martedì 30 marzo 2010

Astensione farà rima con insurrezione?

Ritorniamo ancora sulle elezioni amministrative e sul suo vero vincitore, il cosiddetto partito dell'Astensione che alle regionali ha ufficialmente ottenuto uno squillante 35,81% confermandosi il primo partito italiano.

Com'era facilmente prevedibile, su questo dato è stata messa la sordina da parte del sistema partitocratico a 360 gradi e dai media mainstream suoi servi.

Ma quando la percentuale di coloro che si rifiutano di legittimare una classe politica autoreferenziale, marcia e incapace supererà il 50% questa sordina salterà da sola, come un tappo di una bottiglia di champagne.


Vade retro voto
di Massimo Fini - Il Fatto Quotidiano - 30 Marzo 2010

In un articolo pubblicato sul Fatto il 13 marzo (“Quale democrazia”) auspicavo che l’indecoroso spettacolo dato dai partiti in campagna elettorale, con le liste taroccate, gli scambi di colpi bassi fra gli esponenti delle opposte nomenklature, inducesse finalmente i cittadini, andando oltre questi fatti contingenti, a riflettere sulla vera natura della democrazia rappresentativa e a capire “che non ha niente a che fare con la democrazia, ma è un sistema (meglio congegnato in altri Paesi, ma che da noi sta perdendo la maschera) di oligarchie, di lobbies, di associazioni para-mafiose, che il cittadino è chiamato a legittimare ogni tot anni col voto perché possano continuare, sotto la forma di un'apparente legittimità, i loro abusi, i loro soprusi, le loro illegalità” e l'occupazione, arbitraria dello Stato.

Mi auguravo quindi una forte astensione, incoraggiato non solo dai sondaggisti (che comunque nelle loro previsioni si sono tenuti ben al di sotto della realtà, perché fan parte anch'essi del sistema di Potere), ma anche da altri segnali che andavano oltre le chiacchiere da bar, pur importanti, ma dal fatto che per la prima volta un’esplicita esortazione all’astensione non veniva da cani sciolti o da gruppuscoli extraparlamentari (fra cui, se permettete, anche il mio “Movimento Zero”), ma dall’autorevole ItaliaFutura, la Fondazione promossa da Luca Cordero di Montezemolo.

I risultati sono andati oltre le più pessimistiche (o ottimistiche, a seconda dei punti di vista) previsioni.

Quasi il 40% dei cittadini italiani si è rifiutato di andare a votare, e di partecipare a questo rito truffaldino. Certo in questa percentuale ci sono anche gli ammalati e gli impossibilitati a vario titolo, abbondantemente com-pensati però dalle schede bianche e nulle che il Viminale è solito dare con molta reticenza e con grande ritardo ma il cui numero, nelle recenti tornate elettorali, è sempre oscillato fra il milione e il milione e mezzo.

Dopo aver cercato di giustificare la débâcle astensionista anche nei modi più fantasiosi e ridicoli (la bella giornata di domenica , l'ora legale e perfino l'assenza dei talk show politici che son quanto di più ributtante si possa vedere in una tv già ripugnante) i partiti tenteranno, come al solito, di cantar vittoria o di minimizzare la propria sconfitta.

Nel momento in cui scrivo non so come le forze politiche si siano ripartite i resti dell’elettorato votante e, per la verità, non me ne frega nulla.

Quello che deve essere chiaro è che l’astensionismo non è solo un non voto contro l’attuale, inguardabile, governo, ma contro il sistema partitocratico nel suo complesso. Un cittadino su tre non è andato alle urne. E fra coloro che ci sono andati una fetta cospicua appartiene agli apparati, ai clientes, ai favoriti di tutte le risme.

Se si fa questa ulteriore tara, il “voto libero”, dato in buona fede, si riduce a ben poca cosa. A ciò si aggiunga che la stragrande maggioranza dei giovani, come risulterà da indagini più approfondite, ha disertato le urne. Non per abulia ma perché questo sistema, che penalizza ogni futuro, gli fa schifo.

Cosa rimane quindi in mano ai partiti? Nulla, se non il loro potere abusivo. Quindi o si affrettano a fare una rapidissima marcia indietro, a liberare le posizioni che hanno illegittimamente occupato, a cominciare dalla Rai-tv, a dismettere le clientele che penalizzano i meritevoli a vantaggio degli affiliati, che umiliano il cittadino riducendolo a suddito costretto a chiedere come favore ciò che gli spetta di diritto, oppure la rivolta silenziosa e pacifica del 28 e 29 marzo 2010 diventerà, prima o poi, violenza.


L'astensione, il successo dei "grillini" e la tenuta di Berlusconi
da http://sollevazione.blogspot.com - 30 Marzo 2010

Commentando a caldo il dato sull’astensione ieri scrivevamo:
«L’astensionismo di massa è dunque il dato più eclatante, il fatto topico di questa tornata. Certo, a partire da questa sera assisteremo al solito spettacolo per cui i predoni, i ladri del voto, gli abusivi delle istituzioni, si azzufferanno su come spartirsi il bottino. Ma sarà uno spettacolo surreale come non mai, poiché è vero che i seggi della rapina elettorale saranno sempre pari a cento, ma il loro valore reale è come quello di una valuta dopo un default, dimezzato».

Mai pronostico fu più azzeccato. Lo spettacolo surreale è in corso: si sta cercando di rimuovere e di cancellare “il dato più eclatante”. Il teatrino delle scimmie politiche è in piena attività, si discute su chi abbia vinto qui e chi abbia perso la.

Di contro alla pantomima della casta politica, noi riconfermiamo la conclusione del discorso:
«La disobbedienza civile, la Resistenza, l’esodo dalle istituzioni, l’Aventino popolare, costituiscono un fiume in piena, che non può essere arrestato o deviato da nessuno. La disobbedienza anticipa la rivolta, è questa la tendenza su cui occorre concentrarsi, per quanto spuria o “sporca” potrà essere. Chiunque faccia spallucce o si attardi a disperdere forze sul terreno elettorale, rischierà di essere travolto, assieme alla casta, dalla corrente».

Solo su un punto dobbiamo fare autocritica rispetto all’articolo di ieri: il non aver previsto il successo delle liste “cinque stelle” dei “Grillini”. Anzitutto complimenti a loro! Un risultato che non solo ci rallegra, ma che a noi pare confermi l’asse della nostra analisi.

Se i “Grillini” hanno avuto successo è perché essi hanno raccolto il vento della protesta e del disprezzo verso la Casta, vento che le loro vele hanno saputo intercettare non solo per la radicalità del messaggio, ma per essersi presentati apertamente contro la Casta, ovvero contro la partitocrazia e fuori dal recinto bipolare.

Significativo il dato del Piemonte, dove i “Grillini” hanno punito l’arroganza del centro-sinistra, confindustriale e sviluppista, rappresentando con coraggio la lotta più importante avvenuta in Piemonte nell’ultimo decennio, quella del “popolo No-Tav”.

Non pensiamo che quest’affermazione smentisca l’asse del nostro ragionamento, per cui «…occorre smettere di considerare quello elettorale il terreno su cui può crescere e transitare la spinta all’alternativa».

Anzitutto perché l’astensionismo è stato alto anche dove c’erano le liste “Cinque stelle”, ma in secondo luogo i fenomeni dell’astensionismo e del “Grillismo”, se non omologhi, sono certamente analoghi. Può questo successo dei “Grillini” invertire la tendenza di fondo dell’Aventino popolare e del distacco dalle elezioni e dalle istituzioni? Noi pensiamo di no.

Perché questo accada dovremmo assistere nei prossimi anni alla trasformazione del “grillismo” in un vero e proprio movimento politico elettorale di massa, tale da invertire la tendenza astensionista. Dovrebbero sfasciarsi la “seconda repubblica” e il sistema bipolare perché questo accada, ovvero occorrerebbe un profondo cambio di fase e il ritorno ad un sistema proporzionale e più democratico.

Nella sconfitta globale della Casta, dei blocchi bipolari e dei due principali “partiti”, emerge la tenuta del blocco sociale berlusconian-leghista.

Pochi giorni fa scrivevamo:
« Non va confuso il Pdl col blocco sociale che esso rappresenta. Il Pdl è infatti solo la rappresentazione momentanea, o se si preferisce la maschera, che quel blocco sociale ha indossato dopo la scomparsa della prima repubblica, nella limacciosa e interminabile fase di passaggio della seconda e dalla quale siamo destinati ad uscire presto, in un modo o nell'altro. (…) Ma non è questo il vero punto di forza del berlusconismo. La sua forza è che ha saputo mettere assieme il diavolo con l'acqua santa, coalizzare, com'era riuscito a suo tempo solo a Mussolini (vi ricordate l'accozzaglia che di nome faceva "Blocco nazionale anti-bolscevico"?) padroni e servi, capitalisti e operai, furbetti del quartierino e morti di fame, ex-comunisti ed ex-fascisti, beghine e fanatici del progresso all'americana, sanfedisti e pagani. Il tutto nella più classica e schmittiana logica "amico-nemico", sapendo indicare a questa paccottiglia sociale vittimista irrancidita da un crisi che viene da molto lontano, il bersaglio, il nemico, i colpevole delle loro disgrazie. Gli oligarchi del capitalismo, la casta dei burocrati politici, i magistrati, i sindacati, i comunisti, gli immigrati. Proponendo una visione sociale che è un instabile combinato composto di corporativismo e egoismo sociale americanista, di liberismo e assistenzialismo, di apperente meritocrazia col più becero pietismo per "i meno fortunati".

Si illude chi ritiene che fatto fuori il berlusconismo questo blocco sociale evapori. In un contesto di crisi sistemica che annuncia un periodo durissimo di austerità, e che quindi sarà segnato da aspri conflitti sociali per decidere chi debba accollarsi il grosso dei costi della crisi medesima e come verrà ripartita la calante ricchezza sociale disponibile, questo blocco sociale è destinato a radicalizzare le sue posizioni e cercherà una nuova forma politica.

Al periodo post-berlusconiano in cui stiamo entrando, che sarà segnato dall'inasprimento dei contrasti ad ogni livello, corrisponderà un post-berlusconismo come movimento politico-sociale, che sarà più radicale, populista e aggressivo di quello che l'ha tenuto in grembo in questi anni».

Concludevamo infine:

«L'animale ferito ha insomma fatto intendere che vuole giocarsi il tutto per tutto. Tanto peggio tanto meglio. Mors tua vita mea. Non è quindi difficile prevedere che i prossimi mesi e anni saranno segnati da uno scontro furibondo tra le diverse cosche politiche e tra gli apparati istituzionali. La guerra strisciante in atto da un ventennio tra le diverse fazioni che compongono l'oligarchia dominante va precipitando nella battaglia finale e decisiva».

Dove, in questa battaglia finale, dev’essere chiaro quale sia il disegno di cui il PD è l’asse portante: «cacciare Berlusconi per far posto ad un governo super-capitalista di unità nazionale o di emergenza istituzionale, destinato a fare due cose fondamentali: rimettere ordine nella sfera politico-istituzionale e in quella economico-sociale. Cosa questo significhi è presto detto: un sistema istituzionale che consolidi, sul solco tracciato dalla seconda Repubblica, il suo carattere oligarchico, partitocratico e autoritario (un presidenzialismo senza Berlusconi), e un programma di misure sociali d'urgenza e draconiane per salvare il capitalismo italico dal rischio di bancarotta e i cui costi saranno le masse popolari a pagare».

L’opposizione è chiamata ad una grande sfida. Saldare la questione sociale e quella democratica, in un nuovo movimento politico di massa che sia ostile ad entrambi i blocchi. Esso non potrà crescere se non saprà fuoriuscire dal recinto e dal terreno in cui i due blocchi oligarchici si stanno battendo e si batteranno.

L’astensionismo di massa ha indicato che la nuova opposizione dovrà condurre la sua battaglia contro il populismo e le smanie autoritarie di Berlusconi, scegliendo un terreno suo proprio, quello che abbiamo chiamato dell’Aventino popolare.


Ci hanno convinti a non votare
di Marco Cedolin - http:/ilcorrosivo.blogspot.com - 30 Marzo 2010

Non possono esistere dubbi sul fatto che il dato più emblematico uscito (o sarebbe meglio dire mai entrato) dalle urne di queste elezioni regionali di marzo 2010 sia costituito dai quasi 3 milioni e mezzo in più di cittadini che non si sono recati a votare, portando il “partito” dell’astensione a sfiorare il 37%, diventando di fatto il maggiore partito del Paese.

Un incremento nell’ordine dell’8%, con punte fra il 14%, il 12% e il 10% in Puglia, Lazio e Toscana, che qualifica il partito del non voto come l’unico reale vincitore di questa tornata elettorale.

Una vittoria, quella del non voto, determinata da una campagna elettorale sincopata, nevrotica al limite del parossismo, giocata esclusivamente intorno allo screditamento dell’avversario, totalmente priva di qualsiasi abbozzo di programma credibile.

Una campagna elettorale nel corso della quale i problemi reali del paese, che si chiamano crisi occupazionale, disastro economico, crollo del potere di acquisto delle famiglie, inquinamento del territorio, sono stati lasciati a margine da parte delle due coalizioni impegnate a contendersi il governo delle regioni.

Una campagna elettorale imperniata sulla violenza verbale dispensata a piene mani, vissuta fra litigi ed animosità al limite dello scontro fisico, sempre incentrati su differenze artificiali e prive di fondamento, utilizzati per nascondere l’assoluta mancanza di differenze reali fra i due poli che si contendono il governo regionale.

Un italiano su tre ha dunque preferito non recarsi a votare nonostante (o forse anche a causa) la quantità industriale di materiale pubblicitario che ha riempito le buche delle lettere, l’ossessiva tempesta delle telefonate a domicilio, la massa dei manifesti ad abbruttire i muri delle città, la marea di “santini” con faccioni sorridenti e cravatte multicolori.

Tutto materiale che a dispetto degli sforzi esperiti dagli esperti del marketing è apparso intriso di un vuoto cosmico, tanto era infarcito di slogan demagogici che sarebbero parsi artificiosi anche agli occhi di un bambino di 5 anni e miravano unicamente a fare leva sulla tanto stantia quanto ormai sempre più improponibile scelta di campo fra destra e sinistra.

Anche in Italia, come nella maggior parte dei paesi occidentali, la distanza fra i partiti politici ed i cittadini continua perciò a farsi sempre più siderale, dimostrando in maniera inequivocabile l’inadeguatezza di un sistema come quello della democrazia rappresentativa, soprattutto qualora gestito in termini di bipolarismo. Anche il clima da “guerra civile” creato nell’occasione e gli “epici” inviti a scelte di campo presentate come decisive, non sembrano avere sortito l’effetto voluto.

I cittadini stanno continuando ad allontanarsi ed i partiti politici parlano ogni giorno di più un linguaggio alieno a chi vive e soffre nel paese reale, un linguaggio autoreferenziale che ben presto rischierà di trasformarsi in una lingua morta.

Per quanto riguarda i risultati elettorali non sono mancate le sorprese e neppure gli elementi che meritano di diventare oggetto di riflessione.

