lunedì 27 febbraio 2012

Update italiota

Uno sguardo sulle ultime novità in territorio italiota.














Commento sulla Modern Monetary Theory (MMT)

di Nino Galloni* - http://rampini.blogautore.repubblica.it - 22 Febbraio 2012

“Federico Rampini ha scritto su Repubblica del 21-02-2012 (giorno palindromo!) un importante articolo sulla Modern Monetary Theory (MMT) che ci ricorda l’unica alternativa all’attuale disastro economico-finanziario in corso: l’uso del buon senso e di tutti gli strumenti disponibili per salvarci.

In effetti, Draghi l’aveva già annunciato qualche settimana fa: stampare moneta o autorizzare mezzi monetari per trilioni di euro (migliaia di miliardi, come aveva già fatto la FED), si capisce, per la parte di sua competenza, vale a dire salvare le banche.

Se la formula, finalmente, appare praticabile perchè non farlo – a livello di poche centinaia di miliardi – per salvare l’Europa, avviando la ripresa?

I seguaci della MMT sono post-keynesiani “duri e puri” come rileva Rampini, ma anche quelli che hanno tenuto conto dei grandi cambiamenti degli ultimi tempi (non dei semplici nostalgici di Keynes):

1) oggi è inutile definire la quantità di moneta nel senso che i trilioni di liquidità sparati nel sistema dalle banche centrali non inducono febbri inflattive proprio perchè le tecnologie disponibili – a differenza dei tempi di Keynes – consentono l’approntamento altrettanto illimitato di beni e servizi (forse, potrebbe definirsi solamente la quantità scarsa, quella che determina tensioni sui tassi di interesse, proprio quelle tensioni che Draghi e Bernanke cercano di evitare a tutti i costi);

2) cade il paradigma liberista che si debbano PRIMA risanare i conti pubblici e poi avviare la ripresa (ovvero che si debbano ridurre spese pubbliche e tasse per liberare risorse per lo sviluppo) perchè o c’è PRIMA la ripresa oppure i privati la aspettano per riprendere gli investimenti produttivi;

3) è urgente separare (come era fino al1990) i soggetti che svolgono attività finanziarie speculative da quelli che devono far credito all’economia perchè è solo il credito che rimette in moto l’economia stessa. In questo, la MMT può sembrare ben poco keynesiana, ma se i titoli del debito pubblico costano di più di quanto non cresce il PIL, come dargli torto?

Ecco perchè stampare moneta, ovvero emettere titoli al tasso dell’inflazione (il che è virtualmente lo stesso) potrebbe veramente aiutare.

*Nino Galloni, economista, ha collaborato col professor Federico Caffè ed è stato direttore generale al ministero del Bilancio (Ministero dell'Economia), poi a quello del Lavoro. Autore di numerosissimi saggi e studi di economia, fra cui La Moneta Copernicana (assieme all'avv. Marco Della Luna), è docente presso la Cattolica di Milano, la Luiss di Roma e le Università di Napoli e Modena.


La nostra notte degli Oscar a Rimini
di Michael Hudson - www.counterpunch.org - 27 Febbraio 2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Sono appena ritornato da Rimini in Italia, dove ho sperimentato uno degli spettacoli più sorprendenti della mia carriera accademica. Quattro associati dell'Università del Missouri di Kansas City (UMKC) sono stati invitati a tenere una conferenza di tre giorni sulla Teoria Monetaria Moderna (MMT), per spiegare perché oggi l'Europa ha così tanti problemi monetari, e per mostrare che esiste un'alternativa rispetto all'austerità imposta al 99% e che l’enorme e violento rastrellamento della ricchezza da parte dell’1% non è una legge di natura.

Stephanie Kelton (prossima direttrice del Dipartimento di Economia dell’UMKC e redattrice del blog economico, New Economic Perspectives), il criminologo e professore di legge Bill Black, il banchiere di investimento Marshall Auerback oltre a me (insieme a un economista francese, Alain Parquez) abbiamo fatto ingresso venerdì sera nel palazzetto dello sport. Abbiamo camminato in lungo e in largo, anche oltre nel corridoio centrale, in mezzo a un folto pubblico, la cui presenza è stata di 2100 persone.

Quando sono stati pronunciati i nostri nomi, è stato come entrare alla serata degli Oscar. Alcuni ci ha riferito di aver letto per intero i nostri blog economici. Stephanie ha detto di aver capito cosa possono aver provato i Beatles. C’è stato un applauso prolungato, e questo per un incontro intellettual, non per un avvenimento sportivo.

Con una differenza, ovviamente: non c'erano i nostri avversari. Erano presenti molti rappresentanti della stampa, ma gli Euro-tecnocrati al potere (i lobbisti di banca che determinano le politiche economiche europee) sperano che quanto meno si discuta delle possibili alternative all'austerità, tanto più facile sarà realizzare la loro brutale morsa finanziaria.

Tutti i membri del pubblico avevano contribuito a racimolare i fondi per farci volare dagli Stati Uniti (e dalla Francia per Alain) e per ospitarci al Grande Hotel di Federico Fellini sulla spiaggia di Rimini. La conferenza è stata organizzata dal giornalista Paolo Barnard che ha studiato la MMT con Randall Wray e che ha compreso come ci fosse una grande richiesta in Italia per una discussione culturale di massa su quello che sta determinando le condizioni di vita in Europa, e sull’emergente élite finanziaria che spera di utilizzare questa crisi come un'opportunità per diventare una nuova signoria finanziaria per costruire feudi, per privatizzare i beni pubblici svenduti dai governi che non hanno una banca centrale per finanziare i deficit, obbligati a seguire gli obbligazionisti e gli Eurocrati provenienti dal campo neoliberista.

Paolo e il suo enorme gruppo di supporto di traduttori e collaboratori ha fornito un'opportunità di sentire un approccio ala teoria monetaria e fiscale che fino a poco tempo fa era praticamente ignorata negli Stati Uniti.

Solo una settimana fa il Washington Post ha pubblicato una recensione della MMT, seguita da una lunga discussione sul Financial Times. Ma la teoria rimane confinata principalmente al dipartimento di economia dell'UMKC e al Levy Institute al Bard College, a cui noi siamo in gran parte associati.

Il vettore principale della nostra argomentazione è che i governi possono creare soldi, così come le banche commerciali creano elettronicamente il credito sulle tastiere dei loro computer (creando un credito su un conto corrente dei mutuatari per ricevere in cambio le rate di pagamento e gli interessi).

Non c'è alcun bisogno di prendere in prestito dalle banche, dato che le tastiere dei computer possono offrire la creazione di credito pressoché gratuito per finanziare la spesa.

La differenza, chiaramente, è che i governi spendono i fondi (almeno in linea di principio) per promuovere la crescita a lungo termine e il lavoro, per investire nelle infrastrutture pubbliche, per la ricerca e sviluppo, per fornire le cure sanitarie e altre funzioni economiche basilari. Le banche hanno una necessità temporale più a breve termine.

Prestano fondi in cambio di collaterali. Circa l’80% dei prestiti delle banche sono mutui per l’acquisto di beni immobili. Gli altri prestiti sono fatti per finanziare investimenti a leva e per rilevamenti societari. Ma la gran parte dei nuovi investimenti in capitale fisso da parte delle grandi aziende viene finanziato con i profitti già incamerati.

Sfortunatamente, il flusso degli introiti viene ora sempre più deviato dal settore finanziario, non solo per pagare gli interessi e le penali alle banche, ma anche gli acquisti di azioni per sostenerne le quotazioni, per rivalutare anche le stock option che vengono elargite ai direttori delle società finanziarizzate.

Per quanto riguarda la borsa – che gli esempi da manuale ancora descrivono come la raccolta dei fondi per i nuovi investimenti di capitale - è stata trasformata in un veicolo per rilevare aziende a credito (ad esempio, con obbligazioni spazzatura che hanno alti tassi di interesse) e per sostenere la ricchezza con il debito.

Visto che i pagamenti per gli pagamenti sono deducibili dalle imposte - come se fossero un costo necessario per fare impresa -, le imposte versate dalle grandi aziende subiscono un abbattimento.

E quello che viene raccolto dagli esattori delle tasse viene messo a disposizione per pagare i banchieri e gli obbligazionisti che si fanno ricchi appesantendo l'economia con il debito.

Benvenuti nell'economia post-industriale finanziarizzata. Il capitalismo industriale è passato attraverso una serie di fasi di capitalismo finanziario, dall'Economia delle Bolle alla fase del Negative Equity, al periodo dei sequestri degli immobili per ipoteca, allo sgonfiamento del debito, all'austerità, e a quello che in Europa sembra essere uno schiavismo del debito, soprattutto per i paesi PIIGS, Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna.

(I paesi baltici di Lettonia, Estonia e Lituania sono già talmente gravati dal debito che le loro popolazioni stanno emigrando per trovare lavoro e per evitare di affogare nei mutui per l’acquisto di immobili. Lo stesso è successo all'Islanda da quando i sotterfugi bancari provocarono il suo collasso nel 2008.)

Perché gli economisti non descrivono questo fenomeno? La risposta è data da una combinazione di ideologia politica e di analisi fatta con i paraocchi.

Appena terminata la conferenza di Rimini nella sera di domenica, ad esempio l’articolo di lunedì 27 febbraio del Times a firma di Paul Krugman, “What Ails Europe?” (Cosa Addolora l'Europa?, ndt) ha valutato i problemi dell'euro sono nell'inabilità dei vari paesi di poter svalutare le proprie monete.

Ha giustamente criticato la linea del partito Repubblicano, che attribuisce la colpa dei problemi dell’eurozona alla spesa sociale, dando poi la colpa di tutto ai deficit di bilancio.

Quello di cui non ha parlato è la camicia di forza della Banca Centrale Europea incapace di monetizzare il passivo, e ciò è dovuto da una politica economica fallimentare scritta nella costituzione dell’UE.

"Se le nazioni periferiche avessero ancora una propria valuta, potrebbero e utilizzerebbero la svalutazione per ripristinare rapidamente la competitività. Ma non lo fanno, e ciò significa che dovranno subire un lungo periodo di disoccupazione di massa e una flessione lenta e continua. Le loro crisi debitorie sono principalmente un sottoprodotto di questa infausta prospettiva, perché le economie depresse portano a deficit di bilancio e una flessione aumenta il peso del debito."

