domenica 24 aprile 2011

Libia update

Un aggiornamento sulla guerra in Libia, aldilà delle menzogne propagandate dai media mainstream...


Libia, Misurata. L'ora delle decisioni
di Alberto Tundo - Peacereporter - 21 Aprile 2011

Il Colonnello stringe la morsa mentre la città è al collasso. Al fronte intervista il compito di liberarla, sempre che interessi farlo

Si sono avvicinati troppo alla linea del fronte, i due fotoreporter uccisi mercoledì dallo scoppio di una granata. Tim Hetherington e Chris Hondros erano grandi professionisti, tra i migliori nel loro campo, ma tutta l'esperienza maturata nei tanti teatri di guerra in cui i due erano stati per lavoro, a Misurata è servita a poco.

Troppo grande la tentazione di capire e documentare l'assedio che verrà ricordato come uno degli episodi chiave di questa guerra libica e del quale, tuttavia, si sa poco.

La forze rimaste fedeli a Muhammar Gheddafi e soprattutto i mercenari che lo sono diventati a suon di dollari, cercano di prenderla ormai da un mese e mezzo.

Oltre quaranta giorni di uno strangolamento che finora, secondo fonti dell'ospedale cittadino, ha fatto un migliaio di morti e tremila feriti, vittime dei proiettili dei cecchini che le truppe gheddafiane sono riuscite a far penetrare, dei razzi Bm-21, meglio noti come Grad e delle bombe a grappolo, che in linea teorica sarebbero vietate da precise convenzioni internazionali.

All'interno della città, la terza più importante del Paese, tra le trecento e le cinquecentomila persone sono letteralmente in trappola, visto che esercito e milizie controllano le tre vie d'accesso di terra. Ai ribelli, male armati e inesperti, resta solo la zona del porto, dal quale arrivano col contagocce navi di aiuti, principalmente cibo e medicine, e anche qualche carico d'armi da Bengasi.

E il porto è anche il simbolo dell'agonia di una città, dove mancano acqua ed elettricità e si va avanti con i generatori elettrici.

Lì si sono ammassati migliaia di disperati che stanno cercando di lasciare la Libia, principalmente lavoratori dell'Africa subsahariana ma non solo. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni ha organizzato tre viaggi in pochi giorni per portarne in salvo una parte; giovedì mattina è partita l'ultima nave con un carico di circa mille sfollati.

Che da Misurata potrebbe arrivare una svolta nella gestione del conflitto libico, lo si è capito mercoledì quando Francia e Italia hanno rivelato il prossimo invio di piccoli team composti da personale militare in aiuto ai ribelli.

Non è ben chiaro se avranno compiti di consulenza o, come pare più probabile, di addestramento ma è certo che rispetto alla fase dei soli attacchi aerei, si tratta di un passo verso un intervento militare di ben altra entità.

Lo ha capito subito il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, che ha espresso la contrarietà di Mosca: "Noi riteniamo che operazioni del genere siano estremamente rischiose e dalle conseguenze imprevedibili. Ci sono stati altri casi cominciati con l'invio di istruttori militari e che si sono trascinati per anni con la morte di centinaia di migliaia di persone".

Un no secco, quindi, ad eventuali operazioni di terra, ribadito a stretto giro anche dalla grande assente della crisi libica, l'Unione Africana e dalle Nazioni Unite, che hanno già rifiutato un'offerta di truppe di terra fatta dall'Unione Europea. "Il nostro obiettivo è quello di far sì che i nostri aiuti siano offerti con imparzialità", ha detto la responsabile degli interventi umanitari dell'Onu, Valerie Amos. Quindi, no grazie.

Per gli analisti esperti di questioni strategiche, però, per la Nato, che ha il comando delle operazioni, non c'è altra opzione che l'escalation militare, con l'impiego di elicotteri da combattimento, operazioni di terra e l'impiego della flotta navale.

La situazione è talmente drammatica che è ora che le potenze intervenute nella crisi mettano sul tavolo una strategia chiara, sulla cui esistenza è lecito sospettare. La Francia ha irrobustito la qualità della sua partecipazione, aumentando il numero delle missioni giornaliere dei suoi caccia, passate da 30 a 41 nel giro di pochi giorni.

Ma tutti sanno che una guerra non si vince con la sola aviazione. La Nato lo conferma. Martedì, il generale di brigata Mark Van Uhm ha spiegato che "c'é un limite a quello che si può ottenere con le forze aeree per fermare i combattimenti in una città. Noi ci muoviamo con molta cautela per evitare vittime civili".

L'Alleanza ha distrutto una quarantina di tank di Gheddafi, troppo poco per fermare i miliziani che possono contare su armi a lunga gittata. D'altro canto, gli strateghi del Colonnello sono stati tanto accorti da evitare di concentrare troppi soldati così da esporli alle bombe dell'Alleanza.

Si muovono con una certa fluidità, lungo il perimetro esterno e in centro, tra Tripoli street e Naki el-Thequeel, la strada che conduce al porto. Se al Colonnello riuscirà di prenderlo, Misurata cadrà in un secondo e con lei anche gli altri centri della parte occidentale del Paese in mano ai ribelli, come Nalut, Yifrayn e Zintan.

A quel punto avverrà quella partizione tra est e ovest della Libia che all'Alleanza risolverà due problemi in un colpo solo: eviterà che l'Occidente si debba sporcare le mani con eventuali liquidazioni, esilii e processi a Gheddafi e toglierà a quest'ultimo l'aura del martire, oltre che un bel pò di pozzi petroliferi.

Il sospetto che gli occidentali abbiano già deciso per la partizione, i ribelli ce l'hanno. Si sentono traditi e, impotenti, covano risentimento.


Attacco alla Libia: spiegazioni inedite ma convincenti. Vedremo se è vero
di Antonio De Martini - Il Corriere della Collera - 20 Aprile 2011

Quale può essere il fil rouge che collega tutti i paesi attaccati – e presi di mira in varie forme - dagli USA e Gran Bretagna con l’aiuto di una serie di ausiliari tradizionali più o meno consapevoli? Libia, Libano, Siria,Irak,Somalia, Sudan, Iran.

Non hanno in comune l’etnia ( Iran è ariano mentre gli altri sono semiti o – Sudan – misti).

Non hanno in comune la religione: Libano ha cristiani, l’Iran è sciita, la Siria è mista. Non il petrolio: Somalia e Siria non ne hanno in quantità significative.

Non la ricchezza: Somalia e Sudan non lo sono. Se invece vediamo il negativo, vediamo che nessuno di questi paesi figura tra i 56 aderenti alla Banca per i Regolamenti Internazionali.

In pratica sono paesi che hanno rifiuutato di far parte della comunità finanziaria internazionale e la Libia in particolare se la stava cavando molto bene:

  • Stando ai dati del FMI la Banca centrale libica possiede 144 tonnellate di oro nei suoi forzieri. Per un paese di tre milioni e mezzo di abitanti, non è niente male. L’educazione e l’assitenza medica sono gratuite; le coppie che si sposano ricevono 50.000 dollari a fondo perduto.
  • I Ribelli, ancora prima di costituire un governo provvisorio, hanno annunziato (il 19 marzo) di aver costituito la BANCA CENTRALE DI LIBIA. La Banca centrale di Libia (quella di Gheddafi per intenderci) è pubblica e non privata, stampa la moneta e presta denari allo stato senza interessi per finanziare le opere pubbliche tra cui il famoso fiume sotterraneo fatto dall’uomo che utilizza le acque fossili del Sahara per irrigare tutta l’area agricola della Libia che si trova al Nord. A proposito: l’attività agricola in Libia è esentasse. Completamente. Questa politica è l’esatto contrario di quella seguita dal mondo occidentale, che fa pagare servizi quali l’educazione e la sanità e ha privatizzato le banche centrali, che fanno pagare gli interessi agli stati quando forniscono loro i fondi.
  • La ragione ufficiale che ha spinto l’occidente a non mantenere le Banche Centrali come pubbliche è che questi prestiti aumentano l’inflazione, mentre prendere prestiti dalle Banche estere o dall FMI , non provocherebbe inflazione. In realtà prendere i denari a prestito da Banche centrali pubbliche – senza interessi – riduce grandemente il costo dei progetti pubblici di investimento e in alcuni casi li riduce del 50%.
  • Gheddafi aveva da poco lanciato la proposta di creare una moneta unica africana: IL DINARO ORO; e l’unico paese africano che si era opposto è stato il Sud Africa, proprio quello che si è presentato a Tripoli per la mediazione con i ribelli e la NATO. Su questa proposta c’è un commento di Sarkozy che l’ha giudicata “una minaccia per l’Umanità”.
  • Sia Saddam Hussein che Gheddafi avevano proposto – entrambi sei mesi prima dell’attacco – di scegliere l’Euro (o il dinaro) come valuta per le transazioni petrolifere.

ADESSO RESTIAMO IN ATTESA DI VEDERE – IN CASO DI VITTORIA DELLA NATO – SE EDUCAZIONE E SANITA’ RESTERANNO GRATUITE, SE LA BANCA CENTRALE LIBICA ADERIRA’ ALLA B.R.I. E SE L’INDUSTRIA PETROLIFERA LIBICA VERRA’ SVENDUTA A PRIVATI. Poi anche i più ingenui cominceranno ad avere sospetti.



200 miliardi fanno correre Londra e Parigi. Le vere ragioni della guerra

di Ikram Ghioua - www.lexpressiondz.com - 21 Aprile 2011
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da Mimi Moallem

Sparsi per l’Europa, i fondi sovrani libici stuzzicano l’appetito degli Occidentali.

Nel 2004 Tony Blair, allora Primo Ministro britannico, è stato il primo Capo di Stato occidentale a recarsi in Libia, divenuta così frequentabile. E nel dicembre 2007 Parigi si è presa la briga di stendere il tappeto rosso nel parco del Marigny Hotel, dove il colonnello Gheddafi aveva piantato la sua tenda.

Cosa è cambiato da allora e che può giustificare l’accanimento di Gran Bretagna e Francia contro il regime di Tripoli quando prima andavano d’amore e d’accordo? La risposta è stata data dal quotidiano statunitense The Washington Times.

Questo stesso giornale ci ha rivelato lo scorso marzo che ci sono 200 miliardi di dollari dei fondi libici che fanno impazzire gli occidentali.

Questo è il denaro che circola nelle banche centrali, in particolare in quelle britanniche e francesi. In preda a una crisi finanziaria senza precedenti, la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti vogliono a tutti i costi impossessarsi di questi fondi sovrani, il cui l’importo è stimato essere circa 200 miliardi di dollari.

“Queste sono le vere ragioni dell’intervento della NATO in Libia”, afferma Nouredine Leghliel, analista borsistico algerino trasferitosi in Svezia, che è stato uno dei primi esperti a sollevare la questione.

Questi 200 miliardi di dollari, di cui gli Occidentali non parlano che a mezza voce, sono al momento congelati nelle banche centrali europee. Spesso associano questo denaro alla famiglia Gheddafi, “cosa che è totalmente falsa”, sottolinea il signor Leghliel. I grandi gruppi finanziari nascondono segretamente questi investimenti nelle loro società e filiali.

“Più continua il caos, più la guerra dura e più gli occidentali traggono profitto da questa situazione che torna a loro vantaggio”, chiarisce il nostro analista. Il caos nella regione farebbe comodo a tutto l’occidente.

I britannici, soffocati dalla crisi della finanza, troverebbero così le risorse necessarie. Gli statunitensi, per mire squisitamente militari, si istallerebbero in modo definitivo nella fascia del Sahel e la Francia potrà ricoprire il ruolo di subappaltatore in questa regione da lei considerata come una sua appendice.

L’unico scoglio per la Francia, in questa regione, è ovviamente l’Algeria. Questo spiega l'aggressività del Quai d’Orsay (sede del Ministero francese degli Affari Esteri, N. d. T.) nei confronti di Algeri. Parigi sembra privilegiare le vie informali e, invece di collaborare con gli altri paesi alleati, li accusa di non fornire un sostegno sufficiente nella direzione da lei intrapresa.

Così, rimette in gioco il dossier della sicurezza dei suoi cittadini nel Sahel e si affretta a dare l’allarme sulle nuove minacce in base a un rapporto dell’ambasciata di Francia in Mali. “Esiste un rischio molto elevato di cattura di cittadini francesi in Mali e in Niger”, indica l'Ambasciata di Francia a Bamako in un’allerta pubblicato sul suo sito web.

Si potrebbe pensare che questo nuovo allarme sia attendibile per quello che riguarda la Libia, una situazione che vede la Francia sicuramente responsabile, ma dobbiamo interrogarci sulla solerzia dei francesi nel raccomandare ai propri cittadini di evitare il sud dell'Algeria.

“A causa delle attuali minacce nel Sahel, si raccomanda ai francesi residenti o in transito di evitare qualsiasi movimento nelle aree di Djanet e di Tamenrasset, anche nel contesto di itinerari turistici delle agenzie autorizzate”, sottolinea il Ministero sul suo sito web, nella rubrica “Consigli ai viaggiatori”.

La regione di Mopti si trova a più di 1.000 chilometri dalla frontiera algerina. E’ possibile trasportare, da un punto di vista logistico, uno o più ostaggi su simili distanze? Perché hanno fatto il nome dell’Algeria proprio quando questa nazione sta impiegando ingenti risorse per rendere sicure le sue frontiere con il Niger e la Libia?

La Francia, il cui ruolo in Libia è ambiguo, non sta forse mischiando le carte in tavola? La domanda merita di essere posta.
I francesi, colpiti da una crisi economica e sociale senza precedenti, impantanati nella campagna elettorale per l’elezione presidenziale, si trovano ad affrontare gravi problemi, alcuni dei quali nelle loro ex-colonie.

Ignorando gli accordi bilaterali con i paesi nordafricani e criminalizzando il pagamento di riscatto ai terroristi, Parigi interviene, facendo uso di tutte le carte in suo possesso, per far abortire le iniziative di lotta contro il terrorismo che i paesi del Sahel stanno promuovendo.

Il suo obiettivo è semplicemente quello di riprendere il controllo delle sue ex-colonie. La Francia ha una fissazione per il Sud algerino. Gioca d’astuzia per coinvolgere lo Stato algerino in una controversia avviata dal CNT libico (Comitato Nazionale Transitorio), accusando la stessa Algeria di sostenere Gheddafi.


I volenterosi puntano al fondo sovrano libico
di Manlio Dinucci - Il Manifesto - 22 Aprile 2011

L'obiettivo della guerra in Libia non è solo il petrolio, le cui riserve (stimate in 60 miliardi di barili) sono le maggiori dell'Africa e i cui costi di estrazione tra i più bassi del mondo, né il gas naturale le cui riserve sono stimate in circa 1.500 miliardi di metri cubi.

Nel mirino dei «volenterosi» dell'operazione «Protettore unificato» ci sono anche i fondi sovrani, i capitali che lo stato libico ha investito all'estero.

I fondi sovrani gestiti dalla Libyan Investment Authority (Lia) sono stimati in circa 70 miliardi di dollari, che salgono a oltre 150 se si includono gli investimenti esteri della Banca centrale e di altri organismi. Ma potrebbero essere di più. Anche se sono inferiori a quelli dell'Arabia Saudita o del Kuwait, i fondi sovrani libici si sono caratterizzati per la loro rapida crescita.

Quando la Lia è stata costituita nel 2006, disponeva di 40 miliardi di dollari. In appena cinque anni, ha effettuato investimenti in oltre cento società nordafricane, asiatiche, europee, nordamericane e sudamericane: holding, banche, immobiliari, industrie, compagnie petrolifere e altre.

In Italia, i principali investimenti libici sono quelli nella UniCredit Banca (di cui la Lia e la Banca centrale libica possiedono il 7,5%), in Finmeccanica (2%) ed Eni (1%): questi e altri investimenti (tra cui il 7,5% dello Juventus Football Club) hanno un significato non tanto economico (ammontano a circa 4 miliardi di euro) quanto politico.

La Libia, dopo che Washington l'ha cancellata dalla lista di proscrizione degli «stati canaglia», ha cercato di ricavarsi uno spazio a livello internazionale puntando sulla «diplomazia dei fondi sovrani».

Una volta che gli Stati uniti e l'Unione europea hanno revocato l'embargo nel 2004 e le grandi compagnie petrolifere sono tornate nel paese, Tripoli ha potuto disporre di un surplus commerciale di circa 30 miliardi di dollari annui che ha destinato in gran parte agli investimenti esteri.

La gestione dei fondi sovrani ha però creato un nuovo meccanismo di potere e corruzione, in mano a ministri e alti funzionari, che probabilmente è sfuggito in parte al controllo dello stesso Gheddafi: lo conferma il fatto che, nel 2009, egli ha proposto che i 30 miliardi di proventi petroliferi andassero «direttamente al popolo libico». Ciò ha acuito le fratture all'interno del governo libico.

Su queste hanno fatto leva i circoli dominanti statunitensi ed europei che, prima di attaccare militarmente la Libia per mettere le mani sulla sua ricchezza energetica, si sono impadroniti dei fondi sovrani libici.

Ha agevolato tale operazione lo stesso rappresentante della Libyan Investment Authority, Mohamed Layas: come rivela un cablogramma filtrato attraverso WikiLeaks, il 20 gennaio Layas ha informato l'ambasciatore Usa a Tripoli che la Lia aveva depositato 32 miliardi di dollari in banche statunitensi. Cinque settimane dopo, il 28 febbraio, il Tesoro Usa li ha «congelati».

Secondo le dichiarazioni ufficiali, è «la più grossa somma di denaro mai bloccata negli Stati uniti», che Washington tiene «in deposito per il futuro della Libia». Servirà in realtà per una iniezione di capitali nell'economia Usa sempre più indebitata. Pochi giorni dopo, l'Unione europea ha «congelato» circa 45 miliardi di euro di fondi libici.

L'assalto ai fondi sovrani libici avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 paesi, 22 dei quali nell'Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattuttto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni.

Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell'agosto 2010, permette ai paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.

Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall'Unione africana: la Banca africana di investimento, con sede a Tripoli; il Fondo monetario africano, con sede a Yaoundé (Camerun); la Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria).

Lo sviluppo di tali organismi permetterebbe ai paesi africani di sottrarsi al controllo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, strumenti del dominio neocoloniale, e segnerebbe la fine del franco Cfa, la moneta che sono costretti a usare 14 paesi, ex-colonie francesi.

Il congelamento dei fondi libici assesta un colpo fortissimo all'intero progetto. Le armi usate dai «volenterosi» non sono solo quelle dell'operazione bellica «Protettore unificato».


Tripoli, bel suol d'amore (di ritorno dalla Libia)
di Fulvio Grimaldi - http://fulviogrimaldi.blogspot.com - 22 Aprile 2011

Il parlamento è costituito fondamentalmente come rappresentante del popolo, ma questo principio è in se stesso non democratico, perchè democrazia significa potere del popolo e non un potere in rappresentanza di esso., L'esistenza stessa di un parlamento significa assenza del popolo. La vera democrazia non può esistere se non con la presenza del popolo stesso e non con la presenza di suoi rappresentanti. I parlamenti, escludendo le masse dall'esercizio del potere e riservandosi a proprio vantaggio la sovranità popolare, sono divenuti una barriera tra il popolo e il potere. Al popolo non resta che la falsa apparenza della democrazia che si manifesta nelle lunghe file di elettori venuti a deporre nelle urne i loro voti. (Muammar Al Gheddafi)

I membri della società jamahiriyana sono liberi da ogni tipo d'affitto. La casa appartiene a colui che la abita... La dimora non può essere utilizzata per nuocere alla società. La società jamahiriyana è solidale. Assicura a ognjuno una vita degna e prospera e uno stato di salute avanzato fino a giungere alla socsieetà delle persone sane. Grantisce la protezione dell'infanzia, della maternità, della vecchiaia e degli invalidi. La società hamahiriyana è la tutrice di coloro che non hanno tutela. L'istruzione e le cognizioni sono diritti naturali di ognuno, Ogni individuo ha il diritto di scegliere la sua istruzione e le cognizioni che gli si confanno senza costrizioni o orientamento imposto... I membri della società jamahiriyana proteggono la Libertà e la difendono ovunque nel mondo. Sostengono gli oppressi e incitano tutti i popoli a far fronte all'ingiustizia,all'oppressione, allo sfruttamento e al colonialismo. LI incoraggiano a combattere l'imperialismo, il razzismo e il fascismo in conformità al principio della lotta collettiva dei popoli contro i nemici della Libertà. (Muammar Al Gheddafi)

E non volete che un tipo così non dovesse venir fatto fuori?

