martedì 30 novembre 2010

Due Coree: la Cina ne vuole una

Un paio di giorni fa sono cominciate le manovre navali congiunte fra Stati Uniti e Corea del Sud nel Mar Giallo, facendo naturalmente aumentare ulteriormente una tensione già alta dopo i colpi d'artiglieria norcoreani esplosi contro l'isola di Yeonpyeong in Sud Corea che hanno provocato 4 morti.

A queste esercitazioni congiunte vi partecipa anche la portaerei Usa George Washington a propulsione nucleare.

Ovvia l'immediata protesta della Corea del Nord, "Risponderemo senza pietà a qualsiasi provocazione", che ha infatti piazzato missili sulle rampe di lancio sulle coste del Mar Giallo pronti a colpire le forze navali sudcoreane in caso di sconfinamento.

Inoltre il ministero della difesa sudcoreano ha già "invitato" i giornalisti che si trovano sull'isola di Yeonpeyong ad abbandonarla perchè la situazione "è brutta".

Ma la diplomazia è in pieno movimento. La Cina infatti aveva subito proposto consultazioni di emergenza a Pechino tra i capi delle delegazioni dei sei Paesi del gruppo sulla denuclearizzazione della penisola coreana (le due Coree, gli Usa, la Cina, il Giappone e la Russia). Proposta però respinta dalla presidenza sudcoreana.

Tuttavia la Cina ha già avviato dei colloqui con la Corea del Sud, dichiarandosi d'accordo con Seul nel definire "preoccupante" la situazione che si è creata in seguito all'attacco nordcoreano di martedì scorso.

E il massimo responsabile cinese per la Corea, Dai Bingguo, due giorni fa era a Seul dove ha incontrato il presidente Lee Myung-bak. E secondo l'agenzia Nuova Cina, Cina e Corea del Sud sono d'accordo anche sul fatto che siano necessarie "iniziative volte a salvaguardare la pace".

E non va dimenticato poi che tra gli oltre 250.000 file pubblicati l'altroieri da Wikileaks, ce n'è anche uno che sostiene che la Cina è pronta a voltare le spalle al regime di Pyongyang - che si comporta come "un bambino viziato" - e ad accettare la riunificazione delle due Coree, sotto il controllo di Seul.

Una riunificazione che i businessmen cinesi attendono da anni...


Corea, la battaglia di Yeonpyeong
di Gabriele Battaglia - Peacereporter - 23 Novembre 2010

Pyongyang esplode colpi d'artiglieria verso le isole contese: tre morti e numerosi feriti

Millesettecento abitanti e mille soldati di guarnigione, nel Mar Giallo, a soli dodici chilometri dalla costa nordcoreana. Sono le due isole Yeonpyeong, dove stamane almeno due soldati di Seul sono morti nel cannoneggiamento messo in atto dalla Corea del Nord.

Si parla di sessanta-settanta colpi di artiglieria. Gli ultimi aggiornamenti riportano anche un totale di quindici militari e tre civili feriti, parecchi edifici sono in fiamme.

La Corea del Sud ha risposto con un'ottantina di cannonate sparate oltre il 38° parallelo e con una squadriglia di F-16 inviata nella zona.
Il generale Lee Hong-ki, dello stato maggiore di Seul, ha dichiarato che i nordcoreani hanno subito "un danno significativo" nel contrattacco lanciato dalle forze militari sudcoreane.

Tuttavia Seul non vuole alzare la tensione nell'area, dove il gioco delle parti si è fatto più complicato negli ultimi giorni, dopo la scoperta di un nuovo impianto di arricchimento dell'uranio nordcoreano, capace di circa duemila turbine (in realtà una vera e propria rivelazione da parte di Pyongyang, che ha scelto di mostrare la centrale a uno scienziato usa).

Al momento dell'attacco, nell'area era in corso un'esercitazione navale della marina sudcoreana, particolare sottolineato dall'agenzia di Stato cinese, Xinhua, che ha però riportato anche un appello del governo di Pechino alle due parti per un abbassamento della tensione. Anche la Russia si è allineata.

Difficile al momento spiegare i motivi dell'attacco. La Corea del Nord non ha mai riconosciuto il "limite nord" sudcoreano e le Yeonpyeong sono già state teatro di almeno due scontri armati, nel 1999 e nel 2002.

Per alcuni analisti, si tratta di un messaggio di Pyongyang in concomitanza con il viaggio in Asia del principale inviato Usa in Nord Corea, Stephen Bosworth, che ha definito "inaccettabile" il nuovo impianto di arricchimento dell'uranio.

Pyongyang - in linea con Pechino - sarebbe disposta a tornare ai colloqui a sei sulla denuclearizzazione della penisola coreana trattando alla pari con gli Usa, condizione sempre rifiutata da Washington, che chiede prima alla Corea del Nord un "commitment through action", cioè di fatto un'interruzione del proprio programma nucleare.

Da parte sua, la Corea del Nord ha accusato Seul di aver sparato per prima. Lo si legge in un comunicato del comando delle forze armate sudcoreane, pubblicato dall'agenzia di stampa ufficiale di Pyongyang: "Il nemico sudcoreano - è scritto nella nota - malgrado i nostri avvertimenti ripetuti, ha commesso provocazioni militari procedendo a tiri di artiglieria contro il nostro territorio marittimo nei pressi dell'isola di Yeonpyeong, a partire dalle 13 (le 5 in Italia ndr)".

Per questo, prosegue il comunicato l'esercito nordcoreano "continuerà senza esitazioni i suoi attacchi militari se il nemico sudcoreano osa invadere il nostro territorio".


Ritorna la paura nordcoreana
di Antonio Marafioti - Peacereporter - 22 Novembre 2010

Lo scienziato Siegfried Hecker rivela una crescita esponenziale delle centrali nucleari in Corea del Nord. Washington chiama gli indecisi a una tattica di isolamento di Pyongyang

Neanche il tempo di essere ottimisti per i colloqui informali, e pare positivi, con la Russia, tenuti a margine del vertice Nato di Lisbona, che una nuova preoccupazione nucleare entra nell'agenda degli Stati Uniti: quella dei progressi della Corea del Nord sull'ampliamento del proprio programma nucleare.

"Sbalorditivo": Così lo ha definito Siegfried Hecker, professore della Stanford University ed ex direttore del Los Alamos National Laboratory. Lo scienziato era stato invitato all'inizio di questo mese dal governo di Pyongyang a visitare il complesso nucleare di Yongbyon, la maggiore installazione nucleare nel nord del Paese.

Dopo il sopralluogo le parole di Hecker sono state chiare: "È un complesso ultramoderno per l'arricchimento dell'uranio con oltre 2000 centrifughe".

Hecker ha fatto sapere che i reattori presenti nell'impianto, capaci di sprigionare dai 25 ai 30 megawatt, "sembrerebbero essere stati disegnati prevalentemente per generare energia nucleare civile, non per accrescere la potenza militare coreana" ma che, ha aggiunto lo scienziato, "potrebbero essere facilmente convertiti per produrre uranio altamente arricchito o carburante per bombe".

Le dichiarazioni che arrivano da Washington sembrerebbero essere quelle di chi è ben consapevole di giocare una partita a scacchi con un avversario piuttosto ermetico. Dalla Bolivia, dove è ospite a una conferenza regionale sulla difesa, il titolare del Pentagono, Robert Gates, ha sostenuto: "La Corea del Nord ha ignorato una serie di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Tentano continuamente di esportare armi. Quindi la notizia di un loro ulteriore sviluppo nucleare è ovviamente una preoccupazione". Gates ha poi aggiunto: "Se è vero che il reattore è per uso civile, allora il governo nordcoreano dovrebbe dare il benvenuto agli ispettori dell'Aiea".

Molto meno caustico di Gates è stato Stephen Bosworth, inviato speciale di Washington in Corea del Nord, per il quale le rivelazioni di oggi sui progressi nucleari di Pyongyang pongono un "difficile problema nonché l'ultimo atto di una serie di mosse provocatorie".

Tuttavia, ha detto Bosworth, "questa non è una crisi e noi non siamo sorpresi. Abbiamo osservato e analizzato le aspirazioni della Corea del Nord nella produzione dell'uranio, e le sue politiche non sono utili agli obiettivi di comune accordo che abbiamo sottoscritto in termini di pace, prosperità e stabilità nella penisola coreana e nel nord-est asiatico".

Per il capo di Stato maggiore Usa, l'ammiraglio Mike Mullen, "questa notizia convalida una preoccupazione di lunga data che abbiamo avuto per quanto riguarda la Corea del Nord e il suo programma di arricchimento dell'uranio. È un Paese molto pericoloso e tutto questo è coerente con un comportamento belligerante e la creazione di un'instabilità politica in una parte del mondo già di per se pericolosa".

Dalla Casa Bianca, intanto, il presidente Barack Obama cerca di sfruttare al massimo il malcontento politico di nazioni vicine alla Corea del Nord e fortemente contrariate dall'annuncio: Russia, Giappone e Corea del Sud.

Nella tattica volta all'isolamento di Pyongyang, il presidente statunitense cerca, soprattutto, l'appoggio della Cina, principale finanziatrice della Corea del Nord. Gli emissari di Washington cercheranno in settimana un accordo in virtù del quale Pechino si renda disponibile a tagliare le risorse per dissuadere il governo della Repubblica socialista a proseguire le sue politiche di proliferazione nucleare.

Intanto, l'amministrazione Obama ha reso noto che non considererà alcuna richiesta della Corea del Nord di riavviare in negoziati a sei - fra le due Coree, gli Stati Uniti, il Giappone, la Russia e la Cina - senza che Pyongyang si impegni concretamente a onorare i precedenti impegni dell'aprile 2009, volti a smantellare il suo programma di arricchimento di materiale nucleare.

Secondo gli ultimi dati, in mano agli Usa, la Corea del Nord ha abbastanza materiale fissile da poter costruire fino a dodici bombe nucleari.


Corea, tensione a stelle e striscie
di Michele Paris - Altrenotizie - 29 Novembre 2010

A pochi giorni dallo scontro a fuoco tra Seoul e Pyongyang, la tensione tra le due Coree non sembra essere scesa di molto. L’appoggio incondizionato offerto all’alleato meridionale da parte di Washington ha contribuito anzi ad inasprire un’escalation fatta di minacce e dichiarazioni incendiarie da entrambi i lati del trentottesimo parallelo.

L’invito degli Stati Uniti alla Cina per intercedere sul regime nordcoreano, assieme all’invio di navi da guerra nella regione, appare poi l’ennesima provocazione all’interno di una ormai consolidata strategia dell’amministrazione Obama per contrastare il peso sempre crescente esercitato da Pechino in Asia e altrove.

L’ennesima disputa tra la Corea del Nord e quella del Sud, com’è noto, era andato in scena martedì scorso, quando un bombardamento delle forze di Pyongyang aveva colpito l’isola di Yeonpyeong, nel Mar Giallo, causando la morte di quattro sudcoreani (due militari e due civili). Secondo fonti nordcoreane, il fuoco sarebbe giunto in risposta a colpi sparati dal sud e caduti a poca distanza dalle coste settentrionali.

L’episodio ha subito scatenato il panico tra la popolazione sudcoreana e profonde divisioni all’interno del gabinetto del presidente conservatore Lee Myung-bak.

Ad alimentare le preoccupazioni per una situazione che sembra a molti la più delicata dalla fine della guerra tra le due Coree, suggellata dall’armistizio del 1953, ci si è messa anche l’immediata presa di posizione americana.

Per tutta risposta, gli Stati Uniti hanno inviato nel Mar Giallo la nave da guerra George Washington, che trasporta velivoli equipaggiati con ordigni nucleari, per dare inizio ad esercitazioni congiunte con la marina sudcoreana. Washington continua ad avere quasi trentamila soldati sul suolo sudcoreano e considera Seoul un alleato fondamentale nel continente asiatico.

All’iniziativa americana, da Pyongyang si è risposto con sdegno, avvertendo che “la situazione nella penisola coreana si sta avviando verso un nuovo conflitto”. Contemporaneamente, a Seoul il ministro della Difesa sudcoreano ha finito per dimettersi in seguito alle critiche dei falchi del proprio partito per l’impreparazione all’attacco nordcoreano e la risposta troppo debole. Sull’isola di Yeonpyeong sono poi giunti rinforzi e armamenti pesanti, pronti ad una durissima reazione contro eventuali nuove incursioni dei vicini settentrionali.