Il deprezzamento abbasserebbe il costo del lavoro e aumenterebbe il prezzo delle merci importate. L’ammontare del debito denominato in valuta straniera salirebbe di pari passo con la svalutazione, creando problemi a meno che il governo non vari una legge per ridenominare tutti i debiti in valuta nazionale.

Ciò sarebbe in linea con la Prima Direttiva del finanziamento internazionale: un debito sempre denominato nella propria valuta, come fanno gli Stati Uniti.

Nel 1933 Franklin Roosevelt annullò la Gold Clause nei contratti di prestito statunitensi, che permetteva alle banche e agli altri creditori di essere pagati nel valore equivalente in oro. Ma, con la sua solita impostazione neoclassica, Krugman ignora il problema del debito:

"Le nazioni colpite, in particolare, hanno a disposizione solo cattive scelte: o soffrono le conseguenze della deflazione o decidono drasticamente di uscire dall'euro, e non è politicamente fattibile a meno che non falliscano (un punto a cui la Grecia sembra avvicinarsi). La Germania potrebbe collaborare, invertendo le sue politiche di austerità e accettando un'inflazione più alta, ma non è di questo avviso."

Ma uscire dall'euro non è sufficiente per evitare l’austerità, i mancati pagamenti dei mutui e la deflazione del debito se la nazione che esce conserva ancora le politiche neoliberiste che affliggono l'euro.

Supponiamo che l'economia post-euro abbia una banca centrale che si rifiuti ancora di finanziare i passivi di bilancio, costringendo il governo a prendere in prestito dalle banche commerciali e dagli obbligazionisti.

Supponiamo che il governo decida di dover intervenire sul bilancio invece che potenziare l'economia con la spesa per incrementare la crescita.

Supponiamo che il governo tagli la spesa sociale, o che salvi le banche per le loro perdite, o che inserisca nei propri bilanci le scommesse azzardate delle banche, come successo in Irlanda.

Oppure, cosa accadrebbe se i governi non depennassero i mutui da pagare per gli immobili o altri debiti che le persone non sono in grado di rimborsare, proprio come avvenuto in Islanda?

Il risultato sarà ancora una deflazione del debito, la confisca delle proprietà, la disoccupazione, e un’ondata crescente di emigrazione in parallelo alla contrazione dell’economia e delle opportunità di lavoro.

Quindi, qual è l’aspetto fondamentale? È avere una banca centrale che opera nel modo per cui sono state fondate: per monetizzare il passivo di bilancio e per spendere fondi nell'economia, nel modo adatto a promuovere la crescita economica e la piena occupazione.

Questo era il messaggio della MMT per cui cinque di noi sono stati invitati a Rimini. Alcuni partecipanti ci hanno spiegato di essere venuti dalla Spagna, altri dalla Francia e dalle città di tutta Italia. E, anche se abbiamo rilasciato molte interviste ai giornali, alla radio e alle televisioni, ci hanno detto che i media più diffusi ci hanno ignorato perché non siamo politicamente corretti.

Questo è lo spirito censorio dell'austerità monetaria neoliberista. Il suo motto è TINA: “There Is No Alternative” per mantenere le cose così come stanno. Fino a che riusciranno a reprimere le discussioni sulle migliori alternative esistenti, hanno la speranza è che il pubblico rimanga acquiescente anche se il tenore di vita peggiora e la ricchezza viene risucchiata dalla vetta piramidale dell’1%.

Il pubblico ha chiesto soprattutto chiarimenti teorici da Stephanie Kelton, che ha tenuto la conferenza di argomento economico più chiara che abbia mai ascoltato, una presentazione euclidea della logica della MMT. Qui c’è un video della grandezza dell'evento. Alla fine, ci siamo sentiti come star di un concerto.

La quantità di pubblico che ha riempito il palasport per sentire le nostra spiegazioni economiche su come dovrebbe funzionare una banca centrale per evitare l'austerità e per promuovere, invece che per scoraggiare, il lavoro, ha mostrato che il tentativo del governo di fare il lavaggio del cervello alla popolazione non sta funzionando.

Non sta funzionando così come è successo alla classe Economics 101 di Harvard, da cui gli studenti sono usciti per protesta contro la proposta di universo parallelo irrealistico, che descrive l’economia escludendo l’analisi del debito, i benefici dei benestanti e il parassitismo finanziario.



Mala tempora currunt
di Marco Cedolin - http://ilcorrosivo.blogspot.com - 23 Febbraio 2012

Ogni tramonto brumoso porta in dono un poco di malinconia e quando a tramontare non è una giornata, ma un “mondo” così come lo avevamo conosciuto, l’accento malinconico si fonde con un senso d’inquietudine impossibile da dissimulare.

Questa Italia ormai deprivata di qualsiasi dignità, che si trascina incespicando nel fango, ha un che di patetico che infonde nell’animo una sensazione di tristezza infinita.

Così come triste ed angosciosa, risulta la penosa agonia del sistema neoliberista, che arranca verso la terza guerra mondiale, nella speranza che possa costituire il mezzo attraverso il quale riuscire a sopravvivere qualche giorno di più.

Malinconioso è il pellegrinaggio del barbogio Napolitano in terra di Sardegna, dove il garante della mangeria di corte si ritrova a ricevere bordate di fischi, mentre caracolla attraverso la callaia dell’umore popolare.

Povero di spirito, ma ricco nel portafogli, si manifesta il bargello Manganelli, costretto a discettare in quel della Camera, intorno ad un terrorismo che non c’è, ma la cui esistenza diventa indispensabile per giustificare il suo stipendio nell’ordine dei 621 mila euro l’anno…..


Tanto opportunista quanto cinico si rivela il borioso giudice Caselli che scientemente usa le contestazioni NO TAV per gli arresti di donne incinta ed innocenti vari, al fine di dare al suo ultimo libro quella salienza che invero esso non possiede.

Estremamente realistici e per nulla turbati da questa Italia che sta inabissandosi più velocemente della Concordia, appaiono il prof. Monti e lacrima Fornero, quando affermano che la riforma (leggasi eutanasia) del lavoro andrà avanti a prescindere da quello che possa essere il giudizio dei sindacati e dei partiti.

E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il peso specifico di tanti manevoli camerieri è ormai prossimo allo zero e si limita a quello delle loro buste paga sulle spalle dei contribuenti.

Inquietante è la figura del ministro Terzi, sempre più uomo della Nato, che in merito alla vicenda dei due marò arrestati in India, continua a barbugliare frasi sconnesse degne del peggior Frattini.

Avvilenti e molto pericolosi appaiono i burocrati di Bruxelles, che obbedendo agli ordini di Washington impongono nuove sanzioni all’Iran, sulla base di colpe immaginarie che non trovano riscontri nella realtà. Ma ancora più avvilente appare il governo golpista nostrano che avalla dette sanzioni, mentre salassa i cittadini italiani attraverso la benzina venduta a peso d’oro.

Patetica la congrega di sindacalisti d’accatto e pacifinti salottieri che si raduna in quel di Roma per dare supporto alla guerra imperialista contro la Siria, pur fallendo miseramente l’obiettivo, al punto che perfino i media mainstream hanno ritenuto opportuno oscurare i pochi intimi convenuti all’appuntamento.

Angosciante, estremamente angosciante, il bellicismo ostentato dalla Nato, che da mesi lavora alacremente in Siria, con l’ausilio dei belatori mainstream, nella costruzione di un calappio che le permetta di scatenare un conflitto utile per giungere fino a Teheran.

Tutto ciò mentre l’imbrunire, timidamente scolora nella notte, il cielo si tinge di catrame e nel caligare immanente anche la luce dei lampioni sembra farsi più fioca.



Il governo del 5%
di Giulietto Chiesa - Il Fatto Quotidiano - 24 Febbraio 2012

Adesso che questo “Governo dei tecnici” ha pubblicato le sue dichiarazioni dei redditi, possiamo concludere, all’ingrosso, che tra la punta alta di una guardasigilli che guadagna sette milioni di euro all’anno e il più “sfigato” del gruppo, che ne guadagna solo 120 mila, la media è decisamente al di sopra dei 200 mila euro annui.

Perché metto l’indice su questa cifra? Perché secondo le statistiche, questa è la barriera oltre la quale si colloca il 5% dei contribuenti italiani. Questo, almeno, è quello che dichiarano. Ma noi sappiamo che abbiamo a che fare con donne e uomini d’onore, e dunque gli crediamo.

Il 5% vuol dire che, al di sopra di quella barriera, si colloca un italiano su venti.

Ora, dalle mie letture giovanili riemerge, per caso, una definizione dell’individuo che Karl Marx formulò da qualche parte: “L’uomo è il punto d’intersezione di tutti i suoi rapporti sociali”.

Quando la lessi pensai che andava bene per l’individuo sociale, perché ritenevo che l’uomo fosse una cosa anche assai più complessa.

Ma, a grandi linee, direi che è una buona definizione. Cosa voleva dire Marx? Che ognuno riflette l’ambiente in cui vive, le persone che frequenta, il posto e le funzioni lavorative che conosce. Insomma ha un orizzonte, e una coscienza, che – appunto – sono il prodotto di tutte quelle intersezioni.

Dunque, tornando a quel 5%, se si applica la definizione di Marx, si può ragionevolmente immaginare qual’è il loro orizzonte. Bene: abbiamo un governo che rispecchia il loro orizzonte, cioè che rappresenta il 5% della popolazione del paese.

Direi che si vede da molti segnali. Non mi stupisce dunque che Monti si lasci sfuggire una frase come quella che il posto fisso è una gran noia. Lassù, dove non si è mai disoccupati, sicuramente lo è.

Saranno dei tecnici, ammettiamolo, ma stanno anche loro lassù in cima. Come tutti i governi degli ultimi quarant’anni. Del resto vi risulta che ci sia qualche operaio, in parlamento, o lavoratrice, o artigiano? Se c’è è un ex, che si è già dimenticato tutto.

Che rapporto ci potrebbe essere tra il loro orizzonte, di quelli che devono stringere la cinghia, e quello del 5%? E c’è qualcuno che pensa che si possa scendere, con la fantasia, al di sotto di quel loro orizzonte?

L’inverso si può fare
, fantasticando. Ma scendere è proprio impossibile. Solo la Fornero ha pianto. Per sbaglio.


Corruzione e prescrizione
di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 25 Febbraio 2012

No, non è innocente. Ci si arrampichi pure sulle interpretazioni della sentenza di Milano, ma Berlusconi é prescritto, non innocente. Tanto è vero che, codice alla mano, i giudici avrebbero potuto assolverlo e non l’hanno fatto, mentre non potevano proseguire con il dibattimento perché è intervenuta la prescrizione.