Stavolta ce l’abbiamo fatta ad andare in Libia. E anche a tornare. E il mio non è un plurale majestatis. Anzittutto è un plurale di noi due, io e il mio AK-47, un Kalachnikov che di nome si chiama Sony e, anziché sparare cose, le acchiappa, le incamera perché poi si trasformino in grandine di vetriolo sulle menzogne.

In questo caso, su quella planetaria che ha indotto un mondo di boccaloni, panciafichisti, felloni di sinistra, codardi, collusi, ad assistere tra il placido, i finti turbamenti e gli intimi sfrigolii, allo sbranamento di un grande paese, alla satanizzazione di un leader migliore di chiunque altro nel mondo arabo-africano attuale e neanche paragonabile alla feccia che governa la “comunità internazionale”, all’assalto alla vita di un popolo sovrano e libero.

Ma quel noi plurale si riferisce anche, e di più, agli strepitosi cittadini britannici – British Civilians for Peace in Libya – che un po’ scudi umani, un po’ investigatori di fatti veri, un po’ combattenti per la pace, si sono mossi, primi assoluti, a superare il melmoso oceano di complicità, disinformazione, ferocia colonialista e collusione eurocentrica, per stare almeno per un po’ e con dirompente significato simbolico, accanto alle donne, agli uomini, ai ragazzi, ai bambini che resistono e che l’imperialismo, da Obama a Rossanda Rossanda, vuole morituri.

Subito dopo il 17 febbraio, quando i revanscisti del colonialismo sconfitto, mimetizzatisi tra i fiori di pesco della primavera araba, dettero ai propri ascari di Bengasi il segnale per il colpo di Stato contro l’ultimo frutto ancora vivo della prima liberazione, avevo caricato la Sony e chiesto il visto per la Libia, specificando: Tripoli. L’ambasciatore a Roma era uno di quella mezza dozzina di rinnegati e comprati dell’establishment libico che erano passati all’opzione della convenienza: “Se vuoi andare a Bengasi, subito. Per Tripoli non se ne parla”.

A Bengasi, tra tagliagole Cia di Al Qaida, reduci delle missioni Usa in Bosnia, Afghanistan, Cecenia e mille altri luoghi delle provocazioni imperialiste, decerebrati o furbastri monarchici, terroristi dei servizi occidentali, mercenari egiziani, fuorusciti libici rientrati dopo decenni di addestramento e cospirazione Cia e MI6, sguazzava buona parte della consanguinea stampa occidentale.

Aureolati di democraticismo e di vituperio per la tirannide, pendenti esclusivamente dalle labbra di chi, inetto per difetto di motivazione sul campo di battaglia, andava rastrellando, torturando e uccidendo in massa poveri operai africani immigrati, presentati ai media come “mercenari di Gheddafi” e talquali posti alla mercé del disdoro mondiale, noi avevamo squallidi pifferai, svergognati perfino dai colleghi di destra anglosassoni. Abili con le foglie di fico, costoro raccontavano anche le ombre nere dilaganti sui “giovani rivoluzionari” di Bengasi.

Superavano le vette giornalistiche dei cinesettimanali “Luce” al seguito del conquistatore Graziani e si coprivano di gloria umanitario-democratica, personaggi come Lucia Goracci (TG3), e passi, o come i “sinistri” Stefano Liberti e, ora, perfino Michele Giorgio, corrispondente del “manifesto”, che già con i due primi reportage dall’avamposto coloniale Nato, esaltato come culla di una nuovo “società civile” (solito ricettacolo di ogni schifezza collaborazionista, bulimica di pingue democrazia individuale), ha saputo disintegrare la reputazione guadagnata anni di coraggioso lavoro in Palestina. A stare con loro c’era da mettersi una tuta che neanche a Fukushima.

Aggregatomi ai 13 britannici della Spedizione di pace e di verifica dei fatti, passato dalla Tunisia in Libia e giunto a Tripoli dopo un viaggio notturno di alcune centinaia di chilometri, pesantemente rallentato da numerosissimi posti di blocco con militari e giovani civili, volontari per il controllo e la difesa di un territorio infestato da infiltrati e provocatori, ecco infranto e oltrepassato lo specchio deformante nel quale i Fuehrer di una globalizzazione della catastrofe umana, qui mai passata, riflettono la loro impostura, pirateria, necrofagia.

Si, a Tripoli e per una buona parte della Libia libera siamo stati accompagnati da giovani funzionari del governo. Ma diversamente dagli embedded ontologici di Bengasi, dei quali solo qualche inviato britannico e statunitense ha la residua onestà di ammettere l’impossibilità di muoversi se non sotto il ferreo controllo degli sgherri del golpe, qui noi avevamo la libertà di recarci ovunque desideravamo, fermarci dove ci pareva opportuno, parlare con qualunque interlocutore scegliessimo per strada, nei mercati, nelle case, scuole, ospedali.

In una conferenza stampa conclusiva, nell’Hotel Rixos, lussuoso usbergo della stampa estera, i quattro gatti residui della manipolazione mediatica britannica, berciato contro i dati da noi acquisiti e che ridicolizzavano gli stereotipi della propaganda colonialista, lanciavano alti lai contro chi ne impediva la libera circolazione.

In guerra, con i bombardieri F-16 e i missili Tomahawk sulla testa e la quasi universale doppia qualifica di giornalisti e agenti dell’aggressione, questi tromboni di Murdoch e della BBC pretendevano di muoversi come fossero lì per un reportage sul futuro turistico del paese.

Ricordo Belgrado sotto le bombe. La circolazione assolutamente libera consentitaci dall’ eccessivamente generoso “dittatore” Milosevic aveva messo sedicenti giornalisti e pacifisti in grado di comunicare ad Aviano quali fossero gli obiettivi più succulenti da colpire.

Non c’è stato giorno in cui la 'Coalizione dei volenterosi', passata da 'Alba dell’Odissea' a 'Protettore Unificato', non bombardasse Tripoli allo scopo di “salvare civili” dai massacri di Gheddafi.

Soprattutto di notte, quando il nostro sonno, durissimo dopo giornate spremute allo spasimo per raggranellare fatti e verità, non ci faceva accorgere di nulla e i resoconti di chi aveva vegliato e quelli delle tv internazionali (tutte, anche le più nemiche e bugiarde) ci stupivano con gli elenchi delle distruzioni e dei civili salvati dagli eccidi di Gheddafi grazie al loro smembramento per mano Nato.

La notte del rientro, quando i bollettini degli embedded asserivano una frontiera con la Tunisia in mano ai ribelli, mentre era tranquillamente presidiata da un popolo in armi, via dal paese mi accompagnavano gli spettri dei 7 civili appena trucidati dal “Protettore Unificato” nel sobborgo tripolino di Khellat Al Ferjan.

Invocavano che, fuori, al mondo intorpidito dal rassicurante inganno umanitario, si dicesse che loro, almeno loro che avevano contezza delle loro ossa incenerite, erano stati salvati per il paradiso di Allah da un Rafale di Sarkozy. Erano donne e bambini.

Abbiamo incontrato il popolo libico. Studenti, donne, contadini, pastori, capitribù, operai, avvocati, magistrati, mercanti, ambulanti, ministri, portavoce governativi, un popolo di militanti della libertà. Per ogni dove, nei punti strategici di città e campagne, aggregazioni di volontari, giovani e meno giovani, spesso ragazze, tutti armati, concentrati in piccole tendopoli a presidio del territorio e a sfida di scudo umano.

Al nostro passaggio, non preannunciato perché erratico a seconda delle nostre richieste, spontaneamente e con scatenata esuberanza si improvvisavano manifestazioni di determinazione alla resistenza, di vituperio per gli aggressori, di amore per Gheddafi e per la patria da lui costruita. 42 anni alla guida della Libia: scandalo antidemocratico!

La dittatura borghese capitalista, quella che si innesta a partire dalla manipolazione delle menti fin da bambini, preferisce la propria continuità, altrochè quarantennale, espressa da un pensiero unico ma con facce diverse.

Allah – Muammar – ua Libia- ua bas, lo slogan con cui una stragrande maggioranza di popolo, confermata tale anche dagli esiti militari, impegna la vita per i suoi tre valori costitutivi della Resistenza (“Dio, Gheddafi, Libia e basta”), è diventato la canzone d’amore di questo popolo, la colonna sonora di una tragedia che si è già trasformata in epica.

“Tripoli, bel suol d’amore”, sottratta a camicie nere e ascari, oggi ha questo significato. Un amore che ride sui volti e vibra tra case, tende, scuole, deserto. Un amore che riesce a far volare la vita oltre la una domanda paralizzante che, nella sua infinita accoratezza, ci ha davvero sfregiato il cuore: “Perché ci fanno questo?”

Al centro della domanda, l’Italia del baciamano, l’Italia delle colpe, l’Italia beneficiata. L’Italia i cui Tornado guidano i bombardieri sui beni e sui corpi dei figli dei 600mila massacrati da Graziani. L’Italia, i cui ratti di regime, con il pugnale del colpo alla spalla ancora sanguinante in mano, vanno a elemosinare petrolio e business ai gangster di Bengasi.

“Perchè ce lo fanno?” Ve lo fanno, fratelli libici, perché non vi siete lasciati globalizzare, perché all’élite di tagliagole che tiranneggia il mondo e ne succhia il midollo non avete lasciato campo libero per depredarvi impunemente.

Perché avete conversato e trattato con gli altri alle vostre condizioni, condizioni che non dovevano compromettere quello che per l’ONU era stato il più alto Indice di Sviluppo Umano del continente e il primato nel rispetto dei diritti umani: istruzione, sanità, casa, lavoro, anziani, maternità, infanzia, donne.

Perché avete tenuto fuori dalle palle chi veniva con la pretesa di sostituire la dittatura dei consigli d’amministrazione alla vostra forma di democrazia socialista. Perché siete quelli che ai fratelli africani e di altre parti non garantivano CIE e affini, discriminazione, esclusione, razzismo, ma lavoro e dignità. A due milioni e mezzo su sei milioni di autoctoni.

I quattro scalzacani felloni che si sono venduti alla schiavitù politica, economica, sociale e morale dell’imperialismo e che oggi “governano” a Bengasi, sono i transfughi della Cia, già spiaggiati a Washington e Londra da decenni per coltivare la presa della Libia da parte del “libero mercato”.

E sono i due ex-ministri che oggi si fingono statisti del Consiglio di Transizione che, a partire dal 2005, entrarono in attrito con Gheddafi e si videro smantellare i progetti di libero mercato, liberalizzazione, privatizzazione, globalizzazione della miseria, fine dello Stato sociale, per i quali avevano lungamente brigato con governi e multinazionali. Un attrito che nel 2010 divenne scontro aperto tra la fazione “neoliberista” e i fedeli alla linea del socialismo come da Libro Verde.

Bab el Aziza, in piena capitale, era la casa di Gheddafi. Fu bombardata da Reagan nel 1986, 100 vittime innocenti, tra cui la piccola figlia adottiva del leader. Oggi è un rudere massiccio, con urlanti ancora tutti i segni della barbarie occidentale.

Allora si doveva punire un paese che, guidato da chi ne aveva capeggiato rivoluzione, riscatto dal colonialismo italiano e dall’asservimento a Londra, inserimento nella comunità dei popoli sovrani e delle società giuste, si era costruito in nazione, riferimento, dopo Nasser e con algerini, iracheni, siriani e palestinesi, per il rinascente movimento per l’unità araba.

Abbattuto Saddam, relativamente normalizzata l’Algeria, minata da tradimenti la resistenza palestinese, accerchiata la Siria, isolato, bombardato, squartato il Sudan, consolidate con le armi e la repressione le oscene satrapie arabe vassalle, la Libia aveva volto lo sguardo al suo retroterra geografico e, già sostenitrice fattiva dei processi di liberazione nel sud del continente, con l’Unione Africana era diventata il motore del rifiuto alla nuova colonizzazione.

Ma Bab el Aziza è stata nuovamente bombardata, ridotto in macerie il nuovo edificio, colpiti i quartieri tutt’intorno. Se non fosse stato per un grande uomo, Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli e vicario apostolico per la Libia, non avremmo saputo di neanche un morto dell’apocalisse scatenata sulla Libia, a partire dai 40 civili qui uccisi nell’Alba dell’Odissea.

Abbiamo visto e frequentato gli scudi umani di Bab el Aziza, quelli 'comandati lì da Gheddafi', quasi che l’uomo più amato della Libia avesse adottato il modello israeliano dei ragazzi legati ai carri armati in marcia su Gaza. Lo stesso transfert usato per attribuire a Gheddafi, forte della militanza di un intero popolo, quel mercenariato che è invece praticato, con i killer seriali della Blackwater, dagli esportatori di democrazia. In Libia non c’è bisogno di mercenari.

Un popolo in armi fa sei mesi di servizio di leva, un mese all’anno di aggiornamento e addestra i suoi ragazzi e le sue giovani, fin dalle scuole, alla difesa della patria. C’erano anche questi nella grande spianata di Bab el Aziza, sotto le palme e tra i ruderi dei palazzi devastati.

E c’erano coloro che erano venuti da lontano, dal deserto, con i loro tamburi, nelle loro tende da settimane, c’erano donne a migliaia, di ogni età, ragazze velate accanto ad adolescenti in blu jeans, la gente dei sobborghi, professionisti, studenti, nomadi delle cabile.

A sfidare i serial killer del cielo notte dopo notte, un’immensa folla tumultuante, un grande palco per le canzoni di lotta e d’amore, per gli interventi e gli appelli, ogni tanto un’esplosione di slogan, foto di Muammar innalzate da sorridenti matrone con i bimbetti in braccio. Dappertutto i concatenamenti in danze antiche. Devo riandare ai primi tempi della rivoluzione bolivariana, attorno a Hugo Chavez, per ritrovare un simile concentrato di forza, di positività, di entusiasmo, di determinazione, costi quel che costi.

La rivelazione più clamorosa e inconfutabile delle criminali frodi inflitte all’opinione pubblica internazionale a giustificazione di colpo di Stato e aggressione Nato, l’abbiamo avuta nelle cittadine sul mare della periferia tripolina; Suk Jamal, Tajura, Fajlun. Qui, secondo i cialtroni dei media e i delinquenti della guerra, c’era stata la pistola fumante che rendeva inevitabile e improcrastinabile l’intervento umanitario a difesa dei civili sterminati da Gheddafi.

Qui ci sarebbero state rivolte di massa, soppresse nel sangue dal 'pazzo sanguinario'. Sono centri di decine di migliaia di abitanti, sfolgoranti di luci, fervide di attività, con spiagge sconfinate a orlare un mare incontaminato, miraggio di turisti che i villaggi turistici delle tirannie petrolifere rischiavano di perdere a favore di luoghi più raggiungibili, meno artificiali e inquinati dalla corruzione e dagli antiestetismi del vacanzierato occidentale.

Con il plusvalore dell’accoglienza di genti autentiche, ospitali, incredibilmente cordiali e rispettose. Non è solo il petrolio e la porta all’Africa che ha solleticato il tradimento interventista dei fratelli monarchi del Golfo.

Abbiamo percorso questi luoghi in lungo e in largo, a nostro piacimento, fermandoci presso chi volevamo, girando per i mercati della ricca agricoltura sviluppata nei decenni del recupero di acque sotterranee con acqua a tutti, entrando nelle case, ascoltando i racconti dei congiunti delle vittime, riprendendo le distruzioni di abitazioni.

C’era la nonna in lacrime per la morte del nipote sedicenne che andava in moschea, c’era l’ambulante che riparava scarpe, il bancarellista delle melanzane, la signora con l’hijab, il dentista di ritorno dalla nottata a Bab el Aziz, l’omino del caffè in jalabiya, l’agricoltore la cui fattoria era stata devastata da missili e da raffiche ad personam dal cielo, i capi delle tribù locali che, nella figura, nell’espressione, nelle vesti, ricordavano Omar al Mukhtar, l’eroe della trentennale resistenza antitaliana, impiccato per ordine di Mussolini.

A Tajura, Fajlun, Suk Jamal non c’è mai stata rivolta, mai un solo colpo sparato dalle forze lealiste. Tutto inventato. Come le armi di distruzione di massa e l’eccidio dei curdi con i gas in Iraq, come la pulizia etnica, Sebrenica, le bombe al mercato di Sarajevo e la strage di Razac in Jugoslavia, come Osama in Afghanistan, come l’11 settembre di Al Qaida…

Neanche un foro di pallottola a prova di uno scontro tra ribelli ed esercito, solo crateri e impatti dal cielo “no-fly”.

Ci raccontavano in tanti come in quei giorni di metà marzo, quando nel mondo si blaterava di “Gheddafi che uccide il suo popolo a Tajura, Fajlun e Suk Jamal”, da ogni dove amici e parenti terrificati chiamavano per assicurarsi di una sopravvivenza che minacciava di annegare nella mattanza gheddafiana.

E, stupefatti, gli veniva risposto che non era successo niente, che tutto era calmo. La stessa risposta non l’avrebbero più potuta dare allorché, pochi giorni dopo, a salvarli dalla carneficina, giunsero dal cielo i primi 110 missili all’uranio, ormai divenuti migliaia con la media di 150 incursioni al giorno, e le raffiche dei 6000 colpi al minuto, tutti all’uranio, dai C-10 e C-130. Armi di distruzione di massa da far operare per secoli su popoli in eccesso.

E se ci vanno di mezzo anche i mercenari di Bengasi, chissenefrega. Domani in Libia, come in Iraq, o Afghanistan, non ci saranno che gli scagnozzi spendibili dell’élite.

Nel profondo Sud, tra dune rosse e distese coltivate, a Beni Walid, ci accolgono i capi della più grande tribù libica, i Worfalla, schierata integralmente con il governo legittimo, come tutte le altre tranne qualche defezione in Cirenaica e di minoranze sparse. Superano il milione e mezzo, quasi un quinto della popolazione e si dicono pronti alla difesa all’ultimo sangue, fosse anche, come probabilmente sarà, in una guerra di lunga durata.

Ne hanno la memoria, la coscienza e la determinazione, ereditate dai trent’anni di indomata lotta al colonizzatore giolittiano e mussoliniano e dalla rivolta contro il monarchico fantoccio insediato da Churchill, il cui erede ora, da Londra, conta sulla restaurazione vaticinata dalle bandiere “rivoluzionarie” dei rivoltosi.

Il nostro pranzo e poi il confronto con gli anziani dei Worfalla richiama qualcosa tra lo sgranato repertorio dei cinegiornali Luce e la trasposizione cinematografica della vita e lotta di Omar al Mukhtar nel “Leone del deserto”.

Sui cuscini lungo le pareti della grande aula magna dell’Istituto di Alta Tecnologia Elettronica, tutte armate di fucile le figure ieratiche di antichi beduini, dai volti come scolpiti nel legno dei loro ulivi, ci accolgono con la dignità dei forti e dei consapevoli, quella che non si separa dal calore e dall’affettività.