Lo stesso presidente Lee Myung-bak, eletto nel 2008 grazie anche alla linea dura promessa verso la Corea del Nord, è finito sotto accusa per essersi mostrato fin troppo tenero con il regime di Kim Jong-il.

In realtà, il taglio drastico agli aiuti verso il nord e la fine della politica di riconciliazione promossa dal suo predecessore, Roh Moo-hyun, hanno contribuito in questi anni a riaccendere le tensioni nella penisola coreana. A ciò va aggiunto il fatto che Pyongyang non ha mai riconosciuto la linea di demarcazione nelle acque del Mar Giallo stabilita dagli USA nel 1953.

La Corea del Nord, anzi, fissò il proprio spartiacque nel 1999, in seguito al quale si verificarono una serie di scontri. Nel 2002 una scaramuccia tra le due marine costò la vita a quattro militari sudcoreani e a trenta nordcoreani. Più recentemente, nel novembre 2009, una nave di Seoul entrò in contatto con un’imbarcazione del Nord proprio alla vigilia della visita di Obama in Asia.

L’apice della tensione è stato poi raggiunto a marzo di quest’anno in seguito all’affondamento della nave da guerra sudcoreana Cheonan proprio nel Mar Giallo, nella quale morirono 46 marinai. Per l’affondamento, USA e Corea del Sud hanno accusato Pyongyang, da dove si è negata invece ogni responsabilità.

Le ostilità nella penisola coreana sono dunque state subito sfruttate da Washington per intensificare le pressioni sulla Cina, di fatto il più importante alleato – anzi, l’unico - della Corea di Kim Jong-il.

In una serie di dichiarazioni, i vertici dell’amministrazione Obama hanno chiesto a Pechino di intercedere nei confronti di Pyongyang per desistere da ulteriori provocazioni.

Lo stesso presidente americano pare abbia parlato direttamente con il suo omologo cinese, Hu Jintao, mentre un inviato di Pechino ha incontrato il presidente sudcoreano, in attesa della visita di un alto esponente della Corea del Nord.

L’invio della nave da guerra George Washington nel Mar Giallo, per stessa ammissione statunitense, è rivolta proprio a persuadere la Cina. Le esercitazioni congiunte americano-sudcoreane nelle acque al largo della Cina, secondo quanto dichiarato da anonimi membri dell’amministrazione Obama alla stampa d’oltreoceano, servirebbero a mettere di fronte Pechino alla realtà di una maggiore presenza americana nella regione nell’eventualità di un aumento dell’aggressività della Corea del Nord.

Ciò che nell’ottica di Washington la Cina dovrebbe fare nei confronti di Pyongyang è verosimilmente minacciare la fine dei massicci aiuti che garantisce ad un paese che soffre di una estrema povertà, anche a causa di decenni di dure sanzioni imposte dagli USA e dall’Occidente.

I cinesi, da parte loro, se da un lato desidererebbero aprire la Corea del Nord alle proprie aziende alla ricerca di manodopera a bassissimo costo, dall’altro dispongono di limitati mezzi di persuasione nei confronti di un regime che si sente continuamente sotto assedio.

La destabilizzazione della Nord Corea potrebbe provocare, infatti, non solo un massiccio afflusso di disperati verso la Cina ma significherebbe per quest’ultima ritrovarsi appunto una maggiore presenza americana alle porte.

La dimostrazione della potenza militare americana a due passi dalla Cina rappresenta solo la più recente offensiva di Washington in estremo Oriente. Negli ultimi mesi, gli Stati Uniti hanno ad esempio sostenuto fermamente le ragioni dei paesi dell’Asia sud-orientale nelle loro dispute territoriali con la Cina. Agli stessi governi, inoltre, l’amministrazione Obama si sta riavvicinando costruendo partnership strategiche sempre in funzione anti-cinese.

Un rilancio della propria presenza in Asia quello americano che accresce il pericolo di una nuova guerra tra le due Coree e che l’inevitabile coinvolgimento cinese renderebbe ancora più rovinosa per l’intero pianeta.


Corea del Nord, cannonate per attirare l'attenzione

di Gabriele Battaglia - Peacereporter - 24 Novembre 2010

Rosella Ideo, coreanista: chi paga è la popolazione in stato di indigenza

Mentre l'annuncio di nuove esercitazioni militari congiunte Stati Uniti-Corea del Sud rischia di esasperare ancor più le tensioni nell'area, ci si chiede perché la Corea del Nord abbia aggredito, o "provocato" che dir si voglia, quella del Sud. Cerchiamo di capirlo con Rosella Ideo, coreanista e storica dell’Asia orientale.

"Alla base c'è l'esasperazione di Pyongyang perché gli Usa mantengono un atteggiamento di marginalizzazione del problema nordcoreano. Inoltre, Washington dice 'no' al tavolo a sei se Pyongyang non dimostra prima una volontà politica e pratica di denuclearizzare unilateralmente. Questo è il modo eccessivo, perché colpisce anche le popolazioni civili, con cui Pyongyang fa valere le proprie ragioni".

Quindi si tratta di un bombardamento per "attirare l'attenzione"?
La Corea del Nord vuole presentarsi al tavolo di eventuali trattative con armi forti. Le uniche di cui dispone sono il deterrente nucleare e la guerra convenzionale. In questa strategia rientrano anche le recenti rivelazioni sul nuovo impianto di arricchimento dell'uranio.

Esistono anche ragioni di politica interna?
Sì. Si tratta di dimostrare al Paese e ai militari, che hanno appoggiato la successione di Kim Jong-un, che ci sarà una continuità. E' la riaffermazione del "Songun", cioè il fatto che le armi, i militari, siano al primo posto.

Qual è lo sfondo geopolitico degli ultimi eventi?
La Cina è stata molto cauta e ha richiamato entrambe le Coree, dicendo di mantenere la calma. Dietro al problema nordcoreano c'è il braccio di ferro tra Cina e Usa. Usa e Corea del Sud vorrebbero fare implodere il regime. Washington vorrebbe che Pechino facesse più pressioni e puntano ad aumentare le sanzioni che stanno strangolando il Paese, non il regime.

Da parte loro i cinesi sanno benissimo che stanno buttando i loro soldi in un 'secchio bucato', però sono contrari all'implosione del 'regno' dei Kim. In tutta quell'area la situazione è fluida, Cina e Usa si confrontano anche nel Mar Cinese Orientale e altrove.
La Corea del Nord si sente assediata e sfrutta al massimo questa situazione fluida.

Con la fine dei colloqui a sei, gli Usa volevano di fatto esautorare la Cina, cioè il negoziatore naturale quando si tratta di Corea del Nord. Ma questo non va bene agli Usa. Quindi, se l'attacco nordcoreano è un modo per ritornare ai colloqui, anche la Cina potrebbe avvantaggiarsene.

Certo, se non si riaprono le trattative che sono ferme da due anni, c'è sempre il rischio di un errore che faccia precipitare la situazione.

Personalmente credo che il lato più drammatico sia il gioco delle grandi potenze, come nell'Ottocento, che ricade di fatto sulla popolazione nordcoreana, degli innocenti che vivono in uno stato di totale indigenza. Nel contesto internazionale non si tiene conto di questa gente.


11 ragioni per cui la Corea del Nord è la nazione più bizzarra al mondo
da http://theeconomiccollapseblog.com - 25 Novembre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Micaela Marri

Propaganda o realtà?

Gli Stati Uniti stanno per entrare in guerra con la più bizzarra nazione al mondo? Molti americani effettivamente accoglierebbero di buon grado la “guerra coreana parte seconda”, ma prima che la gente si entusiasmi troppo è importante ricordare che non siamo mai stati in guerra con una nazione che possiede davvero armi nucleari.

A questo stadio non è chiaro esattamente quanto potenti siano le armi nucleari della Corea del Nord, ma sono quasi tutti d’accordo che sono abbastanza pazzi da usarli. Stando ai resoconti la Corea del Nord avrebbe migliaia di batterie missilistiche che sono capaci di colpire i 10 milioni di persone che vivono a Seoul.

La morte e la devastazione che potrebbero potenzialmente essere provocate da un attacco totale contro Seoul sono quasi inimmaginabili. In effetti, i 24,5 milioni di abitanti che vivono a Seoul o intorno a Seoul ne fanno la seconda area metropolitana per grandezza al mondo. Il prossimo conflitto sulla penisola coreana sarà estremamente sanguinoso. Nessuno dovrebbe augurarselo.

Sfortunatamente, la prossima guerra coreana sembra più vicina che mai. Le tensioni sulla penisola sono altissime. Oggi, la Corea del Nord ha uno degli eserciti più grandi al mondo. Secondo alcuni resoconti avrebbero oltre 1 milione di soldati in servizio attivo. Ma anche la Corea del Sud è estremamente militarizzata, e ci sono 28000 truppe stazionate in Corea del Sud con cui si dovrebbero misurare i Nordcoreani.

Adesso il resto del mondo è in stato di forte agitazione, perché un conflitto tra poteri nucleari potrebbe sfuggire di mano molto facilmente. Se la Corea del Nord colpisse la Corea del Sud con armi nucleari, sembra quasi certo che gli USA attaccherebbero la Corea del Nord con delle bombe. La morte e la distruzione che ne deriverebbero sarebbero senza precedenti.

E cosa pensa la Cina di tutto ciò? La Corea del Nord non si comporterebbe in modo così belligerante adesso se non avesse il permesso della Cina. Forse la Cina sta cercando di mandare un messaggio all’occidente.

D’altra parte, altre persone credono che potrebbe essere una questione ben più profonda. Il regime nella Corea del Nord è sull’orlo di crollare su se stesso. Persino i Cinesi si stanno stancando di appoggiare il loro governo e di avere a che fare con le loro sciocchezze. La verità è che una nuova guerra coreana potrebbe giovare ai Cinesi in svariati modi.

Innanzitutto, la Corea del Sud (il più grande alleato dell’America nella regione) sarebbe assolutamente devastata persino se “vincesse” la guerra. Ciò paralizzerebbe un pezzo incredibilmente importante della scacchiera geopolitica.

In secondo luogo, gli USA rimarrebbero coinvolti in un ennesimo costoso conflitto e subirebbe senza dubbio anche costose perdite. L’opinione del resto del mondo sugli Stati Uniti si inasprirebbe ancora di più – specialmente se venissero usate le armi nucleari.

In terzo luogo, la Cina guadagnerebbe un massiccio “vantaggio” pugnalando alle spalle la Corea del Nord dopo l'inizio di un conflitto. In cambio per aver sostenuto una coalizione americana/sudcoreana, la Cina potrebbe chiedere moltissime cose che adesso non si sognerebbe nemmeno di ottenere.

Infatti, non è impensabile di immaginare che la Cina si possa accaparrare una significativa fetta della Corea del Nord al termine della guerra. Il governo cinese è regolarmente coinvolto in “dispute sui confini” (basta cercare su Google), e la Cina non avrebbe mai la possibilità di aggiudicarsi una grossa fetta di nuovi territori.

Infine, il “vincitore” di qualsiasi nuova guerra sulla penisola coreana sarebbe probabilmente la Cina. Gli USA si libererebbero del “problema nordcoreano”, ma lo farebbero pagando un prezzo molto alto. È difficile immaginare qualunque scenario che finirebbe con il giovare molto agli Stati Uniti.

Speriamo che non scoppi un nuovo conflitto totale in Corea. La Corea del Nord è governata da leader abbastanza pazzi da usare davvero le armi nucleari. Se non ci credete, considerate i seguenti 11 fatti…

#1 il primo “Grande Leader” della Corea del Nord, Kim II-Sung, è profondamente riverito nella Corea del Nord. Infatti ci sono oltre 500 statue di Kim II-sung sparse in tutto il paese. Molti Coreani a quanto pare credono che Kim II-Sung abbia in effetti creato il mondo.

#2 Si dice che sia obbligatorio appendere immagini di Kim II-Sung in tutte le case della Corea del Nord.

#3 Milioni di cittadini nordcoreani sono letteralmente morti per denutrizione negli ultimi 10 anni.

#4 La Costituzione nordcoreana effettivamente garantisce la libertà di parola e di stampa.

#5 È stato riferito che durante i periodi di fame estrema in Corea del Nord, il cannibalismo fosse piuttosto comune. Diversi anni fa, il Washngton Post ha pubblicato le parole di una disertrice di 29 anni su quanto avveniva nel paese…

“Quando si ha fame, si può impazzire. Una donna nella mia città ha ucciso il suo bambino di 7 mesi e l’ha mangiato insieme ad un’altra donna”.