Dopo cinque anni di processo e dieci d’indagine, il tribunale ha infatti deciso il non poter procedere proprio per intervenuta prescrizione, ai sensi dell’articolo 531 del Codice di procedura penale.

Hanno annunciato ricorso sia gli avvocati del cavaliere che la Procura, ma non è detto che Ghedini mantenga quello che promette. Perché il tribunale ha respinto comunque la richiesta di assoluzione e limitandosi a registrare l’impossibilità di procedere, sembra riconoscere implicitamente fondatezza alle tesi dell’accusa, ormai destinate al prossimo processo.

La legge Cirielli, voluta da Berlusconi stesso proprio per garantirsi l’impunità, ha dunque ottenuto il suo scopo fondativo: impedire che i reati civili e penali commessi dalll'ex Premier prima della sua scesa in campo, divenissero oggetto di condanna nei tribunali della Repubblica.

E’ chiaro così quanto già si sapeva: le schiere di avvocati, più o meno competenti, sono l’espressione obbligata per la vicenda giudiziaria in senso tecnico, così come la propaganda dei suoi funzionari travestiti da giornalisti è funzionale alla creazione dell’immagine del liberale perseguitato dai magistrati oscurantisti.

Gli avvocati in toga hanno solo dovuto allungare a dismisura i tempi del dibattimento (grazie a lodi e legittimi impedimenti ad hoc) così da permettere alla Cirielli di trovare vigenza, niente di più.

E’ invece confermato come sia la serie incessante di leggi ad personam il vero collegio di difesa del cavaliere; è l’utilizzo a suo esclusivo vantaggio di ogni modifica legislativa votata dalla sua maggioranza in Parlamento a rappresentare la garanzia della sua impunità.

Grazie alle numerose leggi e leggine, è evidente che in Italia esiste ormai un Codice di procedura penale per lui e uno per chiunque altro.

L’indignazione generale che ha seguito la sentenza è comprensibile e condivisibile, ma la vicenda va riportata nel contesto generale della storia personale di Silvio Berlusconi. I reati di cui Berlusconi è stato accusato e prescritto, nel processo Mills come in altri, sono stati infatti un aspetto non secondario e una costante della carriera imprenditoriale del cavaliere: in qualche misura hanno costituito un modo di fare impresa.

La storiella raccontata dai suoi organi d’informazione che dipingono la nascita, lo sviluppo e la successiva centralità del potere economico berlusconiano come espressione della genialità dell’uomo (che pure in qualche misura non si può negare) è una lettura agiografica e propagandistica, funzionale all’illusione di massa che ha caratterizzato il berlusconismo.

Certo, quello illegittimo e illegale è un modo di procedere piuttosto diffuso nella storia dell’imprenditoria italiana e l’alterazione delle regole del mercato é lungi dall’essere una prerogativa esclusiva dell’ex-premier; tuttavia, proprio nella vicenda imprenditoriale di Berlusconi, quei sistemi hanno avuto un ruolo determinante nella costruzione dell’impero economico che ha consentito la scalata al sistema politico.

In questo senso, dunque, più che circostanziali le operazioni finanziarie sostenute al di fuori delle regole e in disprezzo delle leggi hanno avuto una ricaduta strategica, che le rende decisamente diverse da quelle risapute di tanti altri gruppi industriali italiani.

La particolarità di Berlusconi è stata questa: utilizzare la politica per costruire un impero fino a quando la politica è stata in grado di tutelarlo. Quando questa non lo è più stata, quando cioè il corto circuito tra i suoi interessi e la politica si é interrotto per il venir meno degli interlocutori politici, egli stesso si é sganciato da quel legame ed é passato alla difesa diretta dei suoi interessi scendendo in politica.

In questo sta la differenza tra lui e il resto dell’imprenditoria assistita: l’impossibilità di vincere sul mercato per lui si risolve con l’assalto - riuscito - al mercato della politica. Istituzioni, Parlamento per primo, sono divenute un ramo d'azienda funzionale al core business del Biscione.

E' grazie a questo che il corto circuito tra i suoi interessi e quelli della politica si é risolto piegando la seconda ai primi. E’ così che sono nati i Cirielli, ed è così che é morta la giustizia.



Chi ha pre-scritto la "prescrizione" di Berlusconi? Chiedete al Quirinale
di MdS - www.antimperialista.it - 25 Febbraio 2012

Sorpresa: la famosa «indipendenza» della magistratura non è stata così indipendente dal patto golpista che ha portato Monti al governo. Qualcuno se ne può stupire? Sì, i cretini.

Per gli antiberlusconiani è stato un duro colpo. Non solo mister B ne è uscito assolto, sia pure «prescritto», ma il lavoretto è stato congegnato proprio da quella magistratura a cui avrebbero voluto affidare l'Italia, se non fosse che nel frattempo i loro amici banchieri sono stati un po' più svelti a mettersela in tasca.

Per costoro la banca e il tribunale sono i luoghi del «bene», ed il Palazzo di Giustizia di Milano è quasi un luogo sacro. E invece, prescrizione. Ma se Berlusconi è prescritto chi ha pre-scritto la sentenza di prescrizione?

Qualche settimana fa, in uno dei suo tipici fraseggi padani, dove tra un rutto e l'altro riesce anche a parlare di politica, Umberto Bossi ha dato del cretino al Berlusca perché, a suo dire, non aveva approfittato del patto novembrino per avere le necessarie assicurazioni sui suoi problemi giudiziari. Ma chi glielo aveva detto al Bossi che le garanzie non c'erano state?

La verità è che al Quirinale c'è un galantuomo, che presiede anche il Consiglio Superiore della Magistratura, che in quei giorni autunnali veniva spesso ritratto al telefono, neanche fosse stato Moggi.

Volete che il salvataggio dell'Italia, affidato a quella specchiata figura dell'uomo della Trilateral, fosse messo in discussione per una vecchia e noiosa questione di corruzione?

Diciamoci la verità: solo dei giustizialisti particolarmente rincoglioniti potevano pensarlo. Berlusconi lasciava Palazzo Chigi anche in cambio dell'immunità, per se e per le sue aziende.

Qualcuno dall'alto del Colle benediceva e soprattutto garantiva. Che la sceneggiata del processo andasse in onda, purché l'esito fosse scritto. Per l'esattezza, pre-scritto.

Negli anni passati a Palazzo Chigi Berlusconi si è confezionato leggi e leggine, ma il suo partito non è ancora oggi decisivo per tenere in piedi il governo dei vampiri osannato dalla copertina di Time?

Non vogliono tutti - da Obama alla Merkel, dalla City alla Bce - che Monti prosegua il suo lavoro di dissanguamento del popolo lavoratore? Pensavate allora che sarebbe arrivata una sentenza contro il fondatore del principale partito che gli consente di governare?

Lo pensavate, magari (aggravante) confidando sull'indipendenza della magistratura? Allora siete proprio dei cretini. Passi per Bossi, che almeno può esibire un certificato medico.

Per gli altri, in particolare per i seguaci del Partito di Repubblica, c'è sempre la possibilità di vedersi riconosciuta quella perniciosa malattia professionale chiamata «giustizialismo». Un riconoscimento che non dovrebbe mancare - basta dimostrare la lettura di 20 editoriali di Scalfari e la visione di 10 predicozzi di Travaglio.

Il riconoscimento della patologia invalidante dovrebbe dunque esserci; la riscossione della relativa pensione è invece in dubbio: sapete, oggi decide la «sobria» Fornero, non più l'allegro buffone. Che intanto però si gode la prescrizione, anzi la pre-scrizione.


Ma i pirati in Kerala non ce li aveva messi neanche Salgari...
di Alberto Prunetti - www.carmillaonline.com - 23 Febbraio 2012

Due umili lavoratori, non importa quale sia la loro nazionalità, sono stati probabilmente uccisi da alcuni militari, non importa quale sia la loro nazionalità. Questo è ciò che conta.

Chi li ha ammazzati, non importa se italiano (com’è probabile e come stabiliranno le indagini) o greco (come sostenevano i giornali italiani ieri, cosa secondo me alquanto improbabile), non doveva stare lì con un mitra in mano, pagato da noi o da altri subalterni greci.

Subalterni a un sistema che spende soldi in spese militari per poi dire che mancano per ospedali, pensioni, università.

Ma non sono questi gli unici paradossi della famosa “questione intricata”, che a me sembra semplice: i militari italiani non dovevano stare lì, sul ponte di una nave commerciale privata, e non possono aprire il fuoco contro innocenti pescatori. Pescatori e non pirati, perché i pirati in Kerala non ci sono.

Tendenzialmente, sia in India che in Italia non scarseggia l’inclinazione a difendere i propri militari: si rivendica l’impunità per uccidere sul proprio territorio e non si concede facilmente ad altri questo lusso.

Di qui i problemi degli ormai famosi (in India direi “famigerati”) marò italiani e le difficoltà della diplomazia della Farnesina: a quanto pare, ci istruiscono i nostri media, all’estero si può aprire il fuoco impunemente contro un pescatore a un tot di miglia dalla costa, sostenendo di aver respinto dei pirati all’arrembaggio. Questo delirio si chiamerebbe "diritto internazionale".

Squillano sui giornali le trombe soffiate da astrusi alfieri dell’impunità militare, un’impunità che dovrebbe farci ricordare le lamentele italiche per gli aviatori americani mai incolpati di alcunché per la strage del Cermis.

Alle teorie degli esperti di diritto internazionale giornali come La Nazione stamani affiancano inquietanti dichiarazioni di militari, tratte da Facebook, che chiedevano carta bianca per fare irruzione in India o almeno farla pagare agli indiani che vivono in Italia.

Tutto questo, oltre a collocarsi tra il ridicolo e il favoreggiamento del razzismo strisciante nella nostra società, conforta ovviamente le autorità indiane nelle loro scelte di trattenere gli italiani per sottoporli a processo, oltre a allungare i tempi diplomatici nuocendo agli interessi degli stessi soldati detenuti.

L’ “ora d’odio” non ha pagato all’epoca delle pressioni diplomatiche italiane contro il Brasile nel caso Battisti: contro l’India, paese con una fortissima tradizione anticoloniale, “giornalate” come quelle di questi giorni sono un vero e proprio suicidio mediatico. Comunque auguri.

Per come la vedo io, affidare all’India le indagini per i morti indiani su navi indiane potrebbe riaffermare un principio che non è giuridico ma è umanitario: che non basta essere pagati per proteggere delle merci per avere il diritto di uccidere delle persone, con la scusa che “forse”, “eventualmente”, “potrebbero essere dei pirati”.