Immaginiamo un raffronto con una parata di notabili alla Montecitorio. Ed è ancora un racconto di resistenza, di inimmaginabile e sofferto stupore per “l’amica Italia”, di non prevalebunt all’indirizzo degli avvoltoi che si affacciano sulla Libia e si vorrebbero lanciare sulle sue spoglie.

Qualcuno, anziano, ricorda con affetto un maestro italiano dell’epoca coloniale. Lo fa per gentilezza, per attenuarci la vergogna che abbiamo espresso sui crimini del nostro paese. Un connazionale imbecille se ne fa forte per cianciare di colonialismo italico benefico, di “italiani brava gente”. Un terzo del popolo libico ucciso nei lager e con i gas lo mette a tacere.

Ci portano nella sede della locale squadra di calcio e sulle bocche saltellano i nomi di Baggio,Totti, Cassano, della Roma, della Juventus. Ci regalano le maglie della squadra, seconda in serie B. I giocatori si son fatti attivisti del soccorso ai profughi di Misurata, città martire dell’ostinazione colonialista degli intrusi e dei loro ausiliari locali.

Di là dal mare non si parla che di civili sparati dai imilizianii di Gheddafi. Ma non è da costoro che sono fuggite queste 400 famiglie di Misurata. Piuttosto dalle incessanti incursioni a casaccio sulla città e dai barbuti salafiti che dagli umanitari giunti nel porto ricevono soccorsi sotto forma di lanciarazzi e mortai. Negli spogliatoi della squadra si accumulano i viveri e il vestiario portati ai profughi dagli abitanti della zona.

Scuole primarie, scuole superiori, scuole con ragazzi e con ragazze. Non perdono un’ora di lezione, neanche sotto la gragnuola di bombe, i grandi sono in divisa, hanno tutti fatto un corso di addestramento alla difesa, sanno tutti maneggiare armi leggere e pesanti. Curiosamente, in ogni scuola è una donna, anche abbastanza matura, che tiene questi corsi.

Non ce n’è uno che non si dica pronto a difendere il paese. “Che scendano a terra e se la vedranno con tutto un popolo”.

Lo sanno cosa li aspetta, quelli della neocostituita truppa d’invasione europea, Eufor, che si apprestano ad assicurare “corridoi umanitari” per l’occupazione militare e lo squartamento della Libia?

La Russa ha pronto i tricolori da bara e il raglio da compianto per nuovi nostrani “difensori della pace” e “guardiani contro il terrorismo” che rientrano con i piedi avanti? All’uscita, nel tripudio delle scolaresche, nella loro foga giubilante, ma anche disperata, per convincerci della verità, saettano dalla canna dell’istruttrice raffiche di colpi. Tanti punti esclamativi al cielo.

Anche nell’incontro con il viceministro degli esteri, Khaled Khaim, con i medici dell’Ospedale, con competenti giornalisti dalla sapienza geopolitica e giuridica al paragone della quale tanti dei nostri fanno la figura dei peracottai, con i rappresentanti delle associazioni nazionali dei magistrati e degli avvocati, con il brillante e popolarissimo portavoce ufficiale del governo, Mussa Ibrahim, il messaggio che ci viene chiesto di universalizzare è quello della pace, del dialogo, della conciliazione.

Perchè non arriva ancora quella maledetta commissione d’indagine, dell’ONU o di qualsiasi gruppo di buona volontà, ad accertarsi di vittime vere e vittime false, di ragioni buone e di ragioni cattive e di cosa vuole la gente?

Quella commissione che, sventrando la muraglia di bugie dei media, avesse la decenza giuridica primordiale di accertare fatti che si vorrebbero meritevoli di punizioni letali. Di Gheddafi nella zona oscura del pianeta si riportano solo “le minacce”.

Alcuni dei più potenti eserciti del mondo minacciano e poi attaccano un paese sovrano, facendosi scudo delle truculente quanto grottesche accuse di una banda di vendipatria prezzolati, ma sarebbe Gheddafi che ci minaccia, magari lasciando andare ai nostri sacri e incontaminati lidi coloro cui aveva dato lavoro e benessere e che dalla guerra Nato sono stati trasformati in animali da soma del libero mercato.

A Tajura abbiamo incontrato un capannello di migranti dai paesi sub sahariani. Non erano mai stati rinchiusi in lager, avevano perso il lavoro per la chiusura delle imprese nazionali ed estere, spesso cinesi, aspettavano un modo per fuggire alla guerra, chissà dove.

Erano preoccupati e impauriti. Serpeggiavano tra la gente, riferivano, sentimenti diversi dalla cordialità e fraternità con cui erano stati accolti. Frutto dei traumi di chi si sente improvvisamente bandito, diffamato, osteggiato, isolato dal mondo e perfino dai governi di questi migranti, rimasti, quale impassibile, quale complice, davanti al manifesto progetto di distruggere un paese pacifico e libero.

Padre Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, è stata l’unica voce, riportata con volume assai basso dai media falsi e bugiardi e solo perchè prete e cattolico e vicario del papa, che ci ha parlato delle stragi di civili per mano nostra, occidentale. Testa quadrata da contadino della montagna, occhi vispi e sorridenti, eloquio tutto fuorchè profetico, ma altrettanto appassionato, ci accoglie nel giardino della sua grande cattedrale, punteggiata da tanti San Francesco.

Pochi giorni prima era successo un fatto senza precedenti: dal rappresentante della chiesa cattolica, vicario di un papa che se non aveva benedetto il crimine di guerra, neanche si era espresso in difesa della Libia, si erano recate decine di donne musulmane a chiedergli un intervento per la pace, a fidarsi di lui perché raccontasse al mondo una verità, un’afflizione, una speranza, che tutte venivano calpestate dai trombettieri dei “cani di guerra”.

Martinelli ci conferma una volta di più che i conclamati massacri di Gheddafi non c’erano mai stati, che giornalmente gli veniva dato conto degli sforzi dell’esercito di non coinvolgere civili nella battaglia e che proprio questo determinava ritardi e difficoltà nella riconquista dei centri occupati dai ribelli. I morti a Misurata erano 285 in oltre un mese di scontri, dei quali solo pochissime donne. In attacchi indiscriminati su centri abitati la media delle vittime donne è statisticamente il 50%.

Non avanzava cautele curiali, questo sacerdote innamorato del suo popolo, cristiano o islamico che fosse e da 40 anni al suo servizio, nel descriverci Gheddafi e la sua Libia. Un paese che non aveva accettato di sottomettersi, che si era impegnato per l’unità dei popoli, fuori da ogni manomissione e dominio esterni, che aveva garantito a tutti benessere, sicurezza, dignità e una capillare partecipazione ai processi decisionali.

Gheddafi avrà potuto fare errori, magari attribuibili a un entourage non ben selezionato, ma nessuno poteva negargli il riconoscimento di aver cacciato reazione e reazionari, colonialisti e neocolonialisti e di essersi dedicato al suo popolo con una generosità e un’intelligenza che nella regione dei servi e proconsoli dell’imperialismo non ha il più lontano paragone. Come non ce l’ha, aggiungo, con proprio nessuno dei democratici capi-regime della “comunità internazionale”. E questo è quanto basta per sapere dove schierarsi.

L’Unione Sudafricana è intervenuta con una concreto e credibile piano di pace. Così hanno sollecitato fin dall’inizio i governi non contaminati dell’America Latina. Così hanno ribadito con la forza del loro peso economico e demografico, i BRICS: Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Gheddafi ha proposto un cessate il fuoco supervisionato da osservatori internazionali, corridoi umanitari veri, elezioni per verificare la volontà del popolo.

Voci, proposte, della razionalità, della giustizia, della pace, che non hanno neanche lambito le froge dei cavalli dell’apocalisse. La voce dell’altra parte è una non-voce. Anche per Rossana Rossanda. Hanno risposto insistendo sulla rimozione di Gheddafi, su un suo esilio là dove potrà più agevolmente raggiungerlo il solito sicario del Mossad.

“Non si illudano i fautori della rinuncia di Gheddafi e del suo esilio. Un leader non può rinunciare quando è un popolo a chiedergli di restare. Ma, a parte questo, Gheddafi non è tipo da arrendersi, è un beduino, combatterà fino alla morte”. Con lui, la Libia, vedrete. Il piccolo prete dalla testa quadrata di contadino e dagli occhi sorridenti ha congedato un gruppo di visitatori in lacrime.

Il resto più in là, soprattutto nel nuovo documentario “MALEDETTA PRIMAVERA - Arabi tra rivoluzione e controrivoluzione” in uscita a fine maggio.


Le minoranze etniche nel conflitto libico
di Vitalij Trofimov - www.eurasia-rivista.org - 18 Aprile 2011

I Tuareg sostengono Gheddafi, mentre gli Amazigh stanno con gli oppositori.

Gli interessi dei Tuareg sono sempre stati nel sud— a differenza della gente amazigh, che ha studiato in Europa e ha costantemente coordinato i propri sforzi con Parigi. E’ per questo che il passaggio con Gheddafi era abbastanza logico. Non è comunque chiaro quanto efficiente sarà la contro azione delle «selvagge divisioni dei Tuareg» contro la «guerriglia urbana» degli Amazigh, specialmente essendo stati privati del supporto dell’aviazione libica. I Tuareg hanno comunque la superiorità numerica ed una gerarchia sociale meglio definita — che potrebbe tornare utile non solo durante la guerra, ma anche per il supporto politico — e che gioca a favore di Gheddafi.

L’insurrezione in Libia ed il bombardamento della NATO ha messo in risalto l’eterogeneità della società libica. Sin dal colpo di stato militare del 1969 la Libia non ha mai cercato di porre in essere il suo progetto nazionale — è per questo che la diversità etnica del paese è rimasta invariata ed i gruppi etnici hanno deciso di inseguire i loro interessi nel conflitto: alcuni dei quali stanno dalla parte dei lealisti, gli altri hanno deciso di unirsi all’opposizione, cercando i propri profitti.

Il gruppo etnico Toubou — gente di grande resistenza — si è dimostrato essere l’etnia meno attiva. Le tribù semi-nomadi — abitanti delle regioni desertiche sud-orientali del paese allevatori di vacche, raccoglitori e contadini — sono sempre rimasti estranei a qualsiasi conquista conquista.

Né egiziani, né nomadi berberi, né bizantini, né arabi sono intervenuti contro queste etnie negroidi dal ritmo di vita misurato, e non hanno mai provato ad imporre loro la civilizzazione o abituare i Toubou alla tecnologia.

Nonostante il fatto che i loro compagni cadiani stanno partecipando attivamente nella vita politica del paese ed alcuni leader toubou sono anche stati presidenti del Ciad, i libici semi-nomadi hanno sempre evitato le battaglie politiche libiche. Il conflitto libico contemporaneo non ha interessato nemmeno le etnie negroidi.

Questo, però, non può essere detto dei berberi, che hanno partecipato attivamente alla guerra civile libica. Lo stile di vita tradizionale è molto diffusa fra loro, così come lo sono le connessioni familiari delle tribù e le faide sanguinose — tutto questo ha reso terreno fertile alla partecipazione dei berberi nelle guerre.

Il problema berbero ed il suo pretesto europeo per i paesi magrebini

I berberi — rappresentati da dozzine di gruppi etnici presenti in Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Niger, Mali ed Egitto — sono la popolazione nativa dei paesi del Nord Africa. Ci sono grandi comunità berbere anche in Francia, Spagna e Olanda.

Nonostante le lingue diverse — che sono generalmente legate alle lingue semitiche — in senso razziale i berberi sono associati al gruppo sud caucasico. Le conquiste arabe nel Maghreb hanno modificato appena i tratti razziali dell’area, ma hanno influenzato in maniera considerevole la cultura delle popolazioni native.

Attraverso l’ottavo secolo la forza dei conquistatori arabi ha reso possibile solamente la conquista del 2% della popolazione africana della costa mediterranea, anche se una diffusione attiva del Islam ed un tipo di vita stabile tra i pagani causò subito la diffusione dell’identità arabo-musulmana tra la popolazione.

Tutt’ora possiamo sentire opinioni su come un’intera popolazione del Nord Africa sia berbera in una certa misura. Il leader libico — proprio come la maggior parte dei governanti magrebini — ha radici berbere, di cui va fiera la classe dirigente.

In passato, i berberi possedevano molti stati propri, in particolare: Marinid, Zayyanid e gli stati Hafsid, i cui bordi coincidevano quasi completamente con gli odierni Marocco, Algeria e Tunisia.

L’ultima roccaforte di uno stato berbero — la Repubblica confederativa del Rif creata nel 1921 in seguito alla Battaglia di Annual — è stata abolita in 5 anni, quando i duecentomila uomini dell’esercito franco-spagnolo, guidato dal Maresciallo Petain, invasero la repubblica usando armi chimiche. Nel caso della Libia, i berberi sono anche una «nazione eponima», dando al paese il nome di una certa tribù berbera — Livs.

A dispetto di un enorme contributo berbero nella vita politica dell’Africa araba, le loro tribù non arabizzate non hanno autonomia — a volte nemmeno culturale — essendo però la maggioranza etnica. Tutti i tentativi di guadagnare sovranità vennero brutalmente soppressi.

La Francia, per esempio, ha conquistato l’Algeria nel 1830 (il Marocco e Tunisia seguirono poco dopo) garantendo ai berberi un’opportunità di studiare nella loro lingua. Erano soggetti a diverse procedure legali più che gli arabi, tuttavia il Cattolicesimo e il modo di pensare occidentale fu impiantato nella mente dei loro scolari — l’obiettivo dei colonizzatori era quello di creare un’identità euro-berbera che giocasse un ruolo importante in caso di rivolte arabe nelle colonie.

In seguito questo ha portato i berberi a guidare il Fronte di Liberazione in Algeria — il loro malcontento era dovuto alla politica di assimilazione.

I paesi liberati del Maghreb di solito mantengono la politica dell’arabizzazione. Anche se il problema berbero era ancora caratteristico di qualsiasi paese del Nord Africa, e veniva risolto in modo diverso in ogni paese.

Nonostante gli estesi diritti berberi in Marocco, per esempio l’opportunità di pubblicare la letteratura in lingua berbera, trasmettere programmi radio e televisivi, il paese affronto numerose rivolte berbere durante il primo anno della sua indipendenza (1956–1970).

I nativi berberi non erano disposti a riconoscere l’autorità dell’elite del Marocco arabo. Costanti nomine di berberi nei ranghi superiori dell’esercito e del governo aiutarono a risolvere il problema. Oggi il Marocco conduce una politica nazionale flessibile, combinando gli elementi dinastici ed elitisti con una politica di approccio multi-culturale.

In Tunisia le tribù berbere rappresentano l’1% della popolazione. Hanno accettato e quasi completamente assimilato lo stile di vita urbano.

In Algeria il problema berbero era particolarmente acuto. Negli anni ’90 il Fronte Berbero della Liberazione nei paesi del Maghreb ravvivò le sue attività in quattro stati delle regioni — il movimento veniva fondato a Parigi ed il suo obiettivo era l’auto-determinazione berbera, anche se di fatto veniva impiegato per fare pressione sui paesi del Nord Africa a seconda degli interessi regionali dell’Unione Europea (Francia in primis).

Il punto più alto del movimento berbero della liberazione erano le danze e le canzoni dimostrative che venivano eseguite per le strade algerine — insieme ad atti di disobbedienza civile e confronti con la polizia, questo periodo veniva chiamato «la primavera berbera».

Nel 1991–1992 il Presidente algerino decise una serie di compromessi con gli studenti berberi e ammorbidì le politiche di arabizzazione, accettando la cultura berbera nelle università statali.

Il movimento berbero aveva anche una dimensione socio-politica: indicava il conflitto tra i giovani politici «dai confini» e l’intellighenzia berbera, che si schierava con la parte francofona. Questi principi erano le fondamenta per la loro richiesta di indipendenza dall’Algeria. La regione rocciosa dell’Algeria, chiamata Grande Kabylia, era il centro della resistenza.

Fin dal gennaio 1992 l’Algeria era in stato di emergenza, per via degli Islamisti, che vinsero alle elezioni del 1991 ed iniziarono una guerra contro l’intellighenzia filo-francese, in altre parole i berberi, avendo trasformato la Grande Kabylia in zona ribelle, combattendo per una maggiore autonomia e riportando la zona in mano islamista.

I tentativi di mettere gli uni contro gli altri gli islamisti ed i berberi è una caratteristica di tutte le elite politiche del Maghreb, dal momento che i Berberi si sono dimostrati assolutamente reticenti alle idee politiche islamiste.

Il 4 settembre del 1995, il congresso internazionale degli Amazigh (IAC) prese luogo — era stato organizzato con un certo aiuto da parte di Parigi. L’obiettivo del Congresso era di ottenere i massimi diritti politici e socio-economici per le minorità berbere in ogni paese della resistenza. Questo ha causato un’altra fase di problemi berberi nei paesi magrebini (e soprattutto in Algeria).

La Francia era interessata a guadagnare accesso a depositi di petrolio nelle province algerine di Tizi Ouzou e Bejaia che hanno costituito la storica regione della Grande Cabilia. Oggi è ovvio, che la Francia era anche interessata al petrolio delle regioni libiche, al quale avrebbe potuto accedere attraverso il popolo libico Amazigh.

A risposta di questo, i circoli conservatori algerini hanno ristretto le politiche di arabizzazione ed islamizzazione, avendo fatto nascere dei movimenti radicali berberi — come l’Alleanza per la Cabilia libera ed il Movimento armato berbaro.

Nel 2001 le autorità diedero un severo provvedimento alle proteste dei berberi — secondo i dati ufficiali, ci sono state 60 vittime. Le autorità algerine iniziarono ad opprimere i berberi radicali e molti berberi fuggirono in Libia, essendo spaventati dalla persecuzione.

Gli Amazigh appoggiano l’opposizione libica

In Jamahiriya i berberi sono rappresentati da due grandi gruppi etnici, che formano quasi il 10% della popolazione totale. La forma di governo libico non ha mai accennato ad alcun tipo di politica nazionale, anche se la parola «Jamahiriya» contiene la radice «nazione» in forma plurale.

Gli Amazigh sono una delle tribù berbere, vivono in un’area ristretta a est di Tripoli, vicino alla città di Az-Zawiyah. L’attività del IAC fra I berberi della Libia settentrionale non era limitata dallo sviluppo della cultura e della lingua — pubblicizzò anche una certa agenda politica.

Il rinforzo del personale della cellula libica avvenne in Algeria dopo gli eventi del 2001, quando i rifugiati berberi arrivati in Libia dalla Grande Cabilia — avevano un’indispensabile esperienza di resistenza armata.

Attraverso i canali del IAC, gli agenti segreti europei ed israeliani sono arrivati in Libia. Quindi l’11 gennaio del 2011 l’Organizzazione di Sicurezza Esterna libica ha annunciato di aver arrestato due libici di origine berbera con l’accusa di spionaggio. Secondo i comunicati sono stati arrestati per «spionaggio a favore di una certo servizio segreto estero». Arresti di questo tipo avvenivano regolarmente.

Il 16 marzo, si sviluppò un disordine berbero ad Az-Zintan e Er-Ragub nel distretto di Al Jabal Al Gharbi nella parte occidentale del paese — fin dal primo giorno i ribelli hanno espresso solidarietà agli oppositori.

Molti leader amazigh hanno partecipato attivamente alle attività del IAC nel territorio libico, mentre i loro emissari hanno visitato regolarmente la sede principale a Parigi. Due giorni dopo un bombardamento dell’aviazione libica ha indebolito in modo significativo i ribelli berberi.

Le tribù amazigh affini e parzialmente assimilate nell’est del paese — Darsa, Jawaahir e molte altre — avanzano le loro richieste a Gheddafi, sostenendo che lo sviluppo del loro territorio non è mai stato finanziato, mentre le autorità si preoccupavano solo dello sviluppo dell’industria petrolifera.