La cosa triste è che la disertrice di 29 anni non ha nemmeno considerato sbagliato ciò che ha visto…

“Non posso condannare il cannibalismo. Non è che voglia mangiare carne umana, ma abbiamo avuto così tanta fame. Era consueto che la gente si recasse presso la tomba di una persona morta di recente per riesumarne il corpo e mangiarlo. Ho visto una donna accusata di cannibalismo. Ha detto che aveva un buon sapore.”

#6 Nel 1987 la Corea del Nord ha iniziato la costruzione del Ryugyong Hotel, che sarebbe stato il più alto hotel del mondo se fosse stato terminato secondo il programma nel 1989. Al contrario, la costruzione dello strano grattacielo di 105 piani somigliante ad una piramide è stata sospesa nel 1992, e la struttura non finita è rimasta per i 16 anni a seguire solo un’enorme corazza di cemento completamente vuota dentro, che incombeva su Pyongyang. Il lavoro al progetto è ripreso nel 2008 e si stima che verrà finalmente completato nel 2012.

#7 Una delle maggiori “attrazioni turistiche” della Corea del Nord è il Pueblo – una nave americana che i Nordcoreani hanno catturato dagli “imperialisti americani” nel 1968.

#8 Secondo i media nordcoreani, Kim Jong-il è un fenomeno praticamente in tutto. Si dice che abbia fatto 38 colpi sotto il par (compresi 11 “hole in one”) la prima volta che avesse mai giocato a golf.

# 9 i cristiani vengono massacrati in alcuni dei modi più brutali immaginabili in Corea del Nord. Questo che segue è solo un esempio...

“Mentre l'intervistato 17 era nell'esercito nordcoreano, la sua unità è stata inviata ad ampliare l'autostrada tra Pyongyang e la vicina città portuale di Nampo. Stavano demolendo una casa disabitata nella contea di Yongkang, distretto della città di Yongkang, quando in un seminterrato tra due mattoni hanno trovato una Bibbia e un piccolo taccuino che conteneva 25 nomi, uno identificato come un Pastore, due come dei chon-do-sa (aiutanti-pastori), due come anziani, e 20 altri nomi, apparentemente membri di una parrocchia, identificati mediante la loro occupazione.

I soldati hanno consegnato la Bibbia e il taccuino alla divisione locale del Reparto 15 del Partito Coreano dei Lavoratori (KWP), ma i funzionari del partito hanno detto che l'investigazione spettava all'unità della polizia militare, Bowisaryungbu gigwanwon.

Rintracciate al loro posto di lavoro attraverso l'elenco di occupazioni nel taccuino, le 25 persone sono state catturate senza un formale arresto dai militari bowibu. L'intervistato non era al corrente di alcuna procedura giudiziaria [intrapresa] nei confronti delle persone catturate.

Nel novembre 1996, le 25 persone sono state condotte sul posto dove veniva costruita la strada. Sono state formate quattro file rettangolari concentriche di spettatori per assistere all'esecuzione.

L'intervistato 17 era in prima fila. I cinque leader da essere uccisi – il Pastore, i due aiutanti pastori, e i due anziani – sono stati legati mani e piedi e gli è stato ordinato di stendersi di fronte ad un rullo compressore a vapore. Il rullo compressore era un grosso veicolo da costruzione importato dal Giappone con un pesante, enorme, ed ampio rullo di acciaio montato sulla parte anteriore per schiacciare e livellare la strada prima di gettarci il cemento sopra.

Le altre venti persone sono state tenute al lato. I condannati sono stati accusati di essere spie dei Kiddokyo (Cristiani Protestanti) che cospiravano di intraprendere azioni sovversive. Ciononostante, gli è stato detto: “se abbandonate la religione e servite solo Kim II Sung e Kim Jong II non sarete uccisi”.

Nessuno dei cinque ha detto una parola. Alcuni dei parrocchiani riuniti ad assistere l'esecuzione piangevano, urlavano o sono svenuti quando si è sentito il rumore dei cranei che venivano schiacciati sotto il rullo compressore.

L'intervistato 17 ha pensato, in quel momento, che questi religiosi fossero pazzi. Pensava che la religione fosse un “opiato” e che era stupido che rinunciassero a vivere per la religione. Ha sentito dire dagli altri militari che hanno portato via gli altri venti prigionieri che stavano per essere inviati in un campo prigionieri”.


#10 Alcuni anni fa quando la Cina inviava aiuti umanitari in Corea del Nord, i Nordcoreani hanno deciso che avrebbero iniziato a tenersi anche i treni [che trasportavano gli aiuti]. Le squadre di Cinesi sono state rimandate indietro oltre il confine a piedi.

#11 Una canzone intitolata “No Motherland Without You” [“Nessuna Patria Senza Te”] è stata scritta specificamente per Kim Jong-il ed è una delle canzoni più popolari in Corea del Nord. Viene cantata regolarmente dai militari nordcoreani.

Siete convinti allora? La verità è che la Corea del Nord è molto, molto pericolosa e non deve essere sottovalutata. Speriamo che gli Stati Uniti non debbano più combattere un'altra guerra contro la Corea del Nord.

lunedì 29 novembre 2010

Wikileaks: chi è il vero target?

I file di Wikileaks che molte cancellerie temevano sono stati pubblicati ieri, ma ancora una volta si tratta di fatti piuttosto risaputi, tra cui i giudizi sulle personalità di alcuni leader politici.

Non è infatti una novità che Gheddafi sia dedito al botox, basta guardarlo in faccia. O che Berlusconi sia considerato da Washington "fisicamente e politicamente incapace e inetto" per via anche dei suoi "party selvaggi" o che la Russia sia "virtualmente uno stato della mafia".

Il tempo ci dirà, forse, a chi gioverà concretamente il fatto di aver dato in pasto all'opinione pubblica mondiale 250.000 documenti riservati.

Finora poi se ne conoscono solo alcuni estratti che i media mainstream mondiali stanno facendo filtrare secondo un ordine che loro hanno stabilito a proprio uso e consumo.

Ma soprattutto il tempo dirà qual'è il vero obbiettivo di tutto ciò. Si accettano già scommesse...la libertà della Rete sarà il capro espiatorio da immolare.



I quattro imprinting di Wikileaks
di Pino Cabras - www.megachip.info - 29 Novdembre 2010

Ora che ci dicono che con le prime nuove soffiate di Wikileaks sta esplodendo «l'11 settembre della diplomazia» ovvero «l'11 settembre di internet», deve valere una premessa: non ci sono individui, e neanche organizzazioni, che siano in grado di leggere 250mila documenti in breve tempo.

Quindi ci arriva solo un flusso filtrato di documenti. E chi lo filtra, per ora, è la vecchia fabbrica dei media tradizionali.

Se di un 11 settembre si trattasse, saremmo nella fase del trauma mediatico iniziale, quella che ci dà l’imprinting, l’apprendimento base del nuovo mondo su cui ci affacciamo e delle nuove credenze sulle quali far fede. Una volta educate le menti con questo shock, le sue riletture successive andranno controcorrente e perciò partiranno sfavorite.

Il primo imprinting è proprio nell’idea del trauma, l'idea dell’ora zero dell’evento. Il mezzo è il messaggio. Mezzo e messaggio sono: vivere un trauma. Come se prima del percolare dei segreti attraverso Wikileaks non vi fosse modo di interpretare la politica, la diplomazia, i segreti, le normali trame degli Stati.

Come se l’interpretazione storica – anch’essa basata su archivi e documenti, ma in tempi più lunghi e meditati – adesso dovesse cedere il passo e appiattirsi sull’evento emotivo.

Il secondo imprinting è sull’importanza attribuita ai temi cari alla diplomazia statunitense. Leggiamo i dispacci degli ambasciatori, scritti in modo franco e brutale, ma non per questo esenti da falsità, errori prospettici, pregiudizi, goffe banalità, chiusure. Vediamo cioè soltanto i pezzi di una visione del mondo che tuttavia non è l’unica in campo.

Si continua a enfatizzare e cristallizzare per esempio la paura dell’inesistente atomica iraniana, mentre si continuano a ignorare le esistenti atomiche israeliane.

Wikileaks e i media tradizionali, se combinati assieme, confermano insomma i temi dell’agenda dominante ma sconvolgono i codici della diplomazia. Proprio quel che fa la guerra, specie nella sua variante della guerra psicologica.

Il terzo imprinting è lo scompiglio sul web, talmente forte da risvegliare coloro che dal caos vorrebbero trarre un nuovo ordine sulla Rete. Due anni fa pubblicammo l’allarme del giurista che meglio conosce la Rete, Lawrence Lessig, il quale prediceva che «sta per accadere una specie di '11 settembre di internet'», un evento che catalizzerà una radicale modifica delle norme che regolano la Rete.

Lessig rivelava che il governo USA, così come aveva già pronto il Patriot Act ben prima dell’11 settembre, aveva già «un ‘Patriot Act per la Rete’ dentro qualche cassetto, in attesa di un qualunque considerevole evento da usare come pretesto per cambiare radicalmente il modo in cui funziona internet».

Così come George W. Bush, anche Obama sta facendo di tutto per avere, oltre alla valigetta nucleare, anche i bottoni per spegnere il web. L’evento in corso potrebbe spingere molti governi a voler affidare a qualcuno la nuova valigetta del potere. La Cina traccia il solco da tempo, del resto.

Il quarto imprinting è l’idea che i segreti siano tutti registrati, ben custoditi dai fogli con la carta intestata degli apparati, e perciò prima o poi inevitabilmente rivelati, con tanto di numero di protocollo e firma.

Gran parte del vero potere è invece fuori scena: non scrive i suoi ordini, non ha catene di comando interamente tracciabili, è silente, sta in circuiti extraistituzionali, si giova di strati di copertura, di strutture parallele, di leve lunghe.

Si avvale nondimeno di apparati e procedure legali, ma senza dichiararne le vere finalità. È un’illusione tanto ingenua ritenere che Wikileaks possa scoperchiare tutti gli strati del potere, tanto quanto ritenere che i veri potenti si possano combattere solo amplificando la trasparenza liberale.

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A margine, qualche considerazione dal lato italiano sul caso Wikileaks. Il Caimandrillo (caimano e mandrillo) ha intuito che il colpo per lui c’è, ed è forte. Dice di essersi fatto una risata.

Ma forse non è stata troppo fragorosa. Lui, padrone di un medium tradizionale, la Tv, che ha portato alle sue estreme conseguenze, diffida di un medium, il web, che gli è forestiero né potrà mai controllare.

Nel mondo ci sono altri caimani e ora vorrebbe anche farlo sapere in giro, fra un “wild party” e un altro, quando scatena i suoi comunicatori per denunciare un complotto internazionale contro di lui. Gli inventori del “trattamento Boffo” nulla potranno però contro un trattamento Boffo al cubo.

Il Caimandrillo ha voluto partecipare al grande gioco mondiale non da leader che trascina una nazione, ma da padrone che la divide, la estenua e non la porta tutta. Nel grande gioco ora appare ritratto in mutande, lo vedono per quel che è: non è il padrone dell’Italia, è solo il padrone di un suo segmento affaristico.

Altri padroni si preparano a spolpare il paese diviso, senza che sia in pista una classe dirigente in grado di instaurare un minimo di sovranità nazionale capace di difendere gli interessi vitali dell’Italia.


Segreti senza segreti

di Ines Tabusso - www.ilfattoquotidiano.it - 29 Novembre 2010

I documenti che Wikileaks sta pubblicando comprendono 251.287 dispacci diplomatici, spediti al Dipartimento di Stato di Washington da ambasciate e consolati degli Stati Uniti di tutto il mondo, nonché 8.000 direttive spedite dal Dipartimento di Stato alle rappresentanze diplomatiche americane.

I rapporti diplomatici USA vengono spediti tramite SIPRNet (secure Secret Internet Protocol Router Network ), che è il network del governo usato per la trasmissione di documenti classificati come “confidential” o “secret”. I dispacci “top secret” non sono tra quelli ai quali Wikileaks ha potuto accedere, perche seguono procedure diverse.

Circa la metà dei dispacci diplomatici non sono segreti, dell’altra metà il 40,5 per cento sono classificati “confidential” e solo il 6 per cento, corrispondente a 15.652 rapporti, sono classificati “secret”. Di questi ultimi, 4330 sono etichettati come “NOFORN” (Not Releasable to Foreign Nationals), cioè non consultabili da soggetti di nazionalità non USA.