Intermezzo milanese

C’è qualcuno che pensa che i due pescatori indiani e le loro famiglie potrebbero ottenere giustizia in Italia? Prendiamo un caso più vicino e più recente: quello del “cileno” ucciso pochissimi giorni fa a Milano da un agente della polizia municipale.

Quanti si ricordano di quel caso, già sommerso e seppellito dalle chiacchiere sullo spread? Chi ha mai visto la sua faccia, chi si ricorda il suo nome? Forse non aveva neanche un nome, perché nei tg lo chiamavano solo “il cileno”.

Pensate che i familiari di lontani e poveri pescatori che guadagnavano un euro al giorno possano avere qualche possibilità di ottenere giustizia in un paese distante migliaia di chilometri con un’opinione pubblica che ha già assolto i due militari?

(Detto per inciso, la fantasia dei giornali italiani non aveva suggerito l’ipotesi che il cileno fosse un pirata, però anche qui erano spuntate le armi ma poi erano sparite. Mancavano invece le miglia marine come spartiacque del limite entro il quale si può con ogni titolarità crivellare di colpi un poveraccio in fuga che urla “non sparate”).

Deliri giornalistici: l’India vista male e da lontano

Intanto da ieri i giornali italiani fanno il gioco delle tre carte con una nave greca (ma non ho letto di conferme delle autorità greche riguardo alle attività di questa nave, che per ora sembra un asso nella manica degli italiani) e dipingono le acque del Kerala come infestate da pirati: neanche i tigrotti di Mompracen erano di quelle parti e gli atti di pirateria si registrano più al largo della costa indiana, da pirati che hanno per l'appunto le loro basi sulle coste della Somalia.

Ancora sul fronte dei deliri giornalistici, apprendiamo che i due soldati detenuti in India, in attesa di divenire “eroi italiani”, sono “due papà coraggiosi”, “due papà premurosi”.

Come tutti “tengono famiglia”: la strategia giornalistica funziona in questo modo ma non aiuta a capire meglio le cose e si sgretola davanti al fatto che qualche figlio ce lo avevano anche i pescatori Jalastine e Pinku, quindi siamo al pari.

La disinformazione lascia passare l’idea che i due militari abbiano appena passato un giudizio sommario o starebbero per essere condannati a morte, laddove la giustizia indiana, nel rispetto di un sistema di procedura penale diffuso ovunque, li ha sottoposti a un semplice fermo di tre giorni, che verrà esteso ancora in attesa di approfondire la loro situazione.

Non li hanno neanche messi in una cella, ma in un bungalow circondato dalle splendide palme del Kerala, con ampia disponibilità di cibo e sigarette. “Non ci hanno fatto vedere la nave crivellata”, si lamentano i giornali italiani, ma è anche vero che fino a ieri la rappresentanza italiana in Kerala era composta da fricchettoni, alcuni dei quali amici miei, che di solito non frequentano caserme e palazzi di giustizia, in qualsiasi paese si trovino.

Di passaggio si erano visti un console e un paio di vescovi indiani che fanno notoriamente le veci dello stato italiano (il Vaticano ha per ora la rassegna stampa più aggiornata sul caso e la sua diplomazia sarà il terzo che gode tra i due litiganti: ci scommetterei), ma solo oggi qualcuno che conta si è fatto vedere, mentre il ministro degli esteri arriverà a giorni ma se ne andrà a Delhi, che rispetto al Kerala è su un altro pianeta.

Insomma, gente, ci vuole un po’ di tempo per avere qualche foglio legale e in cancelleria bisogna mandarci gli avvocati: questa è la procedura penale in India e per quanto possa sembrare strana, pare vada rispettata (come diceva Bud Spencer in un noto film).

In ogni caso smettiamola di spaventare i bambini e i cuori puri con la pena di morte (quella che i nostri boys elargiscono a piene mani nei luoghi in cui la loro presenza viene richiesta dalle necessità del capitalismo globalizzato): a me risulta che la pena capitale, che si rischia tra l’altro con più frequenza negli Usa piuttosto che in India, non sia stata finora applicata nel subcontinente indiano neanche nel caso di Ajmal Kasab, l'unico detenuto del commando che ha provocato il 26 novembre 2008 centosessantacinque morti e più di trecento feriti negli attentati di Mumbai (per capirci è l’uomo più odiato d’India).

Il gioco delle tre carte con la nave greca

Intanto al posto dell’olandese volante ha fatto la sua comparsa un mercantile greco fantasma: è il tertium datur che potrebbe guadagnarsi la responsabilità dell’assassinio dei pescatori. Le cose non cambierebbero molto: stessa faccia, stessa razza, direbbero i miei cosmopoliti amici in malayalam (non è una parolaccia, è la lingua del Kerala).

Per ora questa nave veleggia solo sulla blogsfera italiana e non dà notizie di sé nel mondo anglofono. Però chissà che non guadagni anche questa sponda: i greci come capri espiatori in questo periodo funzionano bene.

Magari consegnarsi alle autorità indiane al posto degli italiani potrebbe essere l’ennesimo sacrificio chiesto in cambio dello sblocco del super prestito europeo. Comunque la vogliamo mettere, le cose sono le stesse. Uccisi da europei e da militari, cioè da colonialisti europei.

Se non si tiene a mente questo elemento, non si capisce nulla di quel che sta succedendo a Kochi in questi giorni (come fanno i sapientoni di geopolitica internazionale che parlano di elezioni in Kerala e di beghe tra Congress, Bharatiya Janata Party e Sonia Gandhi: a proposito, detto per inciso, al potere in Kerala c’è un partito comunista che stravince da anni e anni ogni elezione garantendo la proprietà della terra ai contadini e la possibilità di far educare i loro figli anche nelle scuole cattoliche. Magari domani i nostri giornali possono farci una bella paginata sopra, l’idea ve la regalo). Questo elemento è significativo per gli indiani.

Per gli italiani dovrebbe contare qualcosa, oltre la solidarietà verso le vittime, anche il fatto che questi soldati sono inviati a proteggere interessi privati e sono pagati con i soldi pubblici da uno stato che a quanto si dice non ha un euro per sanità, pensioni e welfare sociale.

Non è una cosa da poco, visto che all’ordine del giorno al senato oggi c’era proprio il rifinanziamento delle missioni militari all’estero, che destra e sinistra concordemente plaudono (provvedimento approvato con 223 sì, 35 no e 2 astenuti).

E non venite a dire che lo fanno per garantirci il petrolio, con quel che costa. Quanto alle loro paghe, facciamo una bella operazione trasparenza con gli insegnanti degli asili, gli operai e i precari dei call-centre: ne vedremo delle belle. Sui giornali circolano cifre che vanno dalla misera cifra di 2000 euro al mese ai 500 al giorno. I pescatori del Kerala guadagnano pressappoco un euro al giorno.

Di pirati e castelli di carta

Si continua a parlare di pirati, almeno in Italia. Ora, le navi dei pescatori in Kerala sono migliaia e intrecciano continuamente nelle acque costiere, dentro e fuori il limite del tirassegno consentito. Talvolta si avvicinano ai grandi mercantili per allontanarli dalle loro reti, che potrebbero recidere (è quello che probabilmente stava facendo la Saint Antony).

Le coste del Kerala sono poi controllatissime dalle autorità marittime indiane. Non si sono mai registrati casi di pirateria per quel che ne so io, e per quel che ho letto (non sono un esperto ma ne so più di un giornalista italiano, avendo vissuto e lavorato da quelle parti per svariati mesi).

Due casi di pirateria in un solo giorno è uno scoop che solo i nostri media possono vantare. Ma sì, prendiamola così: mettiamola nella più benevola (per la creduloneria italiana) ipotesi che la nave tricolorata abbia mitragliato una nave di pescatori (forse senza colpirli) e che l’ipotetica e fantasmagorica nave greca abbia mitragliato un’altra (o la stessa) nave di pescatori, per giunta colpendola.

Siamo ai limiti dell’assurdo, di peggio si potrebbe solo arrivare a pensare che non fossero pescatori ma pirati. Ma bisogna per l'appunto sostenere che fossero pirati: altrimenti come giustificare il fatto che gente armata e pagata da noi fosse lì? Bisognava infatti tutelare le merci dai pirati.

Ma proviamo a crederci. Siamo quasi nella migliore tradizione della scienza investigativa italiana, siamo prossimi alla teoria del malore attivo di Pinelli. Siamo al ridicolo o alla cattiva coscienza.

Ma non importa. Prendiamola per buona, diamo la colpa ancora una volta ai greci e sventoliamo il tricolore. Ci credete? Vi sentite a posto con la vostra coscienza? E con la vostra intelligenza? Se sì, abbandonate la lettura di questo articolo. Tutto risolto?

No, invece. Perché gli indiani non ci credono e hanno il dovere di non crederci e di portare avanti le loro indagini. Fossi in loro non ci crederei neanch’io.

E infatti non ci credo ma sarei felice di sapere che in mio nome (malgrado tutto, c’è chi potrebbe pensare all’estero che come italiano io condivida le scelte dei governi del paese in cui sono nato) non siano stati ammazzati due pescatori del Kerala di origini Tamil.

Io me lo auguro che i due soldati italiani non abbiano ucciso i due pescatori. Mi risulta difficile crederci, ma quasi lo vorrei. Not in my name. Ma sono scettico, perché di solito in questo mondo chi uccide porta una qualche divisa e chi muore è disarmato.

Ma se anche le cose stessero in maniera diversa da come sostengono gli indiani, l’unico modo per sapere come le cose sono andate davvero è lasciare che siano gli indiani a condurre le indagini. Non che anche la loro giustizia non conosca abusi. Ce ne hanno eccome.

Non che anche i loro poliziotti non uccidano a casaccio. Non che sia una bella situazione finire nei guai con le autorità locali anche da quelle parti. Vi assicuro che non scherzano e che è facile, come ovunque, come anche da noi, ritrovarsi in una montatura.

Ma in questi frangenti loro hanno più possibilità per andare in fondo alle cose. Perché da noi la verità, come in tanti altri casi in passato, come nel caso del Chermis, o come nel caso delle tanti morti all’interno di caserme e prigioni (Cucchi e Bianzino, per citarne solo un paio), non emergerebbe mai.