Hanno limitato le loro attività al lento raduno della resistenza. Data l’indefinita identità arabo-berbera, una bassa densità di popolazione, un basso livello di urbanizzazione e l’isolamento da Tripoli, lo IAC non ha potuto condurre una preparazione approfondita nelle province orientali.

I Tuareg si schierano con Gheddafi

I Tuareg — etnia berbera, che abita nei distretti sud e sud-est del paese (da Ghadames a Capo Gata), principalmente nell’altopiano Tinghert e nella zona occidentale della provincia di Idehan Ubari — assumono un comportamento diverso. Fin dall’inizio della guerra civile, hanno supportato il regime di Gheddafi e dal 6 marzo hanno iniziato a rimpinguare i ranghi dei suoi leali guerrieri.

I media occidentali hanno etichettato i Tuareg come mercenari, anche se non è del tutto corretto. A differenza dei coltivatori amazigh, i Tuareg sono un popolo nomade: sono gli operatori commerciali degli scambi trans-sahariani sin dal Medioevo.

Sfruttando i legami familiari e tribali, i Tuareg effettuano scambi di merce e risorse umane con Libia, Mali, Niger, Algeria e Burkina-Faso.

Molti tuareg hanno parenti in altri paesi e possono passare molto tempo in ognuna di queste nazioni — hanno anche una certa libertà di movimento, non pagano tasse e non hanno relazioni legali con i paesi elencati, quindi, quando si parla di Tuareg, termini come «cittadinanza» o «mercenari» non hanno gli stessi significati che vengono usati dagli esperti di legge europei.

All’inizio di marzo divenne noto che circa 40 camion si stavano spostando verso la Libia attraverso l’Algeria (un tradizionale percorso commerciale) e che circa 2300 persone avevano lasciato la regione del Kidal nel Mali durante l’ultima settimana — tutti diretti in Libia.

Muammar Gheddafi è stato molto attento ai problemi dei Tuareg, la possibilità di attrarre i Berberi del sud per reprimere la ribellione è stata possibile non solo grazie a donazioni in denaro, ma anche grazie a vecchie connessioni personali tra il Colonnello ed i leader della tribù tuareg.

Negli anni ’70 speciali unità mobili militarizzare erano state create per i Tuareg — dovevano rendere conto solo a Gheddafi, conducendo missioni nel Ciad, in Sudan e Libia. In seguito allo smantellamento della legione negli anni ’80 i soldati berberi divennero l’unità principale delle forze armate libiche.

Durante gli spostamenti i Tuareg ricevettero aiuti umanitari e grazie alla politica panafricana del leader libico gli era possibile attraversare e fare scambi con un grande numero di paesi — in alcuni dei quali gli erano persino concessi diritti speciali e privilegi commerciali (Niger, Mali).

Grazie soprattutto al supporto dei Tuareg da parte del governo libico, le attività del IAC fallirono. Gli interessi dei Tuareg sono sempre stati nel sud — a differenza degli Amazigh, che hanno studiato in Europa e hanno costantemente coordinato i propri sforzi con quelli di Parigi. E’ per questo ch’era abbastanza logico per i Tuareg schierarsi con Gheddafi.

Non è ancora chiaro quanto sarà efficiente la contromossa delle «divisioni selvagge tuareg» contro «la guerriglia urbana» degli Amazigh, specialmente essendo privati del supporto dell’aviazione libica. I Tuareg hanno la superiorità numerica ed una migliore gerarchia sociale — che potrebbe rivelarsi utile non solo durante la guerra, ma anche come supporto politico — il che gioca a favore di Gheddafi.


Aiuti agli insorti
di Marco Cedolin - http://ilcorrosivo.blogspot.com - 21 Aprile 2011

Già prima che l'insurrezione infiammasse la Cirenaica, manipoli di truppe scelte occidentali, con alla testa gli inglesi dei SAS, operavano segretamente in loco, con lo scopo di addestrare ed organizzare militarmente le fila dei ribelli.

Contemporaneamente, in maniera non ufficiale, alcuni paesi occidentali, Francia e Gran Bretagna in primis, rifornivano gli insorti di armi ed automezzi che avrebbero dovuto consentire loro di marciare vittoriosamente fino a Tripoli.

Ora che la guerra civile in Libia si trascina da settimane, senza che gli insorti abbiano guadagnato metri di terreno o credibilità, nonostante la copertura aerea e la propaganda mediatica gentilmente offerte dall'occidente, s'impone un cambio di strategia.

I paesi occidentali inviano ufficialmente elementi di spicco dei propri eserciti, con il compito di addestrare gli insorti e perfino l'Italia, come annunciato ieri dal ministro La Russa, provvederà a mandare in Libia 10 istruttori militari, nella speranza di trasformare i manipoli di ribelli in rotta, in un'armata senza paura che provveda alla cacciata di Gheddafi......

Allo stesso scopo, su richiesta di un fantomatico governo ombra denominato pomposamente Consiglio nazionale degli insorti e prontamente riconosciuto come legittimo dal nostro paese, alcuni stati occidentali stanno apprestandosi a rendere ufficiale anche il rifornimento di armi e mezzi contro pagamento in petrolio, che prima avveniva segretamente, facendolo diventare ovviamente più copioso.

L'impressione però è che non basti prendere una macchina scassata dallo sfasciacarrozze, riempire il serbatoio di benzina e assoldare il team di meccanici della Ferrari, per vincere il campionato del mondo di Formula Uno.

Anche addestrata ed armata fino ai denti, quella degli insorti rischia di rimanere un'armata Brancaleone che continuerà ad infrangersi contro lo scoglio rappresentato dall'esercito fedele a Gheddafi, senza oltretutto godere dell'appoggio di larga parte della popolazione.

E portare a termine una rivolta popolare, senza essere sostenuti dall'appoggio del popolo, risulta impresa assai ostica oltre che originale.

Se l'occidente vuole veramente cacciare Gheddafi, per appropiarsi della Libia e delle sue risorse, dovrà rassegnarsi presto a cambiare strategia. Far scendere i propri eroici soldati dagli aerei e dalle navi, dove bombardano comodamente seduti con in mano il joystick della playstation e mandarli in massa in terra di Libia, a combattere, sudare, ammazzare e venire ammazzati.

Dovrà insomma gettare la maschera, evitare di nascondersi dietro un dito, manifestare apertamente le proprie ambizioni imperialiste ed accettare la fila di bare che tornano a casa ogni settimana.

La guerra per procura è comoda, ma questa volta non funziona e nei piani alti della Nato dovrebbero essersene accorti da tempo, ma forse il vero problema consiste nel decidere una volta sbarcati in Libia chi dovrà entrare a Tripoli per primo?


La sovranità politica passa attraverso l’energia
di Francesco Bevilacqua - www.ilcambiamento.it - 22 Aprile 2011

Una delle chiavi della politica internazionale è il possesso delle fonti energetiche. L’Italia, pur muovendosi bene su questo terreno, non può essere considerata un giocatore di primo piano. Perché allora non pensare a una strategia che parta dall'energia pulita per determinare il peso politico di un paese?

Da sempre abbiamo scelto la compagnia di partner abbastanza 'scomodi', dalla Libia di Gheddafi alla Russia di Putin

Quello energetico è sempre stato uno dei campi su cui si disputano le partite più importanti in tema di geopolitica e di rapporti fra blocchi. La situazione odierna rende poi il discorso ancora più interessante: da un lato abbiamo uno scacchiere internazionale più che mai incerto, con una parte del mondo arabo in subbuglio, rapporti fra le potenze occidentali e paesi che stanno emergendo sempre più prepotentemente dal punto di vista politico ed economico.

Dall’altra, stiamo giungendo al momento in cui al problema energetico si dovrà trovare una soluzione: picco del petrolio prossimo o addirittura già superato, andatura singhiozzante del “mercato” delle fonti pulite e rinnovabili (ultima evoluzione in ordine di tempo, il decreto Romani), eventi che rimettono in forte discussione tematiche che, almeno in alcune zone, sembravano già archiviate (vedi il nucleare e il disastro di Fukushima) rappresentano elementi che fanno capire quanto sia urgente chiarirsi almeno le idee in merito a cosa succederà nel campo dell’energia nei prossimi decenni.

La politica energetica italiana, contrariamente a molti altri aspetti del nostro modo di porci sullo scenario internazionale, è sempre stata mirata a far conquistare al nostro paese un posto al sole, sin dall’epoca di Mattei, il primo grande persecutore dell’autosufficienza energetica.

Da sempre abbiamo scelto la compagnia di partner abbastanza “scomodi”, dalla Libia di Gheddafi alla Russia di Putin. Congelando momentaneamente le riflessioni su fonti alternative e autonomia energetica, è interessante definire meglio questo aggettivo – scomodi – che identifica i nostri principali fornitori.

Nella fattispecie, chi trova sconveniente il fatto che l’Italia intrattenga relazioni così cordiali con paesi considerati ostili – a cui si aggiunge l’Iran, verso il quale lo stesso Scaroni, confermato amministratore delegato di ENI, ha dichiarato di guardare per il futuro – sono diversi esponenti americani, dal vecchio ambasciatore Ronald Spogli al sottosegretario Reuben Jeffery, passando per Elizabeth Dibble, che ha usato parole dure nei confronti di Berlusconi e del suo scarso tatto.

Spogli, intercettato da Wikileaks nel 2008, ha dichiarato la sua ostilità nei confronti della Russia e di conseguenza il suo disappunto nel sapere che le relazioni fra Putin e Berlusconi sono così fitte; usando la scusa della preoccupazione per la dipendenza energetica dell’Italia verso i russi, ha mascherato l’ostilità nei confronti di un rapporto che sancisce di fatto una liason fra un paese amico, l’Italia, e uno nemico, la Russia, con le conseguenze che ci si può immaginare.

Ancora più adirate sono le parole di Jeffery, sempre “beccato” dal sito di Assange, che chiama in causa anche l’Iran, ricordando a Scaroni che il paese persiano è sottoposto a sanzioni da parte dell’ONU e che il Congresso intende inasprire tali misure.

Peccato che lo studio di fattibilità prospettato dall’Eni non violi alcuna normativa e le parole del diplomatico americano suonino più come un anatema di chi capisce che la situazione gli sta fuggendo di mano che come una minaccia fondata.

Per quanto sia un’opportunità sicuramente migliore rispetto al soggiogamento al potere americano, la dipendenza energetica, più o meno completa, da un paese estero non è mai una soluzione piacevole, soprattutto se si basa su una risorsa il cui futuro è caratterizzato da un grande punto interrogativo.

Ecco quindi la domanda che dovremmo porci: anziché investire tanto nella costruzione di rapporti di partenariato con fornitori di combustibili fossili, non sarebbe più sensato dirottare queste risorse verso un piano di transizione ben studiato e capace di rendere l’Italia energeticamente autosufficiente o almeno di pari grado rispetto ai paesi che oggi nel mercato dei combustibili la fanno da padrone?

Molti pensano che esista una relazione inscindibile fra la capacità energetica di una nazione e il suo peso politico a livello internazionale. In effetti attualmente è così, poiché l’unica risorsa energetica contemplata è quella derivante dalle fonti fossili.

E allora perché non immaginare un mutamento non solo delle abitudini energetiche degli italiani, ma anche dell’autorevolezza che l’Italia stessa potrebbe conquistare nel mondo in un prossimo futuro stilando un piano davvero lungimirante e ponderato?

Che la via per l’affermazione politica passi anche, se non soprattutto, attraverso lo sviluppo di un sistema energetico nuovo, sostenibile, pulito e rinnovabile, piuttosto che attraverso la tessitura di fitte trame con questo o con l’altro paese fornitore?

Trame che, inevitabilmente, hanno sempre l’effetto di inimicarsi la parte avversa, come abbiamo dedotto da una breve analisi delle dichiarazioni dei diplomatici americani.

Si tratta anche di un discorso di sovranità: è inaccettabile che la diplomazia di un paese straniero si intrometta nel rinnovo della dirigenza dell’ente energetico più importante solo perché la sua politica è vicina a quella di paesi “canaglia”. Se fossimo invece padroni delle nostre fonti di produzione e autonomi in qualsiasi fase del processo decisionale, queste inammissibili ingerenze perderebbero gran parte del loro peso.


La Libia no, la Russia no, l'Iran no...
di Debora Billi - http://petrolio.blogosfere.it - 18 Aprile 2011

Molto interessanti i nuovi cablo di Wikileaks usciti oggi ( http://www.repubblica.it/economia/2011/04/18/news/eni_wikileaks-15074501/ ) su Repubblica. Saranno pure un'operazione studiata a tavolino, ma a me quel che si riporta pare assai plausibile.

Dai riassunti dei cablo di oggi, il messaggio è chiaro: secondo i nostri alleati che li scrivono, l'Italia non dovrebbe comprare petrolio e gas proprio da nessuno. O almeno, a parte una lista di proibizioni non risultano suggerimenti su fornitori accettabili.

Oggetto del contendere è come sempre la Russia, e gli accordi dell'ENI e dello Stato italiano che non fanno dormire l'ex ambasciatore Spagli il quale non si capacita di come comprare dai russi a noi "non sembri un problema".

Proprio non ci entra in zucca che dobbiamo liberarci della "dipendenza" dalla Russia. Molto divertente leggere come Tremonti e Scaroni gli danno la guazza, condividendo serissimi che sì, è un disastro, di questi russi occorre proprio liberarsi, non se ne può più, per poi continuare imperterriti con accordi e importazioni.

Scaroni prova a convincere che "Gazprom è un partner commerciale perfetto, soltanto un po' burocratico e lento, ma affidabile", e viste le orecchie da mercante della controparte aggiunge perfidamente (e sensatamente): "importare gas dall'Iran è l'unica grande alternativa alla Russia".

Apriti cielo! "Gli Usa scoraggiano nei termini più netti possibili l'iniziativa", è la risposta, e "in seguito a quell'incontro, Washington dà ordine alle periferie di far giungere duri messaggi a Scaroni su Russia e Iran".

Libia, Russia, Iran, insomma se escludiamo l'Algeria nessuno dei nostri fornitori abituali, e finora affidabili, è gradito all'alleato. Per tacere dell'inesausta querelle sui tubi. E siccome l'Arabia Saudita, il Venezuela, il Canada e il Messico sono piuttosto lontanucci, guardando la cartina geografica pare che non esistano molte altre opzioni.

Che dobbiamo fare, di grazia, a parte continuare a depennare tizio e caio? Qualcosa bisogna pur metterci, nella caldaia e nel serbatoio, o ci inviassero una fornitura di biciclette così non se ne parla più.

Ultima osservazione, sui soliti media. Mi chiedo quale sia l'intento di Repubblica nel pubblicare tali sunti, oltre al sacrosanto diritto di cronaca. Mettere in cattiva luce il governo, forse? Dobbiamo quindi dedurre che Repubblica la pensa come gli autori dei memo, e che un eventuale futuro governo gradito a Repubblica NON comprerà più greggio e gas da Libia, Russia e Iran. Hmmm. Quasi quasi vado a fare il pieno. Con parecchie taniche, però.

venerdì 22 aprile 2011

News Shake

News Shake....notizie a caso, ma non per caso...


La crisi di bilancio, i buoni del Tesoro e il Dollaro Usa: crollo di un sistema

da Global Research - GEAB n° 54 - Megachip - 21 Aprile 2011

Il 15 settembre 2010, la pubblicazione di GEAB N ° 47 è stata intitolata «Primavera 2011: Benvenuti negli Stati Uniti dell'austerità / Verso la gravissima crisi del sistema economico e finanziario».

Eppure, alla fine dell'estate 2010, la maggior parte degli esperti riteneva in primo luogo, che il dibattito sul deficit di bilancio degli Stati Uniti sarebbe rimasto un mero oggetto di discussione teorica all'interno della Beltway (1) e in secondo luogo, che era impensabile immaginare che gli Stati Uniti si sarebbero impegnati in una politica di austerità, perché era sufficiente che la Fed continuasse a stampare dollari. Eppure...

Eppure, come tutti hanno potuto vedere da alcune settimane, la primavera 2011 ha portato davvero l'austerità negli Stati Uniti (2), la prima dopo la seconda guerra mondiale e la creazione di un sistema globale basato sulla capacità del motore Stati Uniti di generare sempre più ricchezza (reale dal 1950 al 1970, sempre più virtuale in seguito).

In questa fase, LEAP/E2020 può confermare che la prossima fase della crisi sarà davvero il "Gravissimo Crollo del sistema economico, finanziario e monetario mondiale" e che questo fallimento storico avverrà nell'autunno 2011 (3). Le conseguenze monetarie, finanziarie, economiche e geopolitiche di questo "Gravissimo Crollo" saranno di proporzioni storiche e mostreranno la crisi dell'autunno 2008 per quello che realmente era: un semplice detonatore.

La crisi in Giappone (4), le decisioni della Cina e la crisi del debito in Europa avranno certamente un ruolo in questo storico crollo. D'altro canto riteniamo che la questione del debito pubblico dei paesi alla periferia di Eurolandia, a questo punto non è più il fattore dominante del rischio in Europa, ma è il Regno Unito che si troverà nella posizione del "malato d'Europa" (5 ). La zona euro ha infatti stabilito e continua a migliorare tutti i sistemi di monitoraggio necessari per affrontare questi problemi (6).

La gestione dei problemi di Grecia, Portogallo e Irlanda dunque avverrà in maniera organizzata. Il fatto che gli investitori privati dovranno adottare un taglio di capelli (come anticipato da LEAP/E2020 prima dell'estate 2010) (7) non appartiene alla categoria dei rischi sistemici, con dispiacere del Financial Times, Wall Street Journal e Wall Street e gli esperti della City, che cercano ogni tre mesi di eseguire di nuovo il "golpe" della crisi della Zona Euro dell'inizio del 2010 (8).

Al contrario, il Regno Unito ha completamente mancato il suo tentativo di "preventiva amputazione chirurgica del bilancio" (9). In realtà, sotto la pressione dei cittadini e in particolare di più di 400.000 britannici che hanno marciato per le strade di Londra il 26/03/2011 (10 ), David Cameron è stato costretto ad abbassare il suo obiettivo di riduzione dei costi sanitari (un punto chiave delle sue riforme) (11).

Allo stesso tempo, l'avventura militare libica lo ha anche costretto a ripensare ai suoi obiettivi per i tagli al bilancio del Ministero della Difesa. Abbiamo già accennato nella pubblicazione dell'ultimo numero di GEAB che il finanziamento del governo britannico deve continuare a crescere, riflettendo l'inefficacia delle misure annunciate, la cui realizzazione si sta rivelando nella realtà molto deludente(12).

L'unico risultato della coppia politica Cameron/Clegg (13) è attualmente la ricaduta in recessione dell'economia britannica (14) e il rischio evidente di implosione della coalizione di governo dopo il prossimo referendum sulla riforma elettorale.

In questo numero, il nostro team descrive i tre fattori chiave che contraddistinguono questo gravissimo Crollo dell'autunno 2011 e le sue conseguenze. Nel frattempo, i nostri ricercatori hanno cominciato ad anticipare la progressione dell'operazione militare franco-anglo-americana in Libia, che a nostro parere è un potente acceleratore dello smembramento geopolitico mondiale che illumina alcuni degli attuali cambiamenti tettonici nei rapporti tra potenze mondiali. Oltre al nostro indice GEAB $, espandiamo le nostre raccomandazioni per affrontare i pericolosi trimestri a venire.

In sostanza, il processo che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi, compresa l'entrata degli Stati Uniti in un'epoca di austerità (15) è una semplice espressione di bilancio, è una continuazione del bilanciamento dei 30.000 miliardi di attività fantasma che avevano invaso l'economica globale e il sistema finanziario a fine 2007 (16).