Quasi due milioni e mezzo sono gli individui che hanno accesso ai dati circolanti su SIPRNet, in buona parte riferibili al personale che fa capo a dipartimenti e agenzie governative. Le statistiche hanno dimostrato che i più assidui sono i frequentatori provenienti dal Dipartimento della Difesa.

Le procedure di accesso e le password vengono modificate una volta ogni 150 giorni circa. I documenti classificati “top secret”, seppure segreti al massimo grado, restano tuttavia visibili a più o meno 850.000 americani.

Nessuna meraviglia quindi per la fuga di notizie: con o senza Wikileaks, prima o poi doveva succedere.


Wikileaks, segreti e bugie

di Mazzetta - Altrenotizie - 27 Novembre 2010

In attesa della prossima bordata di documenti di Wikileaks, si possono già trarre o confermare alcune osservazioni offerte dal dipanarsi del confronto tra il sito e gli Stati Uniti. Questa volta si tratterebbe delle comunicazioni più o meno diplomatiche di funzionari americani all'estero verso la casa madre.

Che si tratti di materiale scottante è fuor di dubbio, non fosse che gli americani coinvolti stavano comunicando ad altri americani le loro impressioni su questioni e persone di altri paesi e che, quindi, ci saranno parecchie dichiarazioni di una sincerità troppo brutale per non risultare offensiva.

Poi ovviamente c'è il contenuto politico delle comunicazioni, in grado di rivelare attività imbarazzanti, doppi e tripli giochi degli statunitensi come degli alleati e responsabilità di vario grado nel sostenere questo o combattere quello, nell'ingerire qua o là, nel corrompere o distruggere i nemici, nel premiare gli amici e chissà che altro.

Basta fare due conti sulla quantità di persone coinvolte e sulla mole di documenti in arrivo, per rendersi conto che sarà un metaforico bagno di sangue per gli Stati Uniti e i partner internazionali.

A prescindere dal dettaglio delle rivelazioni che emergeranno, per quanto esplosive, c'è da dire che quasi sicuramente susciteranno molti meno disastri di quanti sarebbe lecito attendersi. Si è già visto in precedenza che nemmeno l'autocertificazione di crimini di guerra ha mosso gli Stati Uniti di Obama a mettersi in discussione o gli altri paesi a chiamarli di fronte alle evidenti responsabilità.

Per questo non si andrà al di là di qualche scaramuccia retorica internazionale, anche se le informazioni pubblicate passeranno comunque alla storia e nell'esperienza degli addetti ai lavori, lasciando nuda la propaganda e fornendo armi formidabili contro i feroci cantori delle superiori civiltà.

Sul tema della guerra e di eventuali responsabilità, Obama ha detto che “l'amministrazione vuole guardare avanti e non indietro”, che significa l'indisponibilità a contestare o discutere la legittimità delle politiche dell'amministrazione Bush.

Un atteggiamento francamente insostenibile che ha contribuito, insieme a decisioni simili, a far perdere al suo partito democratico il supporto di quanti si erano mobilitati per mettere fine al delirio repubblicano. Lo slogan di Obama non ha senso, applicato ad altre istanze di giustizia significherebbe l'impossibilità di discutere qualsiasi crimine passato e di punire qualsiasi criminale.

Applicato al diritto costituzionale americano, significa per lo meno una dichiarazione d'impunità per le amministrazioni, anche quando diano fondo a una lista di crimini impressionanti.

In proposito l'amministrazione Bush non si è fatta mancare niente, dal temibile spergiuro (caso Clinton-Lewinsky) fino al tradimento, tutte accuse che fior di giuristi americani ammettono avere una sufficiente consistenza per dare vita a commissioni d'inchiesta e alla messa in stato d'accusa di parecchi ufficiali.

Ma l'assetto costituzionale statunitense non è messo in pericolo da Wikileaks; da tempo è stato minato e l'amministrazione Bush è stata sicuramente quella che lo ha sovvertito più di altre.

Il problema più concreto e sensibile provocato dall'incessante pubblicazione all'ingrosso di una massa di comunicazioni riservate statunitensi, è la dimostrazione che la prima potenza al mondo non è in grado di garantire la sicurezza delle sue comunicazioni più sensibili e che tutti, dal presidente all'ultimo dei fantaccini, in futuro faranno bene a pensare a quello che dicono e a dirlo sapendo che nel giro di qualche mese al massimo potrebbe finire su Internet.

L'attacco a Wikileaks da parte dell'amministrazione americana è una reazione scontata e anche i media continuano a mettere la faccenda come un confronto tra il sito e Washington, ma i problemi sono tutti di Washington, anche se Wikileaks dovesse sparire stanotte.

Quello che fa Wikileaks lo potrebbero fare in molti; lo potrebbe fare qualsiasi paese, ostile o meno, per acquisire dati d'importanza strategica e giocare con gli Stati Uniti sapendo già che carte si hanno in mano.

L'attività di Wikileaks dice agli statunitensi che tutti i loro sistemi di comunicazione, da quelli del Pentagono a quelli usati dalle ambasciate, sono praticamente trasparenti. Gli archivi che conservano queste comunicazioni possono essere violati da personale infedele o attraverso espedienti tecnici e gli autori degli attacchi possono rubare dati sensibili all'ingrosso.

Considerazioni che dovrebbero rimbombare anche nella testa del comune cittadino della modernità elettronica: un archivio magnetico, collegato o meno online, è molto più facile da rubare di un archivio cartaceo composti di faldoni custoditi negli archivi di un tempo.

Il problema per gli Stati Uniti, come per tutti i paesi e tutti gli utenti, è che se contractor governativi e consulenti hanno promesso al governo la sicurezza dei sistemi informatici d'archiviazione, questi mentivano sapendo di mentire e il seguito della storia lo dimostra con abbondanza di prove.

Il segreto va poco d'accordo con le barriere elettroniche e ancora meno con la fedeltà di chi ha i requisiti per accedere ai dati sensibili, tanto più che negli Stati Uniti si parla di più di un milione di persone abilitate all'accesso a informazioni riservate, che possono prelevare e duplicare senza nessuna fatica una mole enorme di dati.

Impossibile considerare sicuro un sistema del genere e, figuracce a parte, è chiaro che a ogni exploit di Wikileaks gli incaricati della sicurezza dei sistemi di comunicazione e gli alti papaveri del Pentagono si trovano nudi di fronte a questa ovvietà.

Un problema, quello della sicurezza degli archivi informatici, che nel caso dell'unica superpotenza mondiale assume un'importanza strategica e politica ancora più rilevante di quella che potrebbe avere per paesi meno esposti nell'arena internazionale.

Non è colpa di Wikileaks se gli americani hanno commesso crimini di guerra o se i loro leader hanno mentito e tramato per scatenare guerre o ingerire in altri paesi.

Così come non è colpa di Wikileaks se l'elefantiaco apparato militare americano, quello che ha meritato la definizione di imperiale alla politica statunitense, fornisce con le sue mani munizioni a chi lo accusa di usare la democrazia e i diritti umani come pretesti, al riparo dei quali operare nella totale impunità.

E non è nemmeno colpa di Wikileaks se tutta la nostra comunicazione, dalle lettere d'amore alle transazioni finanziarie, è conservata su supporti e viaggia su sistemi concepiti per rendere più facile e veloce la circolazione e la condivisione dei dati.

Si tratta di un dato di fatto con il quale è bene fare i conti, gli Stati Uniti e i loro alleati faranno e pagheranno i loro, mentre chi non ha ancora sofferto questo genere di fastidiosi incidenti ha l'occasione di riflettere su come prevenirli.

domenica 28 novembre 2010

Haiti: elezioni tra colera e macerie umane

Si vota oggi a Haiti per eleggere il nuovo presidente.

Le ennesime elezioni farsa, a circa un anno dal devastante terremoto del gennaio scorso e a quasi un mese dallo scoppio dell'epidemia di colera che sta continuando a mietere vittime ogni giorno, oltre 1500 finora.

Il Paese è ridotto ormai a un ammasso di macerie - materiali e umane - ma lo show elettorale must go on....


Haiti, sulla soglia delle presidenziali. I candidati
di Roberto Codazzi - Peacereporter - 25 Novembre 2010

Alle elezioni del fine settimana si presenta una galassia polverizzata di forze in gioco e molto difficilmente un candidato raggiungerà i voti necessari per essere eletto al primo turno. Quattro i papabili per il ballottaggio

Nel fine settimana Haiti si troverà di fronte alle urne. Un paese che ha sempre conosciuto momenti di tensione in occasione alle elezioni presidenziali, li affronta, ora, con oltre un milione e mezzo di cittadini che vivono in tendopoli più o meno organizzate, liste elettorali vecchie, non aggiornate con i decessi avvenuti nell'ultimo anno, persone dislocate a centinaia di chilometri dalla loro residenza e una presenza massiccia di truppe internazionali che dovrebbero favorire il normale svolgimento, ma che spesso sono causa o pretesto di disordini.

In questo scenario sono 19 i candidati alla presidenza, dopo che la commissione preposta al vaglio delle candidature ha escluso nomi eccellenti come il rapper Wyclef Jean e l'ex-ambasciatore haitiano a Washington Raymond Joseph.

I partiti presenti sono, invece, 68, molti dei quali di recentissima costituzione. In questa galassia polverizzata di forze in gioco molto difficilmente un candidato raggiungerà i voti necessari per essere eletto al primo turno. Sono quattro, però, i candidati che puntano al ballottaggio.

Jude Célestin. Avvocato di 48 anni è il candidato di punta sostenuto dal Presidente uscente Preval, fidanzato della figlia è il Diretto Generale del National Center of equipment, l'ente che ha gestito le apparecchiature, camion e scavatrici, che hanno portato via migliaia di corpi dopo il terremoto.

È anche la società che gestisce la costruzione delle strade e che si aspetta moltissimi finanziamenti per la ricostruzione di Haiti. Prima dell'epidemia di colera era dato al primo posto nei sondaggi, ora si gioca la seconda posizione con Céant.

Mirlande Manigat.
70 anni è la moglie di Leslie Manigat, già presidente di Haiti per pochi mesi nel 1988, il quale, già sostenitore del dittatore Francois Duvalier successe al figlio dopo la fine della dittatura e fu costretto all'esilio dopo pochi mesi da un golpe.

Mirlande è in testa ai sondaggi ma molto lontana dal 50 percento. Dopo l'esclusione di Wyclef Jean potrebbe aver intercettato parte del suo elettorato potenziale, soprattutto giovane.

Michel "Sweet Micky'' Martelly. Cantante hip-hop
, 49 anni, ha effettuato grandi comizi molto partecipati. Ha fatto grandissimi investimenti durante la campagna elettorale. Inizialmente alleato dell'industriale Charles Henry Barker, 55 anni, si sono poi candidati entrambi e questo potrebbe minare alla base le possibilità di raggiungere il ballottaggio.

Jean Henry Céant. 54 anni, è l'unico dei 19 candidati che rivendica una continuità con l'ex presidente Aristide, deposto da un golpe nel 2004, di cui richiede il ritorno. Molto vicino ai quartieri più popolari, ha recentemente organizzato una manifestazione a Port-au-Prince che ha visto la partecipazione, secondo gli organizzatori, di 100.000 persone.

Ha l'appoggio del partito Fanmi Lavalas che non ha potuto presentarsi. È difficile misurare le sue possibilità di vittoria, molto dipenderà di come si divideranno i voti di Preval fra i vari uomini del suo governo in corsa.

Ci sono poi almeno un altro paio di nomi come Jacques Alexis, già Primo Ministro sotto Preval, e Yvon Neptune, già Primo Ministro sotto Aristide, che potrebbero sorprendere.
E alla fine, è tutto Election Time.



Le elezioni al tempo del colera tra scetticismo e timori di incidenti
di Alberto Flores d'Arcais - La Repubblica - 28 Novembre 2010

Il voto per le presidenziali nel paese martoriato dal terremoto, dall'uragano e ora dall'epidemia. Difficoltà logistiche, soprattutto per i documenti di identità, e politiche. Ma soprattutto una tensione palpabile e il rischio di violenze

"A votare? Se ci danno la carta sì". Sotto il sole cocente centinaia di persone attendono pazientemente in fila, mentre quattro poliziotti dai modi un po' bruschi regolano a fatica l'ingresso.