Il centrosinistra, nonostante l’operato del governo Berlusconi non sia stato fin qui entusiasmante, ha nuovamente subito una sconfitta cocente. Se la perdita di regioni come la Calabria, la Campania ed il Lazio può trovare la spiegazione all’interno degli scandali di varia natura che hanno caratterizzato le amministrazioni esistenti, ben più grave appare la debacle in Piemonte.

Dove Mercedes Bresso si è vista costretta a cedere il passo a Cota, nonostante fosse riuscita ad incamerare nella propria coalizione tanto l’UDC di Casini quanto la Federazione della sinistra radicale.

E’ indicativo il fatto che l’unica regione “a rischio” nella quale il centrosinistra ottiene un risultato positivo sia proprio quella Puglia dove Nichi Vendola ha difeso con i denti la propria candidatura, imponendo una lista più “di sinistra” rispetto al listone in alleanza con l’UDC che era stato imposto da D’Alema

Le liste 5 stelle di Beppe Grillo hanno ottenuto nel complesso risultati di tutto rilievo, fra i quali spiccano Giovanni Favia in Emilia Romagna che ha ottenuto il 7% e Davide Bono in Piemonte arrivato a superare il 4%, a dimostrazione del fatto che esiste senza dubbio ampio spazio di manovra per chi intenda costruire delle alternative ai partiti politici tradizionali.

L’inesorabile continua discesa del centrosinistra, laddove questo non riesce a proporsi come concreto elemento di alternativa, ma semplicemente come una fotocopia sbiadita di Berlusconi, unitamente al buon risultato delle liste che fanno riferimento a Beppe Grillo e al grande incremento dell’astensione, stanno a dimostrare in maniera inequivocabile tanto il “bisogno” di alternative concrete da parte dell’elettorato, quanto la palese incapacità di esprimere le stesse espresse dal sistema dei partiti.

Proprio questo bisogno di alternative concrete, pensiamo possa considerarsi la vera novità di questa tornata elettorale. Una novità destinata naturalmente ad essere sottaciuta, tanto dal sistema dei partiti ormai incancrenito nella spartizione del potere, quanto dai media mainstream che di quel potere rappresentano uno degli elementi cardine.


lunedì 29 marzo 2010

Elezioni Regionali: vince l'Astensione

Anche in queste elezioni Regionali s'è registrato un notevole aumento della percentuale di coloro che hanno disertato le urne. L'affluenza al voto s'è assestata infatti intorno al 65% e quindi un sonoro 35% s'è astenuto, costituendo in teoria il primo partito d'Italia.

Un chiaro messaggio di rifiuto verso questa classe politica autoreferenziale, corrotta, incompetente e incapace di dare risposte concrete ed efficaci alla maggioranza della popolazione alle prese con una pesantissima crisi economica di cui non s'intravede la fine in tempi brevi.

Naturalmente questa cosiddetta classe politica farfuglierà che sull'aumento dell'astensione si dovrà riflettere, ma lo farà solo per pochi istanti rituffandosi a pesce immediatamente nella sterile discussione su chi ha vinto e chi ha perso. Il solito teatrino in cui tutti si dichiarano a loro modo vincitori.

Intanto però la percentuale del Partito dell'Astensione continua ad aumentare costantemente ad ogni tornata elettorale e la speranza è che sfondi al più presto la soglia del 50%.

Forse a quel punto nessuno s'azzarderà più a dichiarare di avere avuto il mandato per governare dalla maggioranza degli italioti - cosa che tra l'altro non è vera neanche adesso -, rendendosi conto magari di non avere più alcuna legittimazione per continuare a farsi i cazzi propri.


Italia-Partitocrazia: 2-1
di Carlo Bertani - http://carlobertani.blogspot.com - 29 Marzo 2010

Sono le 23 di Domenica sera: ho appena letto i risultati sull’affluenza delle 22. Sconcertante: non so come andrà a finire, ma il dato politico – vinca l’uno o l’altro, siano di più o di meno gli astenuti – è chiaro.

Non conosco, mentre scrivo (voi, quando leggerete, li saprete), i dati definitivi ma vorrei rammentare che in anni non lontanissimi – alle Regionali del 1995 – votò circa l’85% degli aventi diritto: un abisso, rispetto ad oggi.

L’Italia sta votando, ma un terzo degli italiani non ha più partito, patria politica alla quale appartenere: se scorporiamo un 10% d’astensionismo “fisiologico”, un italiano su quattro ha deciso che non era il caso.

Non era il caso di sprecare del tempo per andare ad accasarsi in ruoli conosciuti e marcescenti, costruiti su nani e ballerine da un lato, su cariatidi muffite dall’altro.
Il percorso è stato lungo, travagliato, ma alla fine il dato è chiaro: un partito che avrebbe una consistenza paragonabile a quella della vecchia DC o del PCI è sull’Aventino, che attende.

Quel “partito” composto soprattutto da giovani, che un sondaggio SWG affermava essere orientati – il 51% del campione! – verso l’astensionismo come forma di protesta politica.
Si fa presto a dire “qualunquismo”: chi lo fa è già intellettualmente marcio, perché non si rende conto delle enormi differenze che ci sono fra i movimenti “qualunquisti” degli anni ’50 ed oggi.

All’epoca, si poteva urlare il proprio dissenso per una partitocrazia che omologava, ma era una partitocrazia in grado d’esprimere fior di statisti: aveva idee, programmi, certezze.

Una su tutte, la preminenza del “pubblico” come Stato – ossia dello Stato come unità rappresentativa dei cittadini – un percorso che non riuscirono mai a compiere seguendo appieno i dettami della Costituzione, ma almeno ci provarono. E si viveva meglio.

Il cosiddetto “qualunquismo” d’oggi è rivolto invece ad una partitocrazia che ha messo il concetto di “Stato” al servizio del capitale finanziario, delle multinazionali, degli asservimenti più squallidi ai potentati occulti. Per, in ultima istanza, ricavarne dorate e paradisiache “estraneità” rispetto alla sempre più difficile vita della gente comune.

Si dirà che due terzi degli italiani ancora credono in questa marcescente rappresentazione, ma si dimentica che sono – per la gran parte – persone che sono state schiavizzate da decenni di TV non “spazzatura” – è comodo gettarla nel cassonetto – bensì da un lunghissimo lavorio subliminale d’addestramento, nel quale destra e sinistra sono filate d’amore e d’accordo.

Se mister B. era, ovviamente, il depositario dei “file di sistema”, l’altra parte accettò di buon grado di scambiare la schiavitù degli italiani con la sopravvivenza al deragliamento del “Mosca-express”, gettando nel cesso le legittime istanze della popolazione, soprattutto dei meno abbienti.

Altrimenti, spieghiamoci perché giammai fu fatta dalla sinistra una legge sul conflitto d’interesse, al punto che Luciano Violante affermò pubblicamente che “c’erano stati precisi accordi”.
Ma, chi di tecnologia ferisce, di tecnologia perisce.

Che un quarto degli italiani siano approdati ad un astensionismo consapevole – in questo quadro – non è di per sé una vittoria: è un miracolo.

Il miracolo è dovuto in massima parte alla critica che tantissimi siti e blog hanno continuato, per anni, a proporre – senza ricevere in cambio, ovviamente, le dorate poltrone del giornalismo “embedded” – generando altre visioni, analizzando a fondo le menzogne di regime, non lasciano scampo alle caricature che lo schermo proponeva come referenti politici.

Questi giorni saranno ricordati, poiché c’è stato un altro evento a confermarlo: la “migrazione” di Annozero dai protettivi (ed asfittici) giardini di mamma RAI al Far-West di Internet. Vincendo alla grande la partita.

Chi scrive ha spesso criticato Annozero, ritenendolo troppo allineato con i potentati di sinistra, ma non esita a spezzare una lancia in loro favore se continueranno a “farla sempre fuori dal vaso”, come hanno promesso. Vedremo.

Qui, s’inserisce una novità che non è di poco conto e che travalica anche i giornalisti ed i comici presenti: sia Annozero o chi altro, il potere di RAISET ha subito uno smacco. Questo è il dato politico: da quanto tempo non avveniva?

Ancora ricordo il 1978, quando un oscuro imprenditore milanese andava a caccia di frequenze TV in tutta Italia, strapagandole, grazie ai fondi che solo dopo molti anni avremmo saputo provenire…provenire…no, Berlusconi non ha ancora confessato, non ha ancora detto chi gli diede quei soldi. Craxi gli regalò poi la Legge Mammì e ben tre “Decreti Berlusconi”, per consegnargli definitivamente l’etere nazionale, e questo già fornisce una traccia.

Passano 32 anni – un’eternità, gente che nasce e che muore, ma così è la Storia – ed una sera qualunque si scopre che il 13% degli italiani ha guardato la dissacrante puntata di Annozero senza approdare al monopolio RAISET, e moltissimi l’hanno seguita sul Web. Com’è potuto avvenire?
L’evento stocastico è tale soltanto se non s’analizzano i prodromi, le mille cause che possono averlo prodotto.

All’inizio sembrava quasi un gioco: ma guarda questi perditempo…annotano le loro impressioni su dei block notes elettronici…li chiamano “blog”. Che amenità: meglio dedicarsi alla politica “seria”, quella dei minimi sistemi, poiché se si è minimi solo al minimo si può pervenire.
Questi perdigiorno, invece, ambiscono ai massimi sistemi: mettono in discussione lo stesso capitalismo! Che illusi: mostreremo loro, coi fatti, di cosa siamo capaci. E l’hanno fatto.

Sicuri, nei loro harem di puttane pagate con i nostri soldi, giocavano un giorno ad indebitare lo Stato, quello seguente a venderlo a pezzi – prendi otto paghi uno – e, quando qualcuno li metteva in guardia, semplicemente toglievano diritti e mettevano gabelle. Si direbbe l’incedere dell’ultimo Re Capetingio, ma forse hanno fatto ancor peggio.

Si sentivano sicuri, protetti dai loro alfieri nazionali – ossia delle reti nazionali – che osannavano, spiegavano, stemperavano ogni squallida storia nei confessionali elettronici, poiché “la perfezione non è di questo mondo”. La perfezione certo, ma la decenza sì.

Poi, qualcuno inventa un piccolo televisore, minuscolo, che occupa solo una piccola parte dello schermo del computer, ma che in quella piccola parte fa vedere ed ascoltare cose mai viste né sentite: persino un capo del Governo che cerca di “vendere” alcune attricette in cambio di senatori!

Dai e poi dai, un giorno va appresso all’altro, per tirare a campare s’inventano o si sfruttano banali fatti di cronaca – potevano mancare gli “anarchici” e le loro lettere esplosive in concomitanza delle elezioni? – poiché si pensa che l’eternità sia a portata di mano. Illusi: avessero, almeno, studiato qualcosa sui banchi di scuola.

Oggi, 29 Marzo 2010, il disastro è compiuto.

Come ogni impero che si rispetti, il giorno dopo tutto continua come prima: chi recita solo a soggetto, non può certo impegnarsi in un dramma di Shakespeare.

Tutto quello che non hanno capito è l’incomprimibile voglia dell’essere umano d’esser ascoltato: quello che quei minuscoli blog erano in grado di fare. Non più soloni di tutte le scienze e gli umanesimi, assisi su scranni secenteschi con bianche porte, a dissertare sul nulla senza contraddittorio.

Migliaia, decine di migliaia di piccole stanze dove la gente s’incontrava e discuteva: parti di riflessioni si concatenavano ad altre mai pensate, dissidi finivano in un vaffa o in un abbraccio. Proprio come avviene nella vita di tutti i giorni.

Domani sarà, a prima vista, esattamente uguale ad oggi ma così non sarà: il Vaso di Pandora s’è rotto, ed i venti hanno iniziato ad accarezzare le menti.
Loro continueranno sulla loro strada – non hanno mai compreso l’inesorabile superiorità di un media bi-direzionale rispetto ad uno mono-direzionale – ed hanno perso tempo prezioso.

Anche se domani, per un miracolo (questo, veramente impossibile), decidessero di strambare e di mutare rotta, mare ed orizzonte, si troverebbero a navigare in acque agitate dall’incomprimibile voglia di sapere, conoscere, costruire insieme. Sono acque perigliose per i marinai d’acqua dolce, ed è per loro vero terrore: hanno trascorso l’intera vita a proteggersi proprio da questa evenienza. Dal confrontarsi a viso aperto con gli altri.

Tutto ciò pone chi fino a ieri scriveva per la necessità di farlo – tentando di fornire chiavi di conoscenza alternative alla corazzata di regime – in una nuova situazione: non basterà più criticare le malefatte altrui e proporre soluzioni migliori. Bisognerà dimostrare d’esser in grado di farlo, ossia passare dalla fase di studio e riflessione alla prassi, che significa organizzazione: milioni d’italiani lo chiedono.

Come?

Per prima cosa conoscendosi: tantissime persone che, da anni, scrivono sui loro blog non si conoscono personalmente, e questo è uno scoglio insuperabile. Tanto per capirci – perché le ho vissute personalmente – queste sono le secche nelle quali si sono arenate Italianova e Contragorà. E tanti altri dei quali non sono a conoscenza.

Perciò, prendendoci il tempo necessario – l’avvicinarsi della bella stagione aiuta – poniamoci l’obiettivo di raccogliere in un meeting propositivo le tante persone che hanno saputo mettere in crisi, con i loro piccoli coltelli spuntati, il grande vascello. Potrebbe essere un campeggio all’aria aperta, un incontro informale ma molto, mooolto “formativo”.

Dovremo magari mettere mano al portafogli, viaggiare, organizzare…ma cosa ci potrebbe essere di più utile e, in fin dei conti, divertente e rigeneratore per degli spiriti inquieti?

Personalmente, contatterò parecchie persone ma, come potrete notare, al fondo dell’articolo compare nuovamente una casella postale: senza essere inutilmente prolissi, s’accettano idee e proposte.
Sarà mio dovere informarvi sugli sviluppi.


La dittatura travestita da democrazia
di Massimo Fini - http://antefatto.ilcannocchiale.it - 26 Marzo 2010

Io credo che la dittatura vera e propria, la dittatura "propriamente detta" per usare un ironico sberleffo di Mino Maccari ("i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti") sia meglio della dittatura mascherata da democrazia che è quella che stiamo vivendo soprattutto da quando Berlusconi è "sceso in campo" ma anche da prima, diciamo dalla metà degli anni Settanta, quando la partitocrazia consociata a difesa dei propri privilegi, intrallazzi, clientelismi, ruberie, formava un unico blocco di potere.

La dittatura vera e propria è meno subdola. Perlomeno ha il vantaggio di rendere le cose chiare. Da una parte ci sono gli oppressori, dall’altra gli oppressi che, se pensiamo al fascismo, vengono emarginati, mandati al confino, costretti all’esilio.

La dittatura sotto le vesti della democrazia è invece una cosa melmosa, molle, melliflua, confusa dove gli oppressori possono mascherarsi da vittime (si pensi alla manifestazione del governo in piazza San Giovanni) e gli oppressi passare per oppressori.