Mentre circa la metà di questi era scomparso nel 2009, sono stati parzialmente resuscitati per volontà delle grandi banche centrali globali, la Federal Reserve Usa, in particolare, e il suo "Quantitative Easing 1 e 2".

Il nostro team ritiene, pertanto, che i 20 trilioni di queste attività fantasma andranno in fumo all'inizio dell'autunno 2011, e molto brutalmente, sotto l'impatto combinato delle tre mega-crisi degli Stati Uniti in gestazione accelerata:

. . la crisi di bilancio, o come gli Stati Uniti si tuffano volenti o nolenti in questa austerità senza precedenti e coinvolgono interi settori dell'economia e della finanza globale

. . la crisi dei titoli del Tesoro americani, o come la Federal Reserve statunitense raggiunge la "fine della strada" che ha avuto inizio nel 1913 e deve affrontare il fallimento, qualsiasi gioco di prestigio contabile venga scelto

. . la crisi del dollaro USA, o come le scosse nella valuta degli Stati Uniti che caratterizzeranno la fine della QE2 nel secondo trimestre del 2011 saranno l'inizio di una massiccia svalutazione (circa il 30% in poche settimane).

Le banche centrali, il sistema bancario globale, i fondi pensione, le multinazionali, le materie prime, la popolazione degli Stati Uniti, le economie dell'area del dollaro e / o dipendenti dal commercio con gli Stati Uniti (17) ... chiunque dipenda strutturalmente dall'economia americana (di cui il governo, la Fed e il bilancio federale sono diventate componenti centrali), le attività denominate in dollari o transazioni commerciali in dollari, subiranno uno shock di 20 miliardi di dollari in attività fantasma che scompariranno puramente e semplicemente dai loro bilanci, dai loro investimenti, causando un grave declino del loro reddito reale.

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La spedizione di fondi da parte dei lavoratori americani immigrati, nei loro paesi di origine (il primo numero in valuta locale, al tasso di cambio del dollaro fine 2008/il secondo: lo stesso, al cambio di fine 2010) - Fonte: Wall Street Journal, 04/2011

Intorno alla scossa storica dell'autunno 2011 che segnerà la definitiva conferma delle tendenze significative anticipate dal nostro team in precedenti numeri del GEAB, le principali classi di attività sperimenteranno importanti sconvolgimenti che richiederanno una maggiore vigilanza di tutti gli attori interessati sui loro investimenti.

In realtà, questa triplice crisi degli Stati Uniti segnerà la reale uscita dal "mondo dopo il 1945" che ha visto gli Stati Uniti svolgere il ruolo di Atlas e sarà, pertanto, caratterizzato da molti colpi e scosse di assestamento nei trimestri a venire.

Ad esempio, il dollaro può subìre degli effetti a breve termine di rafforzamento del valore, contro le principali valute mondiali (in particolare se i tassi di interesse negli Stati Uniti saliranno molto rapidamente dopo la fine della QE2), anche se, sei mesi dopo, la sua perdita di valore del 30%( rispetto al suo valore corrente) è inevitabile.

Possiamo, quindi, solo ripetere il consiglio che è apparso a capo delle nostre raccomandazioni, fin dall'inizio del nostro lavoro sulla crisi: nel contesto di una crisi globale di proporzioni storiche, come quella che stiamo vivendo, l'unico obiettivo razionale per gli investitori non è quello di fare più soldi, ma cercare di perdere il meno possibile.

Ciò sarà particolarmente vero per i prossimi trimestri in cui l'ambiente speculativo diventa altamente imprevedibile nel breve termine. Questa imprevedibilità a breve termine sarà particolarmente dovuta al fatto che le tre crisi degli Stati Uniti che innescheranno il Gravissimo Crollo mondiale in autunno non sono concomitanti.

Esse sono strettamente correlate, ma non linearmente. E una di esse, la crisi di bilancio, è direttamente dipendente da fattori umani con una grande influenza sul calendario dell'evento, mentre le altre due (qualunque cosa pensino coloro che vedono i funzionari della Fed come dèi o demoni (18)) sono ora, per la gran parte, incluse nelle tendenze significative dove le azioni dei leaders Usa sono diventate marginali (19).

La crisi di bilancio, o come gli Stati Uniti si tuffano volenti o nolenti in questa austerità senza precedenti e coinvolgono interi settori dell'economia e della finanza globale

I numeri possono far girare la testa: "6000 miliardi di tagli di bilancio in più di dieci anni" (20), ha detto il repubblicano Paul Ryan, "4.000 miliardi in dodici anni" ha ribadito il candidato per il 2012 Barack Obama (21), "tutto questo è lontano dall'essere sufficiente", dichiara uno dei referenti del Tea Party, Ron Paul (22). E comunque, sanziona il FMI, "gli Stati Uniti non sono credibili quando parlano di tagliare il deficit "(23).

Questa osservazione insolitamente dura dal FMI, tradizionalmente molto cauto nelle sue critiche agli Stati Uniti, in ogni caso è particolarmente giustificata in termini di uno psicodramma che, per una manciata di decine di miliardi di dollari, ha quasi chiuso lo stato federale, in assenza di accordo tra i due maggiori partiti , uno scenario che, del resto, presto accadrà di nuovo oltre il tetto del debito federale.

Il FMI esprime solo un'opinione ampiamente condivisa da parte dei creditori degli Stati Uniti: se, per qualche decina di miliardi di dollari di riduzione del disavanzo, il sistema politico degli Stati Uniti ha raggiunto quel grado di paralisi, cosa accadrà quando, nei prossimi mesi, saranno necessari tagli di diverse centinaia di miliardi di dollari l'anno? La guerra civile?

Questa è, in ogni caso, l'opinione del nuovo governatore della California Jerry Brown (24) che crede che gli Stati Uniti stanno affrontando una crisi di regime identica a quella che ha portato alla guerra civile (25).

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Indebitamento del settore pubblico e privato (1979 - 2010) (in rosso: pubblico / in blu: privato) - Fonte: Agorafinancial, 04/2011

Il contesto, dunque, non è semplicemente una paralisi ma un reale confronto a tutto campo tra due visioni del futuro del paese. Più si avvicina la data delle prossime elezioni presidenziali (novembre 2012), più il confronto tra le due parti si intensificherà e si svolgerà indipendentemente da qualsiasi regola di buon comportamento, compresa la salvaguardia del bene comune del paese: "Gli dei rendono folle colui che vogliono distruggere", dice un antico proverbio greco. La scena politica di Washington assomiglierà sempre di più ad un ospedale psichiatrico (26), nei prossimi mesi, rendendo sempre più probabilmente "la decisione bizzarra".

Se, al fine di rassicurare se stessi sul dollaro e le obbligazioni del Tesoro, gli esperti occidentali ripetono a loro volta che i cinesi sarebbero folli a sbarazzarsi di questi beni, accelerando solo la loro caduta in valore, è perchè non hanno ancora capito che è Washington e i suoi errori politici a poter decidere di accelerare questa caduta.

E ottobre 2012, con il suo tradizionale voto sul bilancio annuale, sarà il momento ideale per questa tragedia greca che, secondo la nostra squadra, non avrà un lieto fine perché questa non è Hollywood, ma in realtà il resto del mondo che scriverà il seguito dello scenario.

In ogni caso, che accada per scelta politica, o per la chiusura del governo federale o per irresistibili pressioni esterne (27) (tassi di interesse, FMI + Eurolandia + BRIC (28)), sarà proprio nell'autunno 2011 che il bilancio federale degli Stati Uniti subirà una massiccia restrizione per la prima volta.

La continuazione della recessione insieme alla fine del QE2 causerà un aumento dei tassi di interesse e quindi un aumento significativo dei costi di manutenzione del debito federale, in un contesto di calo delle entrate fiscali (29) causato da una ricaduta in una profonda recessione. L'insolvenza federale è ormai dietro l'angolo secondo Richard Fisher, presidente della Federal Reserve Bank di Dallas (30).

Per saperne di più leggi su GEAB:

. . la crisi di bilancio, o come gli Stati Uniti si tuffano volenti o nolenti in questa austerità senza precedenti e coinvolgono interi settori dell'economia e della finanza globale

. . la crisi dei titoli del Tesoro americani, o come la Federal Reserve statunitense raggiunge la "fine della strada" che ha avuto inizio nel 1913 e deve affrontare il fallimento, qualsiasi gioco di prestigio contabile venga scelto

. . la crisi del dollaro USA, o come le scosse nella valuta degli Stati Uniti che caratterizzeranno la fine del QE2 nel secondo trimestre del 2011 saranno l'inizio di una massiccia svalutazione (circa il 30% in poche settimane).

Note:

(1) Un termine americano che indica il centro politico-amministrativo di Washington, situato nel mezzo della tangenziale locale, la Beltway.

(2) Dai severi tagli agli stanziamenti americani destinati agli aiuti esteri, alle riduzioni dei programmi sociali; organizzazioni pubbliche e interi settori della popolazione degli Stati Uniti (i latinos, i poveri, studenti, pensionati, ...) saranno severamente influenzati da ciò che è ancora solo una goccia nel mare degli adeguamenti necessari. Le manifestazioni popolari stanno cominciando con gli studenti in prima linea. Fonti: House of Resentatives, 04/13/2011; Devex, 04/11/2011; HuffingtonPost, 04/13/2011; Foxnews, 04/14/2011; Foxbusiness, 04/12/2011

(3) Il sistema bancario mondiale (Europa compresa), ancora sotto-capitalizzato e soprattutto insolvente è anche uno dei componenti di questo Gravissimo Crollo dell'autunno 2011.

(4) Nella GEAB N ° 55 la nostra squadra darà le sue anticipazioni sulla questione nucleare del mondo, utilizzando il metodo di anticipazione politica come strumento decisionale in materia.

(5) La grandezza della crisi di bilancio del Regno Unito è ben più grave di quanto stanno raccontando gli attuali dirigenti inglesi che, tuttavia, sostengono di aver detto la verità. Ci sono infatti due modi di mentire ad un popolo: negare l'esistenza di un problema (la posizione del Labourista Gordon Brown) o raccontare solo una parte della verità (chiaramente la scelta della coppia Cameron/Clegg). In entrambi i casi, il problema non viene risolto. Fonte: Telegraph, 03/26/2011

(6) E da oggi con l'istituzione definitiva di Eurolandia come principale motore europeo, in occasione del vertice europeo dell'11 marzo scorso, ai quattro paesi che non partecipano al patto di stabiilizzazione finanziaria di "Eurolandia", cioè Regno Unito, Svezia, Ungheria e Repubblica Ceca, sarà chiesto di lasciare la stanza durante le discussioni sul bilancio e le questioni finanziarie relative al patto. L'EU Observer del 29/03/2011 descrive il panico che ha assalito le delegazioni di questi quattro paesi i cui i leaders giocano a fare i teppisti di fronte ai media e nei discorsi destinati alle loro rispettive opinioni pubbliche, ma ben sanno di essere confinati in un ruolo Europeo di secondo livello.

(7) Fonte: Irish Times, 03/22/2011

(8) Molto pertinente e molto divertente da leggere l'articolo di Silvia Wadhwa, corrispondente europeo di CNBC, che prende in giro gli articoli caricaturali anti-Eurolandia e anti-tedeschi dei suoi colleghi di altri media anglo-sassoni, e giustamente fa notare che le differenze di situazioni economiche sono maggiori tra gli Stati Uniti che in Eurolandia e che i problemi del debito della Grecia o del Portogallo sono nulla in confronto a quelli di uno stato come la California. Fonte: CNBC, 04/12/2011

(9) Torneremo al caso britannico con maggiori dettagli nella GEAB N ° 55, appena un anno dopo la vittoria dei Conservatori /LiberalDemocratici.

(10) Questa protesta contro i tagli è la più grande manifestazione a Londra da oltre vent'anni ed è stata accompagnata da gravi atti di violenza contro i "simboli di ricchezza", con attacchi contro HSBC, l'Hotel Ritz e Fortnum & Mason, per esempio. Come abbiamo più volte sottolineato nel GEAB, è abbastanza significativo che questa manifestazione storica in Gran Bretagna è stata a mala pena ripresa dai titoli dei giornali ed è scomparsa 48 ore dopo. Quando alcune migliaia di greci o portoghesi dimostrano ad Atene o Lisbona, d'altra parte, abbiamo diritto ad una valanga di immagini scioccanti e commenti che descrivono tali paesi sull'orlo del caos. Questo "due pesi e due misure" non deve ingannare il lungimirante osservatore. Da un lato, ci sono gravi difficoltà che sono ora gestite all'interno di un gruppo potente, Eurolandia, dall'altro, ci sono grandi problemi che non possono più essere gestiti da un paese completamente isolato. Credi ai media o pensa con la tua testa per immaginare il resto! Fonte: Guardian, 03/26/2011

(11) Fonte: Independent, 04/03/2011

(12) Inoltre i mercati finanziari si rendono conto di questo e non credono più al marziale messaggio di austerità del governo britannico, che di nuovo innescherebbe una spirale al ribasso della sterlina britannica. Fonte: CNBC, 04/12/2011

(13) Nick Clegg è diventato il politico più odiato nel Regno Unito per aver tradito quasi tutte le sue promesse elettorali una per una. Fonte: Independent, 04/10/2011

(14) E per spingere le famiglie inglesi alla perdita di potere d'acquisto appena simile a quello dopo la I Guerra Mondiale nel 1921. Fonte: Telegraph, 04/11/2011

(15) Come gli europei hanno fatto fin dal 2010.

(16) La stima media fatta da LEAP/E2020 nel 2007/2008.

(17) Oltre ai tradizionali scambi con l'estero, il grafico qui sotto mostra l'entità della riduzione dei trasferimenti ai loro paesi di origine dei lavoratori immigrati negli Stati Uniti, a causa del calo del Dollaro USA. Questa riduzione aumenterà ulteriormente a partire dall'autunno 2011.

(18) Negli Stati Uniti oggi, la visione diabolica è la più comune tra l'opinione pubblica, a differenza del 2008, quando i funzionari della Fed sembravano essere l'ultima risorsa. Questo cambiamento psicologico, come abbiamo sottolineato, non è privo di senso e contribuisce in modo significativo a limitare il margine di manovra dei funzionari della Fed. E non è la storica sconfitta legale della Banca Centrale degli Stati Uniti, che l'ha costretta a rivelare i destinatari di centinaia di miliardi di dollari in aiuti distribuiti dopo la crisi di Wall Street del 2008, che permetterà di migliorare questa situazione, anzi. Una piccola storia, rivelata dalla rivista Rollingstone, illustra il peggioramento delle rimostranze degli americani contro i suoi banchieri centrali: i beneficiari di questo aiuto della Fed sono due mogli di figure leader di Wall Street che hanno creato un strumento di misura personalizzato che consente loro di raccogliere 200 milioni di dollari dalla Fed per acquistare titoli non riusciti ... il ricavato va a loro e le perdite alla Fed! Purtroppo, questo è solo un esempio tra i tanti che sono attualmente in circolazione in Rete e stanno ormai mandando definitivamente in frantumi il rispetto delle persone degli Stati Uniti per la sua istituzione monetaria di riferimento, una situazione esplosiva nel contesto della crisi attuale. Fonte: Rollingstone, 04/12/2011

(19) Il destino del dollaro, come dei buoni del Tesoro Usa, è ora in gran parte nelle mani degli operatori di tutto il mondo, che avranno uno sguardo molto "obiettivo" all'uscita dal QE2, imposto dalla Fed durante il secondo trimestre del 2011. Sarà il parere collettivo della Fed (già pesantemente criticato), non il modo in cui è "presentato", che sarà decisivo.

(20) Fonte: Politico, 04/04/2011

(21) Fonte: Boston Herald, 04/13/2011

(22) Fonte: Huffington Post, 04/11/2011

(23) E tanto più continuano a battere tutti i records del fabbisogno finanziario per il loro deficit, la previsione di deficit per il prossimo decennio di impegni di Obama ammonta a 9,5 trilioni di dollari. Da un lato, egli escogita politiche che aumentano il deficit, dall'altro annuncia gli obiettivi di riduzione ... poco credibile, davvero! Fonti: CNBC, 04/13/2011; Washington Post, 03/18/2011

(24) Brown è un personaggio originale degli Stati Uniti con una grande esperienza politica che in precedenza è stato governatore della California, 1975-1983, ed è stato due volte candidato alla nomination presidenziale democratica. La sua opinione sullo stato rovinoso del sistema politico degli Stati Uniti è, quindi, da non prendere alla leggera. Fonte: CBS, 04/10/2010

(25) Per coloro che trovano le descrizione azzardata, il nostro team ricorda che una delle principali cause della Guerra Civile è stata la visione inconciliabile dello Stato federale e di quello che il suo ruolo dovrebbe essere. Oggi, intorno alle questioni di bilancio, ruolo della Fed, spesa militare e spesa sociale, ancora una volta stiamo assistendo all'emergere di due visioni diametralmente opposte di ciò che lo Stato federale dovrebbe essere e cosa dovrebbe fare, con il suo corteo di crescenti blocchi istituzionali e un clima di odio tra le forze politiche. Molte descrizioni sono state pubblicate in precedenti numeri del GEAB. Fonte: Americanhistory

(26) Come si possono descrivere altrimenti persone che sono appena in grado, e a forza di ripetute crisi, di tagliare qualche decina di miliardi da un bilancio, e che improvvisamente annunciano che domani taglieranno migliaia di miliardi di dollari da questo stesso bilancio? Pazzi o bugiardi? In ogni caso irresponsabili, perché i vincoli che richiedono tali riduzioni del disavanzo, in ogni caso si stanno accumulando.

(27) Il debito pubblico mondiale è al suo punto più alto dal 1945 e, pari al 10,8% del PIL, gli Stati Uniti sono diventati il principale paese leader in termini di disavanzi pubblici. Fonti: Figaro, 04/12/2011; Bloomberg, 04/12/2011

(28) Per quanto riguarda i paesi BRIC (ora BRICS con il Sud Africa), è molto interessante notare che il loro terzo vertice, che ha avuto luogo nell'isola tropicale cinese di Hainan, sta finalmente godendo di una significativa copertura mediatica da parte dei media occidentali. Siamo stati una delle prime e poche pubblicazioni occidentali a parlare del primo vertice (a Ekaterinburg) tre anni fa e a sottolineare l'importanza dell'evento, ma fino ad ora i maggiori quotidiani internazionali persistevano nel considerare BRIC come un semplice acronimo senza grave peso geopolitico. Ovviamente le cose sono cambiate.

Inoltre, dalla Libia al dollaro, il vertice Hainan si è chiaramente posizionato come contrappeso agli Stati Uniti e ai loro sostituti (sempre meno in questo caso, visto quanto sta accadendo in Libia). Per quanto riguarda il dollaro, i BRIC hanno deciso di accelerare il processo che consente loro di utilizzare le proprie valute per il loro commercio: un altro segno che ci stiamo rapidamente avvicinando a un grave shock monetario. Fonte: CNBC, 04/14/2011

(29) Coloro che ancora credono in un miglioramento delle condizioni economiche degli Stati Uniti, al di là dell'effetto "doping" del QE2, dovrebbero soffermarsi sul morale degli SME negli Stati Uniti che hanno cominciato a diminuire in modo significativo e la finzione della ripresa dell'occupazione che subirà una drastica correzione (anche nelle statistiche ufficiali) a partire dall'estate 2011. E ci riferiamo a precedenti numeri del GEAB per quanto riguarda la crisi fiscale degli stati federati. Fonti: MarketWatch, 04/12/2012; New York Post, 04/12/2011

(30) Fonte: CNBC, 03/22/2011



I Paesi BRICS possono mitigare la crisi del dollaro?
di Alexander Salitzki - www.strategic-culture.org - 21 Aprile 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Il 10 aprile, in un’intervista con l’osservatore politico e conduttore della CNN Fareed Zakaria, l’ex Segretario di Stato James Baker, mentre parlava degli odierni cambiamenti globali, ha detto ciò che segue: “La più grande sfida che gli Stati Uniti stanno affrontando non sono le rivolte nel mondo arabo. E’ la bomba del debito.”

