mercoledì 28 dicembre 2011

News Shake

Torna la rubrica News Shake, notizie a caso ma non per caso...


Iraq: vittoria o sconfitta degli Usa?
di Gian Carlo Caprino - www.clarissa.it - 23 Dicembre 2011

Inserisci linkNegli scorsi giorni si è concluso il ritiro delle truppe americane dall'Iraq; ritiro pressoché completo: resteranno infatti (ufficialmente) soltanto 150 soldati USA, a difesa dell'elefantiaca ambasciata americana a Baghdad, ed un migliaio di "contractors", cioè mercenari pagati sino a mille dollari al giorno ed incaricati di lavori di "sorveglianza" degli interessi economici statunitensi.

La fine dell'occupazione dell'Iraq ha però qualcosa che stona con la prassi delle guerre vinte (ma stavolta hanno vinto?) dagli USA; tale prassi prevede infatti l'occupazione del Paese nemico, l'annientamento degli avversari, il processo "purificatore" ai vinti (in questo caso l'impiccagione di Saddam Hussein e di altri gerarchi),

la costituzione di un governo "amico" e, infine, la creazione di un sistema di presidio militare che sostituisca l'occupazione vera e propria attraverso la creazione di basi militari, al di fuori di qualsiasi giurisdizione del Paese ospitante, che assicurino il controllo interno e la proiezione verso eventuali Paesi vicini.

Nel nostro caso viene a mancare l'ultimo passo: cioè la presenza di basi militari permanenti in territorio iracheno. Questa mancanza è dovuta al rifiuto categorico del governo di Nouri Al Maliki di concedere l'incontrollabilità delle attività militari e l'impunità civile e penale alle eventuali truppe americane restanti.

Questo rifiuto è, a sua volta, strettamente legato al non verificarsi di un'altra condizione prima indicata: la creazione di un governo "amico", cioè pronto a qualsiasi collaborazione con l'ex occupante.

Infatti delle tre componenti etnico/confessionali che compongono l'Iraq (curdi, sunniti, sciiti) nessuna ha manifestato vera gratitudine e sottomissione verso gli americani; ovviamente non i sunniti, usciti umiliati e ridimensionati dalla cancellazione del partito Baath e dall'uccisione del loro leader; nemmeno i curdi a causa il palese appoggio che gli USA danno alla Turchia nella feroce repressione, accompagnata da sconfinamenti militari turchi in territorio iracheno, dell'irredentismo curdo nelle terre contese.

Infine nemmeno gli sciiti, in maggioranza nel Paese, che in teoria sono stati "liberati" dal giogo di Saddam Hussein, si sono dimostrati molto caldi verso gli americani: i loro partiti (il Da'wa del premier Al Maliki, lo Sciri del vice premier Abd Al Mahdi ed il raggruppamento dell'influente clerico Moqtada Al Sadr) sono infatti, chi più chi meno, strettamente legati alla Potenza sciita egemone: l'Iran, fiero nemico degli Stati Uniti e mai si presterebbero a manovre anti iraniane che, fatalmente, avrebbero origine da basi statunitensi in Iraq non controllabili e non censurabili.

A questo punto Barack Obama aveva due opzioni: o forzare la mano e, comunque, lasciare un presidio militare, ricordando agli iracheni che gli USA avevano vinto la guerra contro l'Iraq e non solo contro Saddam Hussein (con tutte le conseguenze del caso), ovvero rinunciare ad una presenza militare definitiva. Obama, stavolta saggiamente, ha scelto la seconda opzione.

Le procedure di disimpegno delle truppe statunitensi al suolo iracheno, peraltro, non sono certo state certamente esaltanti: alcune divisioni aviotrasportate hanno organizzato una cerimonia d'addio all'aeroporto di Baghdad con grande spiegamento di elicotteri da combattimento che, fermi a mezz'aria, controllavano che non ci fossero nidi di insorti muniti di lanciarazzi; il Segretario alla difesa, Leon Panetta, è arrivato all'ultimo momento, senza che ne fosse stata annunciata la presenza, mentre i posti riservati per il presidente iracheno Talabani e per il premier Al Maliki sono rimasti, molto significativamente, vuoti.

Insomma, un abbandono sotto tono di un Paese non sottomesso, molto simile a quello di Saigon nella primavera del 1975, piuttosto che il coronamento di un lungo processo di "esportazione della democrazia", che avrebbe dovuto essere accompagnato da festose manifestazioni di popolo.

A tal proposito Daniel Pipes, autorevole "falco" repubblicano molto vicino all'ex presidente George W.Bush, parla chiaramente di "sconfitta".

"Sognavamo per l'Iraq", dice Pipes, "un nuovo 1945, come fu per l'Italia, la Germania ed il Giappone; cioè conquiste di Nazioni in cui avevamo portato la democrazia ed imposto la condivisione dei futuri interessi statunitensi, quali che essi fossero. Lasciamo invece un Paese ancora instabile, non dichiaratamente nostro nemico, ma nemmeno pronto a seguirci nelle nostre strategie, un Paese infido di cui non è possibile stabilire, al presente, il comportamento politico. Questa io la chiamo una sconfitta."



Irak, è l'ora della guerra interna
di Michele Paris - Altrenotizie - 24 Dicembre 2011

A soli pochi giorni dal ritiro ufficiale delle ultime truppe statunitensi dall’Iraq, il travagliato paese mediorientale sembra essere già precipitato nel caos. Con il fragile governo di unità nazionale sull’orlo della crisi e il rischio concreto di nuove violenze settarie, dopo quasi nove anni di occupazione la popolazione irachena si ritrova a dover fronteggiare nuovamente gli spettri della dittatura e della guerra civile, con la possibilità tutt’altro che remota di un ritorno delle forze armate americane.

La fine delle operazioni USA in Iraq è stata festeggiata con una cerimonia ufficiale giovedì scorso, mentre il contingente militare residuo ha lasciato il paese nel fine settimana. Pochi giorni prima, il presidente Obama aveva ricevuto a Washington il premier, Nuri Kamal al-Maliki, al quale aveva espresso tutto il suo apprezzamento per i progressi fatti dal sistema politico iracheno, saldamente avviato verso un futuro democratico.

Gli stessi elogi verso il governo di Baghdad sono stati espressi da Obama anche nel suo discorso tenuto di fronte ai militari rientrati dall’Iraq, ovviamente senza citare l’illegalità della guerra scatenata nel 2003 e la totale devastazione del paese causata dall’invasione americana negli anni successivi.

La vera faccia della realtà irachena, al di là delle lodi dell’amministrazione democratica di Washington, è tuttavia apparsa in tutta la sua evidenza proprio in seguito ad una nuova serie di azioni messe in atto da Maliki per consolidare il suo potere a spese degli avversari politici.

Da tempo la gestione del primo ministro è d’altra parte oggetto di dure critiche, soprattutto da parte della minoranza sunnita nel paese, tanto che venerdì scorso il blocco parlamentare Iraqiya aveva preso la decisione di boicottare l’attività del governo dopo la presentazione in Parlamento da parte della maggioranza sciita di una mozione di sfiducia contro il vice-premier sunnita, Saleh al-Mutlaq, responsabile di aver bollato Maliki come “dittatore” nel corso di un’intervista televisiva.

Domenica scora, poi, i servizi segreti agli ordini di Maliki hanno arrestato sette guardie del corpo del vice-presidente iracheno, il sunnita Tariq al-Hashimi, perché accusate di terrorismo. A far precipitare la situazione è stato infine il mandato d’arresto emesso il giorno successivo ai danni dello stesso Hashimi, a sua volta accusato di aver ordinato una serie di attacchi terroristici nel paese contro gli sciiti, tra cui un tentativo di assassinare il primo ministro.

Il mandato di cattura per Hashimi era stato preparato da un’altra iniziativa più consona ad un regime dittatoriale che ad una nascente democrazia, vale a dire la trasmissione in TV delle confessioni di alcune ex guardie del corpo del vice-presidente, le quali hanno ammesso di aver portato a termine attentati terroristici ordinati dal loro autorevole superiore.

Per sfuggire all’arresto, Hashimi si è rifugiato nella regione settentrionale semiautonoma del Kurdistan iracheno, dove le forze di sicurezza di Baghdad non hanno giurisdizione.

La vicenda che coinvolge Hashimi è solo il più recente sviluppo di una strategia messa in atto negli ultimi mesi da Maliki per mettere a tacere i propri oppositori interni e che comprende ondate di arresti di sunniti accusati di aver fatto parte del partito Baath di Saddam Hussein ed ex ufficiali che avrebbero complottato per rovesciare il governo centrale.

Quest’ultima accusa trae origine dalle informazioni passate a Maliki dal nuovo governo libico, il quale avrebbe a sua volta scoperto documenti segreti a Tripoli che documentano come Gheddafi avesse finanziato e incoraggiato una rivolta sunnita contro il premier sciita dopo l’addio dei soldati americani all’Iraq.

Che il primo ministro non abbia alcuna intenzione di fare marcia indietro lo si è visto anche in una lunga intervista alla TV irachena andata in onda mercoledì, nella quale Maliki ha minacciato, tra l’altro, di rendere pubbliche nuove prove in suo possesso che implicherebbero alcuni avversari politici in attentati terroristici.

In questo scenario, il governo guidato da Maliki appare in grave pericolo, se non già formalmente in crisi. L’esecutivo guidato dal premier sciita era nato grazie al raggiungimento di un faticoso accordo nel dicembre 2010 dietro le pressioni americane e a distanza di ben nove mesi dalle elezioni parlamentari.