Quasi un anno dopo il terremoto, un mese dopo l'uragano Thomas, nel pieno dell'epidemia di colera, la gente di Haiti va al voto tra scetticismo, rassegnazione e i timori di violenze che finiscano fuori controllo.

Per gli standard di questo paese, uno dei più poveri al mondo, martoriato da un 2010 di calamità che sembrano non avere mai fine, la vigilia di queste "elezioni al tempo del colera" è trascorsa fin troppo tranquillamente.

Non sono mancati piccoli episodi di violenza, venerdì sera c'? stato un morto quando una gang ha assaltato il comizio finale di un candidato, vicino ai seggi elettorali sono stati trovati pacchi di migliaia di schede abbandonate, le denunce preventive di brogli si sprecano.

Tutto lascia presagire che di democratico queste elezioni avranno ben poco, ma a chi parla di voto-farsa i portavoci di governo e Nazioni Unite rispondono risentiti che in questo contesto è già tanto che i seggi vengano aperti regolarmente.

Chi ha passato ore in fila davanti agli uffici elettorali per avere la "carta d'identità nazionale", unico documento con cui è possibile votare, alle urne ci vuole andare a ogni costo. Per molti, poveri ed emarginati, il voto è un modo per assicurarsi qualche spicciolo e qualche giorno di vita migliore.

Non è un mistero che in queste ore girino molti soldi, parti considerevoli dei budget elettorali vengono usati per comprare voti all'ingrosso, per corrompere i funzionari dei seggi, per distribuire nelle bidonville schede contraffatte, per pagare le gang pronte a scatenare disordini.

Nell'Haiti del dopo-terremoto, con le centinaia di migliaia di morti e il mezzo milione di carte d'identità andate perdute, non è poi tanto difficile votare al posto di un altro o votare due volte.

Non ci sarà subito un vincitore e ci vorranno giorni, se non settimane, per avere i risultati ufficiali, in attesa di un inevitabile ballottaggio (che si terrà a gennaio) tra i due candidati che avranno preso il maggior numero di voti.

Ci sarà subito chi proverà a dichiararsi vincitore. Tra i diciannove candidati rimasti in lizza solo in quattro sembrano avere qualche chance. Jude Celestin, il delfino dell'attuale presidente Preval, forte del sostegno, della rete di funzionari (e dei soldi) del governo.

Mirlande Manigat, la settantenne moglie di Leslie Manigat, primo presidente eletto dopo la dittatura dei Duvalier e deposto da un golpe. Charles Henry Baker, imprenditore (ed unico bianco del lotto) che vive tra Haiti e gli Stati Uniti.

Michel Martelly, cantante di kompa, tipico ritmo haitiano, meglio noto come "Sweet Mickey", l'alfiere dell'antipolitica che raccoglie grandi consensi tra i giovani, che si tira giú i pantaloni durante i concerti e il cui ultimo comizio a Les Cayes è stato attaccato da una banda armata, provocando un morto, che i funzionari delle Nazioni Unite ancora non confermano ("stiamo investigando") nonostante le decine di testimonianze e le foto del cadavere.

Mancano all'appello due candidati che avrebbero potuto fare la differenza e che il regime di Preval ha escluso grazie a poco chiari "vizi di forma".

Quello del partito di Aristide (o lo stesso popolarissimo ex presidente se gli fosse stato permesso di rientrare dal suo esilio in Sudafrica) e il rapper haitiano-americano Wycleff Jean.

Stando ad alcuni sondaggi nelle elezioni del dopo-terremoto e del colera il partito di Aristide avrebbe vinto a mani basse e anche il rapper avrebbe avuto una valanga di voti.

L'unica cosa che stasera conterà alla chiusura dei seggi sarà la reazione della gente. Preval ha lanciato un appello per un voto pacifico, i caschi blu del Minustah, la forza dell'Onu che dovrebbe garantire il regolare svolgimento delle elezioni, si dicono fiduciosi, ma la tensione è palpabile e resta alto il rischio che nella notte tra domenica e lunedì bande paramilitari e gang di criminali comuni diano vita a una sanguinosa resa dei conti.

Le forze di pace dell'Onu hanno diviso le zone dei seggi elettorali in verde (sicuri), giallo (pochi rischi) e rosso (alta possibilità di incidenti).

Saranno presenti anche un centinaio di carabinieri guidati dal colonnello Nicola Mangialavori, qui a Port au Prince dalla primavera scorsa, molto apprezzati per il compito di polizia civile.


Emergenza Haiti: colera e caschi blu. La testimonianza
di Stella Spinelli - Peacereporter - 18 Novembre 2010

'È impressionante. Vedi la gente per strada che d'improvviso si ferma colta da dissenteria acutissima e poi cade a terra morta'. Il racconto di un inviato della Croce Rossa italiana a Port au Prince

Emerico Laccetti lavora per la Croce Rossa Italiana e da tempo si trova a Port au Prince, Haiti. Da lì, racconta a PeaceReporter il dramma del colera, che è andato ad aggiungersi alle tante tragedie che stanno devastando l'isola a un anno dal tragico terremoto che l'ha piegata.

La situazione è grave. Il colera si sta diffondendo a macchia d'olio. È un problema grosso. Nato nella periferia nord della Repubblica haitiana si è diffuso in buona parte del paese, raggiungendo Port au Prince. È impressionante.

Vedi la gente per strada che d'improvviso si ferma colta da dissenteria acutissima e poi cade a terra morta.
La fortuna è che in questo periodo non piove, così l'acqua non si mette a spargere tutte queste schifezze contribuendo a diffondere ulteriormente il contagio.

La prossima settimana sapremo se il colera sarà ormai sotto controllo o in balia degli eventi. Le vittime salgono ogni giorno. A salvarsi per ora sono le zone interne e il sud. Qui la gente vive appesa a un rigagnolo d'acqua, portata da un fantomatico fiume, e con questa ci fanno tutto, la bevono, ci cucinano, ci lavano il bucato.

E il colera si moltiplica. La maggioranza delle persone poi vive accampata in tende di fortuna fatte di lenzuola e poco più. Sono distese che si perdono a vista d'occhio.

E questo certo non aiuta. Purtroppo dal terremoto di un anno fa la situazione è questa. Senza nessun rispetto per le minime norme igieniche. Non esistono nemmeno le fognature. Ce n'è una rudimentale qui a Port au Prince che però scarica tutto in mare, senza nessun tipo di filtro.

Le peggiori conseguenze si abbattono sui bambini, molti dei quali sono rimasti orfani dal terremoto, quindi senza controlli. E loro sono le principali vittime del colera perché toccano ovunque, mettono le mani in bocca, si stropicciano. Ed è la fine. Ed è anche poco facile che qui la gente si metta in mente la prevenzione.

È una cultura che non appartiene loro. E del vaccino che dire? Innazitutto, che va somministrato su pazienti sani. Quindi, pensare di sedare l'emergenza con il vaccino è inutile. L'unica cosa è cercare di limitare i danni.

Nella nostra zona, cerchiamo di disinfettare chi entra. Prendiamo seri provvedimenti per evitare che qualcuno si trasformi in untore. E a proposito dell'untore, il fatto che qui a Haiti il colera non ci sia mai stato ha scatenato una caccia all'untore individuato fra gli stranieri presenti sul posto. In particolare è stato accusato un casco blu nepalese. Sono dicerie.

Noi come croce rossa non sappiamo niente ufficialmente, non ci sono prove o dati che avallino questa ipotesi, ma la gente è convinta. E questo ha provocato una guerriglia che nottetempo si dipana in molte zone. Tutti contro i caschi blu. Ci sono stati anche tre morti, ma va tutto ridimensionato.

Si deve tener conto che con il terremoto son venute giù anche le carceri, quindi molti delinquenti sono in giro e certo non contribuiscono a sedare gli animi. Anzi, sono in prima linea nel caos. E' tutto molto complesso. Ci sono sparatorie, roba seria. E certo la presenza dei soldati Onu non placa gli animi. In più si deve tener conto che il 28 e il 29 ci saranno le elezioni e questo incrementa la tensione.

Noi come Croce rossa siamo ben visti, ma corriamo ugualmente il rischio di poter essere assimilati nella loro mentalità agli untori.


L'isola maledetta. Il voto al tempo del colera
di Francesco Semprini - La Stampa - 26 Novembre 2010

La Repubblica deve eleggere il Presidente, ma in strada si muore. La gente punta il dito contro le Ong: "Dove sono finiti i soldi?"

Un’orchestrina creola accoglie i passeggeri in arrivo all’aeroporto Toussaint Louverture di Port-au-Prince. Ne arrivano centinaia ad ogni ora del giorno: domenica nel Paese caraibico si vota per eleggere il nuovo Presidente e gli haitiani che vivono all’estero tornano per andare alle urne nella speranza di cambiare le sorti della nazione. Assieme a loro sbarcano giornalisti, osservatori internazionali e volontari delle tante associazioni che operano sull’isola.

Quella musica a metà tra lo swing e l’etnico vuole essere di buon auspicio ed esorcizzare il destino dannato di questo popolo senza pace. Nel corso dei dieci mesi trascorsi dal terremoto, che ha causato 250 mila vittime e lasciato 1,3 milioni senza casa, gli haitiani hanno dovuto fare i conti con un’alluvione, un uragano e una ricostruzione di cui non sembra esserci traccia.

Sulle piste dello scalo non ci sono più i C130 militari o le truppe americane in assetto antisommossa, ma basta uscir fuori per capire di essere di nuovo nel cuore di tenebra caraibico.

Il tenente colonnello Nicola Mangialavori ci viene a prendere tra la folla di disperati che si accalca all’entrata dello scalo.

L’ufficiale coordina il contingente di carabinieri inviato sull’isola nell’ambito del Minustha, la missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite. Ci fornisce un primo quadro della situazione colera. Secondo i dati ufficiali l’epidemia ha causato già 1523 morti e colpito oltre 20 mila persone.

Le stime più pessimistiche parlano di un numero potenziale di 400 mila contagi entro le prossime settimane. «Il problema principale è l’acqua», ci dice il colonnello, e non solo quella corrente perché alcuni esami hanno rivelato la presenza del batterio anche in bottiglie sigillate prodotte localmente.

Nonostante le smentite delle autorità locali, l’emergenza colera iniziata circa un mese e mezzo fa nelle zone del Nord è penetrata come un lampo nella capitale dove trova terreno fertile tra tendopoli e baraccopoli.

Una prima ricognizione di Port-au-Prince ce ne dà la conferma: sulla Rue Delmas poco sembra cambiato rispetto al dopo-sisma, le macerie sono state spostate ai margini delle strade e gli edifici diroccati sostituiti da baracche in lamiera, mentre i pochi negozi aperti sono presidiati da guardie armate.

Senza lavoro e senza casa, i giovani vagano da mattina a sera per le strade accalcandosi intorno alle immancabili bancarelle con la scritta Digicel che vendono cellulari, e ai tanti «barber-shop» improvvisati.

Nella zona del centro la situazione appare ancora più grave, la cattedrale si trova esattamente nelle stesse condizioni del 12 gennaio, neanche la fede ha dato la forza o il denaro necessari a ricostruire. Sulle macerie del palazzo presidenziale è stata montata una rete con i manifesti dei 19 candidati alla presidenza.

Davanti inizia la tendopoli più grande della capitale, un mare di teli che si estende verso il porto interrotto a tratti dalle macerie della Grand Rue, dove a gennaio era avvenuto il ritrovamento degli ultimi miracolati dal terremoto.

Da qui a Cité Soleil, il quartiere ghetto roccaforte delle bande, si estende l’epicentro urbano del colera. Il milione e mezzo di persone che vi ha trovato rifugio dopo il sisma sopravvive in condizioni di completo degrado. Uomini e donne, vecchi e bambini si aggirano come zombie di Romero tra le macerie a ridosso del ministero della Sanità e le grandi pozze create dall’alluvione.

Sulla Carrefour Feuilles i bisogni si fanno rigorosamente per strada, vicino a dove le donne prendono l’acqua per dar da bere ai propri figli, e dove su bracieri di fortuna si riscaldano minestre di verdure rimediate per strada: in un posto come questo il batterio del colera non può che trovare un alleato.

La situazione all’ospedale centrale è desolante: c’è il tutto esaurito anche perché solo una parte della mastodontica struttura è agibile. Dalle porte socchiuse di alcuni reparti si intravedono malati attaccati alle flebo o a bombole di ossigeno, mentre il resto dell’ospedale è completamente diroccato o occupato da senza tetto o sciacalli.