Ha anche osservato che senza un dollaro forte saranno destinati a diventare gli Stati Uniti di Grecia. Io credo che potremmo anche continuare con la lista dei problemi che non preoccupano gli Stati Uniti, cominciando dai diritti umani, la libertà e altre cosette ‘fondamentali’. Tutto ciò riguarda in qualche modo anche il terrorismo.

L’abbassamento avvenuto questo giovedì del rating di S&P delle obbligazioni emesse dagli USA era qualcosa di logico, anche se avvenuto con ritardo. L’emissione addizionale di titoli da parte del Tesoro dell’autunno 2010 è stata una misura disperata della Federal Reserve che ha seguito la mancanza di interesse per i titoli del Tesoro tra gli investitori.

Allo stesso tempo, potrebbe essere una buona pubblicità per le agenzie di rating e avrà una certa influenza in futuro, visto che sono inevitabili i cambiamenti del sistema valutativo nel turbinoso mondo finanziario.

Ci sono tre opzioni principali per rafforzare il dollaro.

La prima è la riduzione dei costi e l’incremento delle esportazioni (una raccomandazione tipica del FMI). Dovrà essere aggiunta anche la rilocalizzazione della produzione.

La seconda opzione è l’indebolimento delle divise e delle posizioni economiche dei paesi competitori.

La terza opzione consiste nell’usare le risorse di altri paesi per sostenere il dollaro.

Il lavoro odierno riguarda tutte e tre le opzioni. Per quanto concerne la prima, non ci sono sviluppi possibili. Per quanto riguarda la seconda, notevoli risultati sono stati raggiunti se consideriamo gli attacchi avvenuti nel corso del tempo all’Euro, allo Yen, al Rublo e in parte allo Yuan.

L’esportazione di titoli tossici era la diversione preferita da Wall Street, considerando gli ultimi anni. Se analizziamo un periodo di tempo più lungo, usando un’espressione di Jozeph Stiglitz, potremmo dire che gli Stati Uniti hanno “esportato le crisi”. È stato proprio questo il caso durante gli ultimi trent’anni di deregulation(1).

Negli ultimi sei mesi l’esportazione di «hot money» (N. d. T. ‘hot money’ è un termine che indica i fondi che vengono spostati o allocati con estrema rapidità e per durate anche brevissime, in cerca del massimo profitto) e di inflazione sono stati aggiunti a questa lista. La terza opzione per rafforzare il dollaro riguardava ovviamente il Medio Oriente e adesso anche l’Africa settentrionale e occidentale.

La comunità globale può e deve rimproverare gli Stati Uniti per la soppressione dei competitori, per l’esportazione à la Trotsky delle rivoluzioni, per aver disseminato rivolte senza senso, per aver frenato lo sviluppo sociale e economico e aver violato la sovranità di altri paesi.

Ma allo stesso tempo, considerando la causa principale – il dollaro – del comportamento distruttivo dell’«egemonia perduta» e dovremmo comunque cercare una interazione costruttiva con l’Impero del Bene(N. d. T. da intendersi con la missione salvifica degli USA nella storia) e un sistema per una sua graduale riabilitazione.

I paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) sono forti non perché sono moralmente integerrimi (come si fa a essere giusti nel mondo dei soldi?), ma perché sono stati in grado di ridurre l’uso della divisa statunitense, in modo graduale e in alcuni casi sostenuto. Sia Wall Street che Washington dovranno considerare con attenzione le proposte di riforma del sistema finanziario internazionale avanzate dai paesi BRICS.

E’ improbabile che avremo un’idea chiara delle correlazioni delle forze nell’economia globale confrontando il PIL dei paesi BRICS con quello dei paesi sviluppati, utilizzando l’odierno sistema delle valute.

Il risultato ottenuto in questo caso, per i primi il 18% del PIL mondiale, lo stesso per gli Stati Uniti, ammonta a un 36%, ma in Cina e in India i prezzi sono rispettivamente due o tre volte più bassi che negli Stati Uniti.

In secondo luogo, sarebbe opportuno sottrarre circa 1/3 dal PIL statunitense; negli USA il 40% di tutti i profitti vanno a arricchire il settore finanziario e una futura contrazione di questa somma è altamente probabile. Il rimanente (circa il 12%) è la quantità media ponderata delle materie prime e dei servizi esportati dagli Stati Uniti. E’ improbabile che possano costare di più.

In base alle più realistiche stime delle potenzialità economiche, il libero fluire delle risorse finanziarie verso i paesi BRICS farà semplicemente esplodere l’odierno sistema delle valute. Ma queste nazioni non ne hanno bisogno. Non hanno nessuna fretta di seppellire le loro economie, che scoppiano di salute, nella melma finanziaria che viene dall’estero.

Inoltre, l’esperienza degli Stati Uniti, che hanno perso competitività nella produzione industriale, è un avvertimento evidente. Qui possiamo vedere il paradosso della globalizzazione finanziaria: attraendo in modo selettivo gli investitori stranieri, si limita la convertibilità della loro moneta.

Come conseguenza, le richieste degli USA si indirizzano principalmente verso la Cina, da quando si vocifera di una «piena» convertibilità dello Yuan. Infatti, il dollaro non è per niente convertibile.

Nell’iniziare la riforma del sistema finanziario globale, il Fondo Monetario Internazionale ha già ammesso la necessità di regolare e limitare il flusso di hot money e un’importante disposizione è stata ratificata questo mese. Non dovremmo escludere che l’introduzione di limitazione alle circolazione di denaro nelle ‘fortezze’ finanziarie sia preferita ai default nazionali.

È ovvio che la svalutazione del dollaro, che si è generata negli anni e solo adesso è venuta alla superficie, non può comportare alcuna mossa avventata. Il settore delle valute è quello dove la pazienza e il conservativismo sono i benvenuti.
Gli Stati Uniti dovrebbero riflettere sulla crisi della propria valuta.

«Il Grande Furto» dei contribuenti americani nel tentativo di salvare Wall Street e la nazionalizzazione dei loro debiti (paragonabile, secondo Stiglitz, alle privatizzazioni di Yeltsin nell’Unione Sovietica) non è l’unica ragione della crisi.

Il crescente scontento in Europa nei riguardi di un’economia sottomessa alla finanza e i risultati ottenuti in Asia da banchieri e regolatori affidabili stanno a poco a poco formando un consenso mondiale sul bisogno di una profonda riforma del sistema finanziario globale. Quando l’interazione dei paesi BRICS nel settore delle valute diventerà più intenso, il peso degli interessi di questi paesi crescerà di conseguenza.

La via d’uscita per la crisi del dollaro probabilmente risiede nelle correlazioni tra il settore reale dell’economia e quello dell’economia virtuale negli Stati Uniti.
Sarebbe strano dubitare della capacità dei paesi dotati di grandi risorse materiali, tecnologiche e umane di elaborare una strategia economia adeguata, prendendo in considerazione la situazione dell’intero pianeta.

Il riflusso di denaro dal settore finanziario (prima che venga bruciato del tutto) nell’economia reale è possibile. Adesso potrete leggere un episodio dalla vita frenetica di Hong Kong negli anni della crisi asiatica del 1997-1998. Alcuni broker, che avevano perso quasi tutti i loro fondi, decisero di investire il resto del proprio denaro in un allevamento di maiali e sono riusciti rapidamente a fare buoni profitti, fornendo carne al catering del settore pubblico.

Mi chiedo se quelli che stanno costruendo il centro finanziario a Mosca conoscono questo episodio della storia dell’ex-colonia britannica? E i libri di Stiglitz, li avranno letti?

(1) Joseph P. Stiglitz - Freefall: America, Free Markets, and the Sinking of the World Economy. Mosca, Elmo, 2011



Peggio il rischio Fukushima o il rischio terrorismo? Il consiglio: se cercano di spaventarti, ridi! Ma quando provano a tranquillizzarti… fuggi!
di Roberto Quaglia - www.roberto.info - 21 aprile 2011

A pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca.
Giulio Andreotti

Cosa distingue nel ventunesimo secolo una vera catastrofe nucleare da una ipotetica minaccia del terrorismo? Che della prima è vietato preoccuparsi, mentre della seconda è obbligatorio rabbrividire.

Ma insomma, i governanti e i media vogliono spaventarci o tranquillizzarci? Che si decidano una buona volta! Perché usano due pesi e due misure a seconda della classe di pericoli che ci minaccerebbero?

Il disastro nucleare in Giappone ci ha innanzitutto confermato una cosa che sapevamo già: i governi mentono più o meno sempre, e quando per caso non mentono è solo perché hanno deciso che la verità è loro utile oppure perché mentire non è più un’opzione.

Adesso tutto ciò è anche grottescamente ufficiale, poiché il democratico governo giapponese avrebbe dichiarato illegale la diffusione di notizie sul disastro di Fukushima che non siano in linea con la versione ufficiale. La situazione nella centrale nucleare di Fukushima è stata a lungo dipinta come un incidente di scarso impatto e sostanzialmente sotto controllo e ad un mese di distanza viene finalmente ammesso ufficialmente che si tratta invece di un disastro della magnitudo di Chernobyl.

Gli alti venti spargono iodio e cesio radioattivo per tutto l’emisfero boreale e negli Stati Uniti e in Canada già piove volentieri acqua radioattiva, a San Francisco 180 volte i limiti di legge dell’acqua potabile, e radiazioni hanno iniziato a comparire anche già nel latte. Nel mare di fronte a Fukushima la radioattività è già milioni di volte superiore ai livelli normali e l’inquinamento radioattivo è logicamente destinato a propagarsi per la catena alimentare superiore.

La reazione dell’Organizzazione Mondiale di Sanità è ripetere il mantra sedativo: rischi per la salute molto ridotti. Con qualche pennellata di surreale come la dichiarazione “rischi per la salute stabili”, una formulazione escogitata dall’OMS per tranquillizzare, ma che puzza di gran presa per il culo. Anche dentro al sarcofago del reattore di Chernobyl ci sono rischi per la salute stabili. Sono venticinque anni che non aumentano né diminuiscono!

Non mentono però solo i governi; a cascata, mentono tutti coloro che nella piramide del potere hanno interessi da difendere ed obiettivi da perseguire, spesso giornalisti compresi. La gravità della situazione è stata come al solito illustrata con largo anticipo dai media alternativi e da ricercatori indipendenti su Internet, mentre scienziati di regime (sembra anche del prestigioso MIT, sebbene la cosa appaia controversa) e pennivendoli dei grandi media hanno cercato a lungo di minimizzare le cose.

C’è da chiedersi come faccia così tanta gente a continuare imperterrita a lasciarsi sedurre dalle fonti tradizionali di informazioni ormai sistematicamente inattendibili, quando per le verità che contano i nuovi circuiti indipendenti dell’informazione su Internet sono infinitamente migliori.

Quando su Internet i media alternativi già azzeccavano le dimensioni e la gravità della catastrofe (brutti allarmisti! come si permettono!), sui mass media si assisteva ad un coro di messaggi tranquillizzanti che col senno di poi appaiono grotteschi in modo sublime. C’è chi è giunto a definire il caso Fukushima un trionfo per l’industria nucleare (ma non intendeva raccontare barzellette).

In Italia passerà alla storia l’ammasso di fesserie incautamente profferite con saccente sicumera dall’ex presidente dell’Enel Chicco Testa alla giornalista Lili Gruber e che possiamo rivederci su Youtube tutte le volte che vogliamo farci qualche grassa risata.


Fino a qui, nulla di nuovo sotto il sole. La menzogna è da tempo immemore parte integrante del nostro modo di vivere e la vera colpa non è probabilmente neppure di chi mente, bensì di chi delega a fonti più autorevoli di sé la capacità e la responsabilità di giudizio ed è sempre pronto a bersi qualsiasi balla piuttosto che fronteggiare una scomoda realtà delle cose. E che in ragione di ciò continuerà imperterrito a credere agli stessi che egli sa avergli già ripetutamente mentito in passato.

Come le mosche che cercando di uscire da una stanza continuano a battere contro il vetro della finestra senza mai imparare nulla dalla loro esperienza, così il grosso della gente continua a credere imperterrita a chi continua a mentirgli ed ogni volta si stupirà di ogni nuova menzogna, senza tuttavia imparare nulla che serva loro per non cadere nella trappola della menzogna successiva.

Detto questo, qualcuno si è chiesto come mai sulle conseguenze della catastrofe che si sta consumando nelle centrali nucleari giapponesi le autorità cerchino di tranquillizzare le popolazioni, mentre quando si tratta dei pericoli del terrorismo e delle epidemie che ancora non ci sono fanno invece di tutto per spaventare i cittadini?

E’ un atteggiamento completamente contraddittorio. Da un lato si fa di tutto per tenere i cittadini all’oscuro di pericoli reali causati da catastrofi certe, mentre dall’altro si fa di tutto per rendere i cittadini consapevoli di pericoli ipotetici connessi a catastrofi annunciate che però poi non si verificano mai.

La catastrofe nucleare di Chernobyl ha nel tempo causato otto milioni di morti secondo uno studio del 2006 riportato da Greenpeace, un milione di morti secondo un successivo studio pubblicato nel 2010 dalla New York Academy of Sciences.

Ma nel 2011, dopo il disastro nucleare in Giappone la BBC se ne esce con un tranquillizzante articolo in cui uno “scienziato” spiega che non c’è motivo di preoccuparsi delle radiazioni giapponesi, poiché dopotutto a Chernobyl sarebbero morte solo 43 persone.

Sarebbe altamente morale che un tribunale inglese comminasse adesso a questo esimio scienziato una pena che nel rispetto delle sue stesse dichiarazioni egli dovrebbe considerare un premio, e quindi accogliere con grande favore: una vacanza (obbligatoria) di una settimana ad abbronzarsi sulle ridenti spiagge di Fukushima. D’altra parte qualcuno deve pure dare il buon esempio.

Ora che la catastrofe di Fukushima è stata promossa ufficialmente al rango di quella di Chernobyl (catastrofe di livello 7, caratterizzata da dispersioni radioattive nell’ordine di almeno dieci petabecquerel (PBc), 10 milioni di miliardi di decadimenti nucleari al secondo), è logico aspettarsi purtroppo che anche il bilancio dei morti sarà in futuro di analoga magnitudo. Quindi centinaia di migliaia o anche milioni di morti.

E questo, se la catastrofe di Fukishima non si aggraverà. Nonostante i media cerchino di glissare sul tema, a Fukusima ci troviamo al momento ancora nel “best case scenario” – il migliore dei casi – ovvero il disastro è già comparabile con Chernobyl, ma questo è solo perché ci sta andando ancora bene.

Se i noccioli in fusione dovessero sprofondare fino ad una falda acquifera, allora ci cuccheremmo il “worst case scenario” – il peggiore dei casi – ovvero immense esplosioni che diffonderebbero una tale quantità di roba radioattiva nell’aria da fare rimpiangere i bei tempi di Chernobyl in tutto l’emisfero boreale. Ma di questo nessuno si deve preoccupare, neanche quelli che moriranno o si ammaleranno.

Dobbiamo invece continuare a spaventarci della terribile minaccia del terrorismo, che in dieci anni ha ucciso meno persone di quelle che muoiono in un paio di settimane di ordinario traffico stradale. Sembra follia pura, ma è ovvio che invece c’è uno schema in tutto ciò, che lascio indovinare al lettore.

Rammento solo a mo’ di esempio ai deboli di memoria le grottesche procedure di perquisizione alle quali devono sottostare ogni volta che vogliono prendere un aereo, col relativo sequestro di beni personali potenzialmente letali come bottiglie di acqua minerale, shampoo, profumi, creme per la pelle.

Altro che Iodio 131 e Cesio 137! Sono lo shampoo e l’acqua minerale che rischiano di ucciderci! Attendiamo a breve retate anche negli istituti di bellezza.

Se dopo decine di milioni di perquisizioni negli aeroporti in tutti questi anni nessun terrorista è mai stato arrestato nel tentativo di imbarcarsi armato su un aereo, lascio al lettore giudicare se è verosimile che tali terroristi in primo luogo addirittura esistano.

Non vi viene il dubbio che se esistessero, in dieci anni almeno una volta ci avrebbero provato? Ma di questi “terroristi”, che in dieci anni neppure una volta hanno provato ad imbarcarsi su un qualsiasi aereo da qualsiasi parte[1], ci viene costantemente ripetuto che dobbiamo essere terrorizzati.

Sono anni che ci stanno inoltre promettendo una pandemia che certamente farà milioni di morti, provocata da un virus che ufficialmente non esiste ancora. Promettono però anche che la natura inventerà ben presto tale virus. L’OMS ed altre autorità sanitarie garantiscono che non è una questione del “se”, ma del “quando” ciò avverrà.

Viene da chiedersi se lorsignori non abbiano un qualche rapporto privilegiato con la natura, per prevedere con tale confidenza cose del genere. In effetti, per essere certi che la natura produrrà tale letale mutazione, è stato ufficialmente dichiarato che si sta cercando di prevenire la natura anticipando la temuta mutazione in laboratorio[2], allo scopo dichiarato di poterla così combattere meglio.

Questa, beninteso, secondo loro sarebbe la notizia tranquillizzante. Il virus dell’influenza spagnola, che nel 1918 uccise decine di milioni di persone, è stato invece riportato in vita già nel 2005.

Dobbiamo quindi spaventarci a morte di fronte alle orribili minacce che la natura avrebbe in serbo per noi, mentre dobbiamo tranquillizzarci perché nei laboratori biologici militari americani si cerca di produrre le mutazioni che la natura starebbe progettando di scatenare contro di noi. Fate un po’ voi.

Governi e mass media da loro controllati fanno quindi di tutto per terrorizzarci riguardo catastrofi che non ci sono (ancora) mentre tentano (maldestramente peraltro) di non farci spaventare di fronte a catastrofi che ci sono veramente.

Qual è la loro finalità? Governi e mass media si sforzano inoltre di terrorizzarci agitando lo spauracchio di terroristi che da soli non riuscirebbero mai ad impensierirci (numeri alla mano, la probabilità di morire di un incidente d’auto o un incidente domestico è infinitamente superiore di quella di morire per mano di “terroristi”).

Quindi di fatto fanno l’esatto gioco dei “terroristi”. Se infatti il terrore è il l’ovvio fine dei “terroristi” (per questo si chiamano così), ma gli unici che all’atto pratico riescono a terrorizzare le popolazioni sono i loro governi e i mass media – chi sono in effetti, concretamente, i terroristi? E quali sono le loro nascoste finalità?

Ai lettori più smaliziati le risposte saranno già ovvie, ma le domande sono in realtà rivolte a tutti quei cittadini che invece ancora nutrono ancora qualche fiducia nelle informazioni che ricevono dalle “fonti autorevoli” – i politici che essi votano, i telegiornali che essi guardano ed i giornali che essi leggono.

A parole tutti conveniamo sul fatto che “i politici mentono” e che “i giornalisti non sempre dicono la verità”, tanto che questi sono ormai luoghi comuni. Ma all’atto pratico, tanto è il bisogno di “credere” che poi quasi tutti ci ricascano. La relazione cittadini-governanti si fonda sul modello comportamentale bambini-genitori. Questo spiega il continuo sconclusionato mugugnare dei bambini-cittadini nei confronti dei genitori-governanti, senza che tuttavia il vincolo di sudditanza venga mai meno.

E così nulla cambia. Se fate parte della categoria dei lettori smaliziati, in effetti quest’articolo vi servirà a ben poco. Potete però suggerirne la lettura ai vostri conoscenti meno smaliziati, arenati nel triste e popolare ruolo di bambini-cittadini. Magari qualcuno di essi apre gli occhi.