Maliki aveva potuto così conservare la carica di primo ministro, anche se le altre formazioni politiche rappresentanti le minoranze curda e sunnita avevano ottenuto cariche importanti.

L’accordo di governo si fondava soprattutto sulla collaborazione di Iraqiya, di cui fa parte il vice-presidente Hashimi e che dopo l’emissione del mandato di cattura ha annunciato invece il ritiro dei propri ministri dal gabinetto.

Il riesplodere del settarismo in Iraq dopo la parziale uscita di scena degli Stati Uniti è da attribuire in primo luogo ai leader politici espressione dei vari gruppi religiosi, che sfruttano le divisioni nel paese anche per cercare di distogliere l’attenzione degli iracheni dalla situazione disastrosa seguita all’invasione americana del 2003 di cui hanno ampiamente beneficiato.

Il profondo malcontento che attraversa la popolazione è testimoniato infatti dalle numerose manifestazioni di protesta esplose in varie località del paese nei mesi scorsi sull’onda della Primavera Araba.

In questo quadro di tensioni settarie si inseriscono anche i malumori delle province a maggioranza sunnita che stanno cercando una qualche autonoma da Baghdad, sul modello della regione curda. Particolarmente delicata appare la situazione nella provincia orientale di Diyala, dove i leader sunniti hanno chiesto maggiori poteri al governo centrale.

A queste richieste ha fatto seguito però la dura reazione di Baghdad, concretizzatasi con una serie di manifestazioni organizzate dai partiti locali alleati di Maliki che hanno causato la fuga del governatore sunnita - anch’egli rifugiatosi nel Kurdistan iracheno - sostituito dal suo vice, di fede sciita.

La domanda di una maggiore autonomia da parte di queste province deriva dai timori diffusi per l’eccessiva vicinanza all’Iran di Maliki e del suo governo, laddove i sunniti desidererebbero invece una maggiore affinità con l’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo.

Da qui l’apprensione del primo ministro che l’uscita di scena degli USA possa rinvigorire i sunniti, contro i quali si scaglia denunciando ipotetiche trame per rovesciare il suo governo e ristabilire un regime simile a quello di Saddam.

Per questa ragione, Maliki continua anche a rifiutarsi di condannare il regime di Assad in Siria, poiché una sua caduta potrebbe avere effetti nefasti per Baghdad. Un nuovo governo a maggioranza sunnita e anti-iraniano a Damasco darebbe infatti un’ulteriore impulso alle rivendicazioni sunnite in Iraq.

Per gli iracheni, in ogni caso, una nuova guerra settaria nel paese avrebbe conseguenze catastrofiche. Il conflitto causato dall’occupazione americana ha già causato centinaia di migliaia di morti tra i civili, soprattutto tra il 2006 e il 2008, nonché abusi, atrocità diffuse e più di quattro milioni di profughi.

A ricordare la precarietà della situazione in Iraq, giovedì mattina nella capitale sono state varie esplosioni che hanno provocato più di sessanta morti e centinaia di feriti.

La crescente instabilità nel paese è seguita infine con grande apprensione dagli Stati Uniti, da dove l’amministrazione Obama si sta muovendo per cercare di calmare gli animi a Baghdad. Nei giorni scorsi, ad esempio, il vice-presidente Joe Biden ha avuto colloqui telefonici con Maliki e con il presidente iracheno, Jalal Talabani, per spingere le parti verso un compromesso.

Allo stesso tempo, nonostante le imminenti festività natalizie, il presidente democratico ha rispedito in Iraq sia l’ambasciatore USA, James Jeffrey, che il direttore della CIA, David Petraeus, nel tentativo di evitare che la situazione possa sfuggire definitivamente di mano.



Quando Al Qaeda è nostra alleata
di Giulietto Chiesa- Il Fatto Quotidiano - 26 Dicembre 2011

Se scoppiava una bomba terrorista in una capitale occidentale era sicuramente Al Qaeda. Se la rivendicava Al Qaeda ci credevamo subito. Se non la rivendicava nessuno, allora era sicuramente Al Qaeda, perché non poteva essere altrimenti.

Era come in “1984” di Orwell: qualunque cosa di gramo accadesse era colpa del nemico. E, poiché il nemico era Al Qaeda, non potevano esserci dubbi. E cominciava la geremiade di turno: come sono cattivi gli islamici, come sono feroci, come sono fanatici. Eccetera.

Poi succede – sempre più spesso dopo la guerra di Libia - che Al Qaeda si mette contro i dittatori che devono essere abbattuti in nome della democrazia e dei diritti umani violati.

Infatti, qualcuno se lo è dimenticato, ma Al Qaeda è nata appunto per difendere gli afghani contro gli invasori sovietici. Dunque prosegue , dopo la nera parentesi dell’11 settembre 2001, il ruolo umanitario di Al Qaeda.

Così Al Qaeda è dentro il Governo provvisorio di Libia, in attesa di guidare la nuova Libia democratica. E dunque i suoi rappresentanti girano in Europa a stringere mani e a firmare contratti petroliferi, con i quali s’impegnano a risarcire i paesi occidentali che svolgono e svolgeranno opera di aiuto umanitario ai nuovi poveri libici.

Infine scoppiano bombe terroristiche a Damasco di Siria e fanno decine di morti. “Sono i kamikaze di Al Qaeda”, gridano le fonti ufficiali di Assad. Ma Assad è un dittatore che deve essere abbattuto.

Dunque i nostri bravi inviati speciali a Gerusalemme si trasformano per un attimo in complottisti di complemento. E sollevano dei dubbi (sì, anche i nostri bravi inviati speciali qualche volta si fanno venire dei dubbi, per quanto strano possa apparire).

In questo caso – dicono – non è probabile che sia Al Qaeda. Più probabile si tratti di un complotto ordito da Assad.

Ovvio il perché: per fare la vittima, facendo credere che c’è la mano di Al Qaeda. Non bisogna dunque credergli.

Insomma: una grande confusione regna sotto il cielo. Al Qaeda, come nemico, non vale più un granché. E’ giunto il momento di costruirne un altro. Suggerisco l’Iran, anche se il mio suggerimento arriva tardi. Già ci hanno pensato.



L'Esercito Libero Siriano è comandato dal governatore militare di Tripoli
di Thierry Meyssan - www.eurasia-rivista.org - 18 Dicembre 2011

Per quanto riguarda la “Primavera araba” e gli interventi della NATO, ufficiali o segrete, il Qatar sta cercando di imporre ovunque possa dei leader islamisti. Questa strategia ha portato non solo a finanziare i Fratelli Musulmani e a offrirgli al-Jazeera, ma anche a sostenere i mercenari di al-Qaida. Questi ultimi inquadrano l’esercito siriano ora libero. Tuttavia, tale sviluppo desta serie preoccupazioni in Israele e tra i sostenitori dello “scontro di civiltà”.

I membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si confrontano sull’interpretazione di eventi che sconvolgono la Siria. Per la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti, una rivoluzione scuote il paese, seguendo la “primavera araba“, è oggetto di una repressione sanguinosa.

Al contrario, per la Russia e la Cina, la Siria si trova ad affrontare bande armate estere, che combatte goffamente causando vittime collaterali tra la popolazione civile che cerca di proteggere.

L’inchiesta che Réseau Voltaire ha condotto sul posto, convalida questa seconda interpretazione [1]. Abbiamo raccolto testimonianze di sopravvissuti degli attacchi dei gruppi armati. Descrivono alcuni attaccanti come iracheni, giordani o libici, riconoscibili dal loro accento, così come anche dei pashtun.

Negli ultimi mesi, alcuni giornali arabi, favorevoli all’amministrazione al-Assad, hanno evocato l’infiltrazione in Siria da 600 a 1500 elementi del Gruppo combattente islamico in Libia (LIFG), ridenominato dal Novembre 2007 al-Qaida in Libia.

Alla fine di novembre, la stampa libica ha riferito del tentativo, da parte delle milizie di Zintan, di fermare Abdelhakim Belhaj, compare di Usama bin Ladin [2], leader storico di al-Qaida in Libia, divenuto governatore militare di Tripoli per grazia della NATO [3].

La scena ha avuto luogo presso l’aeroporto di Tripoli, mentre stava andando in Turchia. Infine, i giornali turchi hanno parlato della presenza di Belhaj alla frontiera turco-siriana.

Queste accuse si scontrano con l’incredulità di tutti coloro per i quali al-Qaida e la NATO sono nemici inconciliabili, fra cui non è possibile alcuna cooperazione. Invece, rafforzano la tesi che io difendo dagli attacchi dell’11 settembre 2001, secondo cui i combattenti etichettati al-Qaida sono mercenari utilizzati dalla CIA [4].

Chi ha ragione?

Per una settimana il quotidiano monarchico in lingua spagnola ABC, ha pubblicato a episodi il documentario del fotografo Daniel Iriarte. Questo giornalista è vicino all’esercito libero siriano (ASL) appena a nord del confine turco. Ha preso la causa della “rivoluzione” e non trova mai parole abbastanza forti contro il “regime al-Assad“.

L’esercito libero siriano sarebbe formato da più di 20000 uomini, secondo il loro leader politico, il colonnello Riyad al-Asaad, di poche centinaia seconda le autorità siriane [5].

Tuttavia, nell’edizione di Sabato 17 Dicembre 2011, Daniel Iriarte testimonia di un incontro che l’ha scioccato. Mentre i suoi amici della ASL lo portavano in un nuovo nascondiglio, si trovò con degli strani ribelli: tre libici [6].