È facilissimo cambiare le carte in tavola. Tutti possono dirsi vittime di qualcuno o qualcosa e guadagnarsi, al momento opportuno, qualche medaglia "antifascista". Naturalmente qui nessuno ti manda al confino o in esilio (ci va chi ha i soldi per permettersi di togliersi da questo infame paese, come Milva che ha deciso di vivere in Germania).

L’emarginazione è lenta, soft, alle volte addirittura ammiccante e sorridente, ma inesorabile e comunque non può essere provata. Allo stesso modo vengono chiusi, a poco a poco, tutti gli spazi di libertà. Sempre però sotto le forme delle leggi democratiche. E quindi è difficilissimo difendersi. La dittatura vera e propria forma anche un’opposizione altrettanto dura.

La classe politica uscita dalla lotta antifascista e, per la verità, da quell’evento fondante che è la guerra, non ha nulla a che vedere con la nostra attuale opposizione, molliccia, inconcludente, timorosa, indecisa a tutto, che abbiamo ora. La dittatura forgia i caratteri degli oppositori.

Nella dittatura "propriamente detta" si può poi almeno sperare di abbattere il tiranno col proprio fucilino a tappo. È lecito uccidere il tiranno. È un argomento posto per la prima volta da Seneca e che nel dibattito che si è sviluppato lungo i secoli è stato risolto in senso eticamente affermativo. Nella dittatura mascherata da democrazia questo non è eticamente accettabile, apparirebbe, e sarebbe, un assassinio.

E allora come ci si libera del tiranno in una dittatura mascherata da democrazia? Come ci si libera, per parlare delle cose nostre, di Silvio Berlusconi? Non con le leggi perché costui ha ormai acquisito un potere tale da poterle distorcere tutte a suo favore. Sempre nella forma dell’apparente legalità democratica.

Con Berlusconi siamo retrocessi al di là del “monarca costituzionale” che doveva rispettare almeno le leggi che egli stesso aveva emanato e che non poteva cambiare a piacer suo. Io credo che l’unica via pacifica percorribile da parte di quel che resta dell’opposizione parlamentare, e sempre che ne avesse le palle e non fosse connivente, sia l’Aventino.

Dice: ma l’Aventino spianò definitivamente la strada al fascismo. Vero. Ma intanto rese palese una dittatura che era già nei fatti se non nella forma. Ma, soprattutto, oggi la situazione è molto diversa da quella del 1926. L’Italia fa parte dell’Unione europea e che in un paese dell’Unione l’opposizione si ritiri dal Parlamento sarebbe un fatto così clamoroso e sconvolgente da attirare finalmente l’attenzione dell’Europa sulla situazione italiana.

Perché l’Italia non ha più i requisiti democratici per rimanere in Europa. Basterebbe il colossale conflitto di interessi accumulato da Berlusconi per porla fuori da ogni regola. Basterebbe il fatto che quest’uomo, gravemente pregiudicato con la giustizia, si appresta a varare una riforma della giustizia il cui unico scopo è di eliminarla, almeno per sé e il suo direttorio. Del resto per quello che lo riguarda personalmente, dopo infiniti tentativi che hanno scardinato la legge penale italiana, c’è già riuscito col legittimo impedimento.

L’Europa ha usato il pugno duro con l’austriaco Haider, e per molto meno, non si vede perché non si possa, né si debba, farlo con l’onorevole Berlusconi che in Italia è riuscito a delegittimare di volta in volta tre presidenti della Repubblica, il Parlamento, la presidenza del Consiglio (quando non c’era lui, naturalmente), la magistratura ordinaria, penale e civile, la Corte costituzionale, la Corte di cassazione, la Corte dei conti, le Authority e, da ultimo, persino il Tar. Tuttavia io non credo che a spazzar via il tiranno in forma democratica saranno né l’Europa né quella mucillagine chiamata opposizione.

Berlusconi finirà per autocombustione. Il suo delirio di onnipotenza, che ha da tempo perso tutti i freni inibitori, lo porterà, prima o poi, a compiere un atto così clamoroso e incontrovertibile da richiedere l’intervento della forza pubblica. Non per motivi penali, ma mentali.

A Mosca cieca...

Qui di seguito si parla dei due attentati avvenuti oggi nella metropolitana di Mosca che hanno causato almeno 38 morti e un centinaio di feriti.

Si presume che a compierli siano state due donne legate alle organizzazioni indipendentiste cecene o caucasiche più in generale.


Strage a Mosca
di Carlo Benedetti - Altrenotizie - 29 Marzo 2010

La capitale russa è sotto shock. Due attentati in due stazioni della metropolitana - quelle della "Lubianka" e del "Parco Gorkij" - lasciano a terra decine e decine di morti. E' allarme generale. Gli ospedali non riescono a contenere l'afflusso di feriti.

Serve sangue, servono medici e chirurghi, mentre le sirene delle autoambulanze sono la terribile colonna sonora di una mattinata che doveva essere di routine per i milioni e milioni di abitanti che si stavano recando al lavoro. Ed ora la metropolitana - che è il cuore della città - è bloccata.

Le squadre speciali della polizia pattugliano il centro e presidiano i palazzi del potere. La domanda che ora s’impone riguarda il carattere dell'attentato. E si parla subito di una matrice terroristica cecena.

Secondo le prime indagini ci sarebbero stati due kamikaze che si sono mossi in contemporanea attaccando gli obiettivi: quelle stazioni della "linea rossa" che, proprio nella prima mattina, sono le più frequentate.

Ed ora - se passerà la tesi relativa ad un attacco ceceno - vorrà dire che gran parte della strategia del Cremlino nei confronti del Caucaso è completamente fallita. Perché la "resistenza" di Grozny torna ad imporre le sue scelte ricordando a Putin e a Medvedev che quell'area - che la geopolitica indica come Cecenia, Inguscezia e Daghestan - è sempre a rischio.

Non solo, ma qui si registra anche un rafforzamento delle formazioni militari "partigiane e indipendentiste" che si oppongono alla Russia e a quelle formazioni militari del centro che vengono considerate come "forze di occupazione".

Ed ecco ora che la Russia torna tragicamente a fare i conti con le parti in conflitto. In particolare con quella guerriglia separatista all'inizio guidata dall'ex Presidente di Grozny, Dzokhar Dudayev, e poi portata avanti da Aslan Maskhadov e dai capi guerriglieri Samil Basaiev e Emir Khattab contro le truppe russe e il governo filo-sovietico locale presieduto da Alu Alkhanov.

E mentre a Mosca si rincorrono le voci sulla presenza di altri kamikaze pronti ad entrare in campo in questa guerra di posizione si torna a fare riferimento a cifre agghiaccianti. Sono infatti oltre 300 mila i ceceni uccisi dal 1994 ad oggi, vale a dire un quarto della popolazione originaria della repubblica caucasica.

Migliaia di civili (almeno 10 mila secondo le organizzazioni di difesa dei diritti umani) sono “spariti” nel nulla dopo essere stati arrestati dalle forze di sicurezza russe e rinchiusi nei cosiddetti “campi di filtraggio”, centri di detenzione e tortura dai quali esce solo chi paga ai militari russi pesanti riscatti. Si calcola che dal 1994 al 2002 oltre 80 mila ceceni siano passati in questi campi.

Secondo le ultime stime ufficiali fornite dal Cremlino, sono oltre 6000 i soldati russi morti nella seconda guerra cecena (dall’ottobre 1999 a oggi), ma secondo i Comitati delle madri dei soldati russi la cifra supera invece i 20 mila (25 mila contando i caduti della prima guerra).

A Mosca, inoltre, ci s’interroga sui motivi dell’attuale ripresa di ostilità. Si nota che la guerriglia "islamica" ha un obiettivo ben preciso: creare nel Caucaso una punta di diamante di tutta l'attività indipendentista.

Puntando anche al controllo di quegli oleodotti e gasdotti che attraversano il territorio ceceno e che sono strategici per il trasporto dal Mar Caspio fino al terminal russo di Novorossijsk sul Mar Nero del petrolio (da Baku, Azerbaijan) e di gas naturale (da Tengiz, Kazakhstan).

E qui non va dimenticato che nel sottosuolo ceceno ci sono giacimenti estesi di petrolio e gas naturale. Altra domanda che circola a Mosca è quella relativa alle armi che sono nelle mani dei guerriglieri. Questi sono riforniti dall'Arabia Saudita e dalla Turchia, ma soprattutto dallo stesso esercito russo che vende, in loco, ingenti quantitativi armi.

Infine, quanto alla situazione di queste ore, l'intelligence del Cremlino si sta ponendo il problema della gestione politica e militare delle aree del Caucaso. Perdono di credibilità quei gruppi dirigenti che hanno giurato fedeltà agli uomini del Cremlino ed entra in crisi quel supergovernatore - Alexander Gennadyevich Khloponin (classe 1965) - che Medvedev ha nominato a capo dell'intera regione.

Doveva essere un supernormalizzatore ed ora - se la pista cecena verrà confermata - si troverà a dover fornire risposte di carattere strategico. E sicuramente si scontrerà con i clan locali e con le mafie che dominano il Caucaso.

Ecco, quindi, che gli attentati di Mosca sconvolgono ancora una volta i piani di un Cremlino che non controlla il Paese e che cerca solo di mettere una dura censura alla sua televisione, mentre l'unica radio che informa minuto per minuto sulla gravità della situazione è la stazione indipendente Eco di Mosca. Ed è anche questa una prova dell'impasse del Cremlino.


La violenza chiama la violenza
di Luca Galassi - Peacereporter - 29 Marzo 2010

Intervista ad Andrei Mironov, attivista dell'organizzazione per i diritti umani Memorial

Andrei Mironov e' membro dell'organizzazione per i diritti umani Memorial. Per anni ha combattuto per denunciare violenze e abusi da parte dell'esercito e dei servizi segreti russi in un Caucaso che non sembra trovare pace.

Andrei, una settimana fa in Cecenia venivano uccisi sette militanti islamici. Allora scrivevamo che la ribellione continua sotto la superficie, riversandosi nelle repubbliche confinanti e perfino in territorio russo. La matrice di quest'ultimo attentato e' chiara...

Bisogna aspettare le indagini, ma che si tratti di un atto terroristico legato alla questione caucasica e' altamente probabile. In autunno sono stato in quella regione per tre volte, e ogni volta ho pensato che presto o tardi il terrorismo ne avrebbe nuovamente varcato i confini, come del resto e' gia' accaduto in passato. La violenza contro gli innocenti chiama violenza contro altri innocenti. Non sono molto selettivi, ne' una parte ne' l'altra. Questo accresce l'odio, il terrore, in un circolo vizioso. Sicuramente questi attentati saranno sfruttati da chi in Russia ha da sempre attuato la strategia della tensione. Il futuro non promette niente di buono.

Pensi che si intensificheranno le operazioni militari nel Caucaso del Nord, o ci sara' una stretta sulle liberta' e sui diritti anche in Russia?

Dobbiamo ricordare che dopo Beslan Putin ha abolito l'elezione dei governatori regionali e applicato alcune restrizioni alle liberta' politiche Questo sara' un buon pretesto per misure piu' politiche che militari. Il terrorismo aiuta l'autoritarismo, sempre. Specialmente nei sistemi politici come il nostro.

Se l'attentato alla metro di Lubyanka puo' essere simbolico perche' e' vicino all'Fsb, i servizi segreti, a Park Culturi c'e' qualche obiettivo cosiddetto 'sensibile'?

A Park Culturi non c'e' nulla, io credo che anche a Lubyanka sia stato 'casuale', nel senso che l'obiettivo era uno solo: colpire vittime innocenti. Sai, i responsabili delle violazioni dei diritti umani in Caucaso non usano mai la metropolitana. Lo ripeto, il terrorismo cieco non genera che odio. Qui prevalgono gli istinti, le emozioni. Non la logica.

Com'e' la situazione in Caucaso?

La violenza sta aumentando. Ultimamente ho visitato una famiglia di un ingegnere dell'aeroporto di Nazran, in Inguscezia. Ufficialmente, l'ingegnere, che era addetto al controllo dei voli per l'Inguscezia, era sotto arresto. Ebbene, qualche giorno dopo la madre e' stata informata che era stato ucciso durante un'operazione militare nelle montagne. Come e' possibile che fosse a fare il terrorista in montagna quando era in prigione? Assurdo. Un esempio per dirti di come vengono tranquillamente uccise persone innocenti. E come queste uccisioni alimentino le reazioni emotive, e possano spingere a imbracciare le armi e a usare violenza contro altri innocenti.

In Occidente Putin ha fornito l'immagine di una Cecenia finalmente pacificata. E' davvero cosi'?

Non e' per niente vero. Come si puo' stabilizzare un Paese con l'oppressione, con la repressione, senza giustizia e diritto? Ci sono uccisioni extragiudiziali, non solo di terroristi, ma di operatori dei diritti umani, come Natalia Estemirova lo scorso anno, di giornalisti, avvocati, di persone innocenti. Su queste basi non si puo' costruire stabilita' o pacificare un Paese. In Cecenia non esiste giustizia, non esiste lo Stato di diritto.

sabato 27 marzo 2010

Elezioni in Iraq: ha vinto Allawi...forse

Ieri, dopo 20 giorni di attesa, la Commissione elettorale irachena ha annunciato che Iraqiya - la lista guidata dall'ex premier iracheno Iyyad Allawi - ha vinto le elezioni.

La lista di Allawi avrebbe ottenuto 91 seggi contro gli 89 di quella del premier uscente Nuri al-Maliki.
All'Alleanza nazionale sciita vanno invece 70 seggi, mentre l'Alleanza del Kurdistan ne ha ottenuti 43.

I risultati devono essere però ancora convalidati dalla Corte Suprema e al-Maliki non li ha riconosciuti, affermando di considerarli "non definitivi e solo preliminari" e paventando una nuova ondata di violenze se non verranno riconteggiati i voti, a suo dire afflitti da brogli.

Proprio nei giorni scorsi l'ambasciatore Usa a Baghdad l'aveva convocato per chiedergli garanzie rispetto all'accettazione dei risultati delle urne. Inutilmente, a quanto sembra, visto che al-Maliki presenterà ricorso alla Corte Suprema.

Ma per l'inviato speciale dell'Onu in Iraq, Ad Melkert, il voto è regolare. Così come l'ambasciata americana a Baghdad e il comandante della truppe Usa, il generale Ray Odierno, hanno fatto sapere che "non ci sono evidenze di frodi diffuse e gravi".

Non sarà comunque facile nè veloce la formazione del nuovo governo iracheno. E infatti ieri un doppio attentato compiuto a Khalis, vicino Baquba a nord di Baghdad, ha già provocato almeno 42 morti e circa 70 feriti.

E se ne preannunciano altri...


Allawi vince le elezioni
da www.osservatorioiraq.it - 26 Marzo 2010

Una vittoria di strettissima misura - per due soli seggi. Iyad Allawi, l'ex Primo Ministro iracheno, con la sua alleanza nazionalista, Iraqiya, ha battuto il premier in carica, Nuri al Maliki: 91 seggi contro 89, su un totale di 325.