Riassumiamo la questione. Dimentichiamoci le lenzuolate dei giornali, le sparate nazionaliste del fascista al microfono di turno, quelle dei suoi omologhi indiani del BJP, le menate contro Sonia Gandhi… sono tutte figure di un balletto delle parti ridicolo che non mi interessa.

Lo ripeterò fino alla noia: quel che conta è che due lavoratori disarmati che guadagnavano una miseria facendo un lavoro bellissimo e dignitoso sono stati uccisi in nome di interessi di classe (che non sono i nostri) da gente venuta da lontano, pagata con i soldi tolti alle scuole e agli ospedali. Che sia Italia (probabile) o Grecia (tant’è), lo vedremo. In ogni caso questo è ingiusto, è ignobile.

Ma il peso più grave è ancora sulle spalle degli indiani, e non sui politici o sui parlamentari ma sui poveri pescatori che devono guadagnarsi il pane sfidando il neocolonialismo e la violenza degli stranieri: ancora una volta gli europei si presentano in India con le vesti del generale Dreyer e dei suoi cecchini.

La risposta degli indiani non può passare dai soliti slogan del BJP o dello Shiv Sena ma deve recuperare tutta la radicalità dei freedom fighter industani: Down with imperialism. Inquilab Zindabad.

PS: Il presidente del consiglio Monti parlando davanti a una platea di ufficiali ha pronunciato il termine Kerala sbagliando l'accento, come se fosse una parola piana e non sdrucciola.

Probabilmente il professore sull'India non è granché preparato, ma una cosa buffa, che la dice lunga sull'indipendenza critica dei nostri mezzi di informazione, è il fatto che immediatamente alcuni telegiornali italiani, a cominciare da La7, hanno "copiato l'errore" dal professore, spostando l'accento sulla penultima sillaba.


Sulla crisi diplomatica italo-indiana
di Stefano Vernole - www.eurasia-rivista.org - 22 Febbraio 2012

Intervista a Gianandrea Gaiani*, sulla crisi diplomatica apertasi tra Italia e India a seguito dell'arresto di due militari italiani. Sono accusati dell'omicidio di due pescatori, morti mercoledì scorso a bordo del peschereccio St.Antony, in acque internazionali a largo delle coste indiane.


Le chiedo innanzitutto un suo parere su come realmente si sarebbero svolti i fatti: chi materialmente ha ucciso i due pescatori indiani? E’ plausibile la versione di Nuova Delhi, che ne attribuisce la responsabilità ai due marò italiani?


La verità non è ancora ben definita, non è ancora ben chiara, quindi è difficile poter dare delle risposte complete a questa domanda, però io guardo i riscontri oggettivi: questi pescatori indiani hanno lamentato di essere stati colpiti da raffiche di armi automatiche a due miglia e mezzo dalla costa indiana, dal porto di Kochi, quindi più o meno all’altezza dell’ancoraggio che c’è davanti al porto e che viene usato dalle navi che vi entrano.

La nave italiana, la Enrica Lexia, si trovava a oltre trenta miglia dalle coste indiane, aveva subito un avvicinamento ostile che poteva far presupporre un’azione pirata quattro ore prima, forse anche di più, intorno a mezzogiorno e mezza, in acque internazionali, al largo quindi; come hanno detto i nostri, questo attacco si è risolto con qualche raffica in mare che ha fatto allontanare il peschereccio.

Invece l’attacco di cui parlano i pescatori, che avrebbe provocato i due morti, è avvenuto nelle acque indiane, a due miglia e mezzo, e non trentatré, dalla costa, e soprattutto è avvenuto verso sera, quasi al tramonto; quindi non combacia il luogo e non combacia il posto.

Cosa c’è invece di ambiguo nella posizione indiana? Tantissime cose, ad esempio il fatto che, guarda caso, l’ International Maritime Bureau (IMB) ha reso noto di aver avuto una segnalazione di tentato attacco pirata proprio in quel posto, a due miglia e mezzo al largo del porto di Kochi, da una petroliera greca, la Olympic Flair , che ha dato l’allarme all’IMB, al centro di soccorso marittimo di Mumbai, e alla Guardia costiera indiana.

Allora non si capisce per quale ragione la nave che è stata coinvolta in un supposto attacco, nel luogo dove i pescatori dicono di aver subito queste raffiche che hanno ucciso due pescatori, viene lasciata tranquillamente andare per la sua strada, mentre invece viene invitata a presentarsi nel porto di Kochi la nave italiana che aveva anche lei comunicato un tentato attacco, ma in un luogo diverso, in acque internazionali e diverse ore prima.

Qui non c’è un errore o un misunderstanding, qui c’è una malafede, confermata dal fatto che gli indiani si sono rifiutati finora di effettuare autopsie ed esami balistici dei proiettili trovati sulla barca, sul peschereccio e sui corpi dei due cadaveri. Questo crea più di un motivo per dubitare della buona fede degli indiani.

Perché tutto questo, sul piano delle procedure di indagini, non viene fatto in modo professionale? Il motivo, come ho anche scritto sul “Sole 24 Ore”, può essere, a mio parere, uno solo: l’India, che si vuole presentare come una grande potenza, che è uno dei paesi emergenti, che vuole svolgere un ruolo di potenza navale nell’Oceano Indiano ed è in prima fila nel combattere la pirateria somala, vuole nascondere la pirateria domestica, che ha in casa.

E’ vero infatti che nel subcontinente indiano sono frequenti gli attacchi ai mercantili, anche se sono attacchi diversi da quelli della pirateria somala, non sono organizzati, non si sequestrano navi ed equipaggio per chiedere riscatti; è una pirateria, quella indiana, più da cialtroni, di pescatori che di notte salgono a bordo delle navi alla fonda nel largo dei porti, razziano valori e contanti e se ne vanno.

Questo tipo di pirateria è molto frequente lungo le coste del Bangladesh, ma ci sono in media almeno una decina di casi all’anno denunciati, più forse altri non denunciati, al largo dei porti dell’India; pertanto attribuire questa azione agli italiani serve a coprire probabilmente una realtà che l’India vuol nascondere, e cioè che anche lei ha i suoi pirati, anche se sono pirati raffazzonati che attaccano le navi alla fonda dentro le acque territoriali.

Se appare abbastanza evidente l’ingenuità della Marina italiana che ha consentito il fermo dei nostri due militari da parte della polizia indiana, ritiene che il Governo italiano, tanto esaltato dai mass media per la sua presunta autorevolezza in campo internazionale, si sia mosso tempestivamente e con la dovuta efficacia? Non era subito evidente la pericolosità di questa crisi diplomatica con l’India? Se dovesse protrarsi, ritiene possibili anche ripercussioni economiche per le nostre aziende che operano in India?

Andiamo con ordine. Io credo che la Marina abbia subito questa vicenda. Il comandante della nave mercantile non risponde alla Marina militare mentre i nuclei militari a bordo dei mercantili hanno una loro catena di comando, rispondendo alla base italiana che c’è a Gibuti, che è quella che gestisce questi team imbarcati sui mercantili, la quale risponde alla Difesa, al Comando della Marina a Roma, al COI, Comando Operativo di vertice Interforze.

I marines italiani “San Marco” a bordo, non sono agli ordini del comandante della nave mercantile, il quale mantiene il comando della sua nave. Quindi quando il comandante della nave “Enrica Lexia” ha ricevuto la richiesta dalla guardia costiera indiana per entrare nel porto di Kochi per fornire dei chiarimenti, è lui che ha deciso di entrarci, facendo un errore madornale.

Quindi il problema è l’ingenuità di fondo dell’armatore, ma soprattutto un vuoto di potere, un vuoto esecutivo del Governo italiano e del Ministero degli Esteri, perché nel momento in cui abbiamo deciso di imbarcare nuclei armati sopra navi mercantili per proteggerli da aggressori esterni, da pirati, bisognava mettere in atto delle procedure per cui una nave mercantile che viene attaccata in acque internazionali non si fa invitare da nessun paese ad entrare nelle sue acque territoriali per fornire chiarimenti.

Il diritto internazionale parla chiaro: se una nave, di qualunque nazione, in questo caso italiana, viene attaccata o ha un incidente in acque internazionali, vale il diritto di bandiera, e cioè l’inchiesta la fa la legge italiana, non la fa la legge del paese più vicino con le sue coste.

Questa è una legge che è precisa, internazionale e che il nostro governo, la Farnesina, avrebbe dovuto precisare ai mercantili che imbarcano scorte militari – io mi auguro lo abbiano fatto – o magari invece, solo ingenuamente, il comandante della nave ha ceduto alle richieste indiane.

Ci dovrebbero essere delle procedure precise in questo senso e la Marina le ha subite, perché nel momento in cui la nave è entrata in quel porto indiano e la polizia è salita a bordo, addirittura qualcuno ha detto armi in pugno, di fatto il fallimento è stato della Farnesina.

Il nostro ambasciatore in India avrebbe dovuto provare ad impedire tutto questo, perché la nave italiana è territorio italiano, perché un militare non può essere processato o interrogato dalla giustizia civile di un paese straniero. Gli unici che possono processare od inquisire i militari sono le autorità dello stato stesso del militare o i tribunali internazionali dell’ONU qualora si ravvisino reati o accuse di crimini contro l’umanità o crimini di guerra.

Per cui il comportamento indiano è totalmente arbitrario, non c’è nessuna legge che preveda che un nostro militare debba rispondere ad un giudice indiano o di qualunque altro paese, né che possa essere detenuto. Anche se per ora sono solo ospiti in un bungalow e non dentro ad un carcere, potrebbero presto cambiare le cose. L’errore qui è stato dell’Italia, della diplomazia italiana, del Ministero degli Esteri.

Per quanto riguarda il Governo, qui ci sono due problemi. Uno è quello pratico che abbiamo visto adesso, cioè la totale incapacità del nostro Governo di far valere il nostro diritto. Il secondo problema è mediatico.

Gli unici che hanno parlato ai media internazionali sono stati gli indiani, per almeno due o tre giorni. Questo ha consentito che tutta la stampa mondiale desse un ampio risalto alla tesi indiana, alle opinioni e alla valutazioni indiane che, come abbiamo visto, hanno nascosto un comportamento non solo ambiguo per quanto riguarda il problema della petroliera greca che, probabilmente, è la nave coinvolta nell’incidente. Un comportamento sfacciatamente illecito nei confronti dell’Italia e dei diritti degli italiani e soprattutto dei militari.