A furia di suonare a tutto volume la sveglia, ogni tanto qualcuno che bofonchiando emerge dal proprio sonno dogmatico per fortuna c’è. Sono pochi. Ma buoni. Beh, quasi buoni. Dopo una breve e orgogliosa veglia buona parte di essi tuttavia volentieri si rigira nel letto, riaccende la tivù e riprende a dormire.

Ricapitolando:

Qual è il principio in base al quale governi ed autorità decidono se tu – sì, tu che leggi – ti devi tranquillizzare oppure spaventare? Come puoi fare a capirlo per poterti poi ogni volta comportare nel modo a te più conveniente?

Il sistema migliore sarebbe ovviamente l’uso efficiente e critico del proprio pensiero logico. Ma quando per carenza di dati o altro questo non basta, nel dubbio il criterio da adottare che con tutta probabilità produrrà il minor numero di errori è quello di credere esattamente il contrario di quanto le “fonti autorevoli” ti vogliono far credere.

Ovviamente così si rischia di cadere nell’errore opposto, quello che genera l’oltranzismo “complottista” (che può anche portare a credere di essere stati invasi – o invasati – dagli UFO o cose di analoga inverosimiglianza), ma nell’insieme ritengo che il bilancio sarebbe tutto sommato favorevole. Chi si informa solo con i tradizionali mass media ormai vive in un tale mondo di fantasia, che qualsiasi alternativa è probabilmente più realistica.

Quindi possiamo concludere con un consiglio semplice.

Se cercano di spaventarti evocando lo spettro di Osama (da non confondersi con lo spettro di Obama, che NON A CASO differisce da quello di Osama per una consonante soltanto) – allora ridi! Sei su Scherzi a Parte!

Ma quando provano a tranquillizzarti e ti dicono che non c’è nulla da temere… allora è probabilmente venuto il tempo di fuggire.


P.S. Per evadere completamente dal mondo delle favole mi permetto di insistere a consigliare il mio libro ­­­Il Mito dell’11 Settembre (the Myth of September 11), del quale in molti parlano (a favore o a sfavore) senza neppure averlo letto.

Altre notizie inconsuete su www.Edicola.biz

[1] Ci sono stati in effetti un paio di casi di minorati mentali imbarcatisi su aerei con pseudo-esplosivo nelle scarpe o nelle mutande, i quali sono poi stati arrestati a bordo con grande clamore mediatico. Una semplice analisi ha però evidenziato come si trattasse di grottesche montature, allestite per sostenere il mito del terrorismo sugli aerei. Potete leggere i dettagli nel mio libro “il Mito dell’11Settembre”.

[2] Washington Times, 24 Marzo 2005


Europa 2011. Che fare?
di Franco Cardini - www.francocardini.net - 19 Aprile 2011

Europa, aprile 2011. Le elezioni finlandesi potrebbero essere la pietra tombale sull’Unione Europea. La maggioranza dei finnici non vuol sapere di portare una parte del peso che dovrebbe servir a dar una mano a quei terroni dei portoghesi. Figurarsi che cosa si pensa, nel paese di Aalto e di Sibelius, di quegli altri terroni degli spagnoli, dei greci, degli italiani, anch’essi in difficoltà.

Frattanto irlandesi, islandesi e svedesi danno a loro volta sfogo al loro malumore. I tedeschi, dal canto loro, mandano a dire di non aver alcuna voglia di accollarsi una parte del peso e dei costi per i tunisini che arrivano in Italia: e ricordano, poco generosamente ma molto realisticamente, che quando furono sommersi dai kosovari dovettero cavarsela da soli.

Non si parli dei francesi: Sarkozy fa la voce grossa con l’Italia e arriva a bloccare i treni di Ventimiglia un po’ perché questo è in effetti quel che pensa, un po’ perché è seccato di essersi lasciato scappar l’occasione di gestire da Parigi la crisi dell’ex-colonia tunisina (mentre è riuscito a meraviglia a bloccare la protesta algerina, soffocata difatti senza che nessuno in Europa osi parlarne), un po’ perché è tallonato da vicino e ormai di fatto nelle mani di madame Le Pen, czarina del Front National e molto più in gamba come politica di suo padre. Dire che la Le Pen è un’euroscettica sarebbe un maldestro eufemismo: ormai, siamo ben al di là. Ma anche Sarkozy è euroscettico, e la maggioranza dei francesi lo è.

D’altro canto, la diplomazia italiana che agita inviperita i protocolli di Schengen ha molto meno ragione di come potrebbe sembrare. In effetti, il nostro ministro degli Interni ha disposto di rilasciare ai poveracci che arrivano via mare a Lampedusa, rifugiati o migranti che siano (quale il loro status?), dei “permessi provvisori di soggiorno”: per avviarli poi dove? Per rimpatriarli nei loro paesi d’origine? Su questo, gli accordi assunti con il governo tunisino – del quale non si sa quasi nulla: a cominciare dalla sua effettiva esistenza – non sono per nulla chiari, anzi non esistono.

Ed è evidente che, con quei permessi, i loro titolari non varcheranno le frontiere di alcun altro paese europeo, dal momento che l’Italia non è risucita a farne riconoscere la validità dai suoi partners.

E così, mentre noi continuiamo a baloccarci con i processi di Berlusconi, verrebbe da chiedersi se per caso non sarebbe bene che il ministro degli Interni e quello degli Esteri si scambiassero qualche idea sulla linea politica da seguire: magari tenendo conto che esiste un’Unione Europea.

Ma esiste, se davvero può far finta di non rilevare l’esistenza di un problema come quello costituito dai migranti-rifugiati?

E allora, quel che in tutto questo ridicolo psicodramma emerge con chiarezza è una cosa sola. E va detta chiara. E va detta tutta. L’Europa non c’è. Gli euroscettici, che poi sono degli antieuropeisti, hanno vinto: almeno per ora. Resta da capire se, pessimisticamente, l’Europa non c’e più; oppure se, ottimisticamente, non c’è ancora.

Quella che non c'è più è l’Europa che sembrava nata nel 1958 con il Parlamento Europeo: e che invece era un mostriciattolo combinato mettendo insieme gli obiettivi della NATO (subordinare qualunque forza militare europea agli alti comandi e ai programmi statunitensi, come si vide dai trattati di Parigi del ’54) e quelli della Comunità Economica Europea messa a punto coi trattati di Roma del ’57.

Il risultato, con il Parlamento europeo dell’anno seguente – 143 membri eletti dai parlamenti nazionali – era quello di dirigere l’economia del continente ma di non toccare le cosiddette “sovranità nazionali” di ciascuno stato, che dovevano rimanere intatte in modo da venir meglio sottoposte al divide et impera di Washington.

Solo De Gaulle si accorse sul serio che qualcosa non andava: non stette al gioco e cercò di persuadere anche Adenauer che era necessario un diverso disegno unitario, che il Mercato Comune Europeo così com’era stato prospettato non andava, che la Gran Bretagna andava lasciata fuori dall’Unione.

Le cose andarono diversamente. Non abbiamo fatto l’Europa: con l’euro, abbiamo fatto l’Eurolandia, l’area di circolazione della nuova moneta unica. L’Unione Europea, frattanto, è maturata con i suoi elefantiaci e costosissimi organi comunitari, ma è restata un’unione degli stati e dei governi, non dei popoli. Massima, dirigistica e oppressiva unione economica e finanziaria; debole unione giuridica; illusoria ed eterodiretta unione militare; illusoria unione anche culturale.

Molti Erasmus, ma nulla che incidesse davvero sulla preparazione delle giovani generazioni: la prova più plateale di tutto ciò è che non si e mai sentito il bisogno di una scuola primaria e secondaria dotata di un minimo di tratto comune; che non si sia mai insegnato ai bambini e ai ragazzi europei una storia comune europea.

Ora, qualunque fine facciano le fatiscenti e costosissime infrastrutture burocratiche di Strasburgo e di Bruxelles, una cosa è certa. Quest’Europa costruita a partire dal tetto anziché dalle fondamenta non c’è più. E quella che non c’è ancora?

Bisogna ripartire da zero. Dalla costruzione delle fondamenta: che sono un patriottismo europeo, un senso identitario europeo. Le basi per far tutto ciò, nel 1945 c’erano. Furono sacrificate alla logica della guerra Fredda. E adesso?


Il nuovo volto di Cuba
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 21 Aprile 2011

Lo si può obiettivamente definire un Congresso straordinario quello che ha appena celebrato il Partito Comunista di Cuba.

Straordinario perché straordinarie sono le misure che ha adottato e straordinario perché ha raccolto una sfida per il futuro che, piaccia o no, lontano dalle letture stereotipate e ignoranti che la stampa italiana propone, prefigura un’evoluzione autentica, profonda, del sistema socialista.

Magari non sarà di moda, non catturerà gli elogi delle major della comunicazione, ma raccoglie e valorizza le istanze popolari del Paese: che, alla fine, è quello che conta.

Il Congresso si è tenuto in concomitanza con il 50esimo anniversario della fallita invasione mercenaria alla Baia dei porci e, forse, non poteva esserci data più simbolica per indicare una nuova fase.

Cinquant’anni fa la resistenza popolare che ricacciò in mare i mercenari aprì la strada al carattere socialista della Rivoluzione e oggi, le misure adottate, sembrano voler ratificare per il futuro la medesima scelta.

L’indicazione che viene da questa terza fase della vita della Rivoluzione cubana è che si negoziano politiche e forme dell’organizzazione sociale, non i princìpi. Il disegno del nuovo corso cubano risiede fondamentalmente nell’adeguamento del progetto economico e sociale della Rivoluzione alle condizioni generali internazionali e interne.

Proiettare il socialismo dalla storia passata e presente a quella futura è la scommessa e cambiare il modello per rafforzare il sistema è il modo di vincerla.

Il preambolo del progetto è, infatti, la sua stessa sostanza: il sistema socialista si evolve per vincere. Si deve cambiare il modello per rivitalizzare il sistema e si deve mantenere il sistema per far vivere Cuba.

Il piano di riassetto economico dell’isola era stato ampiamente esposto dal documento che convocava il Congresso. Ne avevamo già scritto su Altrenotizie al momento della sua diffusione (http://www.altrenotizie.org/esteri/3595-cuba-socialismo-del-terzo-millennio.html).

Averlo sottoposto al giudizio popolare in lungo e largo del Paese per cinque mesi ha prodotto diverse modifiche al testo originario, ma la sostanza dell’operazione politica è stata confermata. E qui, davvero, non si può non cogliere un elemento di merito sul piano della democrazia reale: sarebbe interessante verificare in quali dei paesi che si autocelebrano democratici (e magari accusano Cuba di non esserlo) i piani di riforme economiche sono sottoposti al vincolante vaglio popolare.

Questa è l’essenza delle riforme approvate e, in questo senso, esse aprono la strada al cambiamento compatibile. Compatibile, sì, perché sono riforme che partono non da teorie economiche astratte, ma che si misurano con la situazione concreta del Paese.

Nascono dall’individuazione dei bisogni e anche dei limiti sin qui palesati; si proiettano sull’esigenza di crescita interna in base alle necessità e alle possibilità concrete. Non hanno riferimenti dottrinari, dal deciso sapore teologico, sbertucciati da teorie universitarie; non obbediscono cioè ai modelli predefiniti - imperanti quanto fallimentari - ma, sfida nella sfida, propongono una “via cubana” per l’economia di Cuba.

Un modello adatto all’isola, cucito su misura delle esigenze interne, perché quello vigente è incompatibile con il quadro generale. Si vuole superare un’identità dogmatica - e in ultima analisi inefficace - che persisteva a dispetto delle profonde modificazioni nella realtà nella quale vive. Cuba ha scelto di adeguare e non di cancellare, di riformare e non di abdicare, di evolversi e non di cristallizzarsi.

La riforma del mercato del lavoro è certamente il fatto nuovo, che rompe schemi consolidati e apre scenari diversi da quelli ipotizzati fino a pochi anni orsono e determina comunque la necessità di formare diverse generazioni di cubani a un nuovo modello di sviluppo.

L’intenzione chiara è quella di far funzionare ciò che non funziona, giacché l’inefficienza e la disorganizzazione diventano insopportabili in un’economia già prostrata dal blocco economico statunitense lungo più di cinquant’anni e che ha rappresentato l’impossibilità per Cuba di programmare la sua economia come qualunque altro paese del mondo.

L’economia pianificata e i rigidi piani quinquennali cedono ora progressivamente il posto a un’idea dinamica e d’aggiornamento costante del processo di crescita economica. Agricoltura, edilizia, trasporti, falegnameria, servizi generali alla cittadinanza e al turismo, sono le aree dove maggiormente verranno indirizzati gli sforzi di modernizzazione e trasformazione.

Apertura alle piccole imprese, preferibilmente su base cooperativa ma non solo; cessione di sovranità dall’alto verso il basso nella regolamentazione della legge della domanda e dell’offerta, nell’obiettivo di ridisegnare la mappa dei bisogni della popolazione e del loro soddisfacimento; abolizione sostanziale del valore assistenziale del salario per trasformarlo in elemento di valore concreto rispetto all’opera sostenuta ed al valore sociale che essa rappresenta.

I passi sono diversi e gradualmente verranno effettuati. La restituzione della terra ai privati si prevede che impiegherà 130.000 nuovi contadini e saranno quasi 200.000 le licenze di commercio destinate alle piccole aziende, dove verranno allocati i circa 2 milioni di lavoratori (su un totale di 5) che usciranno dal settore pubblico per entrare in quello privato.

Oltre a ciò, l’emersione legale delle attività fino a ieri svolte illegalmente, eliminerà il mercato parallelo esistente, dove tanto per le prestazioni come per i materiali si trova tutto quello che ufficialmente non c’è e che, alterando in profondità il dato ufficiale, produce ricadute fortemente negative per la pianificazione l’organizzazione del mercato interno.

L’obiettivo finale è ridurre al minimo la distanza tra domanda di beni e servizi alla cittadinanza e la loro offerta.

Dallo sviluppo del settore privato, che si prevede possa portare al 40% del Pil nei prossimi cinque anni, giungeranno sia i risparmi derivanti dalla minore inefficienza, sia le risorse (sotto forma d’imposte) che verranno utilizzate per il mantenimento dello stato sociale, già di per se alleggerito dalla progressiva eliminazione delle forme generalizzate di sussidi che, pure se insufficienti, rappresentano comunque un macigno per l’economia del Paese.

La caratteristica storica principale del sistema cubano è stata, infatti, quella di riuscire a sostenere un livello di welfare state senza uguali al mondo.

Al mantenimento di questo sono state dedicate risorse infinite e per questo sono state affrontate e sostenute difficoltà crescenti, nel convincimento che l’egualitarismo dovesse essere il tratto identitario del modello.

Da oggi, alla luce dell’impossibilità di continuare a sostenere economicamente quel modello, ma nella volontà decisa di mantenere il sistema, si cambia.

La via scelta è quella della trasformazione di un’economia rigidamente ed esclusivamente statale, in un’economia mista (pubblica e privata) che generi il gettito fiscale per la copertura del welfare.

Verrà aperta la strada ai capitali privati dall’estero, fondamentali per finanziare l’aggiornamento tecnologico e delle infrastrutture necessario a recuperare quote di produzione, tanto per l’export come per il consumo interno.

Sarà lecito il profitto e la tassazione dello stesso, che servirà a dotare la fiscalità generale delle risorse finanziarie di cui ha bisogno per la gestione ordinaria e straordinaria del Paese.

Dove si potrà e dove si vorrà, i dipendenti di ieri potranno essere i soci di domani. Uguali opportunità e uguali diritti; valore del lavoro e quindi del salario sono i nuovi parametri di un’organizzazione sociale capace di proiettare il paese verso la stabilità economica. E questa che, insieme alla sovranità politica, garantisce l’indipendenza e lo sviluppo, sinonimi veri dell’uguaglianza tra tutti i cubani.

La riorganizzazione della società cubana è un altro dei passi verso una nuova Cuba. L’elemento “politico” più importante sembra quindi essere quello del ristabilimento dei ruoli nella società cubana.

Si tratta di una trasformazione determinante, anche sotto l’aspetto della battaglia contro l’inefficienza e la corruzione, che sposta l’asse dell’equilibrio della società cubana su parametri diversi, ridisegnando la mappa delle forze sociali che agiscono nel tessuto del Paese.

La nuova articolazione delle forze sociali sull’isola sarà motore e misura del cambiamento. Le diverse componenti sulle quali si articola la società cubana avranno compiti diversi perché diverse sono le ragioni sociali su cui si fondano e avranno ruoli diversi perché diversi saranno i campi nei quali si cimenteranno.

Quando Raul afferma che “bisogna togliere al partito le funzioni che non gli competono”, si capisce che la sovrapposizione e la mescolanza tra Partito e Stato é destinata a essere superata da una divisione chiara per ruoli diversi.

Il partito, infatti, perno centrale della direzione politica, viene sollevato dalla direzione della gestione amministrativa. Pur mantenendo il suo ruolo di collante sociale e politico, di luogo di elaborazione d’idee e proposte che però, sotto il profilo della gestione economica e amministrativa, sarà lo Stato a dover gestire.

In simultanea con la progressiva riduzione del peso del partito nella gestione amministrativa, emerge con evidenza il ruolo delle Forze Armate, che dall’inizio degli anni ’90 sono impegnate seriamente anche nelle attività economiche.

Analisti improvvisati da un tanto al chilo, ritengono che in questo risieda la prova di un riassetto dei poteri funzionale al nuovo gruppo dirigente che ha nei militari il nuovo fulcro.

Ma una simile lettura è come minimo superficiale, legata a un’interpretazione politicista e tutta avvitata sulle suggestioni eurocentriche dell’organizzazione sociopolitica.

E’ invece opinione diffusa, a Cuba, che siano proprio quelle gestite dalle FAR le attività economiche più efficienti. Del resto é questa una caratteristica peculiare di Cuba, che anche qui si rivela Paese assolutamente diverso dagli altri.

E risulta chiaro come la difesa dell’indipendenza, della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale di Cuba passi anche dalla sua capacità di far evolvere la sua economia; l’indipendenza politica non è sufficiente se non c’è quella economica.

Difendere il Paese dalle aggressioni esterne, quindi, deve accompagnarsi anche con la difesa del suo modello sociale ed economico dall’erosione costante, che potrebbe altrimenti generare fenomeni d’implosione interna non meno minacciosi dell’aggressione imperiale a stelle e strisce.

E’ qui che va collocata la nuova centralità delle FAR nel processo di rilancio dell’economia. Il recupero della capacità produttiva si fonda su una diversa organizzazione del mercato del lavoro e Cuba dovrà tornare a produrre per poter di nuovo esportare.

Ma non potrebbe determinarsi una battaglia vincente contro l’assenza di disciplina lavorativa e per la gestione efficace delle risorse se l’interprete migliore di queste dinamiche fosse confinata nel suo esclusivo ruolo istituzionale.

Sprechi, inefficienze e abusi possono essere fortemente ridotti proprio attraverso politiche premianti e calibrate sulle necessità del consumo interno oltre che da una disciplina maggiore. Le inefficienze e gli abusi, infatti, prosperano nell’illegalità, che dapprima trasforma i diritti in privilegi e poi i privilegi in diritti acquisiti.

L’egualitarismo assoluto, icona ideologica dell’apparenza, può diventare sostanza proprio nello smascheramento della diseguaglianza intrinseca e la denuncia della sua insopportabilità é condizione primaria per affermare l’uguaglianza nei fatti. I diritti sono collettivi, le responsabilità sono (anche) personali. Non più il livellamento salariale al netto di qualunque differenza nella responsabilità sociale dell’impiego; non più la garanzia di uno stipendio a prescindere dallo svolgimento delle mansioni per le quali quello stipendio si riceve.

