative alla privatizzazione sono state intese, con estrema ipocrisia e mistificazione, come “comunitariamente necessarie”, ovvero norme alle quali il nostro legislatore, per non violare il diritto comunitario, non si sarebbe potuto sottrarre.

Dietro il meccanismo del fiscal compact, ma ancor di più dietro il Mes, il grande burattinaio è rappresentato dalla Bce, la Banca Centrale Europea, che ha adottato, in maniera assolutamente illegale e illegittima, misure fuori dall’ordinario quali lo stanziamento di fondi, tramite aste a tasso fisso ed a piena aggiudicazione, con scadenza a 36 mesi, e l’abbassamento temporaneo del coefficiente di riserva obbligatoria dal 2 all’1%.

Queste iniziative, “motivate” dalla crisi internazionale, violano il seppur debole diritto pubblico europeo dell’economia (come anche riconosciuto dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 24 del 2011 di ammissibilità del quesito referendario contro la privatizzazione dell’acqua) che sancisce i diritti fondamentali quale fattore irrinunciabile di tutela sociale e territoriale ed elemento imprescindibile della coesione europea (eguaglianza sostanziale).

In questa visione la regola della concorrenza sarebbe limitata dal raggiungimento de fini sociali e dal rispetto dei valori fondanti dell’Unione, quali lo sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, la solidarietà, l’elevato livello dell’occupazione e la protezione dell’ambiente, della salute, dei consumatori. Ma non è mai stato così!

L’Europa può rinascere solo attraverso processi di mobilitazione e di affermazione di principi decisamente antiliberisti, che pongano al centro del confronto politico il lavoro, lo Stato sociale ed i beni comuni.

Quindi, ridando piena effettività all’art. 1 della Costituzione, riconoscendo nel lavoro il fondamento della Repubblica e nel popolo, e non nei potentati economico-finanziari europeo, l’esclusiva sovranità.


E' macelleria sociale: approvato il Fiscal Compact
di Paolo Becchi  - www.byoblu.com - 19 Luglio 2012

Poche ore fa, l’Assemblea ha approvato la ratifica del cosiddetto fiscal compact, ossia il trattato che introduce i meccanismi di stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, e che mira – così si dice – «a salvaguardare la stabilità di tutta la zona Euro».

In realtà, dubbi ed incertezze sulla bontà del “fiscal compact” sono stati espressi in tutta Europa: la Germania per prima ha rinviato l’approvazione del trattato, e sarà la Corte Costituzionale a decidere, il prossimo 12 settembre, se il fondo di salvataggio (ndr: il trattato Mes http://www.byoblu.com/post/2012/07/19/La-guerra-dellEuropa.aspx ) ed il patto fiscale europeo potranno entrare in vigore.

In Italia, invece, si è assistito ad un “allineamento” non solo degli organi di stampa – che evitano quasi di dare notizia dell’avvenuta approvazione – ma dello stesso Parlamento, il quale ha ratificato, senza discussione, senza neppure che sia stato necessario al Governo porre la questione di fiducia, il Trattato: maggioranza bulgara oggi alla Camera, 368 sì contro 65 no. In Italia tutto accade ormai in un’atmosfera grigia e silenziosa, quasi spettrale.

Ma cosa significa l’approvazione del “fiscal compact”? Il “patto” prevede che i Paesi che detengono un debito pubblico superiore al 60% del PIL di rientrare entro tale soglia nell'arco di 20 anni, ad un ritmo pari ad un ventesimo dell'eccedenza in ciascuna annualità.

Gli Stati si obbligano a mantenere il deficit pubblico sempre sotto al 3% del PIL, a pena di sanzioni. Tutto ciò significa né più né meno la semplice rinuncia ad ogni possibilità di intraprendere una politica fiscale capace di stimolare la domanda.

Significa condannarsi ad una rigidità ulteriore di politica economica che va ad aggiungersi a quella del cambio fisso dettato dalla moneta unica. L’Italia, la nazione prima al mondo per pressione fiscale, si impegna oggi a sostenere 50 miliardi di Euro all’anno di tasse e tagli per 20 anni.

Rispettare parametri fiscali sempre più rigidi e stringenti, rinunziando ad ogni spazio possibile di manovra, vorrà dire dover imporre agli italiani, per i prossimi vent’anni, un regime di austerità radicale: si colpiranno ancora salari, stipendi e prestazioni del Welfare, si aggraveranno le condizioni di vita delle classi sociale medio-basse, si assisterà a nuove tasse.

Gli italiani devono sapere che il prezzo imposto dall’Europa è una macelleria sociale: tagli dappertutto, dalla sanità alla scuola, dall’università ai trasporti.

Tutto questo avviene, ed avverrà, senza alcuna consultazione diretta o indiretta del popolo italiano, ma unicamente per rispettare decisioni prese al di fuori del Paese. Siamo passati senza accorgercene da un sistema politico democratico ad un sistema oligarchico, in cui il Governo è nelle mani di un gruppo di “tecnici” che rappresentano interessi esterni.

Il Parlamento obbedisce, senza neppure un minimo accenno di protesta. Il Paese è stato “pacificato”: niente più aspri scontri politici, disinteresse diffuso per la politica, tensione sociale apparentemente sotto controllo. Eppure si annuncia, per i prossimi vent’anni, una sanguinosa e violenta “economia di guerra”: la guerra senza guerra, ossia la più terrificante delle possibilità.


Italia in saldo: svendere il Paese per 20 miliardi l'anno
da www.libreidee.org - 16 Luglio 2012

Svenditalia! Il piano di privatizzazione di Grilli farà contente (guarda caso) le banche, azioniste col 30% della cassa depositi e prestiti attraverso le fondazioni. In offerta speciale solo le aziende che producono utili (ma và?): Fintecna, Save e Simesty passeranno alla CDP per sei miliardi. La corte dei conti avverte: “Rischio svendita patrimonio immobiliare dello Stato”. Giapponesi sceicchi, americani, affrettatevi per i saldi ...
Dagospia

Eutanasia dell’Italia, a colpi di 20 miliardi di euro all’anno. Il suicidio programmato del patrimonio pubblico della nazione che ha appena festeggiato i primi 150 anni di vita è «una strada praticabile», secondo il neo-ministro dell’economia Vittorio Grilli, per ridurre strutturalmente il debito pubblico.

Regalando – di fatto – i beni pubblici degli italiani al grande capitale finanziario: lo stesso che ha provocato la crisi e sottratto agli Stati la leva della moneta sovrana, strategica per risalire la china senza dover ricorrere a tagli criminosi.

Intervistato dal “Corriere della Sera”, Grilli auspica un piano pluriennale per garantire «vendite di beni pubblici per 15-20 miliardi l’anno, pari all’1% del Pil».

E’ la legge – folle – del “pareggio di bilancio” imposto dall’élite tecnocratica dell’Unione Europea mediante trattati-capestro come il Fiscal Compact: drenare a sangue le risorse pubbliche, costringendo lo Stato a comportarsi come un’azienda privata – neppure virtuosa, ma fallimentare: un’azienda che non è più in grado di fare investimenti vitali.

«Già abbiamo un avanzo primario del 5%», ammette Grilli, confermando che lo Stato spende per i propri cittadini meno di quanto riceva sotto forma di tasse. Calcolando «una crescita nominale del 3%», aggiunge Grilli, la svendita a rate del patrimonio pubblico italiano produrrebbe una riduzione del debito pari al 20% in soli cinque anni.

Nel colloquio con Ferruccio De Bortoli, Grilli difende anche la famigerata spending review, che «consente risparmi al di là delle cifre di cui si parla in questi giorni», dal momento che «si possono ridurre ancora le agevolazioni fiscali e assistenziali, intervenire sui trasferimenti alle imprese».

Il tecnocrate arruolato da Monti parla addirittura di tagli alla tassazione sul lavoro, mentre collabora alla demolizione del welfare su cui si sono basati cinquant’anni di benessere e di sicurezza sociale.

Vittorio Grilli ha un curriculum perfettamente adeguato alle sue attuali performance: è stato assistente professore alla Yale University e poi docente al Birkbeck College dell’università di Londra.

Nel 1994 è entrato al Ministero del Tesoro come capo della direzione per le privatizzazioni: super-tecnocrate di scuola anglosassone, ha firmato il suo ingresso nell’amministrazione statale in qualità di liquidatore, secondo i dettami dell’élite neoliberista che prescrive la sparizione progressiva dello Stato come garante dei cittadini.

Dirigente bancario del Crédit Suisse, è tornato al ministero nel 2002 come Ragioniere Generale dello Stato, per poi dirigere il Tesoro e sfiorare, nel 2011, la super-poltrona di governatore di Bankitalia poi andata ad Ignazio Visco. Un uomo con le carte in regola, dunque, per sforbiciare quel che resta dei beni comuni in via di sparizione.

E mentre il Parlamento dorme e lascia fare ai “tecnici”, i freddi esecutori dei diktat impartiti da Bruxelles e Francoforte per devastare il sistema socio-economico europeo mettendo in salvo soltanto le banche e il loro capolavoro speculativo, la moneta “privata” chiamata euro, l’economista Grilli se la prende con l’ultimo declassamento di “Moody’s”, come se le agenzie di rating non fossero parte integrante del piano mondiale per spodestare i cittadini europei, retrocessi a sudditi da “punire” con selvaggi “sacrifici”, senza una sola contropartita ragionevole né un’idea di sviluppo per uscire dalla crisi.

Grilli attacca addirittura i mercati, cioè i “mandanti” del governo Monti, perché «non riconoscono ancora la bontà degli sforzi compiuti dal nostro Paese per mettere in ordine i conti».