Questi i risultati ufficiali del voto per il rinnovo del Parlamento che si era tenuto il 7 marzo: annunciati poco fa dalla Commissione elettorale, la IHEC, che non ha raccolto l'invito del ministro degli Interni, Jawad al Bulani, che aveva chiesto di rinviarne la comunicazione per timore di esplosioni di violenza nel Paese.

Entrambe le coalizioni, quella di Allawi e quella del premier, l'Alleanza per lo Stato di diritto, avevano denunciato brogli e irregolarità nelle settimane successive al voto, mentre venivano via via diffusi i risultati preliminari, avvertendo che non avrebbero accettato un esito che li avesse penalizzati.

E adesso è Allawi a uscire vincitore, anche se il numero di seggi ottenuti da Iraqiya è ben lontano dalla maggioranza assoluta (163 seggi) necessaria per formare un governo.

Al terzo posto, la Iraqi National Alliance, la coalizione che raggruppava il grosso delle forze sciite: e che seggi ne ha avuti 70. Segue la Kurdistan Alliance, con la maggioranza dei partiti kurdi, fra cui i due principali, con 43 seggi.

Per quanto riguarda le singole province (310 dei 325 seggi venivano assegnati a livello provinciale, mentre 7 erano seggi nazionali di compensazione), la coalizione di Allawi ha vinto in quattro delle cinque in cui era in testa: Anbar (11 seggi su un totale di 14), Salahuddin (8 seggi su 12), Diyala (8 seggi su 13), Ninive (20 seggi su 31). A Kirkuk, pur essendo leggermente in vantaggio quanto a numero di voti, Iraqiya porta a casa lo stesso numero di seggi – sei – della Kurdistan Alliance, la formazione che raggruppa la maggioranza dei partiti kurdi.

01 - Baghdad
02 - Salahuddin
03 - Diyala
04 - Wasit
05 - Maysan
06 - Bassora
07 - Dhi Qar
08 - Muthanna
09 - Qadissiya
10 - Babel
11 - Karbala
12 - Najaf
13 - Anbar
14 - Ninive
15 - Dohuk
16 - Irbil
17 - Ta'amim (Kirkuk)
18 - Sulaimaniya


Giallo = Kurdistan Alliance
Verde = Iraqiya (Allawi)
Rosso = Alleanza Stato di diritto (Maliki)
Magenta = Iraqi National Alliance

L'Alleanza per lo Stato di diritto del premier Maliki vince a Baghdad (26 seggi su un totale di 68), e poi Bassora (14 seggi su 24), Najaf (7 seggi su 12), Karbala (6 seggi su 10), Babel (8 seggi su 16), Wasit (5 seggi su 11), e Muthanna (4 seggi su 7).

Agli sciiti dell'Iraqi National Alliance vanno le tre province di Maysan (6 seggi su 10), Qadissiya (5 seggi su 11), e Dhi Qar (9 seggi su 18).

Alla Kurdistan Alliance le tre province della regione autonoma del Kurdistan: Irbil (10 seggi su 14), Dohuk (9 seggi su 10), e Sulaimaniya (8 seggi su 17).

Sia la coalizione di Allawi che quella di Maliki che quella sciita hanno inoltre avuto 2 seggi nazionali di compensazione ciascuno. La Kurdistan Alliance uno solo.

Adesso si apre la partita per il governo: una strada che si annuncia tutta in salita.

Prima però c'è un ultimo adempimento: la certificazione dei risultati elettorali da parte della Corte Suprema Federale.



Le mille vite del dottor Allawi che attende i risultati iracheni
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore.com - 26 Marzo 2010

Se alla fine sarà lui a guidare il nuovo governo di Baghdad, partita peraltro ancora aperta, l'Iraq che prenderà forma sarà davvero nuovo. Vale a dire un Paese in cui le divisioni etniche e confessionali saranno finalmente, se non superate, meno incisive. Perché Iyad Allawi, 65 anni, il leader della coalizione Iraqiya, è un uomo vecchio e allo stesso tempo nuovo.

Vecchio perché è un volto conosciuto, a lui fu affidata la poltrona di Primo Ministro nel governo ad interim del 2004. Nuovo perché, pur essendo sciita, la piattaforma intorno a quale ha creato la sua alleanza è la più laica e secolare di tutte. Forse proprio per questo l'ex medico è riuscito a racchiudere nella sua coalizione gruppi sunniti, sciiti, insieme a leader cristiani.

Probabilmente per questo gli iracheni, stanchi delle divisioni confessionali che hanno destabilizzato il Paese ostacolando lo sviluppo economico e la ricostruzione, lo hanno votato in massa.

Allawi è in testa, seppure di poche migliaia di voti sul rivale Nuri al–Maliki. Anche se dovesse essere confermata la sua vittoria, avrebbe in ogni caso bisogno di uno o più alleati per creare un governo. E comunque potrebbe ritrovarsi da vincitore all'opposizione, se i rivali sapranno superare le loro divisioni e formare una coalizione di maggioranza.

Nessuno mette però in dubbio che sia un uomo coraggioso. Il suo curriculum ne è pieno. Fece fatica ad emergere nell'agone politico iracheno. La sua famiglia, di cui numerosi membri ricoprirono alti incarichi nella monarchia rovesciata nel 1958, non era ben vista. Allawi comunque scelse, e riuscì a militare nelle file del partito Ba'ath dal 1969 al 1971.

Sapeva che Saddam, Hussein, astro nascente della politica irachena e vice presidente dal 1968, era un uomo violento e volubile. Allawi non si curò di scontrarsi apertamente con il futuro dittatore. Minacciato, fu costretto a scegliere la via dell'esilio, prima in Libano e poi in Gran Bretagna. Alla politica, però, non rinunciò mai.

Londra era certo un luogo più sicuro dell'Iraq, ma non abbastanza. Tanto che nel 1978 i sicari di Saddam Hussein irruppero in casa sua la notte, crivellandolo di proiettili mentre si trovava a letto. Ritornati a Baghdad, annunciarono al dittatore di averlo ucciso. Gravemente ferito, Allawi sopravvisse. Continuò la sua attività politica.

Nel marzo 1991, fondò il Movimento di intesa nazionale con ex ba'athisti. L'obiettivo era chiaro: destituire il dittatore. Cinque anni dopo, con il sostegno non solo morale, di Washington, orchestrò un complotto contro il dittatore. Fallito. diversi suoi uomini furono giustiziati.

Washington però comprese di avere a disposizione un politico preparato e fidato. Dopo la caduta di Suddam, lo nominò Primo ministro nel governo di transizione. Chi pensava si trattasse di un uomo poco risoluto dovette presto ricredersi.

In materia di sicurezza, le sue maniere forti gli meritarono l'appellativo di "piccolo Saddam". Come per la sua offensiva contro la città sunnita, e ribelle, di Falluja (giugno 2004-aprile 2005). I sunniti avrebbero di che lamentarsi, eppure anche a Falluja hanno votato in massa per lui.

La riconciliazione innanzitutto. Allawi è stato più intelligente degli altri rivali: ha capito che recuperare i membri del Ba'ath (il partito di Saddam messo fuori legge), che non si erano resi colpevoli di delitti politici, era una priorità. Molti di loro, emarginati dai governi sciiti, si erano uniti all´insurrezione armata sunnita, alcuni fiancheggiandola, altri simpatizzando.

In recenti interviste, l'ex medico ha ribadito di essere stato votato non solo dai sunniti ma anche da molti sciiti, anche in tradizionali roccaforti dei partiti religiosi, come Najaf.

Quasi volesse dire: anche nei luoghi più sacri della confessione sciita, un programma laico, nemico delle divisioni interconfessionali, può essere una ricetta accattivante. Gli iracheni, dopotutto, vogliono davvero voltare pagina.



I seguaci di Muqtada al Sadr escono più forti dalle elezioni
di Anthony Shadid* - The New York Times - 21 Marzo 2010
Traduzione a cura di Medarabnews

I seguaci di Muqtada al-Sadr, un religioso radicale che ha guidato l’insurrezione sciita contro l’occupazione americana, sono usciti dalle elezioni della settimana scorsa come l’equivalente iracheno di Lazzaro, sconfiggendo le previsioni di rito riguardanti la loro fine, e ora minacciano di modificare gli equilibri di potere nel Paese.

Il loro apparente successo alle elezioni parlamentari del 7 marzo – forse sono il secondo maggiore raggruppamento sciita, superato solo dai seguaci del Primo Ministro Nuri Kamal al-Maliki – sottolinea un’evidente tendenza nella politica irachena: il crollo del sostegno a molti ex-esuli che hanno collaborato con gli Stati Uniti dopo l’invasione del 2003.

Sebbene i rivali abbiano screditato la campagna elettorale dei sadristi, documenti e interviste mostrano una disciplina senza precedenti, che ha spinto il gruppo sull’orlo di quella che forse è la sua maggiore influenza politica in Iraq.

Questo risultato completa il sorprendente ciclo di un movimento populista che ha ereditato il mantello di un ayatollah assassinato (il grande Ayatollah Muhammad Sadiq al-Sadr, padre di Muqtada, fu assassinato nel 1999, probabilmente dal regime di Saddam (N.d.T.) ), e poi ha forgiato una cultura marziale nella sua lotta contro l’esercito americano nel 2004.

Dopo anni di sconfitte, frammentazioni, e dubbi sollevati persino dai suoi stessi esponenti religiosi riguardo alle sue prospettive per queste elezioni, il movimento ha aderito al processo politico, pur rimanendo sempre fermamente contrario a qualunque legame con gli Stati Uniti.

Non è mai stato facile formare un nuovo governo nel periodo postelettorale, e l’imprevedibilità dei sadristi, così come la loro ritrovata fiducia, adesso potrebbe rendere molto più complicata questa operazione.

“Così come aumenta la nostra presenza in parlamento, altrettanto farà il nostro potere”, ha detto Asma al-Musawi, una deputata sadrista. “Presto rivestiremo il ruolo che ci è stato assegnato”.

Durante la preghiera del venerdì un fedele si è espresso in termini ancora più espliciti.

“Oggi è il nostro giorno”, ha gridato a centinaia di sostenitori riunitisi fuori della sede del movimento, in un fatiscente sobborgo che porta il suo stesso nome, Sadr City, dove i cavi elettrici sono ingarbugliati come ragnatele, e il malcontento ribolle da un calderone di povertà, rabbia, e frustrazione.

I risultati delle elezioni non sono ancora definitivi, e in base a una complicata formula per l’assegnazione dei seggi la percentuale dei voti potrebbe non riflettere necessariamente i numeri reali nel parlamento composto di 325 membri.

Ma gli avversari così come gli alleati ritengono che i sadristi potrebbero ottenere più di 40 seggi. Con tutta probabilità, ciò li renderebbe il vero partito di maggioranza all’interno dell’Alleanza Nazionale Irachena (INA), una coalizione a prevalenza sciita nonché diretta concorrente di Nuri al-Maliki.

Se le cifre saranno confermate, i sadristi potrebbero disporre di un blocco all’incirca dello stesso peso politico dei kurdi, che sono stati l’ago della bilancia nelle coalizioni di governo fin dal 2005.

Solo a Baghdad, il cui voto è decisivo per le elezioni, 6 candidati sadristi, molti dei quali perfetti sconosciuti sul piano politico, sono emersi tra i 12 più votati.

“Non possono essere esclusi”, ha detto un funzionario occidentale avvalendosi dell’anonimato, secondo il classico protocollo diplomatico.

Cercare di ignorare i sadristi si è dimostrato un leit-motiv dell’Iraq degli anni successivi all’invasione. Nei caotici mesi del 2003, i responsabili americani hanno regolarmente deriso Sadr, additandolo come un uomo venuto su dal nulla e come un fuorilegge, inconsapevoli del mandato che egli aveva assunto dal padre, l’ayatollah Muhammad Sadiq al-Sadr, il cui ritratto è ancora appeso negli uffici, nelle case, e nelle officine dei suoi seguaci. L’ayatollah fu assassinato nel 1999.

Questa inimicizia esplose in un aperto combattimento per due volte nel 2004, a Baghdad e a Najaf. Quattro anni dopo, il movimento, accusato di alcuni dei peggiori massacri a sfondo settario nella guerra civile, fu sconfitto dall’esercito iracheno, con il decisivo aiuto americano, solo per risorgere nelle elezioni provinciali dello scorso anno.

Molti politici adesso lo vedono come una componente del processo politico, sebbene sia un movimento con un acuto senso della piazza e con la propensione a modellarsi come un movimento di opposizione.

Nel corso di questi anni, Sadr, che adesso sta studiando in Iran per diventare ayatollah, ha subito una trasformazione. Nei primissimi giorni dell’occupazione, non possedeva nessuna particolare disinvoltura. Calcava il suo turbante nero sulla fronte, in un modo un po’ scomodo, e curvava la schiena in una postura tozza e tarchiata.

Questo mese, durante una conferenza stampa dall’Iran, si è espresso con toni molto più vigorosi. Ormai 36enne, sicuro di sé, con qualche striatura grigia nella barba, ha parlato volutamente in un arabo garbato quanto semplice, con una disinvolta indifferenza per le domande dei giornalisti, tipica degli arroganti.

Il movimento sadrista è celebre per le affermazioni criptiche sulle proprie intenzioni, eppure in passato ha fatto parte di alcuni governi pur rifiutando il processo politico. Questa volta, nel modo più chiaro possibile, Sadr ha insistito affinché i suoi seguaci andassero a votare.

“Questo sarà il passaggio necessario per la liberazione dell’Iraq, per scacciare l’occupante, e per un’altra cosa importante, servire il popolo iracheno”, ha detto.

Il successo dei sadristi ha aggiunto confusione ad uno scenario già sufficientemente preoccupante, intorbidato dalle illazioni su quale coalizione formerà il prossimo governo. Maliki potrebbe essere il grande sconfitto. Sebbene una volta lo abbiano sostenuto, i sadristi adesso dichiarano un disprezzo viscerale per Maliki, a cui danno la colpa per la campagna militare del 2008 contro di loro.

Sami al-Askari, un deputato alleato di Maliki, li ha definiti “preoccupanti”.

“Ignorarli è un problema”, ha detto. “Coinvolgerli nel governo è un altro problema. Sono imprevedibili, e nessuno può intuire la loro prossima mossa”. Essi sembrano sicuri, per giunta, di eclissare i vecchi leader sciiti che sono rientrati dall’esilio nel 2003, e coi quali i sadristi sono nominalmente alleati.

Nel gennaio 2009, il Supremo Consiglio Islamico dell’Iraq (SIIC), un partito guidato da un’altra storica famiglia di religiosi, ottenne un numero di voti superiore ai sadristi.
Questa volta, si ritiene che il SIIC abbia avuto una performance così scarsa che potrebbe essere obbligato a uscire dall’INA e ad unirsi a Maliki per mantenere il suo peso politico.

Come minimo, i sadristi hanno messo in chiaro che ritengono che la leadership della coalizione debba spettare a loro.