Il primo di loro era Mahdi al-Harati, un libico che ha vissuto in Irlanda prima di entrare inal-Qaida. Alla fine della guerra in Libia, è diventato il comandante della Brigata di Tripoli, il numero 2 del Consiglio militare di Tripoli guidato da Abdelhakim Belhaj. Si è dimesso da questa funzione, secondo alcuni, perché era venuto in conflitto con il Consiglio nazionale di transizione, secondo altri perché voleva tornare in Irlanda da cui proviene la moglie [7]. In realtà, ha raggiunto la Siria.

Ancora più strano: questo membro di al-Qaida era, nel giugno dello scorso anno, tra gli attivisti filo-palestinesi a bordo della nave turca Mavi Marmara. Agenti di molti servizi segreti, tra cui quegli degli Stati Uniti, si erano infiltrati nella “Freedom Flotilla” [8]. Fu ferito e tenuto prigioniero per nove giorni in Israele.

Infine, durante la Battaglia di Tripoli, Mahdi al-Harati ha comandato il gruppo di al-Qaidache ha assediato e attaccato l’hotel Rixos, dove mi trovavo con i miei compagni diRéseau Voltaire e della stampa internazionale, e i cui sotterranei erano utilizzati come ricovero per i leader della Libia, sotto la protezione della guardia di Khamis Gheddafi [9]. Secondo quest’ultimo, Mahdi al-Harati godeva della consulenza di ufficiali francesi, presenti sul terreno.

Il secondo libico incontrato dal fotografo spagnolo nell’esercito libero siriano, non è altro che Kikli Adem, un altro luogotenente di Abdelhakim Belhaj. Infine, Daniel Iriarte non è stato in grado d’identificare il terzo libico, che si chiamava Fouad.

Questa testimonianza si sovrappone a ciò che i giornali arabi anti-siriani dichiarano da diverse settimane: l’esercito libico siriano è inquadrato da almeno 600 “volontari” di al-Qaida in Libia [10]. L’intera operazione è gestita da Abdelhakim Belhaj in persona, con l’aiuto del governo Erdogan.

Come spiegare che anche un giornale anti-Assad come ABC abbia deciso di pubblicare la testimonianza del suo inviato speciale, quando mette in luce i metodi nauseanti della NATO e conferma la tesi del governo siriano della destabilizzazione armata?

È che da una settimana, alcuni ideologi dello scontro delle civiltà si ribellano a questo sistema che integra gli estremisti islamici alla strategia del “mondo libero”.

Ospite del blog CNBC [11], l’ex primo ministro spagnolo José Maria Aznar ha rivelato, il 9 Dicembre 2011, che Abdelhakim Belhaj era sospettato del coinvolgimento negli attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid [12], gli attacchi che hanno iniziato a porre fine alla carriera politica nazionale di Aznar.

L’uscita di Aznar corrisponde agli interventi dei suoi amici del Jerusalem Center for Public Affairs, il think tank guidato dall’ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Dore Gold [13]. Esprimono pubblicamente i loro dubbi sulla validità della strategia attuale della CIA, di mettere al potere gli islamisti in tutto il Nord Africa.

La loro critica è rivolta innanzitutto contro la Confraternita dei Fratelli musulmani, ma anche a due personalità libiche: Abelhakim Belhadj e il suo amico, lo sceicco Ali al-Salibi.

Quest’ultimo è considerato il nuovo leader del paese [14]. I due uomini sono considerati essere le pedine del Qatar nella nuova Libia [15]. Questo è anche lo sceicco Salabi che ha distribuito 2 miliardi di dollari del Qatar per aiutare al-Qaida in Libia [16].

Così la contraddizione che si sta cercando di nascondere, negli ultimi dieci anni, ritorna in superficie: i mercenari, già pagati da Usama bin Ladin, non hanno mai smesso di lavorare al servizio della strategia degli Stati Uniti dalla prima guerra in Afghanistan, compreso il periodo degli attentati dell’11 settembre. Eppure vengono presentati dai leader occidentali come nemici implacabili.

E’ probabile che le obiezioni di Aznar e del Jerusalem Center for Public Affairssaranno ignorati dalla NATO come quelle del generale Carter Ham, comandante di AFRICOM. Questi era indignato, all’inizio della guerra in Libia, dalla necessità di proteggere i jihadisti che avevano appena massacrato i soldati USA in Iraq.

Lontano dalla realtà, il Comitato anti-terrorismo delle Nazioni Unite (il “Comitato d’applicazione della risoluzione 1267“) e il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, mantengono sulla loro lista nera l’organizzazione di Abdelhakim Belhaj e dello sceicco Salabi, sotto il suo vecchio nome di gruppo combattente islamico in Libia. Ed è del parere che sia dovere di ogni stato fermare questi individui se passano sul loro territorio.


Note

[1] «Mensonges et vérités sur la Syrie», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 27 novembre 2011.
[2] «Libya’s Powerful Islamist Leader», Babak Dehghanpisheh, The Daily Beast, 2 settembre 2011.
[3] «Comment les hommes d’Al-Qaida sont arrivés au pouvoir en Libye», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 6 settembre 2011.
[4] «Ennemis de l’OTAN en Irak et en Afghanistan, alliés en Libye», Webster G. Tarpley, Réseau Voltaire, 21 maggio 2011
[5] «Syria’s opposition, rebels hold talks in Turkey», Safak Timur, AFP, 1 dicembre 2011.
[6] «Islamistas libios se desplazan a Siria para “ayudar” a la revolución», Daniel Iriarte, ABC (Espagne), 17 dicembre 2011. Versione francese: «Des islamistes Libyens en Syrie pour “aider” la révolution», traduzione di Mounadil al-Djazaïri, Réseau Voltaire, 18 dicembre 2011.
[7] «Libyan-Irish commander resigns as deputy head of Tripoli military council», Mary Fitzgerald, The Irish Times, 11 ottobre 2011.
[8] «Flottille de la liberté: le détail que Netanyahu ignorait», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 6 giugno 2010.
[9] «Thierry Meyssan et Mahdi Darius Nazemroaya menacés de mort à Tripoli», Réseau Voltaire, 22 agosto 2011.
[10] «Libyan fighters join “free Syrian army” forces», Al Bawaba , 29 novembre 2011.
[11] «Spain’s Former Prime Minister Jose Maria Aznar on the Arab Awakening and How the West Should React», CNBC.com, 9 dicembre 2011.
[12] «Attentats de Madrid : l’hypothèse atlantiste», Mathieu Miquel, Réseau Voltaire, 6 novembre 2009.
[13] «Diplomacy after the Arab uprisings», Dore Gold, The Jerusalem Post, 15 dicembre 2011.
[14] «Meet the likely architect of the new Libya», Marc Fisher, The Washington Post, 9 dicembre 2011.
[15] «Libyans wary over support from Qatar», John Thorne, The National (Emirati Arabi), 13 dicembre 2011.
[16] John Thorne, op. cit.



Strage di Damasco: ipotesi a confronto
da www.clarissa.it - 25 Dicembre 2011

Il 23 Dicembre Damasco è stata scossa da due attentati kamikaze con autobombe che hanno colpito la sede dei servizi segreti nel cuore della capitale, uccidendo almeno 40 persone tra addetti alla sicurezza e civili e provocando oltre 100 feriti.

Da subito il rimpallo sulle responsabilità: le autorità siriane hanno accusato gli estremisti sunniti legati ad Al-Qa'ida, per l'opposizione al regime di Assad si tratterebbe di un auto attentato per colpevolizzare la resistenza.

Presentiamo un confronto tra diverse tesi espresse da analisti internazionali e italiani comparse su alcuni quotidiani nazionali.

Per Marvin Cetron, analista di intelligence per CIA e FBI e fondatore del think tank «Forecasting International», sentito da Ennio Caretto (Corriere della Sera, 24 dicembre), gli attentati "hanno una matrice interna che non è quella di Al Qaeda [...]

Gli attentati alle sedi dell' intelligence siriana si inquadrano nella rivolta popolare scoppiata in Siria a marzo, un portato della primavera araba. Da allora, il regime di Assad ha esercitato una feroce repressione, e ci sono stati scontri armati con la resistenza. Non mi risulta che Al Qaeda abbia avuto un ruolo negli scontri degli ultimi nove mesi. Le bombe potrebbero averle messe o la stessa intelligence o la resistenza siriana.

È troppo presto per dire [qual è l'ipotesi] giusta. Ma bisogna chiedersi a chi giovino le stragi di ieri e perché abbiano avuto luogo il giorno dopo l' arrivo degli osservatori della Lega araba. Ritengo sospetta l' immediata asserzione del regime di Assad che esse dimostrano che è terrorismo.

È la tesi che gli serve a giustificare la repressione e a strappare il riluttante assenso del mondo islamico. [L'ipotesi della responsabilità della resistenza] è meno plausibile: le sedi dell' intelligence siriana sono ultra protette e non è semplice arrivarci con un' auto carica di esplosivi. L' opposizione in Siria non è bene organizzata e i due attentati sono stati programmati e coordinati con cura".

Sull'ipotesi di una mano straniera dietro gli attentati, Cetron sostiene: "La destabilizzazione di Iran e Siria sono il sogno di Israele. Trent' anni fa, quando l' Iran e l' Iraq si fecero guerra, Israele fornì armi all' uno e all' altro, in modo che restassero instabili e che nessuno vincesse.