E’ il copione mediatico del “risanamento”: i becchini si presentano come salvatori. «Il pareggio di bilancio è a portata di mano, le riforme strutturali sono avviate», si vanta Grilli: «Nessun altro Paese ha fatto tanto in così poco tempo».

Record forse sfuggito ai mercati “distratti” ma non certo agli italiani, tragicamente ingannati e finiti nella trappola mortale del “rigore”.


CASERME, UFFICI, AREE DEMANIALI, ECCO LA LISTA DELLE PRIVATIZZAZIONI
di Antonella Baccaro - Il Corriere della Sera - 16 Luglio 2012

Entro luglio 6 mld dal passaggio di Sace e Fintecna a Cassa depositi. Il patrimonio immobiliare vale circa 300 miliardi

Vendere beni pubblici per 15-20 miliardi all'anno, pari all'1% del Pil (prodotto interno lordo) per dare «un colpo secco al debito pubblico» e portarlo sotto quota 100 del Pil. E' questo l'obiettivo indicato dal ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, nell'intervista di ieri al Corriere.

L'operazione è già in corso. Prima ancora che venga creata la Sgr (società gestione risparmio) che opererà come «fondo dei fondi» per la messa sul mercato dei migliori cespiti dello Stato e degli enti locali, immobili e società di servizi, il ministro si è già messo al lavoro per verificarne la concretezza.

Per questo Grilli avrebbe già incontrato banche d'affari, come i giapponesi di Nomura, e fondi potenzialmente interessati, cogliendo in particolare l'attenzione di quelli statunitensi, ma anche arabi, a partire da quell'emiro del Qatar che ha appena acquistato in Italia la casa di moda Valentino.

L'intenzione del governo è di procedere con pacchetti da offrire sul mercato in rapida successione. Solo il patrimonio dello Stato, secondo l'indagine conoscitiva della commissione Finanze della Camera, conta 222 milioni di metri quadri e vale 300 miliardi di euro. Altri 350 miliardi vale il patrimonio dei Comuni, secondo uno studio del Cresme.

IL RUOLO DELLA CDP

Ma il primo risultato tangibile, del valore di circa mezzo punto di Pil, è quello che verrà colto con il passaggio immediato delle quote di Fintecna, Sace e Simest dal Tesoro alla Cassa depositi e prestiti, operazione che dovrebbe fruttare circa 10 miliardi. Cifra cui bisogna sottrarre quella parte di risorse che il decreto sulle dismissioni ha destinato al pagamento dei crediti della pubblica amministrazione.

L'esborso della Cdp di una prima tranche sarà subitaneo: 6 miliardi già entro luglio. A giorni si conoscerà il nome dell'advisor (consulente) che realizzerà la due diligence (valutazione) delle tre società che porteranno alla Cassa depositi e prestiti, controllata dal Tesoro per il 70% e per il resto dalle fondazioni bancarie, una buona dote di liquidità e di utili: solo Sace ne ha fatti per 3,4 miliardi a partire dal 2004, quando è stata trasformata in società per azioni, e ha distribuito all'azionista 2,3 miliardi di dividendi.

LE SINERGIE POSSIBILI

Oltre che a trovare risorse per abbattere il debito pubblico, l'operazione ha anche l'obiettivo di razionalizzare il portafoglio delle partecipazioni statali e valorizzare le collaborazioni possibili, e già esistenti, fra la Cassa depositi e prestiti e le tre società che adesso passeranno sotto il suo controllo.

A partire da Fintecna, che probabilmente controllerà al 40%, insieme con l'Agenzia del Demanio, con il 60%, la Sgr che gestirà tutta l'operazione delle dismissioni. In realtà tale veicolo non sarà creato dal nulla: la ristrettezza dei tempi a disposizione renderà necessario l'utilizzo di una società già esistente.

Intanto entro la fine del mese l'Agenzia del Demanio, guidata da Stefano Scalera, avrà messo a punto la lista dei primi cento immobili dello Stato e degli enti locali da conferire alla Sgr sui potenziali 350 già individuati (valore complessivo di base 1,5 miliardi).

LA «WHITE LIST»

Di certo della lista faranno parte molte caserme, come la Sani, quella bolognese che si trova in pieno centro, o il vecchio carcere militare di Forte Boccea e l'ex caserma di via Guido Reni, entrambe a Roma. E poi due magazzini, quelli di via Papareschi e di via del Porto fluviale, sempre nella Capitale.

Nella maggior parte dei casi si pescherà dalla cosiddetta white list, l'elenco di 13 mila immobili che in base al decreto di due anni fa sul federalismo demaniale sarebbero dovuti passare dallo Stato agli enti locali.

Per questi immobili il ricavato del conferimento al fondo che verrà istituito dalla Cassa depositi e prestiti sarà destinato per tre quarti all'abbattimento del debito del Comune e per un quarto alla riduzione del debito pubblico nazionale.

Ma nel piano potrebbero entrare anche altri immobili che non fanno parte di quella lista. Per quelli tuttora di proprietà dello Stato l'incasso servirà tutto a far scendere il debito nazionale, mentre per quelli interamente dei Comuni il valore dell'immobile assegnato sarà destinato tutto all'ente locale, ma diviso in due parti: un quarto come liquidità, tre quarti come partecipazione al fondo immobiliare che avrà il compito di valorizzare e mettere a reddito tutti i beni da dismettere.

La normativa esclude espressamente dalla procedura gli immobili utilizzati per finalità istituzionali. Questo perché la previsione di un eventuale trasferimento di detti beni ai fondi determinerebbe effetti pregiudizievoli in termini di finanza pubblica, generando costi ascrivibili a locazioni passive. Di conseguenza, dei 62 miliardi di beni statali collocabili subito sul mercato, ne potranno essere venduti per ora soltanto sette.

LE DIFFICOLTÀ

Fin qui tutto sembra filare liscio. Ma è stato lo stesso ministro Grilli a mettere in guardia circa l'esito del piano di dismissioni per l'abbattimento del debito pubblico. «Non ci sono più gli asset vendibili dello Stato e degli enti pubblici, come vent'anni fa» ha avvertito nell'intervista.

C'è «un patrimonio immobiliare di difficile valorizzazione, come insegnano le esperienze non felici di Scip 1 e Scip 2 (società create per vendere o cartolarizzare le proprietà degli enti), molte attività sparse a livello locale».

E a questo proposito, si avrebbe gioco facile a ricordare come, quando si mise mano alla privatizzazione dell'Ina, una delle difficoltà fu quella di ripercorrerne l'intero patrimonio immobiliare.

Quanto all'esito delle precedenti operazioni immobiliari, è stata la Corte dei Conti, di recente, in audizione, a avvertire che nelle attuali condizioni di mercato, che solo nel primo trimestre di quest'anno ha visto le quotazioni scendere del 20%, «c'è il rischio di una svendita».

Come sta accadendo per gli immobili degli enti previdenziali: dopo il fallimento dell'operazione di cartolarizzazione Scip2, ad Inps, Inail ed Inpdap sono rimasti invenduti migliaia di appartamenti.

Per la precisione, all'Inps sono ritornati 542 immobili da Scip 1 e ben 10 mila dal pacchetto conferito a Scip2, mentre all'Inpdap, dalla seconda operazione di cartolarizzazione sono stati stornati 12 mila appartamenti. Ed in tre anni, dal 2009 al 2011, ne sono stati venduti solo 1.200, quindi appena il 10%, con un incasso di 93 milioni di euro (per una media di 77.500 euro ad immobile).

LE MUNICIPALIZZATE


L'altro punto difficile del piano riguarda il «capitalismo municipale»: le 6.800 società che fanno capo non solo ai Comuni ma anche alle Province e alle Regioni.

Il pacchetto più appetibile riguarda le 4.800 aziende comunali, con un fatturato complessivo di 43 miliardi di euro, e 16 mila manager tra presidenti, amministratori e componenti dei consigli d'amministrazione.

Di queste, circa 3 mila svolgono in realtà servizi un tempo interni alle amministrazioni e adesso esternalizzati, come la riscossione dei tributi. E quindi sono fuori dalle dismissioni. Ne restano però 1.800 che si occupano di sevizi pubblici locali: acqua, elettricità, gas, rifiuti e trasporti.

Ed è proprio su queste che si concentra l'attenzione. Anche qui la Corte dei Conti avverte che oltre il 20% delle società risulta in perdita soprattutto nel Mezzogiorno.

Quanto alle società quotate, hanno perso in media il 30% del loro valore e quindi potrebbero essere non proprio un affare. L'operazione di dismissione lascia fuori alcuni cespiti importanti dello Stato: le partecipazioni nelle grandi aziende pubbliche, da Eni a Enel a Finmeccanica.

Com'è noto, la Cassa depositi e prestiti ha appena acquisito una quota della Snam appena sotto il 30%. Grilli ha escluso per la Cdp un ruolo come quello giocato dall'Iri fino al 2002. 


L'estate del contagio
di Stefano Feltri - Il Fatto Quotidiano - 21 Luglio 2012

Il senso della crisi è nell’agenda di Mario Monti: il primo di agosto vola in Finlandia a trattare con l’inflessibile governo di Jyrki Katainen, il giorno dopo si trasferisce a Madrid per discutere con Mariano Rajoy.

Perché, se mai c’è stato un momento in cui servirebbe il meccanismo anti-spread proposto a Bruxelles da Italia e Spagna è questo: ieri lo spread spagnolo tra i titoli di Stato a 10 anni e gli omologhi tedeschi è arrivato a 600 punti (cioè il 6 per cento in più), quello dell’Italia è andato a rimorchio, a 500.