“I risultati richiederanno che alcuni partiti riconsiderino il peso politico che meritano”, ha detto Asad al-Nasseri, un leader sadrista, ai fedeli presenti alla preghiera del venerdì nella loro roccaforte di Kufa.

Fin dal 2003, i sadristi hanno rifiutato qualsiasi contatto con i militari e con i diplomatici americani.

Giorni fa, un funzionario americano si è lamentato dicendo: “Sarebbe di aiuto se essi cambiassero la loro politica”.

Ma ciò che è un danno per l’America potrebbe non essere necessariamente un vantaggio per l’Iran. Con una chiara dimostrazione del potere che l’Iran esercita da queste parti, Tehran ha persuaso i sadristi ad unirsi alla coalizione del SIIC per le elezioni, anche se i due movimenti si erano combattuti nelle strade solo pochi anni prima.

I due gruppi tuttora esprimono pubblicamente il loro antagonismo. Ma molti politici pensano che i sadristi, a lungo considerati più nazionalisti di altri partiti religiosi sciiti, si dimostreranno meno arrendevoli nei confronti dell’Iran.

Sadr “non è l’interlocutore più affabile con cui l’Iran possa avere a che fare”, ha affermato il suddetto diplomatico americano.

Forse la cosa più sorprendente è l’abilità che il movimento ha dimostrato nel mobilitare i suoi sostenitori, gli sciiti, i cui sobborghi più poveri vanno ancora avanti senz’acqua per giorni. Alla preghiera del venerdì, e tramite volantini, gli organizzatori hanno ammonito i seguaci a non votare a favore dei candidati laici. Essi hanno insistito affinché i seguaci non disperdessero il loro voto tra diverse liste di candidati.

“Non dimenticate di votare per un solo candidato!”, si leggeva in un volantino.

Per un candidato, Hakim al-Zamili, un ex viceministro della Salute accusato da molti di avere guidato squadroni della morte durante la guerra civile, i votanti sono stati organizzati in 22 località. Per il momento, egli è il sesto candidato più votato a Baghdad, e sembra certo di ottenere un seggio.

“Congratulazioni!”, hanno gridato i fedeli mentre lo salutavano alla preghiera del venerdì a Sadr City. “Buona fortuna!”, gridavano altri, sporgendosi per baciare Zamili sulla guancia.

Egli ha contraccambiato ognuno di loro con un sorriso, un bacio, o una stretta di mano.

“Noi siamo il popolo”, ha detto. “Il resto dei partiti si basa su leader individuali. Noi siamo la forza del numero, e siamo emersi grazie alle elezioni”.


* Anthony Shadid è un giornalista americano di origini libanesi. E’ corrispondente da Baghdad per il New York Times. Nel 2004 ha vinto il Premio Pulitzer per il giornalismo internazionale, per i suoi reportage sulla guerra irachena.


Baghdad, il settimo anno dell'avventura americana
di Adrien Jaulmes - Le Figaro - 20 Marzo 2010

Sette anni fa, il 20 marzo 2003, l’esercito di Bush marciava su Baghdad. Ritorno in una delle più famose capitali arabe, segnata dalla guerra civile e dalla sanguinosa lezione della democrazia

Muri anti-esplosione e manifesti elettorali. Sette anni dopo l’invasione americana la fisionomia di Baghdad è profondamente cambiata. Sotto il cielo ambrato delle tempeste di sabbia, l’immenso agglomerato, che si estende lungo i meandri fangosi del fiume Tigri, porta i segni di questa duplice esperienza della democrazia sotto l’occupazione e di una brutale guerra confessionale.

In alcuni casi, i muri di calcestruzzo sono stati ridipinti con scene storiche, bassorilievi babilonesi, o leoni alati assiri. Ma questi allineamenti di enormi lastre di cemento, simili a grandi tasti di un pianoforte che impediscono di vedere l’orizzonte, stanno ancora in piedi come simbolo delle malefatte degli stregoni apprendisti americani in Mesopotamia.

Eppure la guerra confessionale che ha dilaniato la città è stata arginata. Dall’anno scorso gli americani sono ritornati nelle loro basi e, a parte alcuni elicotteri che di volta in volta passano in cielo, al momento restano quasi invisibili.

La Zona Verde è sempre quell’area vietata al centro di Baghdad, un vasto complesso di palazzi fortificati nella loro cinta di cemento sugli argini del fiume, ma è stata consegnata alle nuove autorità irachene.

I diplomatici americani hanno traslocato nella loro nuova ambasciata-bunker. Le legioni dell’impero si apprestano a fare le valigie, verso delle montagne afghane dove, al momento, si muore più che tra il Tigri e l’Eufrate.

Per quanto sia stata fermata, la guerra non è assolutamente finita. A ogni incrocio, lungo ogni arteria principale, all’ingresso di ogni ponte, i soldati e i poliziotti iracheni, riattrezzati con equipaggiamenti americani, passano al setaccio i veicoli con le mitragliette puntate. E le automobili imbottite di esplosivo continuano a esplodere di quando in quando tra l’indifferenza generale.

La notte, i blackout continuano a far annegare alcuni quartieri di Baghdad nell’oscurità. Ieri altre cinque persone sono state uccise in alcuni attentati, e nessuno si appresta a celebrare l’anniversario di un’ invasione che ha proiettato il Paese in un caos da cui ne esce a malapena.

Un avvenimento incredibile

Ma almeno si respira un po’ meglio dopo gli anni del terrore – 2006 e 2007 –, quando gli squadroni della morte sciiti e gli assassini di al-Qaeda si erano scatenati nella battaglia di Baghdad.

I negozi e i ristoranti hanno riaperto. Lungo il fiume Tigri le famiglie vanno di nuovo a mangiare il mazgouf, una grossa carpa grigliata un po’ disgustosa, alla luce dei lampioni alimentati dai generatori.

Su Arasat Street, nel quartiere chic di Karrada, i negozi traboccano di elettrodomestici e vestiti di marca. Si vedono auto di lusso, Porsche Cayenne e Lexus, in mezzo alle carrette dei duri anni dell’embargo internazionale che avevano rovinato l’Iraq senza riuscire a spodestare Saddam.

Poche persone rimpiangono veramente questo dittatore brutale, le cui catastrofiche avventure militari avevano trascinato il Paese in una guerra interminabile con l’Iran, prima di affondare nella miseria dell’embargo dopo una sonora sconfitta in Kuwait.

Quindi, la sua caduta ha scatenato altri flagelli, gettando le comunità confessionali ed etniche dell’Iraq le une contro le altre, e dando il potere agli sciiti per la prima volta nella storia del mondo arabo contemporaneo. “Quello del 2003 è stato un avvenimento incredibile”, dice Ali Abu Fatima mentre conta dei grossi mazzi di banconote nel suo negozio di cambio. “ È stato come la rivoluzione francese: tutta la società è stata trasformata. Ci sono stati molti morti e distruzioni, ma non tutto è stato vano.
L’economia riparte, la sicurezza è migliorata: ora possiamo pensare al futuro”.

Tuttavia non sono tutti così ottimisti. “ Abbiamo paura. Quest’anno il governo ha vietato di festeggiare il Natale in chiesa”, dice Awataf Ismael Abdullah, cristiana di Karrada. “ Mio cugino si è trasferito a Irbil, in Kurdistan e molti dei miei amici sono emigrati all’estero. La situazione è difficile”.

Malgrado i discorsi nazionalisti dei candidati, le fratture tra le comunità restano profonde. Sunniti, sciiti, laici, e cristiani hanno votato per Iyad Allawi, uomo di polso e dai discorsi che uniscono. Gli altri sciiti si sono orientati sul Primo Ministro Nuri al-Maliki, capo dell’apparato di sicurezza e garante della loro nuova influenza, o sui loro religiosi, raggruppati in una coalizione rivale.

Una città rimodellata nel sangue

Ma l’esperienza democratica irachena, cominciata con un’invasione straniera, e che bene o male si insegue in un Paese occupato e dilaniato dalla guerra civile, è una realtà. I manifesti elettorali sono l’altra eredità dell’inverosimile avventura americana in Iraq.

Dopo esser serviti a dividere la città in quartieri secondo la nuova mappa confessionale che ha rimodellato nel sangue la capitale, i muri anti-esplosioni sono diventati dei comodi tabelloni.

Le centinaia di volti dei candidati – mullah sciiti con turbanti bianchi o sunniti urbani e baffuti in abiti eleganti, donne avvolte nei loro abaya neri o con il capo scoperto - hanno coperto i muri di Baghdad durante l’ultima campagna legislativa.

Sulla piazza Firdus, là dove l’8 aprile 2003 un carro armato americano aveva divelto la statua di Saddam Hussein, i poster formano un labirinto inestricabile, complicato quasi quanto le trattative che iniziano per la formazione di un nuovo governo.

La statua di Saddam è stata sostituita da un bizzarro monumento di gesso verdastro che dovrebbe simboleggiare il nuovo Iraq ma che si sta già sgretolando. Gli alti profili degli hotel Palestine e Ishtar, dietro ai loro check-point e muri di cemento, sono in uno stato di decadenza avanzata.

Uno ha chiuso, e il Palestine ha appena perso una parte dei vetri a causa dell’esplosione dell’ennesima automobile imbottita di esplosivo, i cui resti vengono raccolti con rassegnazione. Solo le stanze della facciata nord sono utilizzabili, dice la receptionist dietro il suo bancone deserto. “ Si paga in anticipo”, precisa, “ in contanti”.

Qualche metro più lontano il Club Alwiyah sembra bloccato nel tempo. Questa istituzione era stata fondata nel 1924 dall’ avventuriera e arabizzante britannica Gertrude Bell, versione femminile di T. E. Lawrence con cappellino e stivaletti con i bottoni, consigliera dell’alto commissario inglese Sir Percy Cox, prima di diventare la consigliera di Re Faysal. L’avventura britannica dell’epoca viene vista come una ripetizione della storia recente.

Il proconsolato installato alla guida dell’Iraq, creato ex novo, insieme di arabi sunniti, sciiti, e kurdi, con importanti minoranze cristiane e turcomanne, aveva fatto fronte a un sollevamento generale. Gli inglesi avevano dovuto trovare una soluzione a questa rovinosa esperienza mettendo un sovrano hashemita alla guida del Paese e ritirando le truppe nelle loro basi.

La lapide di questa amante dell’Iraq, suicidatasi con il laudano, si trova in un piccolo cimitero cristiano a Baghdad, e il suo club esiste ancora oggi. Non ci si gioca più a croquet sorseggiando gin-tonic, ma il whisky scorre a fiumi.

Nella sala del bar, piena di fumo, i clienti fissi, con i grossi baffi e i loro abiti e cravatte sembrano usciti dagli anni Ottanta, all’epoca del regno del partito Ba’ath e della dittatura dei sigari di Saddam Hussein.

Uno spettacolo politico

Qadim al-Mukdadi è un cliente fisso del Club Alwiyah. La sua trasmissione sul canale al-Baghdadiya, uno dei numerosi nuovi media che si sono sviluppati con successo nell’Iraq del post-Saddam, è una delle più seguite. “Vedremo quello che uscirà fuori da queste elezioni. La cosa più interessante sarà vedere a cosa somiglierà il prossimo governo. Ci troviamo nel pieno dell’esperienza democratica e, come avviene in ogni esperienza, non si sa mai in anticipo come si evolveranno le cose. Andiamo avanti, senza sapere dove stiamo andando”, dice Qadim.

Nella sala piena di fumo, dietro al bancone di legno scuro, una televisione trasmette dei dibattiti politici. “ Gli americani hanno perso tutte le loro scommesse dopo l’invasione dell’Iraq, tranne una: quella si installare una democrazia. È a questa che si aggrappano, ma il problema è che hanno dato vita soprattutto uno spettacolo politico e non si sono preoccupati di ricostruire uno Stato”.

Per Qadim, “ questo Stato è ancora molto debole. Gli sciiti pensano di non aver avuto nulla in trentacinque anni, e vogliono approfittare del potere per servirsene. E poi questa non è veramente un’elezione per gli iracheni, tutti i Paesi vicini si immischiano. Al-Maliki, al-Hakim, e Muqtada al-Sadr , ciascuno con la sua fazione, sono asserviti all’Iran. Allawi ha ricevuto il sostegno dell’Arabia Saudita e dell’Egitto, ma non è una democrazia, è una potenziale dittatura”.

C’erano voluti circa cinque mesi affinché l’Assemblea irachena, eletta nel dicembre 2005, si mettesse d’accordo sulla formazione del governo, e affinché Nuri al-Maliki, personaggio relativamente conosciuto, emergesse per difetto come Primo Ministro. I risultati del nuovo scrutinio non danno la maggioranza a nessuna delle grandi coalizioni, e le trattative si annunciano difficili.

Il test della democrazia, che devono affrontare i governanti, di lasciare il potere anziché arrivarci, e la fine del mandato di Nuri al-Maliki, che ha assegnato ai suoi uomini i posti chiave dell’apparato di sicurezza, resta la grande incognita delle prossime settimane.

Iyad Allawi, che ha appena fatto il suo grande ritorno sulla scena politica, si pone oggi come rivale del Primo Ministro uscente. “Non accetteremo di formare rapidamente un governo che porterà agli stessi fallimenti degli ultimi quattro anni”, ha annunciato ieri Allawi. “ Non accetteremo più il regno di un uomo e di un partito”.

venerdì 26 marzo 2010

Il vizietto della Chiesa

Qualche articolo su uno dei più antichi e comuni vizi della Chiesa cattolica: la pedofilia.


Prendeteli da piccoli
di Vania Lucia Gaito - www.bispensiero.it - 20 Marzo 2010

Il 2010 non è cominciato sotto i migliori auspici, per la chiesa tedesca. Dopo l'ondata di rivelazioni e rapporti che hanno svelato una serie infinita di abusi sistematici in Irlanda, è la volta della Germania. Un'ondata che, di giorno in giorno, assomiglia sempre di più all'ingrossarsi di uno tzunami.

Una faccenda gravissima per le tasche della Conferenza Episcopale Tedesca, una delle più "finanziate" dalla generosità dei fedeli, generosità che rischia di venir meno ad ogni rivelazione che si aggiunge a quelle, fin troppo scottanti, già rese note ai media.

Lo scandalo parte da una scuola, una delle più prestigiose della Germania, nella quale "si formano i leader". La scuola si chiama Canisius College, si trova a Berlino, è gestita dai gesuiti ed è effettivamente l'alma mater di molti politici, imprenditori e scenziati tedeschi.

Tra la fine di gennaio e l'inizio di febbraio di quest'anno, nel più assordante silenzio dei media italiani, una ventina di ex studenti della prestigiosa scuola hanno rivelato di essere stati vittime di sistematici abusi sessuali da parte dei sacerdoti dell'istituto.

I sacerdoti accusati sono due, Peter Riedel e Wolfgang Stab, che hanno lasciato la scuola già da diversi anni, per essere destinati ad altri incarichi. Stefan Dartmann, a capo dell'ordine dei Gesuiti in Germania, ha ammesso che i vertici dell'ordine avevano le prove degli abusi commessi dai due sacerdoti, e tuttavia non avevano mai informato i genitori, gli studenti o le autorità.