Ma non credo che Israele abbia molto a che vedere con gli attacchi di Damasco. Potrebbe invece avere qualcosa a che vedere con gli attentati agli impianti missilistici iraniani degli ultimi mesi. E comunque Israele non è il solo nemico di Siria e Iran. [...]

Ci sono Paesi islamici come l' Arabia Saudita che sperano che i regimi siriano e iraniano crollino. Nella regione anzi è in corso una guerra occulta dei loro servizi segreti, talora in alleanza con quelli occidentali, contro i servizi segreti di Damasco e Teheran. Si appoggia l' opposizione, la si consiglia, non di rado la si arma. Naturalmente, è una questione così delicata politicamente che tutti gli interessati lo negano".

Sugli scenari futuri ed eventuali sviluppi Cetron ritiene che il regime siriano possa durare "ancora un paio di anni, ma non si può mai dire. Dipenderà altresì da eventi esterni, a esempio da quanto accadrà in Iraq, di nuovo in preda alla violenza settaria di sunniti e sciiti, e soprattutto in Iran.

In Siria si sono verificate delle diserzioni tra le truppe, e la resistenza si rafforza. Ma non basta, ci vorrebbe un intervento militare esterno come in Libia, per ora improbabile, ne andrebbero di mezzo il Libano e Israele. E le pressioni di Lega araba e Onu, se e quando avranno luogo, non daranno grandi risultati.

[La situazione in Iran sarà decisiva]. Tra un anno o due l' Iran dovrebbe essere in grado di produrre l' atomica e dei missili con cui minacciare Medio Oriente e Europa. A quel punto, a meno che Teheran non faccia marcia indietro, una coalizione più o meno pubblica o Israele da solo attaccherà le basi e gli impianti iraniani sotterranei, mi pare 26 in tutto, dove si trovano queste armi.

Sarebbe un' operazione gigantesca, una pioggia di missili capaci di penetrare a grande profondità. Con il regime iraniano, crollerebbe anche quello siriano. Ma auguriamoci che non si attui mai questo scenario, e che i due regimi cadano sotto le spinte interne".

Alix Van Buren (La Repubblica, 24 dicembre) intervista Patrick Seale, considerato uno dei più profondi conoscitori del Medio Oriente nel panorama anglosassone.

Secondo Seale: "L'attentato a Damasco segna un autogol di proporzioni monumentali da parte dell' opposizione armata, oltre a rappresentare la prima azione del genere nella capitale. [...] Le bombe hanno prodotto l'effetto di rafforzare le tesi del governo".

Sulle possibili responsabilità, Seale vede "la mano dell'opposizione armata, la stessa che poco tempo fa aveva colpito una centrale dell'Intelligence alle porte della capitale. Però, il risultato è controproducente, e per più di un motivo. [...] Primo, perché prendendo di mira il centro della città ha impaurito la popolazione. I siriani sanno bene cos'è successo in Iraq e in Libano, come quei due Paesi siano stati distrutti dalla guerra civile.

Non vogliono che questo si ripeta in Siria. Secondo, gli attentatori hanno avallato la tesi del regime, cioè che l'insurrezione sia di matrice terrorista. Terzo, hanno offeso la Lega araba proprio all'arrivo degli osservatori: la Lega vuole una transizione pacifica verso la democrazia, ma l'opposizione vuole rovesciare il regime. [L'opposizione è] una galassia di gruppi frammentati, che ora ne escono ancora più indeboliti, divisi fra chi ritiene che la protesta pacifica sia la loro forza morale, e chi vuole lo scontro armato.

I secondi ora prevalgono sui primi: si rafforzano gli islamisti, con armi che affluiscono dall'Iraq e dal Libano, e notizie di squadre di Al Qaeda arrivate dall'Iraq. [...] Il governo si rafforza nella convinzione, anzi l'ossessione, che si tratti di una cospirazione esterna, guidata dai "nemici" storici, America, Israele, parte dell'Europa, decisi a indebolire l'asse Siria-Iran-Hezbollah e a frammentare il Paese.

Questo porta la leadership a trascurare le legittime richieste del popolo, le proteste contro la disoccupazione, la brutalità della polizia, la mancanza di libertà. [...] Serve una transizione pacifica attraverso il dialogo. Ma l'opposizione armata sta trascinando il Paese verso la guerra civile".

Gianandrea Gaiani, presentato come uno dei "maggiori esperti di cose militari che riguardano il Medio Oriente", nonché direttore della rivista "Analisi Difesa", intervistato per il Messaggero del 24 dicembre, sostiene: "Premetto che in base agli scarsi elementi che possediamo è difficile parlare con qualche certezza. Però, detto questo, io osservo che mi sento di escludere che siano stati i servizi siriani a colpire se stessi, facendo anche vittime tra i propri commilitoni. In fondo, se fosse vera questa ipotesi, i servizi potevano colpire qualche obiettivo civile o politico. Che siano arrivati a colpirsi da soli mi pare francamente improbabile. [...]

Alcune fonti dell'opposizione siriana parlano di un possibile coinvolgimento degli sciiti iracheni dell'Esercito del Mahdi di Moqtada al Sadr. Anche questa mi pare un'ipotesi non credibile. Gli sciiti sono maestri nel preparare bombe e ordigni, ma, che io sappia, non prediligono le azioni kamikaze, che invece sono tipiche dei sunniti. [...]

Quindi mi pare sia plausibile che l'attentato sia stato messo in atto da Al Qaeda. Se si considera poi che alle esplosioni sono seguiti scontri a fuoco mi viene in mente il modo di agire dei qaedisti e dei talebani in Afghanistan. Prima si fa esplodere un'autobomba, poi un altro gruppo apre il fuoco.

Del resto Al Qaeda combatte ovunque gli sciiti e il potere siriano è alawita, cioè appartenente a una setta sciita. Va poi ricordato come la Siria abbia colpito duramente Al Qaeda e come, al tempo stesso, abbia favorito il passaggio verso l'Iraq di centinaia e centinaia di volontari qaedisti. C'è poi da considerare la segnalazione dei servizi segreti libanesi di un paio di giorni fa. I libanesi avevano avvertito Damasco del possibile ingresso in Siria di gruppi qaedisti.

E, dal canto suo, Al Qaeda cerca da sempre un ruolo nelle varie rivoluzioni arabe. [Il mio sospetto è] che si stia preparando qualcosa di simile a ciò che è accaduto in Libia. È singolare osservare che proprio mentre arrivano gli osservatori della Lega araba, l'Arabia Saudita chiuda la propria ambasciata.

Questo mentre in Turchia i dissidenti vengono addestrati da turchi, francesi, americani. Potrebbe anche nascere una sorta di zona franca in territorio siriano protetta da Paesi stranieri. Una specie di piccola Cirenaica. Ed è quello che Assad teme, non a caso ha fatto minare tutte le frontiere".

Maurizio Molinari ha infine sentito (per La Stampa del 24 dicembre) l'analista Joshua Landis, presentato come "direttore del Centro di studi mediorientali all'Università dell'Oklahoma e autore della newsletter «Syria Comment», considerata una delle più accurate fonti su quanto avviene a Damasco".

Questi alcuni brani dell'intervista:
"Oramai è evidente che Bashar Assad ha deciso di combattere fino alla fine. Non sappiamo se lo stia facendo per timore di essere ucciso come Muammar Gheddafi, per salvare la sua famiglia e i suoi averi o perché è davvero convinto di potercela fare. Ciò che conta è che non ha alcuna intenzione di farsi da parte. [Si apre uno scenario] di una lunga lotta interna, sanguinosa e feroce, perché al momento l'opposizione non è in grado di prevalere contro un esercito che resta in gran parte compatto a difesa del regime.

Certo, le defezioni ci sono e la resistenza armata cresce di intensità, ma non è ancora in grado di sconfiggere l'esercito. Ciò significa che potremmo avere davanti un periodo di violenze crescenti, destinato a durare forse uno o anche due anni [...]Il consiglio nazionale siriano auspica una rivoluzione pacifica sul modello tunisino, ma in realtà in Siria si combatte nelle strade. I suoi appelli alle azioni non violente hanno scarso impatto. C'è un'opposizione militare che si muove da sola, si alimenta con i disertori e punta a uccidere i soldati.

[Ne uscirà] una nazione araba lacerata dai conflitti interni come lo sono oggi l'Iraq o il Libano. Sommerà conflitti etnici, religiosi e regionali. La Siria prima degli Assad ha avuto 40 anni di violente lacerazioni e saranno tali conflitti a tornare protagonisti, quando gli Assad non ci saranno più. È una nazione priva di un'unica identità, e questo sarà fonte di conflitti interni e instabilità esterna [...]

Né l'Occidente né la Lega Araba vogliono un'altra guerra perché sanno che l'esercito siriano non è quello libico. Sarebbe tutt'altra vicenda rispetto la Libia [...] L'opposizione siriana è sola davanti a un apparato militare che resta compatto ed efficiente. Continua ad avere mezzi pesanti, truppe scelte, strutture di Intelligence, centri di comando e controllo e i suoi capi non temono di essere uccisi. È una situazione opposta a quella che abbiamo visto in Libia, dove furono i blitz della Nato a fiaccare il regime.

Il confronto in Siria fra civili e militari è destinato a far scorrere molto sangue, offrendo a gruppi estremisti la possibilità di compiere attentati come quelli avvenuti a Damasco contro alcune sedi dei servizi di sicurezza".



Il natale delle banche
di Gaetano Colonna - www.clarissa.it - 27 Dicembre 2011

Nel corso del 2011 ci siamo sentiti ripetere che uno dei rischi più seri dell'attuale crisi economica è costituito dal pericolo del credit crunch, in parole povere dalla riduzione della disponibilità di denaro nel sistema creditizio.