Era da gennaio che non si vedeva un numero simile. Ieri la Spagna ha avuto i primi 30 dei 100 miliardi europei per ricapitalizzare le sue banche, ma presto serviranno soldi anche allo Stato. La Borsa spagnola è precipitata quando la Comunità Valenzana ha dichiarato un sostanziale default. Se la Spagna non ha i soldi per le banche, non li ha neppure per le sue Regioni insolventi.

Il contagio è in corso, e non da oggi”, ammette Mario Monti dopo una lunga lista di precisazioni sullo stato di salute dell’Italia e sui giornali che non riconoscono al governo i suoi meriti. Molto piccato il premier precisa: “Nel novembre del 2011 lo spread tra Italia e Germania era a 574. Undici mesi prima era a 160. Oggi siamo a 490. C’è una riduzione, che è certamente deludente, perché me la sarei aspettata molto più rilevante, di 84 punti”. Mentre parla lo spread però sale ancora a 500.
La sicurezza ostentata dal premier si scontra con la cronaca finanziaria.  

La situazione spagnola sta degenerando, l’intervento sulle banche non ha rassicurato la Borsa e gli investitori non sono convinti che il circolo perverso tra debiti privati e pubblici si sia spezzato.

Se il costo di titoli di Stato spagnoli continua a crescere, ormai ha superato abbondantemente il 7 per cento, l’effetto valanga finirà per travolgere in fretta le finanze spagnole. Il governo ha annunciato una manovra di risanamento da 65 miliardi ma non è affatto scontato che riesca ad approvarla con il Paese in rivolta.

La situazione pare fuori controllo. Ma il governo italiano prova a resistere al panico: Monti aveva messo in conto che la giornata di ieri sarebbe stata vivace, dopo le dichiarazioni del ministro del Bilancio spagnolo Cristobal Montoro (“non avevamo più un soldo in cassa, senza la Bce saremmo falliti”, parlava del 2011 ma molto hanno equivocato).

A Palazzo Chigi sanno che il problema dell’Italia è una crisi di fiducia, quindi bisogna evitare di dare l’impressione di annaspare, o i mercati penseranno di aver avuto ragione a scommettere al ribasso.

É una strategia rischiosa, ma non ci sono molte alternative, finché la Banca centrale europea di Mario Draghi resta immobile. “Certo, se la Bce nel pieno rispetto della sua autonomia decidesse di intervenire tutti ne saremmo contenti”, ammette un ministro.

Ma per ora da Francoforte non arriva alcun segnale, Draghi si è già esposto molto fornendo oltre 1.000 miliardi di liquidità alle banche e senza il via libera politico dei tedeschi difficilmente tenterà altre forzature, come l’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario (quello del debito già in mano ai privati) sperimentato l’estate scorsa.

A Monti restano solo due cose da fare: convincere i partner europei più scettici sulla necessità di difendere l’Italia e dimostrare che siamo davvero così virtuosi come ci presentiamo. A questo serve l’incontro di Helsinki: il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero gira da mesi tra le Capitali per spiegare come è cambiata l’Italia, ad agosto con il Parlamento fermo si può muovere anche Monti.

Se almeno con la Germania di Angela Merkel si può trattare, con i finlandesi non c’è margine. Il governo di Helsinki voleva il Partenone in garanzia prima di dare gli aiuti ad Atene. E all’Italia suggeriva, come alternativa al meccanismo anti-spread, di mettere i gioielli del Paese (perché no, anche il Colosseo) in un fondo che poi emetteva titoli di debito.

Nel vertice di fine giugno i finlandesi hanno abbozzato, soltanto perché la Germania, capofila dei rigoristi, ha scelto di non sfasciare tutto. Ma dal giorno dopo hanno promesso una guerra di trincea, che stanno facendo.

Pochi giorni fa hanno ottenuto dalla Spagna un accordo bilaterale, cioè a due, senza coinvolgere il resto d’Europa: in cambio della sua tranche di prestiti alle banche iberiche (1,9 miliardi), Helsinki ha avuto garanzie per 770 milioni di euro.

Così, se le cose andassero male e la Spagna finisse in default, i finlandesi recupererebbero almeno il 40 per cento della somma. La stessa diffidenza la dimostrano verso l’Italia che, per ora, non ha intenzione di chiedere aiuto, ma la cui indipendenza è tanto più credibile quanto più solidi sono gli eventuali strumenti di salvataggio.

L’Esm, il meccanismo europeo di stabilità da 500 miliardi, è rimandato a ottobre, dopo che la corte costituzionale tedesca avrà dato il suo benestare.

Resta il vecchio Efsf, fondo provvisorio fatto di garanzie teoriche e non di capitale versato, che, dopo i 100 miliardi promessi alla Spagna, ha solo 148 miliardi per un eventuale salvataggio italiano. Poca roba, ma meglio di niente.

Per questo Monti deve assicurarsi che in caso di emergenza gli aiuti arrivino alle sue condizioni, cioè con un memorandum leggero , senza l’invasione della troika Ue-Bce-Fmi che ci ridurrebbe come la Grecia.

Per trattare da una posizione non umiliante bisogna avere i conti in ordine. Anche a prezzo di anticipare ad agosto il taglio delle agevolazioni fiscali (cioè un aumento delle tasse) che serve a evitare l’aumento del’Iva nella seconda metà del 2013. Monti spera di non dover intervenire. Magari le cose migliorano da sole.

giovedì 5 luglio 2012

Siria update

Una serie di articoli sugli ultimi sviluppi della guerra in Siria.



La Siria e i Phantom "disarmati"
di Giulietto Chiesa - Il Fatto Quotidiano - 4 Luglio 2012

Mentre le notizie dalla Siria dicono, giorno dopo giorno, che la guerra sta trascolorando da “civile” in guerreggiata; da “bassa intensita’ “, a livello libico, vorrei ritornare alle cose lette sulla stampa italiana, e viste su tutte le tv italiane, a proposito dell’abbattimento del Phanton turco nei cieli della Siria.

Avevo avuto l’impulso, inizialmente, di proporre la costituzione immediata di un comitato di solidarietà con i Phantom turchi che viaggiano disarmati dentro lo spazio aereo siriano, o nelle sue immediate vicinanze. 

Sono sicuro che avrei avuto la firma immediata dei direttori della Stampa, del Corsera e di Repubblica, tutti uniti nella deprecazione della violenza aggressiva dell’esercito siriano. Ma poi ho pensato che neanche l’ironia, o il sarcasmo sarebbe capace di far sorgere nelle loro menti un qualche dubbio. 

Sebbene dovrebbero porsi almeno l’interrogativo sul cosa ci facesse, da quelle parti, un Phantom turco, per giunta disarmato, in piena zona di guerra. Ma no, avrebbero obiettato, non era affatto ei cieli siriani. Stava vagando, appunto disarmato, ma per caso, senza cattive intenzioni.

Infatti tutti gli articoli che ho letto, in particolare sui tre giornali citati (i telegiornali li ho soltanto ascoltati perché ormai provo una sorta di voltastomaco a guardare le facce dei velinari e delle velinare mentre dicono cose senza senso con la metodicità patologica degli ipnotizzati), hanno escluso caegoricamente che il Phantom disarmato sia entrato nello spazio aereo siriano. 

Si presume che tutti i direttori in questione avessero là, sul posto i loro valenti osservatori a monitorare il cielo di Siria. Invece sappiamo che non ce li avevano, né valenti, né invalidi. 

Sappiamo che hanno dato il compito a qualche inserviente di leggere le agenzie e di copiare, semplicemente e banalmente, la versione ufficiale dei fatti esposta dal governo turco (essendo evidente che le agenzie, a cominciare dall’Ansa, solo quella versione avrebbero dato.

Assistiamo all’applicazione, ormai abitudinaria, dell’assioma principale, per definizione indimostrabile, secondo cui Bashir Assad ha torto marcio, essendo un dittatore sanguinario. A prescindere dai fatti, dalle circostanze, dalla logica. Li capisco: applicano la legge del minimo sforzo e della minima spesa. 

Ma c’è un problema: che non tutti i giornali del pianeta (che, pure, hanno gli stessi problemi) sono disposti a sputtanarsi a basso prezzo in questo modo. Per esempio il pur molto partigiano New York Times, seppure gravemente impacciato dalla “langue de bois” (i francesi sono perfidamente precisi: lingua di legno, la chiamano), scrive perplesso che la Nato ha preso per buona la versione turca, “senza effettuare controlli”. 

Non è andato a cercare il pelo nell’uovo, ma ha tentato, almeno, di rispettare l’intelligenza di una parte dei suoi lettori. Il che ci permette in prima battuta di proclamare che i media italiani, quasi senza eccezione, sono di gran lunga più bugiardi dei loro colleghi d’oltre Atlantico.

Dove invece sono tutti perfettamente uguali è nella disinvoltura con cui giustappongono fatti e avvenimenti, evitando ogni analisi comparata degli stessi che, ove venisse effettuata, mostrerebbe subito ai lettori spettatori che si cerca di turlupinarli nei modi più volgari immaginabili. 

L’operazione consiste, di solito, in un “primo tempo”, interamente e diligentemente dedicato a mostrare che la Turchia, così come i suoi Phantom disarmati, è un paese pacifico e inoffensivo, mentre la Siria di Bashir è un paese governato da un regime che è altrettando bellicoso e aggressivo verso l’esterno quanto è genocidario e dittatoriale verso i suoi sudditi. 

C’è poi un “secondo tempo”, dedicato a descrivere dettagliatamente, come grande merito, le attività militari del Fsa (che vorrebbe dire Libero Esercito Siriano), che non viene mai definito esercito, ma viene descritto con circonlocuzioni variegate: insorti, popolo in rivolta, combattenti per i diritti umani etc Naturalmente tutti molto “liberi” (mai che qualche giornalista si chieda da dove prendono le armi, chi li stipendia, chi li guida, chi li organizza ecc).