I carri funebri fanno avanti e indietro tra obitorio e camposanto mentre dai forni crematori fuoriesce fumo acre che spezza a tratti il tanfo delle bidonville circostanti. E pensare che l’ospedale era una delle strutture destinata a essere rimessa a posto per prima grazie agli aiuti internazionali.

«Aiuti, di quali aiuti stiamo parlando?», dice Robert, l’autista che ci scorta nel nostro viaggio in questo girone infernale. «Se sono arrivati questi soldi c’è chi ha pensato di intascarseli per farne l’uso che voleva». A chi si riferisce? «Alle Ong, a certe Ong, loro hanno in mano quest’isola e fanno come vogliono».

Questo genere di critica non è nuovo: il 28 novembre si vota ad Haiti, ma la fiducia nella politica e nello straniero è ai minimi. Oltre al risentimento nei confronti dell’Onu, in particolare alle truppe nepalesi considerate la causa dell’epidemia e contestate in ripetuti scontri per le strade della città, c’è una certa ostilità proprio per alcune organizzazioni non governative.

La campagna di alcuni candidati è stata incentrata nella promessa di «ridurre l’influenza di alcune Ong» che hanno dato vita a un «governo ombra» sull’isola. «A sei settimane dallo scoppio dell’epidemia mi aspettavo una risposta più efficace e reattiva dalla gran parte delle organizzazioni internazionali e delle agenzie Onu», spiega Stefano Zannini, capo missione di Medici Senza Frontiere che assieme alla cooperazione cubana ha risposto «al 90% dei casi di contagio» grazie ai 22 centri e alle quattro unità presenti in cinque su dieci dipartimenti del Paese.

Uno dei più attivi è quello di Carrefour Vincent, a Sarte, una struttura da 400-500 posti. «Da noi arrivano dai 20 ai 40 pazienti al giorno, ma presto saranno cento», spiega Virginie Cauderlier, responsabile del campo, confermando la gravità della situazione.

Le cure durano sino a cinque giorni, ma vi sono decessi dovuti a complicazioni per altre malattie. Entriamo nelle tende dei malati, ci catturano gli occhioni scuri di Antoine, cinque anni, due flebo attaccate al braccio.

Era uno dei piccoli zombi della Carrefour Feuilles, è stato raccolto da Msf quasi completamente disidratato. Sta meglio, tra due giorni verrà dimesso ma per lui non sembra esserci altra sorte che tornare nel girone infernale della tendopoli.

venerdì 26 novembre 2010

Una crisi strutturale, di sistema

Dopo Dublino, sta arrivando l'ora di Lisbona. Secondo l'edizione tedesca del Financial Times, la Banca Centrale Europea e molti Paesi dell'eurozona starebbero facendo pressioni sul governo portoghese perchè chieda al più presto un pacchetto di aiuti Ue-Fmi.

Ma finora le autorità portoghesi hanno sempre rifiutato di considerare l'eventualità di una richiesta di aiuti. Solo pochi giorni fa il premier portoghese Josè Socrates aveva ribadito "Ho sentito parlare di Fmi. Il Paese non ha alcun bisogno di aiuti".

Aiuti o non aiuti, si tratta sempre di aspirine avvelenate per combattere contro un tumore in stato avanzato...


Irlanda: e se la preda fosse l'Euro?
di Maria Grazia Bruzzone - www.lastampa.it - 24 Novembre 2010

Gli Investitori contro i salvataggi e la moneta europea. In testa l'americano Pimco, primo investitore globale del mondo e , a suo modo, pure Goldman Sachs.

Multinazionali in fuga dall’Irlanda, fino a tre anni fa additata a modello. Il salvataggio non risolverà i problemi, dopo l’Irlanda sarà la volta di Portogallo e Spagna. E la Germania farebbe bene a lasciare perdere l’Euro.

Sembrava che i Mercati non avessero apprezzato un gran che il nuovo piano della Fed e di Obama, il famoso QE2 (vedi penultimo post), e snobbassero i T Bond decennali del Tesoro americano.

Indebolendo il dollaro, di cui si preconizzavano deprezzamenti in tempi brevi. Invece ora il fuoco si concentra sull’Euro, minando il salvataggio dell’Irlanda (e in primis delle sue banche), da parte di UE/FMI più Gran Bretagna e Svezia.

Un salvataggio peraltro non disinteressato, visto i crediti che vantano verso l’Irlanda le loro banche (148 miliardi di euro la sola GB, 139 la Germania, 53 la Francia, 15 l’Italia, eccetera).

Stavo preparando un post sul salvataggio dell’Irlanda, che questa volta sembrava venisse fatto anche a spese delle banche e non solo dei cittadini, come consigliavano diversi osservatori e protagonisti, da Nouriel Rubini alla stessa Merkel. Quando la situazione è precipitata, con crolli in Borsa e discesa dell’euro. E sul sito del Guardian sono apparse cose interessanti.

Mentre la BCE si affannava a dire che l’Euro era forte e si poteva permettere questo ed altro, e il Cancelliere britannico Osborne tentava di rassicurare i Mercati ( e le banche inglesi), che non stavano reagendo niente bene al progetto di salvataggio. Le banche verranno nazionalizzate e la loro taglia ridotta, spiegava.

In serata , a gelare il clima già freddino, arrivavano le dichiarazioni di Mohamed El-Erian, capo della potentissima società di investimenti globali Pimco, base in California,1300 miliardi di $ di assets e il primo fondo al mondo.

Dice che le banche irlandesi sono “depositi sanguinanti”, e aggiunge: “ Se avete una sorella in Irlanda dovreste consigliarle di togliere i suoi soldi da lì, e metterli da qualche altra parte. E’ come in Argentina ormai , la gente teme per i suoi risparmi”.

Commenti subito denunciati dalla banca centrale irlandese. Che però ammette che le grandi società internazionali stanno togliendo i loro fondi dalle banche irlandesi. (Una rappresaglia contro la richiesta di Germania e Francia di alzare le tasse alle multinazionali ? Oggi sono al 12.5%, la metà della media Ue, “a livello di Singapore, Hong Kong e India”, si era giustificato il premier irlandese Cowen, ormai dimissionario) .

Intanto si sono alzati gli interessi sui prossimi acquisti di titoli di Stato di Portogallo e Spagna che non è riuscita neppure a piazzare tutti i suoi Bot nell’asta dei giorni scorsi.

E Jim O'Neill, presidente di Assets Management di Goldman Sachs, più sobrio come è lo stile della casa, avvisa : "Il pacchetto di salvataggio dell’Irlanda non risolve i problemi al cuore della singola valuta ". Cioè dell’Euro. Il che è anche vero, lo ha detto anche Trichet. Ma affermarlo proprio adesso, e in questo contesto….

Continia O' Neill: “Finché non c’è una soluzione sottostante, non solo alla sfida del debito ma … fino a che l’unione monetaria europea non si siede insieme ai partner politici coinvolgendoli tutti , come possiamo dimenticare i problemi di Portogallo e Spagna”... aggiunge in un’intervista tv.

Pareri pesanti. Anche tenendo conto che in Gran Bretagna, dove ci si è premurati di sentire questi alti personaggi, sono in tanti a non vedere di cattivo occhio un disfarsi dell’Euro.

E infatti. Graham Turner di GFC Economics, sito indipendente di ricerche economiche, sostiene che la soluzione per risolvere la questone dei membri più deboli potrebbe essere che la Germania abbandoni la moneta unica.

Austria, Finlandia, Olanda e Germania potrebbero dar vita a un nuovo blocco intorno al marco che permetta agli altri 12 paesi dell’Eurozona di svalutare e trovare una via di uscita alla crisi. “Una soluzione migliore dell’attuale tirare per la giacchetta una singola moneta”.

Intanto il dollaro risale, esattamente come dopo la cisi greca. Che coincidenza. Vedere il grafico di Zerohedge. com qui sotto.




I Paesi devono cedere la loro Sovranità al "centro"
di GZ - www.cobraf.com - 21 Novembre 2010

Ultime notizie: il governo irlandese dopo aver resistito per ben cinque giorni ha richiesto formalmente un salvataggio alla UE, sembra per 75 miliardi per ora in modo da far sì che i mercati domani apriano più alti (come ogni lunedì in pratica)

La quota parte dell'Italia può essere 15 miliardi e così daremo una mezza Finanziaria per aiutare un paese che ha un tenore di vita più alto del nostro, ma ne vale la pena perchè altrimenti chi ha bonds irlandesi avrebbe sofferto delle perdite e questi avrebbe TURBATO i MERCATI FINANZIARI che si sarebbero poi vendicati in qualche modo su milioni di famiglie irlandesi ed italiane innocenti.

Giocando d'anticipo sulle proteste oggi uno dei top membri della elite finanziaria, il capo del Fondo Monetario, Dominque Strauss-Kahn, dichiara che i governi europei devono cedere la loro sovranità in materia economica e finanziaria.

Esagero ? Strauss-Kahn: " Le ruote del coordinamento tra paesi si muovono troppo piano. Il centro deve prendere l'iniziativa, nelle aree chiave per raggiungere il destino comune in economia, finanza e politiche sociali... I PAESI DEVONO CEDERE ' UNA PARTE MAGGIORE DELLA LORO SOVRANITA' AL CENTRO...") (" “The wheels of co-operation move too slowly. The centre must seize the initiative in all areas key to reaching the common destiny of the union, especially in financial, economic and social policy. Countries must be willing to cede more authority to the centre.” TRAD italiana qui [nwo-truthresearch.blogspot.com] ).

O meglio devono cedere la parte di sovranità che ancora resta loro, perchè da una decina d'anni ormai nessun governo europeo può decidere per somme superiori ai 10 miliardi senza l'assenso del "Centro".

Queste sono più teorie del complotto, è nei notiziari di stasera in un comunicato dettato da uno dei membri del "Centro". Strauss-Kahn ricorda a tutti oggi che non governa Berlusconi, Prodi, Blair, Sarkozy o Zapatero perchè la loro autorità è passata al "Centro".

Il governo irlandese invece di accettare subito il salvataggio ha fatto aspettare una settimana e Strauss-Kahn (a nome del "Centro") si è spazientito e ha detto anche in pubblico che bisogna togliere anche l'autorità rimasta a questi governi. Ormai il "Centro" ha bisogno ora di agire in fretta, farlo aspettare anche qualche giorno non va più bene, i suoi padroni nei Mercati Finanziari vogliono risposte immediate e lo vengono a dire in pubblico.

Per chi sia un poco duro di comprendonio: oggi ill capo di un entità finanziaria internazionale dichiara che l'Irlanda o l'Italia devono "cedere l'autorità" (loro rimasta) in materia economica e finanziaria.

Cioè tu eleggi pure un primo ministro o presidente o governo a Roma o Dublino, ma deve essere chiaro che chiunque sia non ha più l'autorità di decidere in economia e finanza

Chi sarebbe questo "Centro" a cui i governi devono cedere la sovranità ed autorità loro rimasta in economia e quale è il "destino comune in economia" a cui siamo destinati sotto la direzione del "Centro" ?

E' una questione più interessante di quella se cade il governo Berlusconi e se viene sostituito da qualcun altro, perchè in ogni caso chiunque sarà dovrà sottostare al "Centro" (o "Cupola" ogni elite o cabala di potere sceglie un suo termine)

Facciamo un pacco indietro per chi non segua cosa succede veramente al mondo. Per chi non se ne fosse accorto c'è una nuova legge valida per tutti i paesi occidentali senza eccezioni: chi presti denaro a chiunque, anche nel modo più cretino, anche solo per arricchirsi personalmente ignorando ogni regola elementare di prudenza, deve SEMPRE ESSERE RIMBORSATO AL 100% E MAI PERDERE UN EURO

Il Debito una volta contratto non può più in un economia globale mai in nessuna circostanza essere ridotto o ripudiato perchè questo turberebbe il Dio dei Mercati Finanziari. E se i mercati finanziari sono turbati possono cedere e non c'è disgrazia al mondo più grande (a parte il Riscaldamento Climatico).

Da quando è stato messo da parte il cristianesimo come noto il Dio dell'Economia Globali ha sostituito la Madonna, Gesù e Padreterno come la divinità da temere, rispettare e contro cui non commettere peccato.