Le banche giustificano con questa paura la stretta creditizia che stanno praticando nei confronti di imprese e famiglie; su questa paura si sostiene l'accusa rivolta ai debiti pubblici di prosciugare le già scarse risorse finanziarie mondiali, aggravando quel rischio.

La gravità della situazione del sistema creditizio mondiale potrebbe essere riassunta in tre cifre.

La prima: in base ad un recentissimo studio, pubblicato poche settimane fa dall'autorevole Boston Consulting Group, la perdita complessiva del sistema bancario mondiale tra il 2008 ed il 2010 ammonterebbe a quasi 600 miliardi di euro(1).

La seconda: il fabbisogno mondiale di denaro per portare le banche a disporre a bilancio di un capitale di almeno il 7% rispetto ai loro impieghi totali (si noti: 7 euro di capitale per garantirne 100 di impieghi...), come richiesto dallo standard Basilea 3, le banche necessiterebbero a livello mondiale di ben 354 miliardi di euro, dei quali 221 miliardi sono a carico di quelle europee(2). La terza: secondo il Sole 24 Ore, il fabbisogno di credito da parte di imprese e consumatori a livello mondiale raggiungerebbe oggi i 5.000 miliardi di euro(3).

Sono questi i dati di base che confermano il rischio di una generalizzata paralisi del sistema creditizio mondiale: quella, per capirsi, per cui le banche fanno tante difficoltà a prestare denaro a famiglie e imprese, in netto contrasto con l'atteggiamento che tutti abbiamo sperimentato fino al 2008, quando esse rincorrevano aziende e famiglie, offrendo denaro a prezzi stracciati; quando comprare a rate un personal pc o un'automobile costava meno che pagando in contanti!

In questi giorni, nei quali le persone comuni cercano la pace nelle festività natalizie, abbiamo però dinanzi agli occhi una serie di fatti che sollevano molte perplessità su questo ennesimo luogo comune e che ci danno un'idea sempre più chiara del funzionamento effettivo del sistema finanziario internazionale - obbligandoci a tornare ancora una volta sulla questione della moneta, del credito e del potere patologico delle forze finanziarie.

Il 21 dicembre infatti, la Banca Centrale Europea (BCE) ha inondato il sistema bancario europeo con un prestito di ben 489,2 miliardi di euro, ben oltre i 300 miliardi di euro che venivano stimati come effettivo fabbisogno.

Economisti citati dal New York Times (4) stimano che, di questa somma, tra 190 e 270 miliardi di euro siano costituiti da nuove risorse (nuovo denaro), il resto dal rinnovo di prestiti precedentemente concessi: teniamo sempre presente che si tratta di denaro di cui la BCE ha disponibilità solo grazie alle politiche di rigore che gli Stati europei stanno adottando - sono quindi risorse finanziarie che provengono in definitiva dal lavoro dei cittadini.

Questo denaro è stato offerto alle banche con scadenza a tre anni, ad un tasso d'interesse dell'1%, condizioni quindi assolutamente favorevoli per le banche. L'intento, dice il New York Times, è quello di rendere "disponibile nuovo denaro per comprare buoni del tesoro governativi a breve termine che hanno una maggiore redditività o interessi più alti, come nel caso dei bond a due anni del governo spagnolo, che rendono il 3,64%". Permettendo in tal modo alle banche di guadagnare lautamente sul sostegno all'indebitamento dei governi più in difficoltà.

Per facilitare questa operazione di ri-finanziamento del ciclo speculativo europeo, la BCE, un vero Babbo Natale per il sistema finanziario, si è resa disponibile ad ampliare anche la tipologia dei cosiddetti "collaterali", le garanzie che le banche stesse devono esibire quando attingono al prestito, in modo da renderlo più agevole anche per piccole banche che di norma non dispongono di sufficienti garanzie.

"Si tratta di un successo da diversi punti di vista" - dice Nicolas Véron, ricercatore di un'organizzazione con sede a Bruegel, citato dal New York Times. "Il problema è che espone la BCE ai rischi collegati alle banche stesse, poiché nessuno conosce la qualità dei collaterali che esse stanno fornendo in garanzia".

Secondo notizie dell'agenzia Reuters, ben 523 istituti bancari europei hanno prontamente approfittato di questa generosa offerta, tra i quali pare che UniCredit e Intesa Sampaolo abbiano attinto oltre una settantina di miliardi di euro, garantiti da circa 40 miliardi di euro di "collaterali"(5).

Grazie a queste notizie, si chiarisce subito che la generosa iniezione di risorse nel sistema bancario europeo non è destinata affatto a sostenere il credito all'economia reale: non sono cioè soldi destinati alle famiglie ed alle imprese, ma a perpetuare il meccanismo della speculazione finanziaria che ha generato per anni la parte più consistente dei guadagni delle banche nell'ultimo decennio e che è stata poi, con le sue gigantesche perdite, le cui dimensioni non sono ancora mai state quantificate, la vera origine della crisi.

Evitare che si arresti questo ciclo speculativo, guadagnando tempo per evitare che vengano allo scoperto quelle perdite; permettere che a queste risorse si aggiungano altri soldi pubblici per sostenere le banche in difficoltà, attraverso meccanismi come quelli delle cosiddette bad bank, vale a dire tramite l'assunzione da parte dello Stato delle perdite - come si sta pensando di fare in Germania (6).

Questa risulta essere la strategia della Banca Centrale Europea diretta da Draghi e dell'authority europea delle banche (EBA), secondo il modello della Federal Reserve Usa.

Ma vi è di più: apprendiamo infatti che solo tre giorni dopo questa iniezione di denaro, vale a dire alla Vigilia di Natale, ben 82 miliardi di euro erano già rientrati alla BCE (7) - una cifra che stabilisce una record di restituzioni alla Banca Centrale dal giugno 2010, prima cioè che la crisi europea assumesse i toni catastrofici cui siamo abituati dallo scorso luglio 2011.

Una notizia apparentemente sorprendente: se infatti il fabbisogno di liquidità è così impellente, se il denaro è così scarso nel sistema creditizio mondiale, come mai le banche hanno già restituito il denaro preso in prestito? Perché non lo hanno utilizzato per ridare fiato alla circolazione interbancaria?

Perché non se ne sono servite per ricapitalizzarsi? Anche in termini di pura speculazione, infatti, si tratta di un evidente non senso: lo dice il rapporto fra il costo di questo denaro, ottenuto come si è già visto ad un tasso dell'1%, ed il tasso attivo praticato dalla BCE sui suoi conti correnti di appena lo 0,25%.

Per risolvere questo singolare enigma, il Sole 24 Ore suggerisce di attendere ancora qualche giorno: potrebbe infatti trattarsi di una semplice operazione di "parcheggio" di questi fondi presso la BCE, in attesa di investimenti più redditizi, come quelli nei bond spagnoli di cui parlava il New York Times.

Ma vi è un'altra ipotesi a spiegare le ragioni del mancato utilizzo sui circuiti del credito di tutti questi soldi: "le banche - scrive Moryia Longo sul giornale di Confindustria, preferiscono perdere, piuttosto che rischiare prestando quei denari a qualche altra banca o a qualche impresa".

Scopriamo così, grazie al dono natalizio della BCE, un aspetto importante e insieme impressionante della crisi. In realtà infatti esistono ancora grandi masse di capitali nel mondo, solo che sono immobilizzate nei forzieri delle grandi entità finanziarie: i soldi rientrati prontamente nelle casse della BCE sono infatti solo spiccioli se si considera che le banche Usa, secondo i calcoli di Mps Capital Service, citati dallo stesso articolo del Sole 24 Ore, hanno in deposito presso la Federal Reserve "riserve in eccesso" per ben 1.500 miliardi di dollari (rispetto ai 1.000 di gennaio 2011); che le imprese Usa hanno poi liquidità ferma nelle loro casse per altri 2.100 miliardi di dollari; e, per finire, che la Cina ha nei forzieri del governo la più ricca disponibilità di riserve mai detenute da uno Stato nella storia dell'umanità, stimate in 3.200 miliardi di dollari.

Sono in tutto quasi 7.000 miliardi di dollari tesaurizzati e sottratti alla circolazione mondiale dei capitali. E non c'è bisogno di essere professori di economica per capire che il fabbisogno mondiale di credito alle imprese e famiglie, stimato in 5.000 miliardi di dollari, sarebbe ampiamente soddisfatto solo che queste risorse venissero poste in circolazione nell'economia reale e non in quella speculativa; e ci sarebbe capienza anche per ricapitalizzare le banche mondiali.

Per tacere del fatto che, mentre il valore dell'intero prodotto mondiale nel 2010 è stato di circa 70.000 miliardi di dollari, la "sola" speculazione finanziaria sui titoli derivati fuori dai circuiti controllati, escludendo quindi il valore dei mercati borsistici internazionali e del mercato dei cambi, è valutata nel 2011 da Der Spiegel in ben 708.000 miliardi di dollari!

Scopriamo quindi che il credito manca all'economia reale perché il denaro continua ad essere indirizzato ad alimentare le operazioni della finanza internazionale, a tesaurizzare riserve a copertura delle perdite che i grandi operatori sanno di avere prodotto, al possibile salvataggio di banche decotte (come nel caso da manuale di Northern Rock), nonché al supporto ai deficit di bilancio di sistemi politici in fallimento come le democrazie parlamentari occidentali.