Essenziale è che siano molto liberi. Poi salta fuori, neanche tra le righe (ma e’ sempre presentato come un dato di merito) che queste truppe “libere” sono basate non in Siria, ma in territorio turco, nei pressi delle frontiere, e che è dal territorio turco che lanciano le loro offensive contro l’esercito siriano (Robert Fisk, dell’Independent, ha dato la cifra di 6000 morti fino ad ora censiti nell’esercito siriano. Ma queste cose, sulla stampa italiana, non possono apparire. 

Detto in parole povere: armi, addestramento, informazioni, logistica del Fsa sono interamente nelle mani dei turchi e della Nato. 

Ora anche l’ultimo imbecille si farebbe qualche domanda in merito. Per esempio, il governo turco e’ al corrente di tutto cio’? Anche loro, i colleghi, evidentemente penultimi imbecilli, questa domanda se la pongono. E rispondono di conseguenza. Certo, la Turchia sa tutto, aiuta i ribelli, li finanzia, li protegge. E fa bene, perché si deve abbattere il regime sanguinario e crudele di Damasco.

Si dà il caso che tutto ciò dimostra il contrario dell’assunto: chi aggredisce, cioè, è la Turchia, è la Nato, sono gli USA, è l’Arabia Saudita. Insomma siamo in piena sovversione dall’esterno contro un paese sovrano, comunque si voglia giudicare il regime politico su cui si regge. E questo è in patente violazione delle norme del diritto internazionale e dello statuto dell’Onu. 

Non possono, questi penultimi imbecilli, ai quali si aggiunge una parte degli ex pacifisti italiani, nemmeno riconoscere che un paese – che loro stessi ci raccontano aggredito dall’esterno – abbia il diritto di difendersi. Anzi s’indignano se si difende, si scandalizzano. 

Ricordate la favola del lupo che, stando a monte, accusa la pecora a valle di sporcargli l’acqua del torrente in cui sta bevendo? Premessa prima di mangiarsela, anzi pretesto per mangiarsela. Sento già le strida dei Pulitzer ex pacifisti e ora difensori a oltranza dei diritti umani dei tagliagole mercenari della jihad islamica assoldata per l’occasione. 

Ecco, Giulietto Chiesa paragona Bashar el Assad alla pecora e la Turchia (e la Nato) al lupo. Scandalo. Una bestemmia in cattedrale! Ma io non penso a questo, né alle loro povere coscienze servili. Penso al guasto che costoro introducono nei procedimenti logici dei loro lettori-spettatori-ascoltatori, sottoposti al bombardamento di notizie che intrecciano e sovrappongono vero (involontario) e falso (consapevole). 

Il compianto Guy Debord avrebbe molte ragioni di vantarsi per averlo così bene descritto in anticipo. Anche se, perfino in quella collocazione topografica che si chiama sinistra, c’è gente che nemmeno ha capito quello che Debord voleva dire. Il fatto, purtroppo triste, è che l’azione statistica dei p[enultimi imbecilli produce inesorabilmente milioni di spettatori-ascoltatori sempre più stupidi.


Dobbiamo aspettarci un'escalation della crisi siriana?
di Gianandrea Gaiani - Il Sole 24Ore - 23 Giugno 2012
 
Molti dettagli circa l'abbattimento del caccia turco F-4 nello spazio aereo siriano non sono ancora stati chiariti. Incerta la sorte dei due uomini d'equipaggio, probabilmente paracadutatisi in mare, e silenzio totale sulla natura della missione effettuata da almeno due cacciabombardieri turchi poiché i velivoli militari si muovono sempre in coppia. 

Certo l'equipaggio del secondo Phantom potrebbe rivelare molte informazioni utili e di certo ben diverse dalle improbabili dichiarazioni rilasciate dal presidente turco, Abdullah Gul, secondo il quale il jet potrebbe aver violato lo spazio aereo siriano a causa dell'alta velocità.

"E' routine per i caccia alcune volte passare avanti e indietro i confini nazionali" ha affermato Gul, citato dall'agenzia d'informazione Anadolu. "Non si tratta di azioni malintenzionate ma sono incontrollabili a causa dell'alta velocità dei jet". In realtà da quanto si è appreso i jet volavano ad elevata velocità e a quota molto bassa, quella necessaria a spingersi in territorio "nemico" cercando di non farsi individuare dai radar. 

Forse una missione per "testare" le difese aeree siriane anche se ambienti vicini all'aeronautica militare turca hanno rivelato che il jet abbattuto era un RF-4E, versione da ricognizione del Phantom decollato dalla base di Ehrac. 

Non si può quindi escludere che la sua missione fosse proprio quella di scoprire la dislocazione delle truppe siriane nel nord del Paese per girare le informazioni agli insorti siriani che in Turchia non hanno solo le basi ma anche i centri di arrivo delle armi fornite da Stati Uniti (tramite gli uomini della CIA segnalati recentemente dal New York Times) e Paesi arabi. 

Armi per i ribelli arriverebbero anche da Israele, probabilmente attraverso il confine libanese, poiché fonti siriane hanno riferito all'Ansa che i miliziani a Homs hanno ricevuto missili israeliani di ultima generazione utili ''contro i carri armati T-72'' in dotazione all'esercito siriano.

L'abbattimento del jet turco si presta però anche a letture differenti. Ankara potrebbe aver cercato il "casus belli" poiché già in passato aveva lamentato tiri di artiglieria siriana sul suo territorio e minacciato di coinvolgere la Nato. 

Opzione ventilata nelle ultime ore anche da fonti governative turche che non hanno escluso di coinvolgere gli alleati sulla base del principio che considera l'attacco contro un qualsiasi Stato membro alla stregua di un attacco contro tutti gli altri, legittimando a un intervento. 

Il premier turco, Recep Tayyp Erdogan, ha assicurato che "la Turchia annuncerà la propria posizione dopo che l'incidente sarà stato completamente chiarito, e compirà con determinazione tutti i passi necessari". 

Un attacco della Nato contro la Siria, più volte escluso dal segretario generale Anders Fogh Rasmussen, potrebbe verificarsi spacciando la Turchia per vittima delle aggressioni siriane ? 

La giustificazione sarebbe un po' debole ma non dovrebbe stupire, specie dopo i raids aerei alleati dell'anno scorso in Libia "per proteggere i civili". Di fatto un'eventuale richiesta di aiuto turca consentirebbe ai membri della Nato che lo desiderano di schierare proprie forze aeree in Turchia, almeno per imporre quella no-fly zone già proposta da Parigi e sperimentata sulla Libia.

La Siria sembra consapevole del rischio di favorire i suoi nemici con l'abbattimento del Phantom e infatti Damasco non ha esitato a scusarsi per "l'errore" inviando proprie navi (e accogliendo quelle turche) per cercare i piloti nel tratto di mare di fronte al porto di Latakia. Damasco ha sottolineato al tempo stesso che il jet aveva violato lo spazio aereo siriano. 

Per smorzare le tensioni con Ankara fonti militari siriane a Beirut hanno rivelato all'agenzia di stampa Dpa che la contraerea ha abbattuto il caccia turco ritenendolo un jet siriano in fuga con ai comandi un pilota disertore. 

Ipotesi teoricamente possibile dopo la fuga in Giordania di un pilota a bordo di un caccia Mig 21 ma tecnicamente improbabile poiché i velivoli nazionali vengono riconosciuti e discriminati rispetto a quelli stranieri dai radar.

Con l'abbattimento del jet turco Damasco ha però dimostrato di possedere armi antiaeree moderne ed efficaci anche contro i velivoli della Nato. Certo gli F-4E turchi sono vecchi aerei di costruzione statunitense, veterani del Vietnam ceduti da Washington e dalla Germania in oltre 200 esemplari una parte dei quali sono stati radicalmente rimodernati dall'industria israeliana portandoli allo standard F-4 2020 soprannominati "Terminator" (video ).
 
Il sistema di difesa aerea siriano si basa su numerose batterie di missili russi inclusi gli S-300 responsabili dell'abbattimento del Phantom e gestiti grazie a numerosi tecnici inviati da Mosca. 

Per questo l'abbattimento del "Terminator" turco potrebbe avere anche un valore deterrente ammonendo la Nato che attaccando la Siria dovrà fare i conti con tecnici e moderni missili russi. Nulla di paragonabile alla "passeggiata militare" contro Gheddafi le cui forze non sono mai riuscite ad abbattere neppure un jet alleato.


La Siria e il fantasma della guerra in Turchia
di Pepe Escobar - Asia Times - 26 Giugno 2012
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da ERNESTO CELESTINI

C'era una volta, non molto tempo fa, un ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, che era il gran fautore di una politica estera che lui chiamava "zero problemi con i nostri vicini" – ma veniva deriso da molti occidentali che la chiamavano invece "neo-ottomanesimo".

La NATO si incontrerà domani, martedì (oggi, ndr), a Bruxelles non solo per dare una risposta forte per il Phantom F-4 da poco abbattuto dall’artiglieria contraerea siriana, ma per decidere che tipo di "neo-ottomanesimo" sta emergendo da quello che, in realtà, si è trasformato in un "grosso problema politico con uno dei nostri vicini di casa".

Davutoglu insiste che l’ F-4 è stato colpito nello spazio aereo internazionale - pur ammettendo che sia, per poco, entrato nello spazio aereo siriano. Contraddicendo la dichiarazione ufficiale della Siria, ha detto che l’aereo era chiaramente riconoscibile come turco; era in "volo di addestramento" per verificare il funzionamento del "sistema radar nazionale" della Turchia, e soprattutto non doveva svolgere "nessuna missione segreta che si riferisse alla Siria".