Uno dei motivi per cui l’Italia sta mantenendo un atteggiamento morbido con l’India sono probabilmente i rapporti economici. E’ vero che noi abbiamo tanti affari con l’India ma anche l’India ha tanti affari con noi, ad esempio l’India ha bisogno della nostra tecnologia per costruire la sua portaerei. E’ anche vero che ci sono tantissimi lavoratori indiani che lavorano in Italia e che la gran parte delle navi mercantili che battono bandiera italiana hanno a bordo marinai indiani.

Quindi è vero che l’atteggiamento morbido che ha l’Italia verso l’India, che sta compiendo un sopruso, può essere anche determinato dal giro di affari che abbiamo con quel paese, però credo che queste considerazioni economiche, per un Governo che decidesse di usare più coraggio e di salvare l’onore della Patria, debbano essere un’arma a doppio taglio, nel senso che anche l’India ha interessi a mantenere rapporti con noi.

Non siamo solo noi ad essere interessati a fare business con loro, ma c’è anche un interesse indiano ad acquisire nostre tecnologie e anche nostri investimenti, di avere nostre imprese laggiù; quindi credo che l’aspetto del business dovrebbe essere un’arma da utilizzare in maniera quantomeno paritaria. Non solo un’arma con la quale l’India ci può imporre di “calare le braghe” ma anche un’arma che potremmo usare per indurli a cambiare atteggiamento.

Credo che purtroppo adesso partiamo da una situazione in salita, in grande difficoltà, C’è una possibilità, e la notizia è di qualche ora fa, rappresentata dall’invio del sottosegretario Staffan De Mistura, che è un uomo di grande esperienza internazionale e che potrebbe forse cambiare le cose.

Le ultime dichiarazioni del sottosegretario agli esteri indiano, Preneet Kaur, dimostrano ancora una volta che, di fronte ad un tentativo italiano di ammorbidire i toni, di trovare un’intesa, c’è una risposta indiana molto dura, e questo è anche un po’ il frutto del fatto che l’Italia non ha mostrato una grande determinazione nel voler risolvere la crisi, anche alzando i toni.

I nostri soldati, ricordiamolo, rischiano di essere processati in una situazione senza precedenti, in un paese che per altro prevede la pena di morte; noi italiani andiamo a fare pressioni sugli USA perché applicano la pena di morte e poi lasciamo che i nostri militari vengano interrogati e forse processati da un paese che la applica.

Il rischio più importante sul piano militare, è che tra i soldati italiani – e ricordiamo che questi due marò sono due soldati in missione, non erano là in vacanza – questa situazione porti la gran parte di loro a pensare, in maniera giustificata, per non dire giusta, che il loro lavoro e la loro tutela sono sacrificabili. Che li porti a sentirsi abbandonati da uno Stato che invece gli ha mandati in quella missione e che quindi ha il dovere di tutelarli.

Se questo dovesse succedere, è un rischio pericolosissimo perché di fatto vai a demotivare e a far sentire figli di nessuno coloro che difendono l’Italia e gli italiani. Questo credo sia alla fine di tutto il danno peggiore che l’Italia, con il suo atteggiamento “calabraghista”, corre. Abbiamo tanti militari impegnati all’estero e sarebbe un pessimo segnale se pensassero di essere sacrificabili per due affari o per due contratti di export o per ragioni di opportunità diplomatica.

Non ritiene surreale che la Marina militare italiana debba essere impiegata per fare da scorta a navi private? Questa triste vicende non potrebbe essere l’occasione per portare all’attenzione pubblica il problema della pirateria, in particolare dell’occupazione straniera della Somalia, che inevitabilmente genera questo tipo di conseguenze?

La Somalia non mi pare che sia occupata, magari lo fosse! Se la Somalia fosse occupata da dei paesi che mantengono un regime di occupazione non ci sarebbero i pirati.

Purtroppo la Somalia è terra di nessuno, è in mano ai signori della guerra, ad un finto governo che non controlla forse neppure gli uomini che dice di avere ai suoi ordini, è in mano a milizie islamiste che sono tra l’altro anche jihadiste per loro definizione, ha eserciti stranieri come quello del Kenya o dell’Etiopia che occupano alcune regioni ma senza riuscire a controllarle.

Io credo che sia il caos somalo che ha determinato la pirateria, ma al di là questo io credo che il problema della pirateria in Somalia sarebbe risolvibile in 48 ore: invece di spendere un paio di miliardi di euro all’anno per navi da guerra che stanno laggiù per far finta di scortare navi mercantili e a far finta di contrastare i pirati, contro i 160 milioni di dollari che i pirati incassano dai riscatti, faremmo prima a dare direttamente in tasca ai pirati 160 milioni di dollari perché la smettano di attaccare le navi mercantili. Almeno spenderemmo meno. La mia è ovviamente una battuta.

Ma credo che il problema serio sia che le flotte internazionali che sono là si limitano a fare contrasto in mare ai pirati quando basterebbero 48 ore per spazzare via con le armi qualunque tortuga di pirati lungo la costa.

Del resto il diritto internazionale lo consente, una risoluzione dell’Onu di alcuni anni fa prevedeva anche l’impiego di forze militari internazionali a terra contro i pirati, quindi attacchi sulla costa.

Basterebbe la volontà per spazzarli via a cannonate dai mari e dalle coste. Però nessuno lo fa, schiacciati come siamo da logiche politically correct. Il problema dei pirati anzi lo foraggiamo, basti pensare che i pirati quando vengono catturati, siccome nessuno li vuole processare, spesso vengono poi anche liberati dopo essere stati nutriti.

Insomma, la gestione della guerra, chiamiamola così, contro i pirati somali, è una vergogna per l’intero mondo civile perché ci stiamo facendo prendere in giro forse da 4-5 mila somali che sequestrano, spesso uccidendo, usando violenza a dei civili; perché i marinai imbarcati sui mercantili sono dei civili, ricordiamolo.

Detto questo, che riguarda un po’ il preambolo alla domanda che mi ha fatto, io credo che l’impiego della marina, dei marinai del San Marco per proteggere i mercantili sia una misura utile anche se non esclusiva, nel senso che tutti i paesi hanno dovuto affrontare il problema di proteggere i mercantili perché le flotte da guerra non sono in grado di proteggerli tutti. La gran parte dei paesi hanno optato per l’imbarco di guardie private, di security contractors, società private, ex militari di solito, che fanno questo mestiere.

La Francia ad esempio imbarca dei suoi soldati sui suoi mercantili. L’Italia ha scelto una legge che consente entrambe le cose, ma finora gli unici ad essere impiegati sono i fanti di Marina, perché il regolamento che dovrebbe accompagnare la legge per consentire l’imbarco di guardie private non è stato ancora messo a punto.

E’ anche emerso che c’è una forte resistenza nella Marina a consentire che questo lavoro venga affidato a dei privati, cioè che gli armatori possano affidarsi anche a delle guardie private. E’ una gestione che la Marina cerca di avere per sé.

L’impiego di contractors privati, o di militari armati come nel caso francese, sui mercantili è un sistema che ha risolto il problema nel senso che tutte le navi che hanno a bordo personale di scorta militare o civile non sono mai state sequestrate e quando c’è stato qualche tentativo di attacco i pirati hanno subito cambiato idea appena hanno visto che dalla nave gli sparavano addosso dei professionisti che sapevano sparare e che spesso sapevano centrare il bersaglio.

Quello delle scorte è un sistema di difesa passiva che protegge le navi ma non risolve ovviamente il problema della pirateria, non elimina i pirati, non li insegue, non gli dà la caccia, protegge la singola nave.

E’ un sistema efficace che ha un costo per gli armatori, competitivo rispetto alle polizze assicurative che devono pagare per proteggersi il carico, la nave e l’equipaggio dal transito in acque controllate dai pirati.

Tutto questo va bene finché queste navi mercantili mantengono la loro sovranità nazionale, rimangono in acque internazionali o ormeggiano in paesi dove c’è un accordo in base al quale i nostri militari possono scendere e aspettare la nave successiva.

I militari italiani hanno questa base, per questo tipo di attività, a Gibuti, poi scendono dalle navi alle Seychelles, oppure nello Sri Lanka oppure in Oman, a seconda delle rotte che percorrono le navi che entrano o escono dal Mar Rosso, e poi salgono sulle navi che fanno il percorso opposto.

Nel momento in cui, come è accaduto per la “Enrica Lexia”, una nave viene convinta da un altro stato, viene invitata ad entrare nelle sue acque internazionali per subire addirittura un processo, un’ azione penale, a questo punto è chiaro che ci si trova in una situazione difficilmente gestibile perché abbiamo non solo i marinai ma addirittura i militari finiti in una situazione ingestibile e che è illecita sul piano internazionale.

Finisco con una domanda: se fossero stati altri soldati, non italiani, ma francesi, inglesi, americani, – in tal caso ci sarebbero già due portaerei e una mezza flotta davanti al porto di Kochi –, l’India avrebbe avuto lo stesso atteggiamento irrispettoso ed irriverente in violazione di qualunque legge internazionale che ha avuto in questo caso con gli italiani?

*Gianandrea Gaiani ha seguito sul campo tutte le missioni militari italiane. Dirige Analisi Difesa, collabora con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il Foglio e Libero ed è opinionista del Giornale Radio RAI e Radio Capital.


Voglio essere graco
di Alessio Mannino - www.ilribelle.com - 23 Febbraio 2012

Mentre la Grecia brucia, a Roma impera il fatalismo idiota dei servi. In Italia gli indignati sono spariti, i forconi si sono ammosciati, le destre e le sinistre istituzionali banchettano al centro, Napolitano sermoneggia senza limiti, Monti fa gli inchini alla comunità finanziaria di Wall Street e si fa dire quando pisciare all’imperialista di velluto Obama, e lei, nostra signora Bce, con il grande sacerdote Mario Draghi domina incontrastata.

Teppisti e pecoroni

I pochi, sparuti “teppisti”(1) politici e intellettuali che s’azzardano a far stecca sul coro gregoriano - laude, laude al dio mercato e alla divina Eurolandia - e cioè i soliti revanscisti rossi e neri, gli antagonisti, i signoraggisti, Grillo, Chiesa, i decrescisti, ribelli e cani sciolti vari sono oscurati o ridicolizzati, come da prassi. La masse tace, imbelle, pronta al taglio della gola, già essiccata e afonizzata dalle mazzate torturatrici note come decreto salva-Italia e decreto cresci-Italia.

Per quale motivo non scoppiano non dico rivolte, ma almeno focolai di protesta, come sarebbe naturale aspettarsi contro una tecnocrazia bancaria che aumenta le tasse, fa strame di diritti sociali e per giunta agita il ditino spiegandoci che la merda liberista è oro?