Semplicemente avevano trasferito, come sempre accade, lasciando che i due sacerdoti continuassero ad abusare dei bambini nelle loro nuove sedi in Germania, Messico, Cile e Spagna, dove erano di volta in volta trasferiti.

Di fronte alle rivelazioni delle vittime, i due sacerdoti hanno avuto reazioni completamente differenti. Peter Riedel, che nel 1986 fu aggredito con un coltello da una delle sue vittime che in seguito si tolse la vita, non ha mai ammesso gli abusi. Tuttavia le accuse contro di lui sono pesantissime.

Una delle vittime ha raccontato, tra l'altro, di un abuso avvenuto in uno scantinato nel giardino della scuola: padre Riedel lo aveva portato dentro e gli aveva ordinato di masturbarsi davanti a lui. "Chiunque volesse andare avanti in quella scuola doveva passare attraverso un simile degrado" ha affermato il testimone.

Del resto, già nel 1981 l'allora rettore del Canisius, Karl Heinz Fischer, aveva informato i vertici dell'ordine, delle accuse di abusi a carico di padre Riedel. In particolare aveva informato Rolf Dieter Pfahl, Padre Provinciale dei Gesuiti e, a sua volta, ex rettore del Canisius. Padre Pfahl, aveva convocato Riedel e poco dopo era arrivato il trasferimento del sacerdote ad altro incarico.

L'altro prete, padre Wolfgang Stab, che attualmente vive in Sudamerica dopo aver lasciato il Canisius nel 1992, ha invece ammesso gli abusi. E non solo. Ha affermato, infatti, di aver informato fin dal 1991 le autorità cattoliche tedesche dei propri crimini: 19 anni di abusi sistematici su bambini affidati alle sue cure.

Il 20 gennaio, in una lettera aperta alle sue vittime, padre Stab ha chiesto loro perdono ed ha affermato di aver informato il Vaticano, dicendo la nuda e cruda verità sui propri trascorsi.
"Mi dispiace per quello che vi ho fatto" scrive Stab. "E, se potete, vi chiedo di perdonarmi."

Ovviamente, i vertici dei Gesuiti sembrano cadere dalle nuvole. Anche padre Rolf Dieter Pfahl, il Padre Provinciale che aveva trasferito a suo tempo Riedel a causa delle accuse contro di lui. In una dichiarazione al Berliner Morgenpost ha sostenuto di non sapere nulla degli abusi: "Se avessi saputo, trent'anni fa, avrei agito immediatamente!" E infatti agì: trasferì il prete in un'altra zona.

Stefan Dartmann, a capo dei gesuiti in Germania, e il direttore del Canisius, Padre Klaus Mertes, in una conferenza stampa congiunta si sono scusati "per non aver reagito, all'epoca, nel modo appropriato". Ma ormai lo scandalo era già dilagato. E come nel gioco del domino, basta che caschi un pezzo perchè caschino tutti gli altri in sequenza.

Le accuse e le testimonianze, e non solo nei confronti dei sacerdoti del Canisius College, si sono moltiplicate in brevissimo tempo, finchè la Conferenza Episcopale tedesca è stata costretta a prendere provvedimenti, incaricando il vescovo di Treviri, monsignor Stephan Ackermann, di aprire una sistematica inchiesta nei ranghi della Chiesa stessa e delle scuole religiose per fare luce su ogni caso di abuso e molestia sessuale.

E così, di accusa in accusa, di rivelazione in rivelazione, si arriva a Ratisbona, luogo già noto per essere stato, in passato, teatro di un discorso papale tristemente famoso.

Il vescovo di Ratisbona, Gerhard Ludwig Müller, ha ammesso infatti che sono stati commessi abusi sessuali nell'ambiente del famosissimo coro di ragazzi di Ratisbona all'epoca in cui esso era diretto dal fratello di Papa Benedetto XVI. Il vescovo lo ha scritto in una lettera ai genitori pubblicata sul suo sito internet in cui afferma che «siamo fortemente impegnati a chiarire tutti i possibili casi».

Il portavoce del vescovo, Clemens Neck, ha poi dichiarato alla France Presse di «avere informazioni su presunti abusi commessi tra il 1958 e il 1973», sui quali «vogliamo si conduca un'inchiesta trasparente».

I responsabili dei presunti abusi sessuali su alcuni bambini del coro del duomo di Ratisbona sarebbero due religiosi, ambedue morti nel 1984, che per questo sarebbero stati anche condannati a pene detentive.

Uno era un ex insegnante di religione e vice direttore della scuola frequentata dai coristi che era stato rimosso nel 1958 dall'incarico. Anche l'altro religioso era stato per alcuni mesi direttore del collegio annesso al ginnasio del coro del duomo, prima di essere condannato nel 1971.

La diocesi di Ratisbona ha reso noto che istituirà una commissione d'inchiesta interna sul caso. Ai giornalisti l'ex direttore del coro e fratello del Pontefice, Georg Ratzinger, ha dichiarato di non essere mai venuto a conoscenza di alcun episodio di abuso sessuale.

L'ondata di scandali investe anche l'Olanda, dove sono state rese note 15 denunce contro dieci sacerdoti del collegio salesiano Don Rua. Il vescovo di Rotterdam, che presiede la Conferenza Episcopale olandese, ha aperto un'inchiesta. A sua volta, anche il ministro della Giustizia olandese ha avviato indagini sulla vicenda.

E tuttavia, tutti sono pronti a dichiararsi ignari, tutti sono pronti a chiedere scusa e asserire di non esser mai stati a conoscenza di nulla. Anche quelli che sapevano e trasferivano, incuranti di esporre nuovi bambini ai rischi di abuso.

Del resto, uno dei motti dei gesuiti recita "Prendeteli da piccoli e le possibilità sono infinite".


Memoria fallace
di Vania Lucia Gaito - www.bispensiero.it - 26 Marzo 2010

Fa specie sentire il portavoce del Vaticano, padre Federico Lombardi, parlare di tentativi accaniti di "coinvolgere personalmente il Santo Padre nella questione degli abusi" e dello scandalo della pedofilia.

Non me ne voglia, padre Lombardi, ma non c'è bisogno di tentativi, i fatti parlano da soli, basta metterli in fila. A cominciare dal principio, sgomberando il campo dalle chiacchiere.

Il fatto che gli ecclesiastici abbiano pruriti pedofili fin dalla notte dei tempi non c'è bisogno di inventarselo, lo dice un papa, per la precisione Leone X, e lo dice in un atto ben conosciuto, la Taxa Camerae, un documento vergognoso che, ad onta del Vangelo che condanna la simonia come peccato imperdonabile, promette il perdono in cambio di denaro.

I primi due dei 35 articoli di cui si compone la Taxa Camarae riguardano proprio gli ecclesiastici e i loro "peccati", in particolare il secondo articolo:
"Se l’ecclesiastico, oltre al peccato di fornicazione chiedesse d’essere assolto dal peccato contro natura o di bestialità, dovrà pagare 219 libbre, 15 soldi. Ma se avesse commesso peccato contro natura con bambini o bestie e non con una donna, pagherà solamente 131 libbre, 15 soldi."
Correva l'anno 1517. Poco meno di cinquecento anni fa. E la Chiesa già sapeva. Solo che fa più comodo, adesso, contare sulla memoria fallace o sulla non conoscenza di chi ascolta le chiacchiere dei vari portavoce.

Ho cominciato da troppo lontano? Veniamo ai giorni nostri, allora.

Nel 1962 il cardinale Ottaviani redige un documento noto come Crimen Sollicitationis
. Questo documento, prescrive ai vescovi come comportarsi quando un sacerdote viene denunciato per pedofilia.

Nel documento c'è scritto, in stampatello e ben evidente: "Servanda diligenter in archivio secreto curiae pro norma interna. Non publicanda nec ullis commentariis augenda", che vuol dire "Da conservare con cura negli archivi segreti della Curia come strettamente confidenziale. Da non pubblicare, né da integrare con alcun commento"

Il Crimen, in pratica, stabiliva una serie di norme da seguire nei casi di pedofilia clericale. Il processo canonico al sacerdote accusato era un processo diocesano, e a condurlo era il vescovo della diocesi cui il sacerdote apparteneva. Il Crimen va analizzato e "studiato" con cura, poichè è il vademecum che hanno seguito sempre i vescovi nei casi di pedofilia clericale. E fin dal principio risulta chiaro che la stessa esistenza del documento deve essere mantenuta segreta. Perchè?

Analizzando il testo nel dettaglio se ne comprende perfettamente il motivo. Intanto viene definito cosa intendere come peccato di provocazione: "Il crimine di provocazione avviene quando un prete tenta un penitente, chiunque esso sia, nell’atto della confessione, sia prima che immediatamente dopo, sia nello svolgersi della confessione che col solo pretesto della confessione, sia che avvenga al di fuori del momento della confessione nel confessionale, che in altro posto solitamente utilizzato per l’ascolto delle confessioni o in un posto usato per simulare l’intento di ascoltare una confessione." Insomma, praticamente sempre.

Un'altra prerogativa del Crimen è quella di accomunare l'abusatore all'abusato: entrambi peccatori per aver "fornicato", anche se l'abusato è stato circuito, plagiato, e, in molti casi, violentato.

Nel testo, infatti, (art.73, pag.23 del documento in latino) parlando di "crimine pessimo", intendendo l'abuso di un bambino o gli atti sessuali con un animale (perchè la Chiesa continua a paragonare, accomunare ed equiparare i bambini agli animali, come ai tempi della Taxa Camerae, a meno che il bambino non sia ancora nato e lì allora la sua vita diventa sacra e inviolabile), si legge che tale peccato è commesso dal sacerdote "cum impuberibus", cioè "con" il bambino, non "contro". Perchè, prima di tutto, viene la condanna del sesso, anche quando è fatto contro la propria volontà; poi tutto il resto.

Nei 74 articoli di cui è composto il Crimen, si impartiscono direttive precise. Quella più pressante riguarda sicuramente la segretezza, di cui tutto il documento è imbevuto. Ma cosa prescrive il Crimen? Fondamentalmente questo: coprire, celare, trasferire.

L'articolo 4 dice infatti che non c’è nulla che impedisca ai vescovi "se per caso capiti loro di scoprire uno dei loro sottoposti delinquere nell’amministrazione del sacramento della Penitenza, di poter e dover diligentemente monitorare questa persona, ammonirlo e correggerlo e, se il caso lo richiede, sollevarlo da alcune incombenze.

Avranno anche la possibilità di trasferirlo
, a meno che l’Ordinario del posto non lo abbia proibito perché ha già accettato la denuncia e ha cominciato l’indagine." Quindi, se si sa che il sacerdote è un pedofilo ma non è stato aperto un processo canonico a suo carico, non c'è nulla che impedisca al vescovo di trasferirlo.

E se invece c'è una denuncia al vescovo? Prima di tutto, la segretezza. Viene fatto giurare a tutti (esistono formule apposite, riportate nel Crimen) di mantenere il segreto, sotto pena di scomunica.

Devono mantenere il segreto i membri del tribunale diocesano che "indagano" sulla denuncia, deve mantenere il segreto l'accusato e devono mantenere il segreto anche gli accusatori e i testimoni, pena la scomunica immediata, ipso facto e latae sententiae.

Sì, certo, anche la vittima ed eventuali testimoni: "Il giuramento di segretezza deve essere in questi casi fatto fare anche all'accusatore o a quelli che hanno denunciato il prete o ai testimoni." (Crimen sollicitationis, art. 13, pag. 8 del testo in latino)

"Prometto, mi obbligo e giuro che manterrò inviolabilmente il segreto su ogni e qualsiasi notizia, di cui io sia messo al corrente nell'esercizio del mio incarico, escluse solo quelle legittimamente pubblicate al termine e durante il procedimento" recita la formula A del Crimen.

Tuttavia, all'articolo 11 viene specificato che tale silenzio deve essere perpetuo: "Nel trattare queste cause la cosa che deve essere maggiormente curata e rispettata è che esse devono avere corso segretissimo e che siano sotto il vincolo del silenzio perpetuo una volta che si siano chiuse e mandate in esecuzione.

Tutti coloro che entrino a far parte a vario titolo del tribunale giudicante o che vengano a conoscenza dei fatti per la propria posizione devono osservare il rispetto più assoluto del segreto - che dev’essere considerato come segreto del Santo Uffizio - su tutti i fatti e le persone, pena la scomunica ‘lata sententiae’ ‘ipso facto’ e senza nessuna menzione sulla motivazione della scomunica che spetta al Supremo Pontefice, e sono obbligati a mantenere l’inviolabilità del segreto senza eccezione nemmeno per la Sacrae Poenitentiariae."

Tutto questo si è tradotto per decenni in una prassi vergognosa che includeva il trasferimento dei preti pedofili di parrocchia in parrocchia e la richiesta alle vittime di mantenere il segreto, magari tacitandole con piccole somme, sapendo che in molti casi le vittime venivano da ambienti già disagiati e mai avrebbero affrontato la vergogna e le spese di una denuncia alle autorità civili.

Una volta concluso il processo diocesano, se c'erano prove sufficienti a condannare il prete pedofilo (e, caso strano, pare non si siano quasi mai trovate), gli atti dovevano essere trasmessi, sempre in totale segretezza, all'allora Santo Uffizio, poi divenuto Congregazione per la Dottrina della Fede. In caso non ci fossero prove sufficienti, gli atti dovevano invece essere distrutti.


Ma come mai così poche condanne da parte dei tribunali diocesani? Anche qui, il Crimen detta prescrizioni precise. Innanzitutto, a decidere se la denuncia è fondata o meno è l'ordinario diocesano, cioè il vescovo.

Inoltre il documento prescrive: "Se comunque ci sono indicazioni di un crimine abbastanza serie ma non ancora sufficenti a instituire un processo accusatorio, specialmente quando solo una o due denunce sono state fatte, o quando invece il processo è stato tenuto con diligenza, ma non sono state portate prove, o queste non erano sufficienti, o addirittura si sono trovate molte prove ma con procedure incerte o con procedure carenti, l'accusato dovrebbe essere ammonito paternamente, seriamente, o ancora più seriamente secondo i diversi casi, secondo le norme del Canone 2307 [...] gli atti, come sopra, dovrebbero essere tenuti negli archivi e nel frattempo dovrebbe essere fatto un controllo morale sull'accusato."

Chi decide se le prove sono consistenti e sufficienti? Sempre l'ordinario diocesano.


Il Crimen prescrive anche cosa fare nel caso in cui il sacerdote sia stato ammonito ma il vescovo riceve nuove denunce contro di lui: "Se, dopo la prima ammonizione, arrivano contro lo stesso soggetto altre accuse riguardanti crimini di provocazione precedenti l’ammonizione, l’Ordinario dovrebbe vedere, secondo la propria coscienza e giudizio, se la prima ammonizione può essere considerata sufficiente o se procedere a una nuova ammonizione oppure ad eventuali misure successive."