In precedenza, il portavoce del ministero degli Esteri siriano Jihad Makdissi aveva sottolineato che questo è stato un "incidente, non un attacco". Secondo Makdissi, "un oggetto non identificato è entrato nel nostro spazio aereo e, purtroppo, come conseguenza è stato buttato giù. Si era capito solo dopo che si trattava di un aereo turco".

Davutoglu, in un intervento lampo sui media, come dice Today’s Zaman, ha ribadito che questo era un "volo in solitaria", che l’aereo “non era armato", che non c'è stato nessun avviso prima di essere abbattuto e, per quanto riguarda la Siria, tenta di ricollegare l’abbattimento del F-4 ad una “violazione non intenzionale e irrilevante" dello spazio aereo.

La violazione dello spazio aereo di un altro paese, tentando di eludere le sue difese volando a bassa quota, è una cosa normale per Davutoglu come mangiarsi uno sheesh kebab a pranzo.   "Ci sono state tante violazioni dello spazio aereo siriano da parte di altri paesi prima, ma la Siria ha abbattuto solo il nostro aereo disarmato."

Ma poi il ministro degli Esteri ha iniziato a divagare (più o meno) sulla dichiarazione e ha sottolineato: "Non importa come sia stato abbattuto l’aereo turco - spiega - noi saremo sempre accanto al popolo siriano". 

E poi: "Saremo sempre accanto al popolo siriano fino a quando avranno un regime democratico" Il popolo siriano può dimenticare il Phantom F-4, può dormire sonni tranquilli perché il nocciolo della questione rimarrà solo il cambiamento di regime.  

Tutto il resto è irrilevante

La NATO prenderà in considerazione il caso della Turchia, ai sensi dell'art 4 del suo statuto - che permette di tenere consultazioni ogni volta che "l'integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti sia minacciata".
 
Non siamo - ancora – arrivati all'articolo 5, che prevede una risposta armata. Ma potremmo essere, secondo come la NATO interpreta la dichiarazione della Turchia, al punto che il Phantom F-4 è stato "colpito 13 miglia al largo della costa siriana, nello spazio aereo internazionale".

Quindi, secondo il racconto di Davutoğlu l'F-4 ha brevemente deviato dentro lo spazio aereo siriano attratto da una forza irresistibile (… il Dio Thor?); Ma appena resosi conto dell’errore è subito rientrato, poi è stato abbattuto. 

A proposito, non era un "volo in solitaria"; alcuni testimoni hanno detto alla TV turca di aver visto due caccia volare a bassa quota in direzione delle acque siriane, ma di averne visto tornare solo uno.

Come prevedibile i soliti cagnolini guerrafondai europei sul tipo di William Hague si sono già schierati, accusando la Siria perché la Turchia ha violato lo spazio aereo siriano

Eppure non ci sono prove - finora - che Ankara avesse avvertito il governo siriano e i militari che avrebbe svolto una sorta di ricognizione molto vicino ad un confine ormai da molto tempo esplosivo.
Se l'F-4 (o la coppia di F-4) fosse armato o no, per citare Davutoglu, "era irrilevante", bisognerebbe provare a spiegare al Pentagono, per esempio, che non sia una minaccia quando entra nel tuo spazio aereo un oggetto non identificato, sconosciuto, che vola a bassa quota, in rapido movimento. Inoltre se questa fosse stata una missione di ricognizione militare, come sostiene lo stesso Davutoglu, l'F-4 doveva essere armato.
E immaginate se fosse stato un aereo siriano a sorvolare il territorio turco o quello israeliano.
Brucia, Anatolia, brucia
 
Ankara chiederà certamente le scuse formali e il pagamento di un risarcimento a Damasco. Teheran - che fino a ieri praticamente, cioè fino a prima della rivolta siriana, faceva parte di un asse Ankara-Damasco-Teheran - chiede che prevalga la ragione.

Ci sono guerrafondai professionisti che stanno lavorando per replicare un incidente come quello del Golfo del Tonchino, anche se questa è pura follia. Eppure, Asia Times Online ha appreso da una fonte locale, di un movimento "convulso" che da giorni si osserva alla base NATO di Incirlik, in Turchia.

Tutti sanno - ma nessuno ne parla - del comando NATO che si trova nel centro di controllo di Iskenderun, nella provincia di Hatay in Turchia, vicino al confine siriano, istituito mesi fa per organizzare, formare e militarizzare una ciurma raccogliticcia, nota come Libero Esercito Siriano.

Tutti sanno che Qatar, Arabia Saudita e la CIA stanno consigliando e armando questi siriani "ribelli", con l'aiuto indispensabile della logistica turca / che serve come rifugio sicuro.

Tutti sanno che Washington non si accontenterà di niente meno di un cambio di regime in Siria – per instaurarne uno, più flessibile e compatibile e che certamente non dovrà essere un regime islamista.

Tutti sanno che esiste un ordine del giorno, non tanto nascosto di un attacco provocatorio a tutto campo, portato avanti dalla NATO alla Siria, senza nessuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e senza curarsi dell’opposizione di Russia e Cina.

Se il "neo-ottomanesimo" persiste con la sua ossessione di un cambio di regime in Siria – molto dovuto al sogno turco di trovare una soluzione al "problema" curdo – sarebbe stato meglio cominciare prima a valutare che Damasco potrebbe finanziare il PKK curdo, con fondi e logistica per far scatenare un inferno in tutta l’Anatolia turca.

Non c'è dubbio che questa storia potrà diventare anche molto più brutta. Ma come si diceva in Wag the Dog (Sesso e Potere – film del 1997) - questo è quello di cui si tratta – nessuno ne è sicuro, è la Turchia che cerca di spingere il cane della NATO verso una guerra, o è il contrario?


La Cia ha ammesso di aiutare l'opposizione siriana inviando armamenti
di Eric Schmitt - www.nytimes.com - 21 Giugno 2012
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da REIO

Secondo funzionari dell' intelligence americana e araba, alcuni agenti della CIA stanno operando nel sud della Turchia aiutando gli alleati a decidere quali guerriglieri oppositori al di là del confine riceveranno le armi per combattere il governo siriano.

I funzionari dicono che fucili automatici, granate, munizioni e qualche arma anticarro vengono fatte passare per la maggior parte attraverso il confine turco tramite una rete di intermediari tra cui i Fratelli Musulmani, pagati da Turchia, Arabia Saudita e Qatar.

Un alto funzionario americano ha detto che agenti della CIA sono stati al sud della Turchia per diverse settimane, in parte per tenere le armi lontane dalle mani di guerriglieri alleati con Al Qaeda o altri gruppi terroristici. L' amministrazione Obama ha detto che non sta fornendo armi ai ribelli, ma ha anche riconosciuto che i paesi confinanti alla Siria l' avrebbero fatto.

Lo sforzo dei gruppi clandestini d' intelligence è l' esempio più dettagliato e noto del limitato supporto americano per la campagna militare contro il governo siriano. È anche parte del tentativo di Washington di aumentare la pressione sul presidente siriano Bashar al-Assad, che ha recentemente incrementato la repressione mortale contro i civili e le milizie che combattono il suo potere. 

Con la Russia che pone il suo veto ad una fase più aggressiva contro il governo di Assad, gli Stati Uniti e i suoi alleati hanno preferito rivolgersi alla diplomazia e all' aiuto degli sforzi degli alleati, armando i ribelli per forzare Assad a lasciare il potere.

Contribuendo al rifornimento dei gruppi ribelli, l' intelligence americana operante in Turchia spera di sapere di più sulla crescente e mutevole rete di oppositori in Siria e stabilire nuovi legami. “Funzionari della CIA sono sul posto e provano a cercare nuove fonti e nuove persone da reclutare”, dice un funzionario dell' intelligence araba regolarmente informato dalla controparte americana.

Funzionari americani e agenti della CIA in pensione hanno detto che l' amministrazione sta valutando ulteriori aiuti ai ribelli, come la fornitura di immagini satellitari e altri dettagli sulla posizione e gli spostamenti delle truppe governative siriane. 

Dicono che l' amministrazione sta valutando se aiutare gli oppositori a costituire una rudimentale servizio di intelligence, ma ancora non è stata presa nessuna decisione relativa a tali misure o addirittura intraprendere azioni più aggressive, come mandare direttamente agenti CIA in Siria.

Con l' arrivo di nuovi armamenti sempre più potenti, sia per il governo siriano che per gli oppositori, il conflitto interno in Siria rischia di intensificarsi in maniera significativa. Il presidente Obama ed i suoi migliori collaboratori stanno cercando di fare pressione sulla Russia per frenare la spedizione di armi, elicotteri d' assalto, verso la Siria, il loro principale alleato in Medio Oriente.

“Ci piacerebbe vedere la fine della vendita d' armi al regime di Assad, perché crediamo abbiano dimostrato che usano il loro esercito solo contro la loro popolazione civile”, ha detto Benjamin J. Rhodes, consigliere di strategie della comunicazione per la sicurezza nazionale, dopo che Obama e la sua controparte russa, Vladimir V. Putin, si sono incontrati in Messico questo lunedì.

Portavoce della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato e della CIA non hanno lasciato commenti su operazioni di intelligence di supporto ai ribelli siriani, alcuni dettagli di quello che è stato riportato la scorsa settimana dal Wall Street Journal.

Fino ad ora, diplomazia ed aiuti umanitari è stata la politica pubblica dell' amministrazione sul caso Siria.