Lo ha scritto come meglio non si potrebbe il sempre corrosivo Marco Cedolin (2), e perciò lascio volentieri la parola a lui: «La ragione in fondo è di una semplicità disarmante. Avete mai visto dei cittadini andare a protestare, senza essere stati chiamati a farlo da qualcuno? Che si trattasse di un partito, di un sindacato, di un’organizzazione, di un movimento o di un comitato, alla base di qualsiasi protesta c’è sempre stato un soggetto che chiamava il popolo a raccolta. … Ogni soggetto potenzialmente pericoloso è stato cooptato, affinché si prodigasse per tenere la gente ermeticamente chiusa in casa, magari davanti alla Tv, di fronte a qualsiasi decisione venisse presa».

La favoletta della “medicina amara”

Fatta la diagnosi, procedendo all’inverso descriviamo i sintomi della malattia. Siamo come in una bolla d’ovatta, in cui la realtà che pur viviamo sulla nostra pelle non è compresa perché filtrata da un immaginario completamente falsato, manipolato dai chierici dell’informazione, stravolto da un racconto infantile ammanitoci come unica verità possibile.

Questa: there is no alternative, l’austerity è una medicina amara contro cui si può scalciare ma che va ingollata. Un po’ come l’olio di fegato di merluzzo, una tremenda schifezza che un tempo si credeva salutare, salvo poi scoprire che non serviva a un bel niente.

Oggi, con le supposte prescritte dal dottor Monti è molto peggio: non soltanto non fanno il nostro bene, ma hanno il criminale difetto di legarci alla catena del mondo globalizzato e dei suoi poderosi business privati. Ci ammazzano di tagli e sacrifici e ci dicono che lo fanno per il nostro bene. Monti e i banksters come novelli Torquemada, la nuova inquisizione sub specie Europae.

Eppure capire dove sta l’inganno non è difficile, basta compiere un comune ragionamento di do ut des, solo spostandolo dal piano individuale a quello collettivo. Quando ciascuno di noi mira ad un obiettivo e questo comporta una serie di sforzi e privazioni, accettiamo di sopportarne il peso se esso ci è chiaro e siamo certi che costituirà un vantaggio palpabile, concreto – e non solo in termini pratici e di tornaconto, ma anche, dio voglia, ideali, nobili. Sacri, appunto.

L’etica del sacrificio è doverosa. Non così la retorica, che è retorica appunto perché il sacro per cui ci si sacrifica non è sacro per niente, e non assicura alcuna convenienza, nessun ritorno di maggior benessere, economico o esistenziale che sia.

E questo è il caso dell’imperativo categorico che non da oggi, ma da decenni, per lo meno da quando abbiamo i calzoni corti noi che siamo trentenni, i signori del denaro e i loro maggiordomi dei partiti ci fanno passare come inderogabile, immarcescibile, indefettibile: stringere la cinghia, che per molti significa far la fame per un miraggio chiamato “crescita”.

Questa benedetta crescita non è mai abbastanza, perché per sua interna logica non ha mai fine, è senza posa, infinita. E così lo diventano anche i torchiamenti, fiscali, lavorativi, sociali a cui veniamo sottoposti dagli illuminati che la sanno sempre più lunga – perché loro capiscono e interpretano per i mortali il verbo delle agenzie di rating, delle banche centrali e di quei benefattori disinteressati e puri di cuore che fanno il bello e il cattivo tempo nelle piazze borsistiche. Siamo schiavi rassegnati ad esserlo e illusi di non esserlo, e questo è tutto.

Reich europeo

Il tabù Europa è un caso da manuale. Ci avevano raccontato, i sapienti europeisti, che l’unione degli Stati del vecchio e caro continente doveva realizzarsi a tutti i costi, ma proprio a tutti, pena un ritorno alle guerre e chissà quali altre immani catastrofi.

Risultato: non c’è stata alcuna effettiva federazione politica, bensì un’operazione di eugenetica istituzionale che ha messo una facciata di pseudo-democrazia (il parlamento-parlatoio di Strasburgo, la commissione-specchietto per le allodole di Bruxelles) ad un sostanziale e illegale potere legibus solutus della Banca Centrale di Francoforte, in stato di minorità rispetto all’omologa Fed americana e terminale degli interessi dei grandi istituti di credito e d’affari, specialmente tedeschi.

I trattati che hanno costruito l’edificio di cartapesta eurocratico ne hanno modellato i contorni secondo un progetto fatto su misura per le esigenze e le idiosincrasie della Germania.

Perciò, economie e società come quella italiana o spagnola, ma anche della stessa Francia, diverse – grazie al cielo – dal rigorismo matematico e ragionieristico di Berlino, sono state letteralmente violentate, costrette ad adeguarsi a politiche di bilancio e del fisco che non collimavano con i propri bisogni, ma con quelli del Reich finanziario.

Amato, Ciampi, Prodi – ma mettiamoci dentro pure il Berlusca, che opposizione all’eurocrazia non ne ha fatta mai, vedi ratifica plebiscitaria dell’esiziale Trattato di Lisbona, anno 2007 – erano tutti entusiasti nell’operare alacremente per fare dell’Italia un paese economicamente e politicamente subalterno alla Grande Germania, condannandolo ad una vita di dolori senza una degna contropartita. Questa violenza ha un nome preciso: euro, la moneta col debito intorno.

Bell’affare abbiamo fatto, mentecatti europeisti senza se e senza ma… Le fiamme e i saccheggi della Grecia disperata non insegnano nulla, benché avrebbero molto da dirci, poiché la cura omicida che ha fatto stramazzare e impazzire il cavallo ellenico è la stessa che propinano a noi, con tanto di inviati dell’Fmi a monitorare – leggi: controllare, non si sa mai – le scelte del duo Monti-Napolitano.

Ma si vede che bisogna proprio giungere a non avere più niente da perdere nel vero senso della parola, per alzare la testa e guardare agli esempi di un’altra via – all’Argentina, all’Islanda, al Venezuela, o almeno alla Gran Bretagna e alla Danimarca, che nell’Ue sono presenti ma si sono ben guardate dall’adottare la moneta unica.

L’articolo dei cretini

E se anche questo non basta e volete una prova del pecorismo italiano che più prova non si può, si consideri il tema che fa da padrone nell’agenda setting nazionale: l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che tutela le maestranze delle aziende con più di 15 di dipendenti dal licenziamento senza giusta causa.

C’è un arco costituzionale di pensiero che va da chi vorrebbe abolirlo tout court (un ex ministro Sacconi che si dice ancora socialista pur essendosi tramutato in un ircocervo, mezzo liberista e mezzo catto-talebano) a chi lo vorrebbe modificato senza troppi fondamentalismi, ammettendone comunque la sostanza, che è la possibilità di licenziare per sole cause economiche, ovvero a discrezione dell’imprenditore (un Damiano della sinistra Pd, per capirci).

Ora, sinceramente ci appassiona poco il dibattito che si è riattizzato dopo il vittorioso muro che eresse la Cgil di Cofferati nel 2001.

È sommamente cretino fissarsi su questo punto, ancorchè altamente simbolico – e i simboli in politica contano parecchio – se poi si lascia correre il bulldozer turbo-liberista a schiacciare tutto ciò che incontra.

Voglio dire: che senso ha incaponirsi su un articolo di uno statuto superato e che fa acqua da tutte le parti quando la diga è già rotta da quel dì, dal pacchetto Treu (centrosinistra, 1996) e dalla legge Biagi-Maroni (centrodestra, 2000)? Invece di stare sempre sulla difensiva, la sinistra sindacale dovrebbe giocare d’iniziativa e proporre un sistema di relazioni contrattuali completamente rinnovato.

Ma per far questo dovrebbe esistere una sinistra politica degna di questo nome, cioè dotata di una cultura teorica. Discutere di decrescita volontaria, economia locale e sovranità monetaria è come parlare arabo, con gente come la Camusso, ma anche come Landini o Cremaschi, industrialisti di tre cotte.

Su questo, come sanno i nostri lettori, abbiamo abbandonato ogni speranza da anni: la sinistra non soltanto è un esempio preclaro di imbecillità, ma oltretutto è pappa e ciccia col padrone, sia consapevolmente quando lo professa in tutta la sua plateale ingenuità (sto parlando di quella cosa denominata Pd), sia quando si ammanta di ultra-conservatorismo retorico da un lato e rivoluzionarismo parolaio e fuori tempo dall’altro (la poetica vendoliana, le pippe vetero-marxiste dei residuali partitini falce e martello).

Vorrei essere greco

Ci sarebbe da dire due parole anche sulla religione che issa la Nato e l’alleanza-sudditanza agli Usa come totem intoccabili ed eterni quando invece sono in rovinoso declino (la sconfitta in Afghanistan contro i Taliban ne è l’emblema), ma mi fermo qui, esausto.

Dico solo che vorrei essere argentino, islandese, venezuelano, persino afgano o anche greco, ma italiano no, italiano non vorrei esserlo più.

Ma tant’è. L’arma che so usare, la penna, la uso comunque per la mia idea d’Italia e di mondo anche se i miei compatrioti dormono il sonno dei beoti. Aristofane: «Chiunque è un uomo libero non può starsene a dormire».


Note:

1. Scriveva Giuseppe Prezzolini a proposito della “Settimana rossa” nel 1914: «Si possono fare rivoluzioni senza “teppa”? Non lo crediamo. Le rivoluzioni non si fanno né con gli studiosi, né con la gente in guanti bianchi. Un teppista conta più d’un professore d’università quando si tratta di tirar su una barricata o di sfondare la porta d’una banca. (…) Con la “gente per bene” il mondo non andrebbe avanti. E se talora è necessario uno strappo, una violenza (“la violenza è la matrice delle nuove società”, disse Marx, e il culto della violenza ci è stato insegnato da Sorel), chi chiameremo a compierla? (…) Un idealista non deve considerarle [le torbide forze che parlano coll’incendio e colla distruzione] come un borghese chiuso nelle quattro assi di quella bara che è suo interesse particolare. (…) la “teppa” di ieri è la nobiltà di oggi. La “teppa” di oggi potrebb’essere la nobiltà di domani», La Voce, giugno 1914.