L'emissione di titoli di Stato, infatti, come ha giustamente mostrato Luciano Gallino e come molti ancora oggi si dimenticano di ricordare, è uno dei meccanismi più efficienti mediante i quali le banche centrali creano moneta dal nulla (8), indebitando i cittadini a loro insaputa: un'indebitamento delle collettività contro il quale oggi tuonano molti economisti, facendo finta di ignorare che si tratta di un aspetto fisiologico del funzionamento del capitalismo finanziario.

Dalle cifre che abbiamo citato si ricava che il credito manca oggi perché le risorse finanziarie accumulate in questi anni non vengono poste in circolazione nell'economia reale, nonostante sia ben noto a qualsiasi persona di buon senso che si occupi di economia che la circolazione del denaro è un elemento fondamentale per la salute di qualsiasi organismo economico umano.

È la consapevolezza dell'enormità dei deficit provocati che spinge i grandi creatori del debito mondiale a trattenere nei propri forzieri il denaro, per guadagnare tempo evitando l'interruzione del ciclo speculativo che porterebbe allo scoperto le gigantesche perdite prodottesi in questi anni sia sui mercati ufficiali che su quelli paralleli non controllati da nessuno.

E sperando che nel frattempo le gigantesche operazioni di rastrellamento di denaro dalle tasche dei cittadini, mediante le "grandi manovre" dei governi tecnici, producano il denaro necessario a che quelle perdite vengano coperte o che ne venga diluita nel tempo la fuoriuscita allo scoperto.

Giacché è questo l'unico significato logico delle operazioni di "salvataggio": non si tratta, come dice Monti, di salvare l'Italia o l'Europa - si tratta di salvare dal tracollo le grandi aziende finanziarie internazionali.

Un gioco al quale si prestano anche, dimenticando gli insegnamenti di grandi capitalisti come Henry Ford e dello stesso Adam Smith, le imprese più collegate ai grandi circuiti finanziari, che si tengono stretti i soldi, nel timore del credit crunch ma anche nella speranza di quei remunerativi impieghi speculativi ai quali si sono abituate negli ultimi tre decenni - tradendo il compito che sarebbe loro primario nei sistemi di libera impresa, quello di investire nello sviluppo di nuovi prodotti e di dare lavoro alle persone.

Il gioco al quale, infine, si presta ben volentieri anche la Cina, alla testa delle nuove forze del capitalismo di Stato, tipiche dei Paesi emergenti, accumulando riserve gigantesche, consapevole che in questo modo avrà in mano un'arma geo-politica decisiva per il decennio che si apre, un'arma che potrebbe ridisegnare i rapporti di potenza a livello mondiale - anche grazie ad un'abile politica di acquisizione di infrastrutture industriali e logistiche, in primo luogo proprio approfittando della crisi in Europa (9).

Solo inquadrandolo in una prospettiva così ampia, si può rilevare il vuoto di idee della battaglia "ideologica" sul come affrontare in Europa la stretta creditizia, giacché essa evita accuratamente di affrontare la questione centrale, di chi cioè debba avere il potere di immettere denaro sui mercati.

Da un lato, pensando alle recessioni degli anni Trenta del secolo scorso, vi è il timore che l'emissione di denaro crei inflazione; altri invece, pensando alle politiche del secondo dopoguerra, invocano il ritorno a politiche keynesiane, per ridare fiato allo sviluppo, tornando a vedere nella "mano pubblica" la via di uscita dalla recessione (10).

In entrambi i casi, sono vecchie idee, seguendo le quali ripercorreremmo strade disastrosamente già percorse dal capitalismo: strade che, di crisi in crisi, hanno costruito lo straordinario potere della finanza internazionale, che ha sovrapposto all'organismo sociale umano un'economia artificiale speculativa che opprime l'economia reale, nonostante questa debba poi ogni volta farsi carico, come sta accadendo grazie ai governi "tecnici", del salvataggio del sistema.

Il cosiddetto quantitative easing (letteralmente: "agevolazione quantitativa"), ultima forma di creazione di denaro dal nulla, utilizzato dalla Federal Reserve Usa per alimentare il sistema bancario nel momento più drammatico della crisi del 2007-2008, indebitando i governi e i cittadini, e perpetuando i meccanismi della speculazione finanziaria, mostra che il potere di emettere moneta deve essere sottratto alle banche.

Ma questo potere deve essere altresì sottratto alla funzione politica, dal momento che lo Stato, nelle democrazie parlamentari, è ormai ostaggio dei poteri forti della stessa finanza internazionale: basta conoscere il già ricordato meccanismo di creazione del debito conseguente al potere delle banche di creare denaro dal nulla, e studiare in dettaglio chi sono i cosiddetti primary dealer (gli acquirenti più importanti) del debito pubblico italiano.

Di nuovo risulta evidente come sia necessario, perché l'economia reale torni a dominare correttamente la vita sociale, che le decisioni essenziali sull'economia, diventino di competenza esclusiva dei produttori (imprenditori, tecnici, lavoratori) e dei consumatori, organizzati in Camere dell'Economia, in cui essi siano pariteticamenti presenti. In una prospettiva radicalmente innovativa di questo tipo, deve spettare a chi abbia una relazione diretta con l'organizzazione e del funzionamento dei sistemi produttivi, la decisione ed il controllo sulla quantità, sulla distribuzione e sulla durata del valore della moneta, giacché solo in questo modo il denaro resterebbe collegato all'economia reale: le banche, a questo punto, svilupperebbero il loro ruolo sociale, di pura gestione tecnica del credito; l'emissione di moneta resa proporzionale alla ricchezza effettivamente prodotta dallo spirito di iniziativa, dal lavoro e dalle capacità umane, ridarebbe energia e libertà alla vita economica reale; il credito, restituito all'iniziativa ed al lavoro, riattiverebbe una sana circolazione del denaro, come linfa vitale del ciclo di produzione, trasformazione, consumo.

Per questa via occorre incamminarsi coraggiosamente, trattandosi della sola possibilità che resta ai popoli di riscattare il loro lavoro dal potere dei padroni del denaro che per questo si considerano i "padroni dell'universo".
(1) R. Dayal, Gerol Grasshoff, Douglas Jackson, Philippe Morel, Peter Neu, "Facing New Realities in Global Banking", Risk Report 2011, The Boston Consulting Group, dicembre 2011 (scaricabile on line dal sito della BCG).
(2) Ivi.
(3) M. Longo, "Effetto crisi e Basilea 3: credit crunch mondiale stimato il 5mila miliardi", Il Sole 24 Ore, 18 dicembre 2011.
(4) N.D. Schwartz, D. Jolly, "European Bank in Strong Move to Loosen Credit", The New York Times, 21 dicembre 2011.
(5) S. Bernabei, L. Togni, "Italian banks tap €116 of ECB loans", Reuters, 21 dicembre 2011.
(6) A. Merli, "Berlino prepara la bad bank", Il Sole 24 Ore, 10 dicembre 2011.
(7) M. Longo, "Il maxi-prestito Bce parcheggiato a Francoforte", Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011.
(8) L. Gallino, Finanzcapitalismo, la civiltà del denaro in crisi, Einaudi, Torino, 2011, p. 177.
(9) L. Vinciguerra, "La Cina mette gli occhi sugli asset strategici Ue", Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011.
(10) Si veda l'intervento, tipico della finanza "di sinistra", di Carlo De Benedetti, "Da Francoforte un colpo a salve", Il Sole 24 Ore, 24 dicembre 2011.



Fornero, un disastro al governo
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 22 Dicembre 2011

Non c’è solo l’equità tra le promesse mancate dal governo Monti. Un’altra, significativa delusione, arriva dalla politica della comunicazione governativa. Il presidente del Consiglio, infatti, aveva garantito un uso parco e misurato delle dichiarazioni dei suoi ministri.

E se l’equità è risultata essere fumo negli occhi, anche sulla sobrietà della comunicazione qualcosa non deve aver funzionato. Con regolarità ormai quotidiana, infatti, il volto piangente del governo, la Ministro Elsa Fornero, esterna e crea allarme sociale, contribuendo a far crescere il fastidio generale del paese per gli apprendisti stregoni.

L’ultima gaffe l’ha vista protagonista a un convegno della Federazione della Stampa Italiana: si è presentata affermando che i conti dell’Inpgi non sono in ordine e che peccano di trasparenza e che, dunque, dovranno subire le decisioni della Fornero medesima.

Quindi si è alzata, prima che potessero replicare alle sue esternazioni, ed è uscita dalla sala, rinunciando a partecipare alla conferenza stampa prevista.

La reazione è stata dura: tutti gli intervenuti hanno ricordato come i conti dell’Inpgi siano a posto fino al 2050 e che quanto a trasparenza i suoi bilanci, pubblici e certificati da otto organismi - tra i quali il Ministero dell’Economia e del Lavoro e la Corte dei Conti - si possono leggere sul sito ufficiale dell’istituto previdenziale. Basta saperli leggere.

Tanto per dare un quadro dello spessore del personaggio, al convegno che celebrava il centenario dell’introduzione del primo contratto nazionale di categoria, la Fornero ha detto: “Se c’è da cento anni andrà pure rinnovato, no”? Confondendo così la nascita dell’istituto del contratto nazionale con il contratto vero e proprio vigente, che ha invece, come dovrebbe sapere, due anni di vita.

Il Presidente dell’Inpgi, Camporese, che vede il rischio di manovrine furbette destinate a trasferire i fondi degli istituti privati nelle casse di quelli pubblici, l’ha invitata a dire quello che ha in mente davvero e, comunque, a documentarsi prima di dire falsità grossolane, annunciando che il ministro risponderà in tutte le sedi competenti delle sue parole.