Il Dipartimento di Stato, ha detto mercoledì, che il segretario, Hilary Rodham Clinton, si sarebbe incontrata con il corrispettivo russo, Sergey V. Lavrov, al margine di un meeting dei ministri degli esteri dell' Asia Pacifica a San Pietroburgo, Russia, il prossimo giovedì. La conversazione privata probabilmente si concentra, almeno in parte, sulla crisi in Siria.

Il Dipartimento di Stato ha autorizzato 15 milioni di dollari in aiuti non letali, come forniture mediche e apparecchiature per la comunicazione per i gruppi di opposizione civile in Siria.

Il Pentagono continua a mettere a punto una gamma di operazioni militari su richiesta di Obama agli inizi di marzo per la pianificazioni di emergenze del genere. Martin E. Dempsey, presidente del Joint Chief of Staff (Stato Maggiore Congiunto), al tempo ha detto ai senatori che le opzioni in esame includevano ponti aerei umanitari, sorveglianza aerea dell' esercito siriano, e la creazione di una no-fly zone.

Inoltre i militari hanno elaborato un piano su come le truppe della coalizione dovrebbero proteggere le consistenti scorte di armi chimiche e biologiche siriane nel caso in cui una vera e propria guerra civile minacci la loro sicurezza.

Ma alti funzionari dell' amministrazione hanno sottolineato negli ultimi giorni che l' opzione militare non è considerata. “A questo punto qualsiasi cosa riguardante la Siria sarebbe ipotetico in casi estremi”, ha detto questo mese ai giornalisti il generale Dempsey.

Da marzo, quello che è cambiato è l' afflusso di armi e munizioni verso i ribelli. Secondo membri del Sirian National Council e altri attivisti, l' aria sempre più feroce e gli attacchi d' artiglieria del governo mirano a contrastare le forze opposte, sempre più armate e coordinate.

Questi attivisti hanno dichiarato lo scorso mese che veicoli dell' esercito turco hanno consegnato armi anticarro al confine dove poi sono stati contrabbandati in Siria. La Turchia ha ripetutamente negato e che stavano solo inviando aiuti umanitari all' opposizione, in gran parte via i campi di rifugiati vicino al confine. Questi attivisti dicono che gli Stati Uniti erano stati consultati riguardo questo trasferimento di armamenti.

Analisti militari americani hanno offerto opinioni contrastanti sul fatto che tali armamenti abbiano compensato i vantaggi dell' esercito siriano, militarmente superiore. “I ribelli stanno cominciando a capire come battere i carri armati”, ha detto Joseph Holliday, ex ufficiale dell' esercito americano in Afghanistan ed ora ricercatore che monitora il Free Sirian Army per l' Institute for the Study of War di Washington.

Ma un alto funzionario americano che riceve report d' intelligence secretati dalla regione ha comparato le armi dei ribelli alle “cerbottane” contro l' armamento pesante del governo e i suoi elicotteri d' assalto.

Il Sirian National Council, il maggior gruppo di opposizione in esilio, recentemente ha iniziato ad organizzare le unità sparse sul territorio che combattono sotto il nome del Free Sirian Army in una forza sempre più coesa.

Funzionari del consiglio nazionale hanno detto che circa 10 consigli di coordinamento militare sparsi nelle province del paese stanno ora condividendo tattiche e altre informazioni. La città di Homs è un' eccezione, gli manca questa organizzazione perché i 3 principali gruppi militari non sono uniti.

Jeffrey White, analista per la difesa al Washington Institute for Near East Policy, registra i video e gli annunci dei sedicenti battaglioni ribelli e ha detto che ora ci sono 100 formazioni ribelli, contro le circa 70 di due mesi fa, di dimensioni che variano da pochi combattenti ad un paio di centinaia.

“Quando il regime vuole andare da qualche parte e piazzar il pacchetto giusto di forze, lo può fare”, ha detto il signor White. “Ma l' opposizione sta alzando il costo di queste operazioni”.  


Assad e il petrolio che non puzza
di Robert Fisk - The Independent - 29 Giugno 2012
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto per Il Fatto Quotidiano

In coincidenza con la Conferenza di Ginevra sulla Siria, trapela da Damasco una clamorosa indiscrezione.

Il presidente siriano Assad potrebbe resistere più a lungo di quanto si pensi – e per di più con il consenso tacito degli occidentali ansiosi di assicurarsi nuove vie del petrolio e del gas verso l’Europa prima della caduta del regime

Secondo una fonte vicina al partito Baath, americani, russi ed europei stanno negoziando un accordo che consentirebbe ad Assad di rimanere alla testa della Siria per altri due anni almeno in cambio di concessioni politiche all’Iran e all’Arabia Saudita sia in Libano che in Iraq.

La Russia, dal canto suo, conserverebbe la base militare di Tartous in Siria e un rapporto solido con qualunque governo dovesse insediarsi a Damasco con il sostegno dell’Iran e dell’Arabia Saudita. 

Il recente ammorbidimento della posizione di Mosca sulla Siria rientra nel quadro di una nuova intesa in virtù della quale l’Occidente potrebbe essere disposto a tollerare la presidenza di Assad pur di evitare una sanguinosa guerra civile.

Secondo fonti siriane al momento l’esercito di Assad è sottoposto ad una forte pressione da parte dei ribelli che annoverano forze islamiste e nazionaliste, con battaglie che provocano diverse decine di morti ogni giorno. 

Da quando la rivolta ha avuto inizio, circa 17 mesi fa, sarebbero stati assassinati o caduti in azione almeno 6.000 soldati. Circola anche voce che combattenti siriani vengano addestrati da mercenari giordani in una base utilizzata dalle autorità occidentali.

Le trattative Russia-Usa hanno una importante conseguenza politica: il riconoscimento da parte delle due superpotenze dell’influenza dell’Iran sull’Iraq e dei rapporti con gli alleati di Hezbollah in Libano mentre l’Arabia Saudita e il Qatar verrebbero incoraggiati a garantire maggior diritti ai musulmani sunniti in Libano e Iraq. Bagdad, divenuta l’epicentro del potere sciita nella regione, rappresenta da tempo una preoccupazione per l’Arabia Saudita che appoggia la minoranza sunnita in Iraq.

Ma il vero obiettivo dei colloqui riguarda l’intenzione dell’Occidente di garantirsi la sicurezza degli approvvigionamenti di petrolio e gas dagli Stati del Golfo, via Siria, senza dover dipendere da Mosca. “La Russia potrebbe chiudere il rubinetto in qualunque momento e questo le conferisce un enorme potere politico”, dice una fonte che desidera conservare l’anonimato. 

“Stiamo parlando di due oleodotti diretti in Occidente: uno proveniente dal Qatar e dall’Arabia Saudita attraverso la Giordania e la Siria; un altro proveniente dall’Iran attraverso l’Iraq meridionale a prevalenza sciita e la Siria. Entrambi sono destinati a raggiungere il Mediterraneo e l’Europa. Per questo sono disposti a lasciare Assad al suo posto per altri due anni, se necessario”.

Naturalmente i diplomatici che stanno portando avanti questo negoziato dovrebbe essere trattati con un pizzico di scetticismo. Non facciamo che ascoltare sfuriate dei leader occidentali contro il regime siriano colpevole di torture e massacri e poi veniamo a sapere che i diplomatici occidentali sono disposti a chiudere un occhio sull’altare della realpolitik che in Medio Oriente significa semplicemente petrolio e gas.

In altre parole gli europei sono disposti a tollerare la presenza di Assad fino alla fine della crisi. Gli Stati Uniti sono dello stesso parere mentre anche la Russia si è convinta che la stabilità è più importante di Assad.

È chiaro che Assad avrebbe dovuto riformare profondamente il paese alla morte di suo padre Hafez nel 2000. A quell’epoca l’economia siriana era in condizioni assai migliori della Grecia di oggi. 

Ma i moderati furono messi a tacere. “Assad non ha più alcun controllo personale su quanto avviene in Siria”, dice una gola profonda del regime. “Il fatto è che non ha alcuna voglia di viaggiare per il Paese e parlare con la gente”.

Secondo molti ufficiali dell’esercito siriano, Assad continua a sperare in una “soluzione all’algerina”. In Algeria, dopo l’annullamento delle elezioni democratiche, l’esercito negli anni ’90 scatenò una guerra spietata contro i ribelli e i guerriglieri islamisti ricorrendo alla tortura e ai massacri e facendo oltre 200.000 vittime. 

La guerra civile algerina aveva molte cose in comune con quella che si combatte oggi in Siria: neonati con la gola tagliata, famiglie massacrate da misteriosi “gruppi armati” paramilitari, città intere bombardate dalle forze governative.

Ma ciò che dà più speranza ad Assad è il fatto che l’Occidente non smise di sostenere il regime algerino fornendo armi e appoggio politico pur continuando a blaterare di diritti civili. Le riserve petrolifere e di gas dell’Algeria si rivelarono più importanti delle centinaia di migliaia di civili morti.

I siriani dicono che Jamil Hassan, comandante dei servizi segreti dell’Aeronautica, è diventato l’uomo forte del regime al posto di Maher, fratello di Bashar, che comanda la Quarta Divisione dell’esercito. 

Un interrogativo non ha ancora avuto risposta: Assad è consapevole della straordinaria importanza politica di quanto sta accadendo in Siria? C’è chi ne dubita.

 
Cosa significa la Siria per la Russia
di Fida Dakroub* - 2 Luglio 2012
Traduzione di Alessandro Lattanzio SitoAurora


Generalità

Negli ultimi giorni del vertice del G-20, i leader atlantisti sembravano ansiosi di recitare ancora una volta la commedia sulla scena internazionale, agendo come se fossero l’unico gruppo teatrale della città, organizzando spettacoli nei corridoi del vertice, a Los Cabos, e presentando un monologo più burlesco delle tirate di Arnolfo [1].
 