Nel nuovo Vangelo è scritto che non ci possono essere default o ristrutturazioni di debito di qualunque genere e qualunque sacrificio va affrontato dai cittadini del paese per ripagare tutti i debiti contratti da loro e dal loro stato verso le banche ed istituzioni finanziarie internazionali,.

Questo perchè non farlo turberebbe il Dio dei Mercati Finanziari che può vendicarsi poi come nella Bibbia, ordinando ai suoli fedeli (Soros, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Jp Morgan e altri speculatori..) di fare stragi di innocenti come Dio nella Bibbia ordina Mosè, David, Samuele, Giosuè di fare stragi

Nel caso la maggioranza dei cittadini ed elettori, nonostante la vaselina somministrata dai mass media, si dimostri contraria il loro governo li deve ignorare, come ha ignorato in Irlanda il voto contrario alla Costituzione europea nel referendum di cinque anni fa.

I governi vengono eletti con le schede elettorali, ma dal momento che si insediano rispondono poi solo alla UE, al G8, al G20, al Fondo Monetario, alla Banca Mondiale e soprattutto alla trinità della Federal Reserve, Banca Centrale Europea e Banca di Inghilterra.

Bernanke, Trichet e King (alla Banca di Inghilterra) e Strauss-Kahn al Fondo Monetario sono i grandi sacerdoti in grado di interpretare la volontà del Dio dei Mercati Globali. E il Dio dei Mercati Globali, che parla per loro bocca, richiede spesso dei sacrifici al popolo.

Se questo recalcitra e non ascolta i suoi sacerdoti allora il Dio dei Mercati Globali manifesta la sua ira tramite Goldman Sachs, Soros, JP Morgan e il resto delle banche e mega fondi provocando cataclismi sui Mercati Finanziari e se non basta mandando a fondo l'economia e provocando carestie.

Fino a quando il popolo spaventato non accetta di offrire i sacrifici necessari a placare l'ira del Dio dei Mercati Globali....

Il governo irlandese nei sondaggi ha solo un 10% di sostegno e alle prossime elezioni e sta suicidando in termini elettorali, come Obama e i suoi che per coprire tutte le perdite delle banche con soldi pubblici si sono suicidati all'elezione del 4 novembre.

Quindi i politici irlandesi stavano tergiversando la settimana scorsa e il "Centro" che dirige l'economia globale si stava spazientando.

Per cui il Fondo Monetario per bocca di Strauss-Kahn ha dichiarato oggi pubblicamente che bisogna togliere l'autorità rimasta ai singoli governi, (visto che non obbediscono sempre immediatamente).

E ora potete tornare a parlare di cose importanti come la caduta del governo Berlusconi e di come un governo di sinistra sarebbe meglio di uno di destra o viceversa

(Una volta quando un governo o entità straniera dichiarava che un paese doveva perdere la sua sovranità diventando un protettorato di qualche impero, c'erano rivolte e anche guerre, ma allora non avevi una popolazione con un età media sopra i 50 anni come in Italia ...).


Irlanda, si raccoglie quello che si semina
di Federico Zamboni - www.ilribelle.com - 24 Novembre 2010

La chiamavano “la tigre celtica”. La celebravano come un magnifico esempio di dinamismo economico. E adesso fanno finta di non capire che erano quelle, le radici del disastro attuale

Tutti a parlare del temutissimo “effetto contagio”. Tutti col fiato sospeso ad aspettare di capire chi vincerà tra la speculazione, che prospera sulle sciagure altrui, e i governi che bene o male (più male che bene) devono garantire un minimo di stabilità alle popolazioni di cui sono a capo. E via con le meste riflessioni sul pericolo incombente.

Via con gli aggiornamenti “in tempo reale” sulle reazioni dei mercati internazionali, tra indici di Borsa e quotazioni dell’euro. Via con le domande angosciate: basteranno i fondi straordinari messi a disposizione dalla Ue, a salvare l’Irlanda dal default? A chi toccherà, dopo? Al Portogallo? Alla Spagna? Persino all’Italia?

Come al solito, si discute delle conseguenze e si sorvola sulle cause. Ci si augura di arginare il disastro in corso – in attesa del successivo – ma non si fa nulla per arrivare alle questioni decisive, che non sono affatto specifiche ma di portata generale.

Si riepilogano le caratteristiche della singola debacle, come in un’autopsia, ma si fa finta di non capire che il punto non è compilare una scheda riepilogativa da spedire in archivio, ma evitare che in futuro ci siano altre vittime per le stesse ragioni. O per ragioni sostanzialmente affini.

Così come nel caso dei subprime e dei derivati, il crollo irlandese non è un incidente di percorso. È la logica, inevitabile conseguenza di due fattori precisi: il primo è la crescita forsennata, e palesemente “drogata” da politiche fiscali avventate, che è cominciata negli anni Novanta e che per molto tempo è stata celebrata come l’ennesimo miracolo economico da guardare con ammirazione o addirittura da prendere a modello.

Bisognerebbe andare a rileggerli uno per uno, i titoli ad effetto e gli articoli pseudo tecnici che magnificavano l’ascesa, inarrestabile, di quella che era stata definita “la tigre celtica”.

Bisognerebbe domandare a tutti quelli che per anni e anni si sono aggiunti al coro dei peana per quale motivo non siano stati più cauti.

Ci credevano davvero, alla favoletta della crescita illimitata e ad altissima velocità? Non avevano mai avuto, guardando al passato e alla tristissima fine di altre esperienze analoghe, il dubbio che tanta rapidità non facesse, e non potesse fare, rima con solidità?

Nel febbraio 2003, ad esempio, nella “Lettera finanziaria” di Giuseppe Turani su Repubblica, si leggeva testualmente «Secondo la Banca Centrale Irlandese per i prossimi cinque anni il tasso d'incremento del Pil annuo si attesterà intorno al 4-5%. Percentuali decisamente più contenute rispetto a quelle registrate nell'ultimo decennio. Ma che comunque il resto dei Paesi del Vecchio Continente possono solo sognare».

Quanto al secondo fattore, che ovviamente è la speculazione, il silenzio è ancora più colpevole. La tendenza generale è considerarla un dato di fatto. Uno “spiacevole” effetto collaterale di quella bella, utile, irrinunciabile libertà economica che tutto regge e tutto fa crescere.

Nessuno, a livello governativo, che abbia la forza di dire che la prima e vera ragione dell’instabilità non è altro che la finanziarizzazione dell’economia, che sovrappone alla ricchezza reale – fatta di cose concrete – un’immane sovrastruttura di elementi virtuali, che con la stessa facilità possono gonfiarsi a dismisura o scoppiare da un momento all’altro con effetti spaventosi.

Ottusità? Malafede? Ce lo dicano loro. In un’intervista pubblicata proprio ieri su Repubblica.it (qui ) l’ex rettore della Bocconi, Roberto Ruozi, fa sfoggio di ottimismo e prova a spiegarne i motivi.

Se non che, in extremis, gli scappa la più inquietante delle ammissioni: «Sarà il buon senso che ci salverà. Intanto ci sono miglioramenti oggettivi: i sistemi bancari sono oggi in uno stato di salute migliore e non credo che ricadranno negli stessi errori. Sono state salvate una volta, con costi altissimi; sanno che non ci sarebbe una seconda volta. Quindi il problema del moral hazard dovrebbe essere risolto. E io credo che questo valga anche per i comportamenti di quel gruppo abbastanza ristretto di persone che governa la finanza mondiale. Saranno 100-150 persone, quelle che contano davvero».

Incredibile: «100-150 persone», e tutto il mondo ai loro piedi. A sperare che siano ragionevoli. A sperare che si accontentino di vampirizzare l’universo a piccoli sorsi, invece di cedere alla tentazione di trangugiarne il sangue tutto in una volta.


Da una crisi all'altra, avanza una dittatura invisibile
di Marcello Foa - http://blog.ilgiornale.it/foa - 25 Novembre 2010

Continuo ad ascoltare alla radio commenti strampalati da parte di economisti e di giornalisti. Uno dei più ricorrenti é quello secondo cui gli irlandesi se la sono cercata. Davvero?

A me sembra che la realtà sia diversa. Da un punto di vista macro, l’Irlanda non stava male. Fino al 2008 il debito pubblico era di gran lunga inferiore al 60% sul Pil stabilito dal Trattato di Maastricht, nel 2009 é salito al 64%.

La loro economia é cresciuta grazie a una tassazione societaria agevolata, che per qualcuno é disdicevole, ma certo non illegittima. Non viola nessun Trattato e, anzi, applica un principio elementare e giusto, quella della concorrenza fiscale tra Stati /o regioni. Nel frattempo l’Irlanda é stata molto brava nell’utilizzare i fondi strutturali europei e a rilanciare con agevolazioni fiscali le zone depresse.

I guai dell’Irlanda sono provocati non dai conti pubblici, ma da quelli privati; ovvero dall’indebitamento delle famiglie, che, analogamente a Stati Uniti e Gran Bretagna, é molto alto, pari al 190% del Pil; in buona parte a causa, ancora una volta, della sopravvalutazione del mercato immobiliare.

Fino a poche settimane fa, tuttavia, si riteneva che l’indebitamento privato, peraltro noto da tempo, potesse essere assorbito nel tempo, senza misure draconiane.

Cos’é successo nel frattempo? Cos’hanno combinato di così grave i cittadini irlandesi? Nulla, assolutamente nulla.

Le banche irlandesi, invece, sì. Quelle stesse banche che pochi mesi fa hanno superato il severissimo stress-test della Bce, improvvisamente hanno annunciato di essere sull’orlo del fallimento. La causa? La solita: sono troppo esposte sul mercato dei derivati, con conseguente moltiplicazione dei loro debiti. Come, nel 2008, le banche Usa, come Ubs, eccetera

Il rimedio? Il solito. Noi cittadini abbiamo pagato per la crisi dei mutui subprime. Gli irlandesi pagheranno per gli errori delle loro banche private, le quali, invece, non pagano mai.

Da qui alcune considerazioni.

1) Non chiamatelo più capitalismo, quello vero è un’altra cosa. Prevede grandi ricompense per chi riesce, ma anche grandi punizioni per chi fallisce. Qui invece stiamo tornando a una situazione che assomiglia molto a quella pre Rivoluzione francese, nella quale una casta di nobili era al di sopra di tutto e non pagava mai.

2) I nostri Paesi non sono più sovrani, né giusti, né democratici. La vera democrazia presuppone l’assunzione di responsabilità e un rapporto di causa ed effetto tra il popolo e gli eletti.

Ora il vero potere é nelle mani di un mondo finanziario che non rispetta le regole costituite e men che meno lo stato di diritto. E che sta sancendo una pericolosa consuetudine: quella che permette alle banche di scaricare su cittadini incolpevoli le proprie colpe.

Loro sbagliano noi paghiamo, Loro risanano rapidamente, incassano bonus milionari, mentre i popoli sono costretti a subire restrizioni pazzesche per anni e forse decenni, in condizioni, talvolta, di moderna schiavitù. E chi osa protestare viene zittito con il ricatto supremo: o é così o viene giù l’Irlanda. E se viene giù l’Irlanda viene giù il mondo. Dunque meglio che pochi si sacrifichino per il bene di tutti.

3) La Bce dovrebbe essere chiamata a rispondere per non aver monitorato, per aver diffuso stress-test farlocchi. Ma non succederà nulla. Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale andrebbero messi sotto inchiesta ed essere costretti a rispondere dei loro errori. Invece, essendo sovranazionali, non sono sottoposti ad alcun tipo di controllo e di verifica.

Avanza così una dittatura invisibile, che non sfida apertamente la democrazia e la sovranità nazionale, ma la svuota progressivamente di contenuti e rende i cittadini schiavi, moderni schiavi ingabbiati per sempre dal debito. Nel nome del progresso e del consumismo.

Questa é la vera minaccia per tutti noi. O meglio: per chi vuole e ha l’intelligenza per capire.

O sbaglio?


Il tramonto dell'Occidente
di Beppe Grillo - www.beppegrillo.it - 25 Novembre 2010

La crisi delle banche irlandesi non è una novità, come non lo era quella della Grecia e come non lo saranno le crisi di Portogallo, Italia e Spagna. Questione di mesi. Ogni volta ci si stupirà come di fronte a un improvviso temporale estivo.

Ieri la Merkel ha dichiarato che la crisi è estremamente grave e l'euro è a rischio. E noi che non lo sapevamo...

I politici danno brutte notizie solo se costretti, attendono l'ultimo istante per evitarci delle sofferenze inutili. Discutere dell'Irlanda o, a inizio 2010, del default greco, equivale a concentrarsi sul foro di un catino bucato.