Ma quella contro le casse previdenziali private (che nulla ricevono da quelle pubbliche e che pagano di tasca propria gli ammortizzatori sociali) è stato solo l’ennesimo infortunio della professoressa, che in tre giorni ha sostenuto l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la distruzione del sistema pensionistico pubblico e le provocazioni a danno di quello privato.

Non passa giorno ormai, senza che la Fornero non senta il bisogno di straparlare. Esaurite le lacrime in favore di telecamere, la signora, colta da improvvisa mania di protagonismo, squaderna con i giornalisti amici pensieri e parole, dichiarazioni e smentite.

Ieri il segretario del PD, Bersani, facendo eco alle reazioni sindacali (particolarmente dura con lei la leader della CGIL Camusso e quello della CISL Bonanni), è dovuto intervenire con forza per ribadire che toccare l’articolo 18 in un paese con il record europeo di disoccupazione è follia e che è arrivata ora che il governo ascolti le forze sociali se vuole andare avanti.

A fare eco alla Fornero ci sono solo Ichino e la Marcegaglia, il che non è propriamente la rappresentazione del consenso di massa. La Fornero, come Ichino, invoca la flex.security, uno di quei mantra fallaci già sotto l’aspetto terminologico.

Perché se la parte “flex” è chiara (e sperimentata in tutta la sua brutalità), dove sarebbe la “security”? Il Ministro, che sull’articolo 18 ha già fatto marcia indietro, si ritiene espressione del “nuovo” ma la sensazione d’incompetenza totale e d’inadeguatezza, già percepita nei primi giorni del suo incarico, è diventata ormai certezza.

Al riguardo, stabilito che il Ministro è fuori contesto e le sue esternazioni sono fuori da ogni logica e competenza, la domanda che ci si pone è fondamentalmente una: parla per vanità personale o perché l’Esecutivo la manda allo sbaraglio per vedere le reazioni e regolarsi di conseguenza? Il tempo della sua permanenza al governo sarà la risposta all’interrogativo.



La demenza generalizzata del popolo italiano
di Costanzo Preve - ComedonChisciotte - 17 Dicembre 2011

Un enigma storico da decifrare

1. Nell’editoriale della rivista Italicum, dicembre 2011, Luigi Tedeschi fa un primo completo bilancio dei provvedimenti della giunta Monti, e ne rintraccia anche correttamente la genesi economica, storica e politica. Alla fine di queste analisi Tedeschi osserva che tutti i partiti, di destra e di sinistra, “volevano che Monti attuasse quelle manovre impopolari che essi non erano in grado di condurre in porto per motivi elettorali”.

Mi sembra evidente. E ancora: “Potrebbero un domani tentare di svincolarsi dalle loro responsabilità addossando a Monti la colpa per misure impopolari approvate, contando sulla demenza generalizzata del popolo italiano, che darebbe loro nuovo consenso, non essendoci alternative”.

A livello di filosofia politica, ci si potrebbe chiedere se il popolo in quanto tale è demente (spiegazione nicciana e delle teorie delle élites) oppure se lo è soltanto quando è ridotto a corpo elettorale (spiegazione che risale a Rousseau e ai teorici della democrazia diretta, fra cui anche Lenin).

2. Quindici anni fa scrissi un manifesto filosofico insieme a Massimo Bontempelli, mancato in questo stesso anno 2011 (cfr. Bontempelli-Preve, Nichilismo Verità Storia, CRT, Pistoia 1997). In un capitolo sulla menzogna del linguaggio economico (pp. 23-24), Bontempelli faceva risalire alla generalizzazione della forma di merce la scomparsa della verità delle relazioni sociali.

Diagnosi a mio avviso esattissima. E poi elencava una serie incredibile di menzogne del linguaggio economico. Fra di esse si notava che “alcuni decenni orsono, quando la tecnologia e la produzione di merci erano meno sviluppate di oggi, non c’erano difficoltà a finanziare le pensioni e l’assistenza sanitaria dei lavoratori, mentre oggi, dopo tanto sviluppo, gli economisti ci dicono che il sistema economico non può sopportare questo finanziamento”.

Sembrano righe scritte nel dicembre 2011, e invece risalgono ai primi mesi del 1997. Partiamo quindi da questo rilievo.

3. Come tutti gli studiosi di storia e di filosofia, sono attirato dai due estremi complementari della coscienza sociale, la genialità e l’idiozia. E tuttavia l’idiozia è sempre più interessante, anche perché è più divertente. I mezzi di comunicazione di massa ci offrono ogni giorno quantità industriali di idiozia, e con l’arrivo della televisione e dei giornali non c’è neppure bisogno di mescolarsi agli idioti, perché l’idiozia ci viene portata a domicilio in modo semigratuito.

Mi ha colpito una manifestazione di “donne” (una delle maggiori idiozie del nostro tempo è la separazione femminista di donne e di uomini, dopo che c’è voluta tanta fatica per promuoverne la giusta e sacrosanta eguaglianza), in cui una nota regista concionava sostenendo che il nuovo governo Monti almeno “rispettava le donne”, mentre il precedente puttaniere evidentemente non lo faceva. Ora, il precedente puttaniere non era riuscito ad aumentare in un colpo solo l’età pensionabile, mentre Monti, l’uomo che rispetta le donne, lo ha fatto.

Siamo quindi di fronte ad un esempio quasi da manuale di demenza generalizzata. La sua genesi deve essere ancora indagata. A un livello superficiale, per sua natura insoddisfacente, ci si può riferire alla necessità del PD di babbionizzare il suo elettorato, oppure alle conseguenze di vent’anni di antiberlusconismo di “Repubblica”, rinforzato da dosi massicce di Floris e Gad Lerner. E’ senz’altro così. Nello stesso tempo, fermarsi a questo livello è assolutamente insoddisfacente.

4. Partiamo da un dato apparentemente secondario. Scrive il giornalista Stefano Lepri (cfr. “La Stampa”, 14 dicembre 2011): “Colpisce nel Paese, almeno a giudicare dai sondaggi, il contrasto fra gli elevati consensi di cui gode il governo Monti e il diffuso rigetto della sua manovra di austerità. Non sembra esistere nessuna forza capace di convincere i cittadini che quello che gli viene richiesto è uno sforzo solidale”.

Partiamo da questa apparente schizofrenia. Elogi a Monti e al suo burattinaio politico Napolitano, ex comunista riciclato in uomo della NATO e degli USA in Italia, e considerato dalla massa babbiona PD il grande garante e difensore della Costituzione. E nello stesso tempo brontolio contro la manovra sul fatto che “pagano sempre i soliti noti”, “la casta non è abbastanza colpita”, eccetera.

Spiegare questa schizofrenia è relativamente facile, ma richiede ugualmente uno sforzo culturale. Facciamolo, tenendo conto che mi limiterò all’Italia, e solo all’Italia, perché altrove i dati culturali egemonici possono essere e sono diversi.

5. Quando al tempo di Pio XII la chiesa cattolica “scomunicò i comunisti” siamo stati in presenza di un episodio, forse l’ultimo, di una strategia controriformistica. La chiesa non aveva mai avuto paura di quella forma di paganesimo estetizzante che era stato un certo Rinascimento, ma aveva avuto veramente paura di una possibile riforma protestante in Italia.

La riforma protestante, infatti, non parlava soltanto ai dotti e agli intellettuali del tempo, ma al popolo. Nello stesso modo la chiesa cattolica, pur avendo messo debitamente all’indice le opere filosofiche di Croce e di Gentile, nonostante il loro continuo proclamarsi di “non potersi non dirsi cristiani”, non aveva mai avuto molta paura né della variante liberale del laicismo, né di quella azionista. Sia il liberalismo che l’azionismo erano infatti palesemente fenomeni ristretti di certi intellettuali.

Ma con l’arrivo del “comunismo” in Italia (arrivo non precedente la guerra civile 1943-45, almeno nella sua dimensione di massa) le cose cambiavano. Il comunismo italiano, nella versione togliattiano-gramsciana, sfidava invece la chiesa cattolica sul suo stesso terreno, che era l’egemonia culturale sulle classi popolari.

Il segretario di sezione comunista iniziava sempre la sua relazione dalla cosiddetta “situazione internazionale”. Si trattava spesso di una raffigurazione assolutamente mitico-fantasmatica della realtà sociale, basata sulla metafisica storicistica del progresso, su di una immagine antropomorfica del capitalismo come società dei privilegi di mangioni e “forchettoni”, sull’elaborazione dell’invidia sociale dei subalterni, sul presupposto della supposta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive, e su altre sciocchezze positivistiche di questo tipo fatte indebitamente risalire a Marx, eccetera.

Sarebbe estremamente facile correggere con una matita rossa e blu le ingenuità populistiche di questo messaggio. Sta di fatto che questo messaggio dava pur sempre della realtà un’immagine razionale e coerente, in grado di spiegare con un certo grado di semplificata approssimazione la storia contemporanea, anzi “il presente come storia” per usare una bella espressione di Paul Sweezy.

6. Tutto questo venne progressivamente meno in Italia nel ventennio 1968-1988. Non intendo scendere in una periodizzazione più precisa e analitica perché mi interessa connotare un processo nella sua interezza temporale evolutiva.

In questo ventennio le classi popolari italiane restarono semplicemente senza gruppi intellettuali nel senso egemonico gramsciano del termine, e restarono così politicamente mute. Le facili accuse di populismo, leghismo, razzismo, eccetera, con cui vengono ingiuriate da circa un ventennio, nascondono un maestoso processo di spossessamento e di deprivazione culturale complessiva.