Con queste premesse, è ovvio che siano in pochissimi i sacerdoti condannati dai tribunali diocesani: i vescovi si limitavano ad ammonire e trasferire, molto spesso solo a trasferire. E la tutela dei bambini? Mai presa in considerazione.

A fare un bilancio della situazione a posteriori, il Crimen non è servito in alcun modo ad arginare il problema della pedofilia clericale, è stato invece utile alla Chiesa a "lavare i panni sporchi in famiglia".

Solo che, con l'andare del tempo, i panni sporchi sono aumentati in maniera sproporzionata. La politica dello struzzo non paga mai, e in questo caso si è dimostrata letale. Negli anni, infatti, gli abusi non sono diminuiti, anzi, il problema si è incancrenito e le vittime sono diventate migliaia.

Non è neppure lontanamente credibile la professione di ignoranza fatta da vescovi e prelati chiamati a rispondere nei tribunali penali, e non diocesani, del loro operato. E sono sempre i fatti a smentirli. Primo fra tutti l'esistenza di una congregazione religiosa dedicata esclusivamente alla cura dei sacerdoti: i Servi del Paraclito.

Poco nota, se non agli "addetti ai lavori", la congregazione dei Servi del Paraclito viene fondata nel 1942 dal sacerdote statunitense Gerald Fitzgerald, a Jemez Springs (Nuovo Messico), con lo scopo di dedicarsi all'assistenza ai sacerdoti in particolare condizioni giuridiche e morali.

Inizialmente, arrivavano a Jemez Springs soprattutto sacerdoti con problemi di alcolismo, ma dal 1965 i Servi del Paraclito cominciarono a trattare anche i sacerdoti pedofili. Con scarsissimi, se non nulli, risultati.

Lo stesso fondatore, che dal principio si era opposto alla possibilità di accogliere preti con tali problematiche, fin dagli anni cinquanta inviò numerose lettere a vescovi, arcivescovi ed esponenti della Curia Romana in cui faceva presente la necessità di allontanare dal sacerdozio i preti coinvolti in casi di pedofilia. In una di queste lettere, indirizzata al cofondatore della congregazione, scriveva:

"Reverendissimo e Carissimo Arcivescovo,
Carissimo cofondatore

Spero che Sua Eccellenza sia d'accordo e approvi quello che io considero una decisione vitale, da parte nostra: per prevenire uno scandalo che potrebbe danneggiare il buon nome di Via Coeli, non offriremo ospitalità ad uomini che abbiano sedotto o tentato di sedurre, bambini o bambine.

Eccellenza, questi uomini sono diavoli e l'ira di Dio ricade su di essi e, se io fossi un vescovo, tremerei se non facessi rapporto a Roma per chiedere la loro forzata riduzione allo stato laicale.

E' blasfemo lasciare che celebrino il Santo Sacrificio. Se i singoli vescovi fanno pressione su di lei, Eccellenza, può dire loro che l'esperienza ci ha insegnato che questi uomini sono troppo pericolosi per i bambini della parrocchia e per il vicinato, sicchè siamo giustificati nel nostro rifiuto di accoglierli qui. Sua Eccellenza può inoltre dire, se lo desidera, che non intende interferire con la regola che l'esperienza ha dettato.

Proprio per queste serpi ho sempre auspicato il ritiro su un'isola, ma anche un'isola è troppo per queste vipere di cui il Gentile Maestro ha detto che sarebbe stato meglio se non fossero mai nati; il che è un modo indiretto di maledirli, non crede?

Quando vedrò il santo padre, dirò a Sua Santità che devono essere ridotti ipso facto allo stato laicale, immediatamente
."

Inutile dire come andò a finire: la politica dello struzzo prevalse e la congregazione accolse i preti pedofili per quello che, caritatevolmente, può essere definito un tentativo di cura.

Un caso fra tutti può essere esemplificativo: padre James Porter arrivò a Jemez Springs nel 1967, dopo essere stato destituito da tre incarichi, ogni volta per problemi di pedofilia.

Eppure, padre John B. Feit, superiore dei Servi del Paraclito, scrisse per lui accorate lettere di raccomandazione che gli fecero ottenere, alla fine del "trattamento" una diocesi nel Minnesota, dove, appena arrivato, ricominciò gli abusi.

In realtà, Jemez Springs divenne nota come "il carcere dei preti" e funzionò come un "parcheggio" per i sacerdoti su cui pendevano denunce di abusi. Nel 1994, la congregazione dovette chiudere l'esperimento di riabilitazione dei preti pedofili: 17 preti furono coinvolti nel '91, in 140 cause per abusi sessuali e la Curia pagò 50 milioni di dollari in accordi stragiudiziali.

Identica politica fu seguita dalla Chiesa ogni qualvolta fu messa di fronte alla problematica della pedofilia clericale. Nel maggio 1985 a tutti i vescovi statunitensi fu consegnato un documento noto come "Il manuale", redatto da due preti e un avvocato: padre Michael Peterson, psichiatra della clinica di S. Luke, il domenicano canonista padre Thomas Doyle e l’avvocato Ray Mouton.

Il manuale analizza il problema della pedofilia clericale e le conseguenze, economiche e morali, per la chiesa cattolica. Fornisce direttive per affrontare il problema, ma viene totalmente ignorato.

Il risultato anche in questo caso è evidente: milioni di dollari in risarcimenti, diocesi in fallimento o prossime alla bancarotta, un drastico calo di fedeli e soprattutto delle loro generose donazioni.

Lo scandalo, venuto a galla negli Stati Uniti, è solo l'inizio. Altrettanti scandali travolgono l'Australia, il Sudamerica, il Messico, il Canada, l'Alaska, la Polonia, l'Irlanda, la Spagna, l'Inghilterra, la Germania, l'Olanda e moltissimi paesi africani.

Una vergogna dietro l'altra, si svelano i retroscena di sacerdoti che hanno molestato, abusato, violentato decine di bambini, alcuni piccolissimi.

Così, nel 2001, il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede dal 25 novembre 1981 fino alla sua nomina al soglio pontificio, promulgò un epistola nota come De Delictis Gravioribus o come Ad exsequandam.

In essa richiamava il Crimen sollicitationis e avocava un diretto controllo, da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede, sui "crimini più gravi", compresi gli abusi sui minori.

Per quella lettera, il cardinale Ratzinger fu citato in giudizio dall'avvocato Daniel Shea davanti al tribunale dalla Corte distrettuale della contea di Harris (Texas), dove fu accusato di "ostruzione alla giustizia".

Secondo l'accusa, infatti, il documento della Congregazione avrebbe favorito la copertura di prelati coinvolti nei casi di molestie sessuali ai danni di minori negli Stati Uniti. Nel febbraio 2005 fu emanato dalla corte un ordine di comparizione per il cardinale Joseph Ratzinger.

Il 19 aprile 2005, il cardinale Ratzinger fu eletto papa e i suoi legali negli Stati Uniti si rivolsero al Dipartimento di Stato chiedendo l'immunità diplomatica per il loro assistito. L'Amministrazione Bush acconsentì e Joseph Ratzinger fu esonerato dal processo.

Tuttavia, anche non tenendo conto di questo "incidente di percorso", sorgono naturali molti interrogativi sull'operato di Ratzinger come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. E, altrettanto naturali, sorgono molti dubbi sulla sua "presa di posizione" drastica e rigorosa nei confronti della pedofilia clericale.

Che fosse ben informato di quanto fosse grave e profonda la piaga degli abusi fra il clero lo afferma lo stesso Ratzinger, nella memorabile nona stazione della Via Crucis del 2005, quando sostituì Giovanni Paolo II ormai morente: "Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui!"


E tuttavia, pur consapevole della "sporcizia", il Prefetto non si armò mai di ramazza per far pulizia. Anzi, in molti casi "celebri" la Congregazione fu assurdamente lenta e le vittime dovettero ricorrere ai giornali per avere almeno una parvenza di giustizia.
Il caso più tristemente famoso è senza dubbio quello che riguarda il fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel Degollado.

Il Vaticano era a conoscenza di molte ombre sull'operato del sacerdote, fin dal 1956, quando il cardinale Valeri lo trovò nella clinica romana Salvator Mundi molto malridotto per l'abuso di morfina.

Tuttavia, i procedimenti a carico del fondatore dei Legionari di Cristo non ebbero mai alcun esito, neppure quando, nel 1978 l´ex presidente dei Legionari negli Stati Uniti, Juan Vaca, con un esposto a papa Giovanni Paolo II, accusò Maciel di comportamenti peccaminosi con lui quand´era ragazzo. Nel 1989 Vaca ripresenta a Roma le sue accuse.

Senza risposta, sebbene Ratzinger fosse già dal 1981 a capo dell'ex Santo Uffizio. A febbraio del 1997 con una denuncia pubblica, otto importanti ex Legionari accusano Maciel di aver abusato di loro negli anni Cinquanta e Sessanta.

Nel 1998, il 17 ottobre, due degli otto accusanti, Arturo Jurado Guzman e José Barba Martin, accompagnati dall´avvocato Martha Wegan, incontrano in Vaticano il sottosegretario della Congregazione vaticana per la dottrina della fede, Gianfranco Girotti, e chiedono la formale apertura di un processo canonico contro Maciel.

Il 31 luglio del 2000 Barba Martin, assieme all’avvocato Wegan, incontra di nuovo in Vaticano monsignor Girotti. Ma sempre senza alcun risultato.

Finchè, nel 2006, appena cinquant'anni dopo le prime denunce, finalmente la Congregazione per la Dottrina della Fede prende una risoluzione esemplare: invita padre Maciel a ritirarsi ad una vita di preghiera e meditazione.


Oggi, a distanza di pochi anni, continuano a spuntare scandali che riguardano Maciel e i Legionari, come la presenza (accertata) di una figlia in Spagna, frutto di una violenza ad una minorenne, diversi presunti figli in Messico, dei quali, tra l'altro, non si sarebbe fatto scrupolo di abusare. Insomma, il Vaticano ha aperto un'inchiesta. Molto rassicurante.

Stessa sorte subita, più o meno, da procedimenti a carico di sacerdoti italiani. Celebre il caso di don Cantini in Toscana, per esempio. Stranamente, la Congregazione guidata da Ratzinger ha sempre impiegato decenni ad indagare sui sacerdoti pedofili, soprattutto quando si trattava di sacerdoti influenti, salvo poi scoprire che, a causa del tempo trascorso, il delitto era caduto in prescrizione.

Ad onor del vero, c'è da dire che in alcuni casi sono anche state comminate condanne da far tremare i polsi: litanie alla Madonna, rosari, perfino divieto di celebrare messa in pubblico. Se non è "tolleranza zero" questa...

Poi viene fuori che il fratello del papa distribuiva scapaccioni ai membri del coro da lui diretto e che sapeva che il rettore dell'Internat, il convitto in cui i coristi vivevano, li picchiava sistematicamente, con durezza e spesso persino senza alcun motivo che potesse spingerlo a decidere una punizione.

E tuttavia non aveva mai fatto nè detto nulla perchè, essendo il convitto un'istituzione indipendente, non aveva il potere di denunciarlo
. Certo, perchè serve "essere autorizzati" per denunciare violenze e abusi. Non basta l'amore per il prossimo, quello per cui Cristo s'è fatto mettere in croce. Non basta il senso di giustizia, non basta il desiderio di tutelare i bambini.

Salvo poi scusarsi, vent'anni, trent'anni dopo, e solo dopo che si è sollevato lo scandalo
. Questo desiderio di scusarsi come mai non è mai stato avvertito prima che l'ex direttore del coro finisse nell'occhio del ciclone e sulle pagine dei giornali?

Senza parlare delle prese di posizione nettissime di papa Ratzinger. Un esempio? Il suo ultimo viaggio negli Stati Uniti, nel corso del quale, tra i festeggiamenti del suo compleanno con Bush alla Casa Bianca e la visita a Ground Zero, il Papa ha sostenuto l'inconciliabilità tra il sacerdozio e la pedofilia. Praticamente la scoperta dell'acqua calda.

Senza contare che in quella visita non era stato neppure previsto un incontro con le vittime. Ratzinger fu spinto dall'opinione pubblica e dai media americani ad un incontro estemporaneo con quello che i giornali italiani hanno caritatevolmente definito "un gruppo di vittime": cinque persone ricevute in piedi, meno di mezz'ora in tutto, nella cappella privata della nunziatura apostolica di Washington.

Contemporaneamente, però, ospiti del papa durante quel viaggio sono stati tre vescovi celebri per aver coperto i preti pedofili: il cardinale Egan e il cardinale Mahony, che sono stati gli anfitrioni di Ratzinger durante i giorni trascorsi a New York, e il cardinale Francis George, che ha accolto il papa a Washington.

Dunque, fuori dalle chiacchiere e dai proclami, i fatti, nudi e crudi, parlano da soli.
E' questa la "tolleranza zero" di cui il Vaticano fa tanto parlare?


I peccati di Murphy
di Vania Lucia Gaito - http://viaggionelsilenzio.ilcannocchiale.it - 25 Marzo 2010

Il 28 agosto 1998, il vescovo Richard Skiba, celebrando un funerale, disse: "Ho una teoria sul giudizio finale che aspetta ciascuno di noi... solo una teoria, ma che mi da' molto conforto e molta speranza.

Io non credo che il giudizio finale avvenga quando tutti i nostri segreti peccati sono rivelati al mondo intero. Infatti, sarebbe un po' arrogante pensare che il mondo intero sia interessato a conoscere i peccati segreti di ognuno."

Il funerale era quello di padre Lawrence C. Murphy, abusatore di oltre 200 bambini sordomuti, coperto dalla Chiesa fino al giorno della sua morte.
Si sbagliava, il vescovo Skiba: i segreti peccati di Murphy avrebbero dovuto essere rivelati, almeno perchè il mondo potesse difendersi da lui.

Ma quell'omelia era l'ultimo, pietoso tentativo di copertura, una copertura durata decenni, messa in pratica a tutti i livelli, fino a quelli più alti, che avevano consentito a Murphy di vivere indisturbato, protetto dalla tonaca e dal Vaticano, nonostante avesse rovinato almeno 200 giovani vite...

Ordinato sacerdote nel 1950, Lawrence Murphy fu assegnato alla St. John School, una scuola per bambini sordi, con la mansione di cappellano prima e di direttore poi. Una vecchia foto ritrae un gruppo di ragazzi, la squadra di pallacanestro della scuola, alcuni in piedi, altri accovacciati, e in mezzo a loro un uomo con una lunga tonaca nera e un pallone in mano.

Cinque di quegli undici ragazzi nella foto erano vittime del sacerdote ritratto insieme a loro. Eppure nessuno lo avrebbe mai sospettato, nessun genitore ebbe mai neppure un dubbio.

Padre Murphy sembrava un uomo eccezionale: non era molto alto, ma aveva un sorriso capace di sciogliere anche il ghiaccio, aveva preso a cuore il benessere dei bambini sordi e si faceva in quattro, organizzando raccolte di fondi, conferenze, eventi benefici, accettando contributi alla scuola per migliaia di dollari, allenando personalmente la squadra di pallacanestro.