Chi non ha seguito le dichiarazioni riguardanti la Siria, a margine del vertice del G20? Chi non ha letto le analisi che ne sono seguite? Delle analisi sono emerse sul Web, interpretando le relazioni Mosca-Damasco, e presentando un discorso mediatico determinato nel suo punto di partenza e nel suo punto finale

Degli analisti, che si pretendono obiettivi, interpretano la posizione di Mosca nella crisi siriana come una posizione puramente pragmatica, fatto salvo il prezzo di scambio e la negoziazione come quelle trattate al bazar degli interessi geopolitici e strategici delle grandi potenze

A fortiori, la caratteristica comune delle loro analisi, è che iniziano con la stessa constatazione – i russi sono pragmatici – e terminano con la stessa conclusione – i russi venderanno il presidente siriano Assad, una volta che occidentali ed arabi abbiano pagato il prezzo richiesto.
 
Come dimostrano le analisi pubblicate sul web che diffondono, anche in modo sinistro, una constatazione lugubre e tetra tra i lettori, e che quindi attirano gufi e corvi nella regione che si estende dal deserto del Sinai, a sud, fino all’altopiano anatolico a nord.

Interferenze atlantiche

Le fonti di informazione di tali analisi sono sempre le stesse: dirigenti e responsabili atlantici ed arabi, che spesso fanno dichiarazioni sospette, ma intenzionali, sulla Siria. Inoltre, l’obiettivo di tali dichiarazioni si precisa in due punti: primo, demoralizzare le masse e le forze che sostengono il governo siriano, e che resistono alla propaganda arabo-atlantica, e in secondo luogo, interrompere le relazioni diplomatiche Mosca-Damasco.
 
Ad esempio, il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, ha detto il 14 giugno che Parigi e Mosca hanno iniziato i colloqui sul periodo successivo ad al-Assad [2]. Nel frattempo, la portavoce del Dipartimento di Stato statunitense, Victoria Nuland da parte sua, ha annunciato che Washington e Mosca “continueranno i colloqui sul post-Assad“[3]. Aggiungiamo le dichiarazioni dei capi atlantisti, in occasione del vertice del G-20 a Los Cabos, in Messico. 

Durante il vertice, il presidente francese Francois Hollande, ha detto che Mosca giocava “il suo ruolo per avviare la transizione” in Siria, implicando la rimozione di Bashar al-Assad dal potere [4]. 

Collegato alla stessa pretesa, il primo ministro britannico, David Cameron, non volendo perdere la partita, ha annunciato che il presidente russo Vladimir Putin aveva cambiato la sua posizione e ora voleva la partenza del presidente Assad: “la posizione di Putin diventa esplicitamente chiara, non vuole più Assad al potere“[5], aveva affermato.
 
Così, attraverso le capitali della Santa Alleanza arabo-atlantica, profeti e messia di chiaroveggenza si precipitarono verso l’altare dell’ordine dei media per annunciare la “buona novella” al popolo siriano e alle nazioni dei gentili: il presidente russo ha espresso la sua intenzione di abbandonare Satana e Damasco per unirsi alla Santa Alleanza. Alleluia!
 
Come al solito, dopo tali profezie, analisti, esperti di politica e zingari chiaroveggenti si fanno avanti sul palcoscenico, prevedendo sulla sfera di cristallo magica, il “collasso” del presidente siriano Bashar al-Assad.  
Udite, o cieli! terra, porgi l’orecchio! Il Signore parla“[6].
 
Tuttavia, le dichiarazioni dei pettegolezzi dei capi atlantici sono state immediatamente respinte da Mosca. Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che nessuno aveva il diritto di decidere, per gli altri paesi, chi dovrebbero avere o meno al potere” [7]. 

Ha aggiunto: “E’ importante che la pace sia stabilita e la carneficina si fermi dopo un cambiamento di regime, e se si arriva a un tale cambiamento, sarà completato con mezzi costituzionali (…) la maggioranza dei popolo siriano non vuole che Assad se ne vada“[8]. 

Da parte sua, il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha respinto, a Baghdad, le dichiarazioni atlantiche ed ha confermato che Mosca non discute un cambio di regime, né avalla le azioni unilaterali nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, né partecipa a complotti politici“[9].
A che servono questi giochi infantili eseguiti a livello internazionale dai leader atlantisti? e di “qual frivolezze sia la mia mente imbarazzata!“[10].

Le costanti della politica estera russa

E’ vero che il “comportamento” delle nazioni, compresa la Russia, è commisurato al loro pragmatismo e ai loro interessi geopolitici, e che nel gioco delle nazioni, i principi e le amicizie permanenti non hanno posto; perciò è altrettanto vero che questo stesso gioco delle nazioni sia determinato da costanti e varianti, che a loro volta si sottopongono a delle determinanti di geopolitica, economica e strategica.
 
Detto questo, la posizione di Mosca nella crisi siriana non si legge attraverso la lettura delle profezie dei capi dell’Atlantico, ma a partire dalle costanti della politica estera russa, per poi arrivare alle sue varianti. Si deve notare che la questione delle costanti che possano esistere nella politica estera di questa o quella nazione, deve essere sollevata con grande circospezione, in modo che qualsiasi profezia o chiaroveggenza sul futuro sia evitata. 

Si noti a questo proposito due elementi che sono alla base della politica di una nazione: “da un lato, le sue ambizioni come società, che si collegano alla sua composizione sociale e alle sue concezioni ideologiche; dall’altro lato, l’equilibrio di potere tra essa e le potenze nella competizione regionale o globale. La relazione stessa subisce continui cambiamenti sulla base delle scoperte tecniche e dei cambiamenti demografici che caratterizzano ogni epoca“[11]. Tenendo conto dei punti citati in precedenza, lo studio delle relazioni Mosca-Damasco abbandona il campo della visione per aderire al campo dell’analisi obiettiva.

Ciò che la Siria significa per la Russia

In primo luogo, per quanto riguarda le ambizioni della Russia, non è più un segreto che i russi  sognino da secoli di raggiungere i mari caldi, se non d’averne almeno un accesso sicuro e protetto [12]. Vista la sua posizione geografica, il percorso più breve che porta verso il Mediterraneo, lasciando la Russia, passa attraverso la Turchia. Ovviamente, questa realtà geografica non nasconde una certa reciprocità: il percorso più breve che porta alla Russia, partendo dal Mediterraneo, passa anch’esso attraverso la Turchia, e ciò porta a dire che la posizione della Turchia nella NATO dal secondo dopo guerra, è una minaccia strategica alla Russia, che è obbligata a cercare un contrappeso sulle coste orientali del Mediterraneo, affinché non sia da subito bloccata o assediata, e quindi invasa dalla NATO attraverso la Turchia, e così poter finalmente, se necessario, infiltrarsi al di là della cintura turca e contrattaccare ogni potenziale minaccia dalla NATO. Si noti qui che negli anni quaranta, l’Unione Sovietica è stata “assediata” da uno sbarramento di paesi atlantici e di regimi dispotici pro-USA che hanno bloccato il suo fianco sud. 

Questo sbarramento era esteso dalla Francia a ovest alla Cina in Oriente. In Medio Oriente, lo sbarramento statunitense era composto da dittature militariste, come la Turchia e Pakistan, e dalle monarchie dispotiche imposte dall’occupazione franco-britannica, dopo lo smembramento dell’impero ottomano nel 1918, come il Regno d’Iraq, gli emirati e sultanati arabi, l’impero persiano e il regno d’Afghanistan. 

In Asia, la Cina di Chiang Kai-shek era un satellite degli Stati Uniti. Per contro, nel 1947, i sovietici avevano trovato nello Stato ebraico la loro “terra promessa“! Questo spiega l’approvazione da parte dell’URSS del piano di spartizione della Palestina del 1947, alle Nazioni Unite, e il quasi immediato il riconoscimento dello Stato d’Israele nel maggio 1948. Inoltre, l’Unione Sovietica aveva anche permesso al giovane Stato ebraico “d’imporsi sui suoi vicini arabi, fornendo armamenti importanti nella guerra del 1948-1949” [13]. Inoltre, l’avvicinamento sovietico allo stato ebraico aveva creato, tra gli arabi, diffidenza e sospetto verso i sovietici.
 
Tuttavia, la luna di miele tra i paesi del kolkhoz e dei kibbutz doveva finire. La riconciliazione tra Israele e gli Stati Uniti e il deteriorarsi delle relazioni tra israeliani e sovietici, spinsero infine Mosca, qualche anno più tardi, a “ripensare profondamente la sua politica in Medio Oriente, stabilendo legami con i regimi arabi nazionalisti” [14]. 

Negli anni sessanta, la Siria sotto il comando del partito Baath [15], ha fornito ai sovietici un contrappeso ideale nella regione, dopo che avevano perso la loro influenza sullo stato ebraico. I rapporti di collaborazione economica e militare tra i due paesi si sono gradualmente rafforzati con l’arrivo al potere del presidente Hafez al-Assad, nel 1970 [16], divenendo in seguito più strategici sotto la presidenza di Bashar al-Assad; in tal modo i russi non sembrano, in nessuna circostanza, pronti ad abbandonare il loro alleato strategico in momenti critici, come quelli presentati dalla guerra arabo-atlantica contro la Siria. 

La prova è che dopo sedici mesi di pressioni e di “proposte” arabo-atlantiche a Mosca, i russi sono più che mai decisi ad opporsi con ogni mezzo possibile, a qualsiasi tentativo arabo-atlantico di rovesciare il regime di Assad con la forza militare; che questa forza sia esterna o interna. 