In termini sintetici, il comunismo italiano fra il 1968 e il 1988 si è trasformato culturalmente in una sorta di “azionismo di massa”, ma trasformandosi in azionismo di massa non poteva che cambiare radicalmente codice comunicativo ed egemonico.

L’azionismo di massa, combinato con il sessantottismo dei costumi di cui il femminismo è certamente stato una componente particolarmente degenerativa in senso sociale, ha infine preparato il clima dell’ultimo ventennio, un occidentalismo di massa esplicito (antiberlusconismo moralistico ed estetico, diritti umani a bombardamento imperialistico legittimato, eccetera).

Una tragedia, e soprattutto una tragedia rimasta in larga parte incomprensibile alle sue stesse vittime, oggetto di una babbionizzazione pianificata dall’alto cui era praticamente impossibile resistere.

7. Possiamo sommariamente connotare la cultura popolare promossa dal PCI, e subordinatamente anche dal PSI, fra il 1948 e il 1968 come una forma di populismo di massa. Del resto, questo era chiaro a tutti gli studiosi del tempo, basti pensare all’Asor Rosa di Scrittori e Popolo.

Soltanto negli ultimi vent’anni il “populismo” è diventato un insulto applicato non solo a Berlusconi, ma anche a Chavez. Ma non si tratta che di un mascheramento linguistico del ceto intellettuale integrato e politicamente corretto, e anzi integrato perché politicamente corretto, o se si vuole politicamente corretto perché integrato.

Al ventennio del populismo di massa 1948-1968, seguì il ventennio dell’azionismo di massa 1968-1988. Non a caso, Norberto Bobbio diventò il principale autore di riferimento dell’ex PCI spodestando completamente Gramsci, diventato autore di cult per i cultural studies delle università anglosassoni. Per comprendere il passaggio dal populismo di massa all’azionismo di massa è utile “rinfrescare” la nostra conoscenza delle fasi di sviluppo del capitalismo.

8. Il principale errore della metafisica di “sinistra” consiste nell’identificazione del capitalismo con la borghesia. In termini spinoziani, questo dà luogo a una antropomorfizzazione del capitalismo, cui sono attribuite di volta in volta caratteristiche antropomorfiche, come la conservazione o il progressismo.

In termini hegeliani, questo dà luogo a una esaltazione di tipo weberiano del razionalismo astratto, per cui la razionalizzazione progressiva delle sfere sociali e il loro adattamento al consumo delle merci viene chiamato “modernizzazione”.

In termini marxiani, questo significa scambiare la falsa coscienza necessaria dei gruppi intellettuali “modernizzatori” per il fronte scientifico avanzato della coscienza sociale, cui sottomettere con l’educazione i plebei invidiosi rimasti invischiati nel razzismo, nel populismo e nel leghismo.

Secondo la corretta analisi dei sociologi francesi Boltanski e Chiapello, la “sinistra” che conosciamo si è costituita in un ben preciso periodo e in una ormai sorpassata fase dello sviluppo capitalistico.

Si è costituita fra il 1870 e il 1968 circa, sulla base di un’alleanza fra la critica sociale alle ingiustizie distributive del capitalismo di cui erano titolari le classi popolari, operaie, salariate e proletarie, e una critica artistico-culturale all’ipocrisia conservatrice della borghesia di cui erano titolari i cosiddetti “intellettuali d’avanguardia”.

Questo schema corrisponde abbastanza bene, per quanto concerne l’Italia, al ventennio 1948-1968 e trova ad esempio in Pier Paolo Pasolini un rappresentante significativo.

Con il Sessantotto, una delle date più controrivoluzionarie della storia mondiale comparata, questa alleanza viene meno perché è il capitalismo stesso a liberalizzare i costumi sociali e sessuali in direzione non solo post-borghese , ma addirittura anti-borghese (e ancora una volta il femminismo dei ceti ricchi è solo la punta dell’iceberg).

L’azionismo di massa del ventennio 1968-1988 progressivamente dominante in Italia non è altro che la versione italiana di un fenomeno europeo e mondiale, ma soprattutto europeo, perché Cina, India, Brasile, eccetera, continuano a essere Stati sovrani e non occupati da basi militari USA dotate di armamenti atomici.

Un popolo privato di ogni profilo culturale autonomo è quindi preda di un processo che si può definire sommariamente come “sindrome di demenza generalizzata”. Mi spiace che possa sembrare sprezzante ed offensivo, ma non riesco a trovare altro termine per connotare la perdita totale di un “centro di gravità permanente”, per rifarci all’espressione di un noto compositore.

9. La sindrome di demenza generalizzata insorge quando vengono meno tutti gli schemi dialettici di interpretazione sociale e riguarda tutti, ma assolutamente tutti gli ambiti sociali, in alto e in basso, a destra e a sinistra, anche se ovviamente in forme diverse.

A “destra” la sindrome di demenza generalizzata assume le consuete forme paranoiche. La paranoia è infatti una malattia soprattutto di “destra”, mentre la schizofrenia è invece una malattia soprattutto di “sinistra”.

Prestiamo attenzione a fenomeni degenerativi come il pogrom di gruppi di plebei torinesi delle Vallette (non uso infatti mai la nobile parola di “popolo” per plebi decerebrate e imbarbarite) contro un insediamento di nomadi, o addirittura l’uccisione a freddo di due senegalesi a Firenze da parte di un allucinato paranoico.

E’ assolutamente evidente che fatti come questi non devono essere giustificati in alcun modo con contorti argomenti sociologici da bar.

E tuttavia essi sono soltanto la punte dell’iceberg di una perdita totale di comprensione del mondo, cui si supplisce con la scorciatoia della paranoia. Naturalmente il concerto politicamente corretto non è in grado di spiegare questi fenomeni di alienazione paranoica, perché si culla con i rassicuranti stereotipi del fascismo, nazismo, populismo, leghismo, revisionismo, negazionismo, eccetera. Ma la cura di queste sindromi di demenza generalizzata non può consistere in geremiadi moralistiche.

Ho già notato come la sindrome di demenza assuma a “sinistra” aspetti più simpatici e politicamente corretti perché solo schizofrenici e non paranoici (Monti è buono, ma la manovra è cattiva; Monti è buono perché rispetta le donne a differenza del laido puttaniere, eccetera).

Certo, le scemenze non violente sono pur sempre meglio delle scemenze violente, ma scemenze restano e resta il problema della opacità sociale, cioè di un sistema di cui si è completamente perduta la chiave d’interpretazione.

Ma non c’è nessuna chiave, dicono gli intellettuali pagliacci di regime alla Umberto Eco, e bisogna abituarsi a vivere gaiamente senza più nessuna chiave. Ma le grandi masse popolari, appunto, non possono vivere a lungo senza alcuna chiave interpretativa della riproduzione sociale, pena la caduta in sindromi di demenza generalizzata. E di questa bisogna quindi parlare.

10. Vi è un interessante passo, credo di John Reed, che può aiutarci a impostare la questione della demenza sociale generalizzata. Reed parla con un “soldato rosso” dopo il 1917 che gli dice: “I bolscevichi sono buoni perché ci hanno dato la terra. Sono invece i cattivi comunisti che ce la vogliono togliere”.

Ora, è inutile assumere la spocchia della persona colta che sa che bolscevichi e comunisti sono in realtà le stesse persone. Ciò che invece conta è il modo in cui erano percepite da chi aveva tutto il diritto di non conoscere le teorie di Marx e del conflitto fra tattica bolscevica e strategia comunista.

Monti piace, mentre le sue manovre no, perché si pensa che esse colpiscano sempre i “soliti noti”. Errore. Colpiscono anche le libere professioni “borghesi” consolidate e organizzate da almerno due secoli di civiltà borghese. Naturalmente, Berlusconi si era fatto votare per “fare la rivoluzione liberale”, ma questa rivoluzione liberale, oggi come oggi, colpisce il 95% delle persone e ne salva invece solo il 5%.

I vari Giavazzi e Alesina non sono affatto “liberali”, come opinano i lettori ingenui del Corrierone, ma sono solo “maschere di carattere” (le marxiane charaktermasken) di un processo anonimo e impersonale di globalizzazione liberista. Questo processo non può presentarsi apertamente nella sua concreta natura che chiamare “nazista” è dire poco.

Si tratta di una società del lavoro flessibile, precario e temporaneo generalizzato, della fine di ogni democrazia e di ogni sovranità nazionale, di un interventismo imperiale continuo fatto in nome di generici “diritti umani” ad arbitrio assoluto, e della stessa fine dell’Europa come centro autonomo di civiltà non ancora del tutto “occidentalizzato”.

In un simile quadro la demenza sociale riflette l’opacità della riproduzione sociale, e assume toni schizofrenici a sinistra e paranoici a destra, anche se di diverso grado di pericolosità criminale. A sinistra, un antifascismo paranoico in totale assenza di fascismo.

A destra, l’ennesima stucchevole tendenza a prendersela con i soliti capri espiatori, i nomadi, i negri, gli immigrati, eccetera. Questa demenza non verrà meno fino a che una nuova credibile interpretazione della natura degli avvenimenti in corso, e cioè del “presente come storia”, sostituirà gli spettacoli schizofrenici e paranoici in corso.

I pazzi di Oslo e di Firenze non possono essere previsti. Il casuale in quanto tale è necessario, scrisse Hegel. Ma la reintroduzione della razionalità storica nella politica, questa sì, sarebbe possibile.