Nelle sue mani l'istituto si era trasformato: al vecchio edifico del secolo precedente s'era aggiunta una nuova ala, poi una piscina, poi una palestra, poi un campo da basket. I genitori dei bambini lo adoravano, e descrivevano la messa celebrata da padre Murphy come un grande evento spirituale.

Il suo lato oscuro forse non sarebbe mai stato conosciuto se tre delle sue vittime, dopo aver lasciato la scuola, non si fossero raccontate l'un l'altro quello che avevano subito. Era il 1974.

Un anno prima un ragazzo della St. John era andato al dipartimento di polizia e aveva accusato Murphy di abusi, ma Murphy, insieme ad un altro insegnante della scuola, si era presentato alla polizia sostenendo che il ragazzo fosse mentalmente disturbato, e il caso era stato archiviato.


Del resto, padre Murphy era un pilastro della comunità, amatissimo, e aveva perfino ricevuto, pochi mesi prima, la American Legion Award per il suo impegno a favore del benessere dei bambini. Come non credergli?

"Eppure io sapevo che continuava a molestare i bambini" afferma Bolger, una delle sue vittime. Così, contattò altri ex allievi della scuola, e scoprì che altri erano stati abusati. Tuttavia, quando denunciarono il sacerdote alle autorità, scoprirono che il reato era caduto in prescrizione. Murphy negò tutte le accuse e, di nuovo, le indagini si bloccarono.

Le vittime si rivolsero così all'arcidiocesi di Milwaukee, retta dal vescovo Cousins. Vennero raccolte una ventina di testimonianze giurate e furono consegnate al vescovo. Cousins chiese di incontrare alcuni degli accusatori e l'incontro fu fissato per il 9 maggio 1974. C'era anche padre Murphy.

"Ci sedemmo su cinque o sei sedie vicine all'arcivescovo" ricorda Conway. "Padre Murphy era seduto accanto a me. C'erano una dozzina di persone in tutto, nella stanza. Alcuni lavoravano al St. John. Padre Murphy fu quasi timido, durante quell'incontro. Non disse una parola. E non alzò gli occhi da terra"

L'arcivescovo spiegò ai presenti che da anni la diocesi era a conoscenza del problema degli abusi, affermò di capire le motivazioni di tutti coloro che chiedevano che padre Murphy fosse rimosso dalla scuola, e tuttavia padre Murphy era troppo importante per la scuola e non potevano rimuoverlo
. Potevano però evitare che avesse contatti con i bambini.

In fondo, Murphy aveva fatto molto per la comunità dei sordi. Un discorso, insomma, che lasciava tutte le cose com'erano e fece andar via le vittime piene di disgusto.
"Guidando verso casa, continuavo a piangere e piangere. Ero sconvolto dal dolore" racconta Budzinski, una delle vittime presenti all'incontro.

Invece, il 18 maggio 1974, il Catholic Herald Citizen annunciò che padre Murphy aveva lasciato l'incarico di direttore della scuola e tutti gli incarichi sia di insegnamento che pastorali per occuparsi di altri doveri sempre relativi al St. John. Tuttavia, pochi mesi dopo, lo stesso giornale diede la notizia delle dimissioni di Murphy a causa di problemi di salute.

L'anno seguente, Murphy fu nuovamente portato in tribunale con l'accusa di abusi sessuali. Il vescovo Cousins testimoniò di fronte alla corte giurando che nel corso delle indagini che la diocesi aveva svolto non era mai emerso nulla a carico del sacerdote, che era un uomo onesto e si era sempre sacrificato per la scuola. Anche la nuova denuncia fu lasciata cadere.

Dal 1974 al 1994, Murphy collaborò con una delle parrocchie della diocesi, Sant'Anna, ma negli annuari dicesani non fu mai specificato che tipo di incarico ricoprisse. Si ritirò nel 1994 e morì quattro anni dopo.

Ma cosa era accaduto nelle segrete stanze della diocesi, come mai padre Murphy lasciò l'incarico col pretesto della salute cagionevole e soprattutto, che fine fecero le accuse contro di lui e le testimonianze scritte affidate al vescovo Cousins?

Un memorandum datato 11 settembre 1974 spiega alcune cose: la situazione è diventata scottante, è meglio allontanare il sacerdote. Sul giornale diocesano e sul Catholic Herald Citizen verrà pubblicata la notizia delle dimissioni di Murphy a causa della cattiva salute, e il prete sarà trasferito alla diocesi di Superior.

Non è dato sapere se il vescovo di Superior fosse informato dei trascorsi del sacerdote, ma dopo qualche anno dal trasferimento, il 9 luglio 1980, il vescovo ausiliario della diocesi di Superior scrive al vicario diocesano della diocesi di Milwaukee:
"Non molto tempo fa, in una conversazione con padre Murphy, è divenuto chiaro che è interessato a chiarire il suo status e la sua relazione con la diocesi di Milwaukee. E' molto desideroso di ottenere un incontro, ovunque e in qualunque momento, per mettere il suo talento e il suo apostolato al servizio della comunità dei sordi. E' molto desideroso di tornare nell'Arcidiocesi di Milwaukee, a riprendere il suo ministero nella comunità dei sordi adulti. Spera anche di avere altre possibilità, se necessario.
In una recente conversazione con l'arcivescovo Weakland, ho avuto l'impressione che non sia ravvisabile in questo momento un ritorno a Milwaukee di padre Murphy, per ripredere il suo lavoro con i sordi. Mi chiedo se posso imporre alla tua gentilezza e ai tuoi uffici di perorare questa causa con me. Io credo che padre Murphy abbia un grande dono da offrire, specialmente nell'apostolato con i non-udenti."

Al vescovo Cousins era succeduto il vescovo Weakland nella guida della diocesi di Milwaukee e, appena insediato, il nuovo ordinario si era trovato per le mani due patate bollenti, quella di Murphy e quella di un altro sacerdote pedofilo. Le vittime di padre Murphy non si erano mai rassegnate a "dimenticare e perdonare" e continuavano ad arrivare denunce, col pericolo che ad ogni momento scoppiasse uno scandalo.

Così, l'arcivescovo scrive al cardinale Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede:

"Sua Eminenza,
le scrivo per informarla di due situazioni nelle quali due preti di questa arcidiocesi sono stati accusati di adescamento di un penitente al fine di commettere peccato contro il sesto comandamento del Decalogo (c. 1387). I casi sono completamente scollegati e sono accaduti in due diversi periodi di tempo, ma solo di recente sono venuti alla luce. Ho bisogno quindi del suo parere sulla procedura da seguire.
Poco prima che cominciasse il mio periodo sabbatico, il 1 gennaio 1996, ordinai al mio vicecancelliere, il reverendo James E. Connell, di indagare sulle accuse fatte ai due sacerdoti. Al mio ritorno, il 1 luglio, padre Connell mi ha informato che in entrambi i casi le testimonianze giurate sostengono le accuse summenzionate. Padre Connell crede che le testimonianze siano state rese in buona fede e devono essere tenute in seria considerazione, e io sono d'accordo con lui.
Il primo caso riguarda il reverendo Lawrence C. Murphy, prima cappellano e poi direttore della Scuola per Sordi St. John, a Milwaukee, fra il 1950 e il 1974. Secondo le persone che hanno reso la testimonianza giurata, padre Murphy usava il confessionale per sollecitare atti peccaminosi contro il sesto comandamento del Decalogo, molti studenti furono adescati in questo modo e siamo sul punto di ricevere ulteriori testimonianze da altre persone.
Sebbene le prove contro padre Murphy siano state esaminate anche dal mio predecessore, poichè facevano parte di un processo civile, poi archiviato, contro il sacerdote, è questa la prima volta che vengo a conoscenza di abusi dal confessionale. Credo che la comunità dei sordomuti tenda a tenere per sè i propri problemi e certe faccende imbarazzanti, e questo spiega la riluttanza delle vittime a denunciare l'accaduto.
Padre Murphy è stato ordinato prete nel maggio del 1950, la sua assenza dura dal settembre del 1974 e non è mai vissuto nel territorio dell'arcidiocesi di Milwaukee da quando sono arcivescovo. Appena ricevetti l'incarico, mi fu reso noto che l'assenza di padre Murphy era dovuta a faccende sessuali, ma meno di un anno fa ho saputo che l'adescamento dal confessionale rientrasse nella questione. E' stato allora che ho chiesto a padre Connell di condurre un'indagine.
La mia attuale preoccupazione non è solo per la giustizia, è necessario soprattutto che la Chiesa dia una risposta alla comunità dei sordomuti di questa diocesi, in modo da placare la loro rabbia e ristabilire la loro fiducia nel ministero ecclesiastico.[...]
Ho discusso i particolari del caso col mio canonista e ci chiediamo se un processo canonico sia appropriato, considerando il tempo trascorso, o se questa particolare materia sia riservata alla Congregazione per la Dottrina della Fede [...]"

Nel dicembre del 1996, l'arcidiocesi di Milwaukee inizia un processo diocesano contro padre Murphy, in attesa di una risposta dalla Congregazione o da Ratzinger. Ma la risposta non arriva, e allora l'arcivescovo Weakland scrive al cardinale Gilberto Agustoni, Prefetto del Supremo Tribunale della Signatura Apostolica.

Gli racconta di aver scritto a Ratzinger e di non aver ricevuto risposta, gli esprime il caso e affida la lettera al cardinale Agostini Cacciavillan, Nunzio Apostolico.

Il cardinale Agustoni risponde: la Signatura non ha competenza sul caso, inoltra tutto alla Congregazione di Ratzinger. E arriva anche la risposta dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, firmata dal cardinale Tarcisio Bertone:

"Nella sua lettera del 11 dicembre 1996, ha chiesto quale fosse la procedura da seguire nei casi di Lawrence C. Murphy e Michael T. Neuberger, sacerdoti della diocesi accusati del crimine di adescamento dal confessionale.
La Congregazione chiede di istruire i rispettivi processi in accordo con l'allegato "Instructio de modo procedendii in causis sollicitationis" [il Crimen sollicitationis n.d.r.] con particolare riferimento agli articoli 5 e 55. Benchè le norme di quel documento siano in vigore, devono essere lette alla luce del nuovo diritto canonico, soprattutto rispetto ai rimandi al canone."

Il cardinale Bertone chiedeva quindi di istruire i processi come previsto dal Crimen, quindi segretezza assoluta. Tuttavia c'era un conflitto, poichè padre Murphy apparteneva diocesi Milwaukee ma risiedeva nella diocesi di Superior e il vescovo Fliss avocò il procedimento.

Il 12 gennaio 1998 padre Murphy scrisse a Ratzinger:

"Sono un prete della arcidiocesi di Milwaukee, vivo nella diocesi di Superior nel Wisconsin. Le scrivo per un procedimento a mio carico portato avanti dalla diocesi di Superior e iniziato nella diocesi di Milwaukee. E' un procedimento che chiede la mia dimissione dallo stato clericale, usando le norme istituite dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1962, intitolate "De modo procedendii in causis sollicitationis".
Il mio caso può essere riassunto così: nel 1974 mi dimisi dalla Scuola per Sordi St. John, St. Francis, Wisconsin, nell'arcidiocesi di Milwaukee, a causa di accuse di cattiva condotta sessuale. L'arcivescovo Cousins, all'epoca arcivescovo di Milwaukee, fu d'accordo nel farmi risiedere presso la casa estiva della mia famiglia, presso la diocesi di Superior. Sono vissuto lì finora.
Il mio ministero non è mai stato limitato, ma non ho più ricevuto incarichi pastorali. A causa della mia abilità nel "linguaggio dei segni", comunque, di tanto in tanto venivo chiamato ad aiutare in questo campo. E, poichè il mio ministero non è mai stato limitato, venivo anche chiamato ad assistere il parroco locale. Contro di me non ci sono state ulteriori accuse fin da quando ho lasciato la scuola St. John nel 1974.
Circa cinque anni fa, comunque, alcuni ex studenti della St. John contattarono la diocesi di Milwaukee, rilanciando accuse contro di me. Non c'erano prove di una mia cattiva condotta recente, ma erano accuse per offese perpetrate tra il 1963 e il 1969. Alcune delle prove riguardano adescamenti dal confessionale.

Dopo queste accuse, secondo le norme del 1962, l'arcidiocesi di Milwaukee cominciò un procedimento penale contro di me, per dimettermi dallo stato clericale. Quando il mio avvocato, il rev. Patrick R. Lagges, dell'arcidiocesi di Chicago, sottolineò che era intervenuta la prescrizione, l'arcidiocesi di Milwaukee tentò di istruire un processo basato sull'adescamento dal confessionale.
Il mio avvocato sottolineò che tale processo doveva essere istituito dalla diocesi di Superior, nella quale vivo, quindi l'arcidiocesi di Milwaukee chiese alla diocesi di Superior di cominciare un processo secondo le norme del 1962 pubblicate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Un decreto del 6 gennaio 1998 mi informava di questo fatto. La diocesi di Superior sta usando il personale dell'arcidiocesi di Milwaukee per portare avanti il caso.

Mi appello alla Congregazione per la Dottrina della Fede per questa ragione: chiedo che la Congregazione dichiari l'invalidità del decreto di citazione della diocesi di Superior. Le accuse contro di me risalgono ad azioni commesse più di venticinque anni fa. E' contro le norme del 1962, che stabiliscono che qualsiasi azione debba essere intrapresa entro un mese dalle accuse di adescamento.
Ho settantadue anni, Eminenza, e non sono in buona salute. Ho di recente avuto un nuovo attacco che mi ha lasciato indebolito. Ho seguito le direttive sia del vescovo Cousins sia del vescovo Weakland. Sono pentito per le trasgressioni del passato, e sono vissuto in pace nel nord del Wisconsin per venticinque anni. Semplicemente, voglio vivere il tempo che mi resta nella dignità del sacerdozio. Chiedo il suo intervento per questo."

Il cardinale Bertone scrisse quindi alla diocesi di Superior:

"Tenendo in considerazione quanto espresso da padre Murphy nella sua lettera, e prima di decidere circa un procedimento giudiziario per stabilire le responsabilità canoniche del prete accusato, questa congregazione invita Sua Eccellenza alla cautela su quanto il canone 1341 propone come misure pastorali destinate ad ottenere la riparazione dello scandalo e il ripristino della giustizia."

Il 30 maggio 1998, nella sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, si incontrano il cardinale Bertone, monsignor Girotti, Don Antonio Manna dell'Ufficio Disciplinare, padre Antonio Ramos con monsignor Weakland, arcivescovo di Milwaukee, il suo vescovo ausiliare, monsignor Skiba, e monsignor Fliss, vescovo di Superior.

Ecco l'estratto della riunione spedito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede al vescovo Fliss.


Duecento bambini abusati contano molto meno di un sacerdote. Un ammonimento e il divieto di celebrare messa nella diocesi di Milwaukee possono bastare, suvvia. E i portavoce si stracciano le vesti tentando ancora di raccontarci la favola dei complotti anticlericali.

Io sono senza parole. Loro sono senza vergogna.