A maggior ragione, ogni volta che gli atlantisti minacciano di intervenire militarmente in Siria, delle navi da guerra russa navigano verso le coste siriane. Qui ricordiamo che, secondo una fonte interna dello Stato maggiore generale della marina russa, due navi da sbarco di grandi dimensioni, la Nikolaj Filichenkov e la Cesar Kunikov, e il rimorchiatore SB-15 [17], si dirigeranno verso il porto di Tartous, in Siria. Si tratta, infatti, di due navi da guerra anfibie con migliaia di marines, ha detto all’agenzia di stampa Interfax [18].
 
In una parola, anche se la Russia e la Siria non hanno ufficialmente annunciato la formazione di un fronte unito, sul modello del blocco socialista dell’era della guerra fredda, rimane da esaminare la collaborazione tra i due paesi, per quanto riguarda il conflitto in Medio Oriente, che ha raggiunto infatti un livello strategico.
 
Si noti qui che i russi hanno vissuto situazioni simili in cui dovevano unirsi ad altri paesi con i quali non condividono delle frontiere. L’esempio più rilevante, è l’alleanza franco-russa (1892 – 1917) contro la Triplice Alleanza [19]. 

I russi puntavano con questa alleanza, ad evitare ad ogni costo di essere martellati dalle ambizioni espansionistiche del nuovo kaiser prussiano Guglielmo II [20], che aveva messo fine all’alleanza dei tre imperatori [21].

Il “messaggio” balistico del Topol-M

In secondo luogo, è vero che la Russia, sotto il mandato del presidente Boris Eltsin, ha conosciuto un periodo di flessibilità discorsiva e di volgarizzazione politica all’americana [22], ma questo periodo non è che una variazione limitata, in un momento storico preciso: quello della caduta dell’Unione Sovietica. 

Per contro, sotto la presidenza di Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev, l’equilibrio di potere tra la Russia ed i suoi concorrenti, a livello regionale e globale, ha subito continui cambiamenti a favore di Mosca, e questo secondo le nuove scoperte e invenzioni tecniche in campo militare. Come evidenziato dal “messaggio” balistico intercontinentale recentemente inviato da Mosca alle capitali occidentali.
 
Inoltre, dopo numerosi errori, l’esercito russo è riuscito, il 23 maggio, a lanciare con successo il prototipo di un nuovo missile balistico intercontinentale, secondo il portavoce delle Truppe balistiche strategiche russe (RVSN), Vadim Koval: “la testata ha colpito i suoi obiettivi sulla penisola di Kamchatka” [23]. 

Due settimane più tardi, il 7 giugno, le truppe delle RVSN hanno condotto con successo un altro test di lancio di un missile balistico intercontinentale RS-12M Topol.  Il portavoce ha anche detto ai giornalisti che il missile aveva colpito il suo obiettivo con la  precisione dovuta.
 
Infatti, ciò che caratterizza il nuovo missile, sono le nuove tecnologie sviluppate durante la realizzazione dei missili di quinta generazione, che riduce significativamente il costo della sua produzione. Questo missile da 45 tonnellate, a testa singola e con tre stadi, ha una portata massima di 10000 km e può trasportare una testata nucleare di 550 kilotoni [24]. 

La rapida accelerazione della sua altissima velocità, al momento del lancio, può raggiungere una velocità di 7320 m/s, seguire una traiettoria piana arrivando a 10000 km, rendendolo invisibile sul radar ed eliminando quindi l’efficacia dello scudo antimissile (ABM) degli USA [25], schierato in Europa e Turchia. Il missile è “schermato” contro qualsiasi radiazione, impulso elettromagnetico (EMP) [26] o  esplosione nucleare a distanze superiori ai 500 metri; infatti, il missile è stato realizzato utilizzando una tecnologia particolare che gli permette di sopravvivere a qualsiasi tipo di attacco laser [27].  
 
E’ chiaro sin dall’inizio che i lanci di missili balistici intercontinentali russi hanno creato confusione tra i leader della Santa Alleanza, che hanno decodificato il messaggio balistico di Mosca e ne hanno tratto la seguente conclusione: la posizione di Mosca sulla crisi siriana, sia nel Consiglio di sicurezza che sul campo di battaglia, è ferma e seria, basata su modelli storici e strategici ben definiti, sostenuta a sua volta da una vera potenza militare, e non su una “contrattazione” nel bazar degli interessi provvisori. Infatti, il lancio di missili balistici ha dissipato i dubbi e i deliri sulla potenza militare russa.
 
Così, dopo due decenni di egemonia atlantica dovuta allo smembramento dell’Unione Sovietica e al periodo di distensione e flessibilità sotto la presidenza di Boris Eltsin, la Russia lascia il cortile esterno per reclamare il suo posto nel tempio, coronata dagli dei del Pantheon di Agrippa [28].


*Fida Dakroub, Dottoressa di Ricerca in Studi francese (UWO, 2010), Fida Dakroub è scrittrice e ricercatrice del “Gruppo di ricerca e studio sulle letterature e le culture del mondo francofono” (GRELCEF) presso l’University of Western Ontario. E ‘un attivista per la pace e i diritti civili.


Note

[1] Nella “La scuola delle mogli” di Molière, Arnolfo impiega, nelle sue molte filippiche, il campo lessicale dell’amore – “ardore amoroso” – con un’aspirazione alla nobiltà dei sentimenti e, allo stesso tempo, ridicolizzata dalla banalità delle sue preoccupazioni – la donna non è che un oggetto “sposata a metà.”
[2] Press TV. Russia denies entering talks on political transition in Syria (15 giugno 2012).
[3] loc. cit.
[4] L’Orient Le Jour. Les forces syriennes essuient de lourdes pertes sans cesser la répression. (21 giugno 2012).
[5] Russia Today. (20 giugno 2012).  Putin on Syria: No state can decide another’s government.
[6] Isaia, 1:2. 
[7] loc.cit.
[8] loc. cit.
[9] al-Akhbar. Russia denies discussing post-Assad Syria. (14 giugno 2012).
[10] Racine, Jean. Ifigenia, Atto IV, Scena VIII.
[11] Beloff, Max. (1953). Les constantes de la politique extérieure russe. In Annales. Économies, Sociétés, Civilisations. 8e année, N. 4, 1953. pp. 493-497.
[12] Per secoli, gli zar russi hanno sognato un accesso marittimo al Mediterraneo. Francia, Gran Bretagna e l’Impero Ottomano erano preoccupati che questa espansione mettesse in pericolo i loro interessi nella regione. Il conflitto culminò nella guerra di Crimea del 1853-1856. Circa 300.000 russi sono morti negli aspri combattimenti che hanno determinato una sconfitta militare russa.
[13] Romeo, Lisa. Syrie et Russie : historique des relations de 1946 à 2012. (16 febbraio 2012)
[14] loc.cit.
[15] L’assistenza economica dell’URSS continua soprattutto con l’arrivo al governo del partito Baath, nel 1963. Il nuovo regime istituisce quindi il “socialismo arabo e si lanciava in una grande riforma agraria e in una politica di grande nazionalizzazione.
[16] Il 13 novembre 1970, Hafez al-Assad (1930-2000) prese il potere in Siria. Il nuovo uomo forte del paese si appoggiava anch’egli all’URSS per consolidare il suo potere e controllare le frazioni socialiste e comuniste, ma ha negato qualsiasi interferenza siriana negli affari interni del paese.
[17] Russia Today. Russian warships ‘ready to sail for Syria’. (18 giugno 2012).
[18] L’Express. Syrie: Moscou envoie deux navires de guerre vers sa base militaire de Tartous. (18 giugno 2012)
[19] L’alleanza franco-russa era soprattutto un accordo di cooperazione militare firmato tra la Francia e l’impero russo, che fu in vigore nel 1892-1917. Questo accordo prevedeva che entrambi i paesi avrebbero dovuto sostenersi a vicenda, se attaccati da uno dei paesi della Triplice Alleanza (noto anche come Triplice: Impero tedesco, Austria-Ungheria e Regno d’Italia). In senso lato, si trattava di una cooperazione militare, economica e finanziaria tra le due potenze.
[20] Il nuovo Kaiser Guglielmo II volle avere mano libera e si rifiutò di rinnovare il trattato di riassicurazione con la Russia imperiale, sciogliendo il contratto dei tre imperatori che Bismarck aveva sempre sostenuto, consentendo alle grandi potenze di evitare la guerra.
[21] L’accordo dei tre imperatori costituiva il primo sistema di alleanze bismarckiano tra il 1871 e il 1875 per isolare diplomaticamente la Francia. Il cancelliere Bismarck aveva cercato quindi di avvicinare l’impero tedesco all’Austria-Ungheria e alla Russia.
[22] Il presidente Eltsin era impedito da una elevata corruzione nazionale, dalle crisi politiche che si susseguivano e da una malattia che lo tormentava.
[23] RIA Novosti. La Russie teste un nouveau missile intercontinental. (23 maggio 2012).
[24] Le Courrier du Vietnam. La Russie teste avec succès un missile balistique intercontinental RS-12M Topol. (8 giugno 2012).
[25] USA Today. General says Russia will counter US missile defense plans. (27 maggio 2008).
[26] L’impulso elettromagnetico, più noto come EMP in inglese, è un’emissione di onde elettromagnetiche di ampiezza corta e molto alta.
[27] Missile Threat. (nd). SS-27. 28 Giugno 2012.
[28] Il Pantheon di Roma è una antica struttura religiosa situata nel Campo Marzio, costruito per ordine di Agrippa nel primo secolo (d. C.), danneggiato da diversi incendi, e completamente ricostruito da Adriano (secondo secolo d. C). Originariamente, il Pantheon era un tempio dedicato a tutti gli dei della religione antica. Fu convertito in una chiesa cristiana nel VII secolo.