Lo scolapasta è l'intero Occidente che sta fallendo sotto il peso del suo debito pubblico aumentato del 50% in media in vent'anni.

I Paesi emergenti, il cosiddetto BRIC: Brasile, Russia, India e Cina, hanno un debito pubblico contenuto e stanno comprando quello occidentale. Se la Cina vendesse tutti i titoli di Stato americani che possiede, pari a 883,5 miliardi di dollari, gli Stati Uniti potrebbero fallire.

Il mondo si sta spostando a Sud e a Est. Il PIL dei Paesi del BRIC sta per superare quello del G6 (Germania, Italia, Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone).

I Paesi del BRIC hanno un debito pubblico rapportato al PIL molto basso: Russia 6%, Cina 18%, Brasile 45%, India 59%. L'Italia, per dire, è al 118% con 80 miliardi di euro di interessi annui da pagare, una cifra che ammazzerebbe un elefante.

Gli Stati Uniti stanno per raggiungere l'Everest dei 14.000 miliardi di dollari di debito pubblico dai 6.000 miliardi del 2002. In passato le guerre si combattevano con le armi, oggi si combattono con il debito pubblico. Chi compra il tuo debito diventa il tuo padrone.

Gli Stati Uniti, il Paese più indebitato, è responsabile del 50% delle spese militari mondiali. Una enormità. La Russia, l'antagonista storico, spende il 3,5%. Gli Stati Uniti trasformano il debito in armamenti. In pratica chi compra titoli di Stato statunitensi finanzia la guerra in Afghanistan o le basi militari di Dal Molin di Vicenza e di Okinawa in Giappone dove sono accampati da 65 anni.

L'Impero Romano crollò sotto la spinta dei barbari ai suoi confini. Le sue legioni si ritirarono dal Reno alla Britannia. Gli Stati Uniti forse seguiranno la stessa sorte per l'impossibilità economica di mantenere 716 basi militari in 40 Paesi.

L'Irlanda è un sintomo del tramonto dell'Occidente travolto dal suo debito pubblico. L'inverno sta arrivando per le cicale europee e americane e fuori fa sempre più freddo.


La cantonata di Cantona

di Paolo Barnard - www.paolobarnard.info - 24 Novembre 2010

Cantona ha preso una cantonata incredibile, ma fosse solo per questo chi se ne frega. Il fatto grave è che questa pietosa storia dimostra ancora una volta come ci ha ridotti il Vero Potere con la Cultura della Visibilità, parte essenziale del Più Grande Crimine. Basta infatti che un Vip qualsiasi spari la sua bordata che decine di migliaia di cittadini in buona fede gli si buttino dietro.

La Rete dell’informazione, parte del piano di annullamento delle persone attive, amplifica la boutade del Vip, e così abbiamo la colossale cantonata del Cantona. Ma c’è un fatto ancora più grave, ed è che ridendo e scherzando queste sciocchezze rischiano poi di diventare azioni vere e di fare danni veri.

Il Cantona dice “La banche sono il male di tutto, perché hanno i soldi”. Questo assunto fasullo sta alla base del Fantasy di Rete dove tantissimi sguazzano e producono fanta-informazione complottista, naturalmente con il lurido ebreo banchiere sempre in mezzo. Peccato che le banche non abbiano più un soldo e siano quasi tutte tecnicamente fallite.

Un dato: le banche spagnole hanno debiti per 3.464 miliardi di euro, alla faccia di chi dovrebbe essere pieno di soldi (nota: debiti reali, non fittizi, perché le banche devono sempre garantire di accettare indietro i soldi inventati che emettono ed onorarli con denaro vero, come per esempio il contante).

Il fatto è che le grandi orge di denaro sono oggi avvenute sempre al di fuori del giro delle banche commerciali, cioè fuori dalle banche dei conti correnti dei cittadini che la 'cantonata' vuole prendere di mira.

Tutto il peggio delle manovre criminali del Potere è accaduto nelle investment banks, negli hedge funds, equity funds, capital management funds ecc. (dove gli ordinari c/c dei cittadini non esistono affatto), tanto è vero che la fetta dei mercati finanziari posseduta dalle normali banche dei cittadini è crollata a meno di un quarto del totale. Ma il Cantona dice “andiamo in banca e ritiriamo i soldi dai c/c, e così faremo crollare il sistema di potere”.

E’ esattamente come ci descrisse il Manzoni, andavano a linciare gli untori credendo di colpire la peste. Peccato che gli untori non fossero la peste, e che le banche dei conti correnti non siano il Potere. Ma ecco cosa accadrebbe se la ‘cantonata’ realmente fosse messa in pratica da un milione di cittadini:

- I cittadini 'cantonati' corrono a chiudere i c/c, chiedono quindi i contanti.

- Per la banca la chiusura di un conto corrente significa perdere una passività, poiché sono soldi che la banca deve al cittadino con gli interessi che gli dava. Con la ‘cantonata’ le banche quindi perderebbero tutti quei passivi (nota: i conti correnti non sono mai l’attivo delle banche, contrariamente a quanto si crede, e non vengono mai usati dalle banche per speculare o far prestiti. Le banche non possono farlo, e il denaro che prestano se lo inventano di sana pianta, non usano mai il nostro pescandolo dai nostri c/c).

- Ma i contanti che le banche daranno al milione di cittadini 'cantonati' devono essere chiesti alle Banche Centrali, perché le banche non hanno mai tanto contante nei caveau, solo il minimo necessario alle operazioni quotidiane. Le Banche Centrali sono sempre obbligate a fornire i contanti su richiesta delle banche.

Ma nel farlo addebitano le riserve delle banche medesime presso le Banche Centrali, le quali riserve sono gli attivi della banche, cioè i loro gruzzoli di denaro. Con la ‘cantonata’, le banche perderebbero quindi grandi fette di quegli attivi quando la Banca Centrale gli fornisce il contante.

- Quindi a livello di stati patrimoniali delle banche, esse perdono delle passività (1 milione di c/c ritirati) ma perdono anche degli attivi per lo stesso valore (lo stesso milione di c/c trasformati in contanti e addebitati sulle loro riserve). Risultato: vanno in pari, altro che collasso.
La 'cantonata' non sposterebbe uno spillo come lotta al Potere. Al peggio costringerebbe le banche ad alzare i costi, ma questa è un'altra storia.

Basta giocare ragazzini, la gente vera muore o si dà fuoco o piangerà una vita intera per ben altri problemi e per ben altri Poteri. Un calcio in culo a voi perditempo, e datovi da Cantona, che così è bello forte (poi Platinì pensi a girarne uno a Cantona, please).

Per tutti gli altri lettori, vi invito di nuovo a riflettere su come lavora il Vero Potere. Eccoci con in mano mezzi portentosi come la Rete, ma anche istupiditi dalla Cultura della Visibilità che esso ha creato, e così la Rete diventa un’arma di distrazione di massa che ci allontana sempre più da un’analisi precisa di chi sia questo Potere e di come combatterlo. Lui, sempre più indisturbato, intanto ci ammazza il futuro.

Dall’Irlanda all’Italia ci sono 2 ore d’aereo per gli uomini del Fondo Monetario Internazionale… Vedete un po’ voi.


Destino manifesto
di Eugenio Benetazzo - www.eugeniobenetazzo.com - 25 Novembre 2010

Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna ormai stanno diventando il leitmotiv delle riflessioni delle comunità finanziarie internazionali, come se l'unica preoccupazione su cui ci dovremmo soffermare fosse la tenuta nel breve dei conti pubblici di questi paesi.

Il cosa scegliere ed il dove posizionarsi a livello di investimento è stato da me ampiamente trattato in svariate occasioni e contesti mediatici, tuttavia l'interrogativo principe cui ci dovremmo porre in questo momento non è se il tal titolo di stato è a rischio default, ma piuttosto quale non lo sarà. Cercherò di trasmettervi questo mio pensiero nel modo più comprensibile possibile.

La crisi del debito sovrano in Europa è una crisi di natura strutturale (e non congiunturale) dovuta a fenomeni macroeconomici che hanno espresso tutto il loro potenziale detonante attraverso un modello di sviluppo economico turboalimentato da bassi tassi di interesse e costi irrisori di manodopera che porta il nome di globalizzazione.

Quest’ultima non nasce dalla naturale evoluzione del capitalismo classico, quanto piuttosto è una soluzione studiata a tavolino da potenti lobby di interesse sovranazionale per risolvere l'angosciante diminuzione dei profitti e degli utili aziendali in USA ed in Europa, causa un progressivo ed inarrestabile processo di invecchiamento della popolazione unito ad una decadente natalità dei nuclei familiari.

Le grandi multinazionali vedranno infatti costantemente contrarsi sia i fatturati che i livelli di profitto in quanto ormai quasi tutti i mercati occidentali sono maturi, saturi o addirittura in declino (pensate al mercato automobilistico, non sono casuali le recenti esternazioni di Sergio Marchionne).

Tra quindici anni le persone anziane, gli over sessanta, rappresenteranno una quota sempre più consistente delle popolazioni occidentali (in Italia saranno stimati quasi al 40%).

Una persona anziana purtroppo non rappresenta il clichè del consumatore ideale, infatti contribuisce marginalmente poco al livello dei consumi rispetto ad un trentenne (quest’ultimo infatti si trova appena all’inizio del suo progetto di vita: si deve sposare, deve comprare un’abitazione, fare figli, acquistare un’autovettura, divertisi nel tempo libero, andare in vacanza, vestirsi alla moda e così via).

Se da una parte infatti diminuirà il livello dei consumi, dall’altra aumenterà invece il peso angosciante del welfare sociale (ricoveri, degenze, assistenza medica e pensioni di anzianità) andando a pesare sempre di più in percentuale ogni anno sul totale della ricchezza prodotta.

In buona sostanza stiamo parlando di paesi (USA, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna & Company) il cui destino è piuttosto ben delineato: inesorabile invecchiamento della popolazione, costante aumento dell’indebitamento pubblico, lenta deindustrializzazione e brutale impoverimento.

Non so quanto potranno effettivamente servire i cosidetti programmi di austerity sociale, a meno di drastici e drammatici tagli alla spesa sociale ed alla pubblica amministrazione.

Chi ha concepito la globalizzazione ha pensato proprio a questo ovvero come salvaguardare i livelli di profitto aziendali (e magari anche come farli aumentare) a fronte di un mutamento epocale della geografia dei consumi mondiali.

In Asia, con in testa Cina ed India, il 75% della popolazione ha un’età inferiore ai trentanni ed un reddito procapite in costante ascesa: si trattava pertanto di creare le premesse e le modalità per far aumentare il numero di persone che in queste regioni potessero iniziare a consumare a livelli similari a quelli occidentali.

Grazie ad il WTO si è riusciti ad implementare un fenomenale trasferimento di posti di lavoro attraverso le “opportunità” delle delocalizzazioni produttive, spostando letteralmente fabbriche e stabilimenti, che avrebbero consentito di far nascere con il tempo una nuova classe media borghese disposta a spendere per le mode e le tendenze di consumo del nuovo millennio.

Non bisogna essere economisti per rendersi conto di quanto esposto sopra: nel 2000 l’Asia contribuiva ad appena il 10% dei consumi mondiali, nel 2030 salirà a quasi il 40%. Come potenziale di crescita, ai mercati orientali si stanno affiancando anche i mercati dell’America Latina con la locomotiva Brasile in testa.

Stiamo pertanto assistendo ad un mutamento epocale: il baricentro economico e geopolitico del mondo si sta spostando verso Oriente ed anche verso il Sud del Pianeta. La crisi del debito sovrano in Europa è tutto sommato di portata inconsistente rispetto ai problemi che emergeranno nei prossimi cinque anni a fronte di oggettive difficoltà di approvvigionamento alimentare, soprattutto in Oriente che detiene superfici arabili decisamente incapaci a far fronte alla crescente domanda sia di cereali che (purtroppo) di carni da allevamento.

Tra ventanni l’attuale modello economico dovrà essere in grado di fornire abitazioni, automobili, carburanti, acqua e cibo ad almeno 600 milioni di nuove persone: pertanto cominciate a chiedervi chi potrà ancora permettersi di avere il frigorifero pieno o i banchi del supermercati colmi e riforniti per accontentare lo scellerato e sfrenato consumismo del nuovo millennio. Destino manifesto per dirla alla Stewie Griffin.