Le politiche salariali premianti saranno la base concettuale sulla quale restituire efficienza e disciplina lavorativa. Lo Stato dovrà riprogrammare quanto e cosa produrre e, quindi, la forza lavoro necessaria allo scopo. Affidare ai privati la produzione dei servizi destinati al consumo interno è un’utile primo passo verso la modernizzazione del Paese in un contesto di rinnovamento senza abiure.

Per chi quindi si affretta a dipingere la fine del socialismo, nascondendo nelle righe la sua personale aspirazione e per chi (dalla parte talmente opposta che finisce per congiungersi alla precedente) inorridisce di fronte al cambiamento che minerebbe l’essenza socialista dell’isola, si prevedono delusioni a raffica.

L’aspetto più netto della nuova identità socialista di Cuba è quello d’identificare l’esercizio della democrazia con un sistema valoriale che propone uguali diritti, uguali doveri e uguali responsabilità.

Che traccia il cammino collettivo intendendo la società non più come somma numerica d’individui forzatamente uguali e nella sostanza diversi, ma come dimensione armonica delle diverse individualità che nello sforzo comune diventa sostanziale uguaglianza, garantendo ognuno per garantire tutti e non più tutto a tutti a prescindere dal contributo di ognuno verso il bene comune.

Il nuovo obiettivo è raggiungere gli obiettivi. La nuova dottrina è l’abolizione delle dottrine. La riforma del modello sarà la base del rafforzamento del suo sistema. E’ un vento nuovo dal sapore antico quello che soffia sul Malecon. Il socialismo è entrato nel terzo millennio e, stando a ciò che si vede, non ha alcuna intenzione di uscirne.


Cuba, la Rinascita della Rivoluzione
da Peacereporter - 19 Aprile 2011

Nuovo impuso socio-economico per la rivoluzione socialista dei Castro

Se credevamo che la Rivoluzione cubana fosse terminata con la vittoria dei barbudos di Fidel Castro ci siamo sbagliati: lì è partita e per lungo tempo è andata evolvendosi. Così come siamo caduti in errore allorché abbiamo pensato che la malattia che aveva colpito il Lider Maximo nel 2006, potesse dare la spallata finale a Cuba, alla sua politica, alla sua economia e ai sogni di un socialismo realizzabile con il sorriso sulle labbra.

Ma la Rivoluzione continua, cambia, si evolve e diventa più moderna stando più al passo con i tempi. Il IV Congresso del Partito comunista cubano, infatti ha dato il via libera alle riforme economiche e sociali fortemente volute da Raul Castro. Non solo.

Ieri, in via definitiva il Lider Maximo Fidel non ha più alcun incarico di partito. Era stato lo stesso Fidel a chiederlo. "Credo di aver ricevuto abbastanza onori. Non avevo mai pensato di vivere così a lungo, i nemici hanno fatto il possibile per impedirlo, hanno cercato di eliminarmi innumerevoli volte e spesso ho 'collaborato' con loro " ha scritto Fidel nel suo ultimo articolo.

Intanto il partito si è espresso,. "La politica economica seguirà il principio che solo il socialismo può vincere le difficoltà e preservare le conquiste della rivoluzione e che nell'aggiornamento del modello economico predominerà la pianificazione, la quale terrà conto delle tendenze di mercato" si legge nella dichiarazione finale approvata dal Congresso.

Cuba è, e resterà socialista, su questo non ci sono dubbi. L'ha confermato anche Raul che ha detto che "resterà la forma principale nell'economia nazionale" ma per trasformare e sviluppare l'economia nazionale riconoscerà "investimenti stranieri, cooperative, piccoli contadini e lavoratori autonomi".

Confermata dal Congresso la progressiva eliminazione della tessera di razionamento. Soddisfazione per le recenti decisioni è stata espressa dai contadini: oltre 130mila di loro, infatti, hanno ricevuto appezzamenti da coltivare.

Più di 170mila sono state le licenze concesse per l'apertura di piccole imprese e prima di cinque anni, secondo i calcoli e le speranze cubane, oltre 1.8 milioni di cittadini saranno impiegati nel settore privato.

Ed è proprio questa la vera novità della grande riforma di Raul:snellire il settore pubblico appesantito da enormi esuberi di personale.

Infine, ma non per ultima cosa, la decisione di Fidel Castro di abbandonare ufficialmente ogni carica pubblica e dalla sua casa all'Havana si è fatto immortalare mentre votava per i candidati del nuovo comitato centrale del Partito comunista cubano. "Ho letto le biografie dei candidati a membro del comitato che sono stati proposti. Sono persone eccellenti", ha commentato l'ex Comandante in capo.


Referendum: l'imputatto ha paura
di Cinzia Frassi - Altrenotizie - 20 Aprile 2011

La maggioranza al Senato ha approvato l’emendamento che abroga le norme necessarie alla realizzazione di centrali nucleari sul territorio nazionale. “I cittadini sarebbero stati chiamati a scegliere fra poche settimane fra un programma di fatto superato o una rinuncia definitiva sull'onda d'emozione assolutamente legittima ma senza motivi di chiarezza”.

E’ con queste parole che il ministro dello sviluppo economico, Paolo Romani, intervenendo al Senato nella discussione sul decreto omnibus, spiega la decisione di inserire un emendamento, approvato con 133 si, 104 no e 14 astenuti ieri pomeriggio, cui si mette temporaneamente in soffitta la localizzazione e la realizzazione di nuove centrali nucleari.

Quello che solo pochi giorni fa era un’emergenza del paese, nonché sinonimo di sicurezza, innovazione e modernità - il nucleare appunto - oggi è “un programma di fatto superato”. Il ministro sostiene anche che una vittoria degli antinuclearisti poteva tradursi nell’esclusione “dell'Italia dalla possibilità di intervenire con autorevolezza nel dibattito europeo sull'evoluzione della strategia per l'atomo”.

E’quindi il governo a decidere cosa sia chiaro o meno per i cittadini e cosa non è giusto fare sull’onda emotiva post Fukushima. Democratico no? Va da se che il nocciolo della questione non è il nucleare. Cosa poteva fare il caimano per evitare l’unica sfida che poteva vederlo sconfitto alle urne? Perché sarebbe il prossimo appuntamento referendario, a tradursi in una un sconfitta “elettorale”.

I sondaggi parlavano chiaro nei giorni scorsi e delineavano uno scenario vicino al plebiscito contro il capo del Governo grazie all’effetto Fukushima. Le percentuali, infatti, sono pesanti: secondo il recente sondaggio Ipsos i cittadini contrari alla costruzione di centrali arriva al 78%, tra gli elettori del Pd addirittura al 90% mentre si attesta al 66% tra quelli dello stesso Pdl.

Ma questo effetto, che per tutti si traduce in una maggiore propensione al voto referendario per dire “No” al ritorno del nucleare in Italia, per il presidente del Consiglio significa la possibilità che il quesito referendario per l’abrogazione di quel che rimane del legittimo impedimento raggiunga il quorum. E’ la politica del governo tutto: i processi di Berlusconi.

Che fare? Bisogna correre subito ai ripari. Così, dopo la moratoria di un mese fa circa, relativa alla sospensione della localizzazione delle quattro centrali in previsione nella politica energetica del governo, ecco che si pensa ad un colpo gobbo.

Perché la moratoria non basta e se ne sono resi conto. Ci voleva qualcosa di più efficace, come per esempio vanificare il referendum. Non si voleva rischiare. Il trucco di fissare le date dei referendum a giugno spendendo milioni di euro, che si potevano risparmiare votando con le amministrative di maggio, poteva non bastare.

E’ troppo importante quel quesito sul legittimo impedimento. I cittadini avrebbero potuto votare per abrogarlo, nel convincimento che la legge è uguale per tutti, anche per il presidente del Consiglio.

E questo non va bene. L’imputato B. non può permettersi di non incassare sul legittimo impedimento, proprio no. Intanto le associazioni e i comitati promotori insorgono, segnalando come questo sia un modo per il governo di indurre i cittadini a disertare le urne.

A dare manforte alle argomentazioni del ministro Romani, il ministro Tremonti alla commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo ha argomentato contro il nucleare facendo proprie quelle critiche che fino a poche ore fa provenivano proprio dalle opposizioni: "E’ stata fatta davvero una contabilità del nucleare?

Sono stati contabilizzati i costi del decommissioning (lo smantellamento delle centrali)? Esiste il calcolo del rischio radioattivo? La proposta di Tremonti alla Commissione consiste in un Piano europeo per la ricerca di energie da fonti rinnovabili, finanziato anche dagli Eurobond, che tanto gli piacciono.

Il segretario del Pd Bersani invece etichetta il dietro front del governo come “una vittoria nostra” aggiungendo che semmai non basta l’addio al nucleare ma è necessario “aiutare lo sviluppo delle rinnovabili”.

Chi più tuona contro il colpo gobbo del governo è Antonio Di Pietro, che ha dichiarato in proposito: “Il governo tenta con un colpo di mano per truffare gli italiani”. L'emendamento che è stato presentato, secondo Di Pietro, “non abroga l'impostazione nucleare ma posticipa solamente la localizzazione degli impianti".

Anche per il Presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, è chiaro che il governo non ha cambiato idea, “è un trucco per far saltare il quorum ai referendum e poi ripresentare in un secondo momento il decreto per le centrali".

E’ quello che in effetti si desume dallo stesso emendamento che finalizza la temporanea sospensione per “acquisire ulteriori evidenze scientifiche sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione Europea”.

Ora la palla passa all’Ufficio centrale della Cassazione, che deve decidere se l’emendamento assorba totalmente il contenuto del quesito referendario. Il presidente emerito della Consulta, Piero Alberto Capotosti, chiarisce infatti che la Suprema Corte dovrà appunto stabilire se l'abrogazione delle norme sulla realizzazione di nuove centrali sia “sufficiente nel senso richiesto dai promotori del referendum”.

Del resto, come si può facilmente capire dalla sua lettura, il quesito referendario è piuttosto articolato (http://it.wikipedia.org/wiki/Referendum_abrogativi_del_2011_in_Italia) e saremmo davvero nella periferia del diritto qualora una boutade del governo potesse decidere sull’effettività di una garanzia costituzionale come il referendum.


Cosa c'è dietro lo stop al nucleare. Acqua pubblica ai francesi e legittimo impedimento
di Giovanni Mistero - www.agoravox.it - 20 Aprile 2011

La notizia è giunta in redazione ieri: il Governo aveva deciso di dismettere il programma nucleare. Fonti interne ci hanno chiarito lo scenario e le ragioni di questa scelta che vedono un accordo Parigi Roma che da una parte toglie la costruzione delle centrali ad AREVA e dall'altra affida la gestione dell'acqua pubblica a VEOLIA.

Nucleare in Italia: il Governo decide di soprassedere sul programma nucleare, lo fa inserendo una moratoria nel decreto legge omnibus, all'esame dell'aula del Senato, che prevede l'abrogazione di tutto l'impianto normativo che attiene la realizzazione di impianti nucleari nel Paese.

L'emendamente recita: "Al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione Europea, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare".

Ad abbracciare la linea Berlusconi in persona, da sempre scettico nei confronti del programma atomico ma schiacciato dalla lobby nucleare. Sebbene alcune voci leghino questa scelta ad un sondaggio realizzato la scorsa settimana che avrebbe dato al 54% la percentuale di italiani intenzionati a recarsi alle urne il 12 e 13 giugno (quindi oltre il quorum) le ragioni sono più ampie.

Prima di prendere questa decisione il Governo ha intavolato accordi con la Francia per dare una "contropartita" alla perdita economica che ne sarebbe derivata. Raggiunta l'intesa, stamane, AREVA - il colosso mondiale francese del nucleare che si sarebbe dovuto occupare della costruzione delle nostri centrali - ha iniziato la dismissione dei suoi uffici romani.

Il Governo era ben cosciente che il raggiungimento del quorum avrebbe comportato la bocciatura non solo della legge sul Nucleare ma anche quelle sul Legittimo Impedimento e sulla Privatizzazione dell'acqua.

E' stato proprio su quest'ultimo punto che è nata la contropartita da offrire oltralpe, attraverso un patto che sposta gli interessi economici dal nucleare all'acqua e dovrebbe garantire a VEOLIA una consistente presenza nel suo processo di privatizzazione (l'azienda francese è uno dei leader mondiali nel settore della gestione urbana degli acquedotti, dei rifiuti e dei trasporti).

I mediatori italiani hanno dovuto fare una vera e propria corsa contro il tempo per cercare di giungere ad un accordo che soddisfacesse Parigi e che potesse essere ratificato già il 23 Aprile, giorno dell'incontro tra Berlusconi e Sarkozy.

Il Governo ha, così, trovato il modo di liberarsi di un referendum chiave che rappresentava, dopo Fukushima, il vero motore della votazione e l'elemento che avrebbe portato i cittadini alle urne.

In un colpo solo si è disinnescata una possibile bomba elettorale in mano alle opposizioni (il pericolo nucleare), si è portato a casa il Legittimo impedimento e si è continuato il processo di privatizzazione dell'acqua pubblica.

La controversia, poi, lascia ancora margini di manovra a futuri colpi di mano "nucleari" poiché l'emendamento di oggi in Senato elimina l'obbligo della stesura dei decreti legislativi di applicazione sul nucleare.

Ma i decreti approvati finora non decadono, così come la legge numero 133/08 che dà il via alle centrali. E' uno stop, non una abrogazione mentre il referendum avrebbe abrogato la legge.


Verso i piani di adattamento climatico: lezioni da Fukushima
di Pino Cabras - Megachip - 20 Aprile 2011

Dopo il terremoto dell’11 marzo 2011, lo tsunami e le esplosioni alla centrale atomica di Fukushima, siamo nel mezzo di una crisi gravissima e non sappiamo come andrà a finire.

Come dice il negoziatore UE per i cambiamenti climatici “We haven’t seen the end of what is going to happen in Fukushima…So certainly it is something that has an impact on climate negotiations”.

Rappresenterà la fine dell’energia atomica nel mondo o un ripensamento sulle sue caratteristiche di sicurezza?

Segnerà una svolta in un paese cardine dell’ordine economico mondiale? Sarà causa di sconfitta elettorale dei partiti pro-atomici?

O invece qualcuno lo considererà solo un incidente di percorso, che avrà dimostrato la grande efficienza e competenza degli operatori del settore e delle Agenzie per la sicurezza nucleare?

Al momento non possiamo contare sul senno di poi: ci troviamo in mezzo alla corrente. Proprio come di fronte ai cambiamenti climatici. Essi non hanno un “punto terminale” ma saranno una successione ad ondate, come quella che or ora ci sommerge.

I piani che Stati, regioni ed enti locali dovranno approntare per far fronte all’impatto dei cambiamenti climatici e quindi adattare i requisiti costruttivi, le infrastrutture, le dotazioni territoriali, le norme di sicurezza, emergenza ed evacuazione nonché più in generale adattare leggi, tassazione, spesa pubblica e comportamenti dovranno tener conto di molte cose, tra cui, ci sembra, le seguenti cinque lezioni da trarre dall’insieme degli accadimenti giapponesi.

La prima cosa che vorremmo non si dimenticasse di questa tragedia è che un evento estremo è accaduto. A chi pensa solo in termini di medie, a chi modera per principio, a chi si fida della regolarità delle serie storiche disponibili, dobbiamo dire: gli eventi che si situano oltre, per intensità e distruzione, agli accadimenti passati avvengono davvero.

Il terremoto è stato “insolitamente” forte e vicino, producendo uno tsunami “eccezionale” che ha sorpassato in un balzo le barriere che erano state predisposte e le prime stime dei danni.

E questo sarà tanto più vero per i fenomeni ricollegabili ai cambiamenti climatici, poiché vi è una tendenza crescente di fondo che fa sì che il riferimento dato dalle medie passate venga continuamente sorpassato.

E la “sorpresa” che eventi estremi tendono a procurare non dovrebbe più essere tale: lo scenario che va dispiegandosi è quello di eventi estremi che si superano l’un l’altro, a frequenze via via più elevate, in cui la distanza temporale tra uno e l’altro si riduce, mettendo a dura prova la resilienza dei territori, cioè la loro capacità di risorgere.

Chi prevedeva catastrofi non era un catastrofista (cioè un esagerato pessimista) - indicava invece un pericolo ben reale che si è poi manifestato. I piani di adattamento dovranno quindi adottare una prospettiva prudenziale, lavorando su ipotesi anche estreme.

La seconda lezione è che, in un evento estremo, fattori climatici e non-climatici sono inestricabilmente legati: natura, clima e questione energetica contribuiscono di volta in volta in proporzioni diverse alla genesi del disastro ma la sua gestione – in termini di disaster preparedness, response, recovery – non ha eccessivo bisogno di distinguere le percentuali.

Costruire un sistema di allerta, di evacuazione rapida, di immagazzinamento e distribuzione delle scorte, di prestazioni mediche e di protezione degli operatori nella zona devastata, contaminata e soggetta a nuovi shocks si può fare in modo largamente indipendente dalla proporzione delle cause, che vanno contemplate tutte.

Chi spacca il capello in quattro nella contabilità di quanto pesano le diverse componenti può riporre le forbici: produrrebbero solo risultati soggettivi opinabili, destinati a cambiare nel tempo, come accennavo ad Istanbul nel 2010.

La terza lezione è che a produrre un evento estremo è la congiunzione di più fattori forzanti, ciascuno con un proprio profilo temporale, magari con un certo coefficiente di correlazione e con feedbacks.

In parole semplici: ci vuole un po’ di sfortuna. La probabilità è bassa. Ma se il numero di volte con cui si gioca alla roulette russa è alto, che parta un colpo letale è quasi certo.

Di centrali atomiche il Giappone ne ha cinquantacinque, di cui undici nella zona colpita dallo tsunami. Che una di esse vada in stato critico non è poi così strano.

Accanirsi sui dettagli del disastro specifico è inutile. Ed è inutile sperare che le lezioni singole vengano imparate ed evitate in futuro. Nel 1992 Fukushima era già stata teatro di un disastro, fatto di cedimenti, menzogne e promesse di sicurezza, come perfettamente documentato dallo scrupoloso database dei fallimenti tecnologici tenuti dai giapponesi.

Non basta quindi dire: la prossima volta faremo muri più alti, sposteremo le batterie di back-up, ecc. Abbassare la probabilità non basta, se nel frattempo si moltiplicano i casi di esposizione alle intemperie.

Il problema è quindi la pericolosità intrinseca, il trend crescente della violenza della natura nelle sue varie forme, il gran numero di punti vulnerabili.

Per evitare di crepare con la roulette russa, occorre mettere giù la pistola e smettere di premere sul grilletto.

La quarta lezione è che essere pronti aiuta: la legislazione antisismica e la sua scrupolosa attuazione hanno effettivamente alleviato i danni del terremoto. Nelle scosse di assestamento post-scossa principale si sono raggiunti pù volte i 6 gradi Richter, ma i danni sono stati spesso contenuti. L’Aquila era un 5,9 … .

Prepararsi ed adattare le leggi e le pratiche costruttive al cambiamento climatico è quanto mai fondamentale.

La quinta lezione è che però prepararsi, se anche aiuta, non basta. I danni del complesso di terremoto, tsunami e disastro atomico sono stati terribili. L’onda anomala ha superato di un balzo le barriere costruite negli anni con grande dispendio di soldi e con lo scopo precipuo di essere utili in questi casi. Le barriere infrastrutturali si sono rivelate delle linee Maginot, capaci di far guadagnare una manciata di secondi ma non di prevenire le perdite.

Le strategie nazionali e locali di adattamento ai cambiamenti climatici devono seguire un’altra strada e tenere conto di queste prime, parziali, cinque lezioni di giapponese.