2. M. Cedolin, “Cambieremo il modo di vivere degli italiani”, 9 febbraio 2012 http://ilcorrosivo.blogspot.com/2012/02/cambieremo-il-modo-di-vivere-degli.html


Che mondo è?
di Marco Cedolin - http://ilcorrosivo.blogspot.com - 27 Febbraio 2012

Che mondo è quello in cui un ragazzo di 37 anni deve salire su un traliccio dell'alta tensione e sfracellarsi al suolo, per difendere il futuro della terra in cui vive, dalla mafia del cemento e del tondino che vuole farne scempio, per ingrassare bulimici patrimoni bancari?.....

Che mondo è quello in cui i lavoratori si ammazzano, perchè gia assassinati un momento prima dal mercato del lavoro, che mercifica la vita umana e fa scempio della dignità?.......

Che mondo è quello dove ti stanno togliendo tutto e se ti azzardi a protestare arrivano squadre di picchiatori legalizzati a bastonarti e gasarti perfino dentro le carrozze dei treni?

Che mondo è quello dove il cittadino giace addormentato dai pifferai delle penne a servizio e dai teleimbonitori e neppure si rende conto di essere stato ormai deprivato di tutto, ad iniziare dalla propria umanità?

E' mai possibile che si sia stati tutti lobotomizzati così in profondità da far si che l'unica strada presente nella nostra mente sia quella della muta rassegnazione?

Sicuramente Luca ha molto da insegnarci, anche dal letto di ospedale, perchè ha rifiutato di morire dentro, come stiamo morendo tutti noi.

domenica 19 febbraio 2012

News Shake

News Shake...notizie a caso ma non per caso...



Crack in vista? Scoperti 6000 miliardi di bond Usa falsi
di Tyler Durdan - www.zerohedge.com - 17 Febbraio 2012

Tornando all’estate 2009, circolava una strana storia di due individui giapponesi arrestati nel tentativo di contrabbandare 134$ miliardi in bond americani dall’Italia alla Svizzera.

La storia poi velocemente passò in secondo piano dopo che venne dichiarato che i bond era titoli al portatori fasulli. Da allora non si è più saputo niente.

Fino ad oggi, quando di punto in bianco salta fuori una nuova storia. Secondo Bloomberg, “I procuratori antimafia italiani hanno affermato di avere sequestrato la cifra record di 6$ trilioni di presunti bond americani, un ammontare pari quasi alla metà del debito pubblico americano.”

Da cui la storia diventa ancora più strana: “I bond sono stati trovati nascosti in un compartimenti improvvisati in tre cassette di sicurezza a Zurigo” affermano i pubblici ministeri della città di Potenza in una dichiarazione.

Aggiungono che le autorità italiane hanno arrestato otto persone coinvolte in quest’indagine denominata “Operazione Vulcanica”.

L’ambasciata americana a Roma ha esaminato i bond datati 1934, con un valore nominale di $1 miliardo a pezzo, hanno dichiarato in una nota ufficiale. Gli ufficiali dell’ambasciata non hanno commentato.

E ancora più strano: “Gli individui coinvolti stavano pianificando di comprare plutonio da fonti nigeriane, secondo quanto rilevato da intercettazioni telefoniche della polizia.”

E molto molto strano: “La frode costituisce una ‘severa minaccia’ alla stabilità finanziaria internazionale, dichiarano i procuratori.”

Bene, comunque non si capisce come 6$ trilioni in bombe chiaramente false possano costituire “una minaccia alla stabilità finanziaria.”

Inoltre da Bloomberg : “La forde finanziaria scoperta dai procuratori italiani a potenza comprende due assegni emessi dalla HSBC Holding Plc a Londra di 205.000 sterline ($ 325.000), assegni non coperti da fondi disponibili, hanno aggiunto i procuratori. Nell’indagine sono stati sequestrati anche $2 miliardi di bond fasulli a Roma.

Il portavoce di HSBC Patrick Humphris a Londra, contattato telefonicamente, rifiuta ogni commento.

In Italia sono state sequestrate obbligazioni americane in passato e ci sono stati almeno tre casi nel 2009. La polizia italiana ha sequestrato bond del Tesoro Americano con un valore di facciata di 116$ miliardi nell’agosto 2009 e di 134$ miliardi nel giugno dello stesso anno.

Il servizio segreto americano stima circa 100 casi all’anno su obbligazioni e altri strumenti fittizi.

Come promemoria il debito totale americano in circolazione è di oltre 10$ trilioni. Quindi se i presunti bond fasulli sono sufficienti per minacciare la stabilità finanziaria internazionale, cosa potrebbe succedere?

Dalla BBC:

Agenti americani confermano che i bond erano contraffatti

Anche precedentemente sono stati sequestri bond in almeno tre casi nel 2009
Ma questo è un caso diverso dai precedenti i titoli falsi hanno un valore pari quasi alla metà dell’intero debito USA

“Tutto è iniziato con delle indagini all’interno dei clan mafiosinell'area del Vulture-melfese,nel sud della Basilicata” ha dichiarato il Procuratore della Repubblica Giovanni Colangelo.



E se il prossimo crack fosse in Cina?
di Aldo Giannuli - www.aldogiannuli.it - 13 Febbraio 2012

Nella scorsa settimana è accaduto un evento di grandissima importanza in Cina, che i mass media italiani hanno sottovalutato e frainteso. L’arresto di Wang Lijun, noto come un superpoliziotto e capo delle forze di sicurezza di Chongqing, megalopoli da 30 milioni di abitanti, oltre che braccio destro di Bo Xilai, popolarissimo segretario del Partito della città e astro nascente a livello nazionale, nella campagna contro le triadi e la corruzione lanciata da quest’ultimo.

Questo avvenimento è destinato, con ogni probabilità, ad avere forti ripercussioni sul prossimo congresso del Pcc che, ricordiamolo, è il più grande avvenimento politico dell’anno insieme alla elezione del presidente Usa.

Ma, prima di esaminare questo caso (ne parleremo a breve) ci sembra il caso di fare un quadro della situazione economica e sociale della Cina che è tutt’altro che tranquilla.

Come già abbiamo segnalato a settembre, è esploso il problema del debito pubblico a causa di quello prodotto dalle amministrazioni locali. Si stimava che esso fosse di circa 1.600 miliardi di dollari e si è scoperto che supera i 10.000.

D’altro canto, la Cina deve fare i conti con una vampata inflazionistica che, nel 2010-11, secondo i dati ufficiali, è salita al 6% nel 2011 colpendo in particolare i due principali beni alimentari dei cinesi, il riso ed il maiale che ha registrato un rincaro, su base annua, del 39% nel 2011 provocando forti agitazioni sociali.

In ottobre/novembre la stretta creditizia aveva fatto alzare l’inflazione di un paio di punti, ma a gennaio ha ripreso a correre.

Nello stesso tempo, la stretta creditizia, decisa per fermare l’inflazione ha prodotto lo sgonfiamento della bolla immobiliare seguita all’immissione di liquidità di fine 2008: ad Hong Kong ci sono 250.000 case sfitte ed anche il “Quotidiano del popolo” parla di una “crisi dei subprime in stile cinese”: in diverse città della costa il crollo dei valori immobiliari ha oscillato fra il 30 ed il 50% con punte del 70%.

C’è stata, poi, un’altra conseguenza indesiderabile della stretta creditizia: la ripresa dell’endemico fenomeno della “finanza grigia” (usura). Le autorità monetarie di Pechino parlano di finanziamenti bancari per circa 350 miliardi di euro girati dai beneficiari a terzi, ma ovviamente ad interessi ben maggiori. Il fenomeno si è rapidamente esteso e già nell’autunno del 2011 ha dato risultati assai preoccupanti:

L’incremento delle esportazioni, a causa della recessione in Europa e Giappone, rallenta e questo può essere un guaio molto serio per la Cina dove, ogni anno si riversano nelle città 15 milioni di contadini, per dar lavoro ai quali, occorre un incremento del Pil non inferiore all’8% con una percentuale di reinvestimento della metà sul totale del Pil stesso.

Tutto questo sta determinando una serie di effetti a catena.
Nel settembre 2011, per la prima volta in assoluto, si è registrato un deflusso di capitali dalla Cina verso l’estero.

I segnali di pericolo di un crak cinese si sono moltiplicati: ad esempio l’aumento di valore assoluto dei Cds (Credit Default Swaps): per la Cina ora ammontano a 8,3 miliardi di dollari, nella graduatoria mondiale il decimo più elevato (più del Portogallo e della Bank of America), ma, solo due anni fa il totale di Cds sulla Cina era solo di 1,6 miliardi di dollari e la Cina era al 227° posto nella graduatoria mondiale.

Ancora: l’indice elaborato dalla Deutsche Bank riferito alle aziende internazionali molto esposte alla Cina, in un anno è sceso del 40% segnalando una fuga dal rischio cinese o “sindrome di Pechino”.

La recessione nei paesi occidentali, già nell’autunno 2011, ha iniziato a propagare la sua onda verso i Bric, oltre che la Cina, anche India e Brasile hanno iniziato ad accusare il colpo.

Secondo l’Ocse, il Pil cinese nel 2012 crescerà meno del 9%, la percentuale più bassa da dieci anni in qua.

Tutto questo accade mentre si estende la protesta sociale: la stima degli scontri fra polizia e manifestanti è passata da 100.000 del 2010 a 150.000 nel 2011; nelle città del sud della costa si è verificata una nuova ondata di scioperi in estate e nel Tibet si è riacceso il movimento indipendentista.

Roubini prevede un crak cinese ma non prima del 2013-14, dopo il congresso del partito, ma altri, come Jim Chanos, fondatore dell’hedge fund Kynkos, ritengono che il crak sia già iniziato con la forte flessione immobiliare.

Ci sembra più realistica la previsione di Roubini, ma questo dice in quali condizioni il Pcc si stia avviando al suo congresso.



Gli Stati Uniti vogliono una guerra a colpi di swift contro l'Iran
di Pepe Escobar - Asia Times - 17 Febbraio 2012
Traduzione per
www.comedonchisciotte.org a cura di Alessia

Cosa credeva il branco di barboncini europei, che Teheran si sarebbe piegata e avrebbe accettato l’embargo sul petrolio imposto dall’Unione Europea che dovrebbe iniziare dal primo luglio?

Senza dubbio Bruxelles si è trovata spaesata come un cervo in mezzo a un’autostrada quando hanno iniziato a circolare la notizie che Teheran avrebbe anticipato la sua mossa, sbattendogli in faccia un embargo sull’esportazione di greggio contro sei paesi dell’Unione Europea in profonda crisi, ossia quei membri del Club Med, Portogallo, Italia, Grecia, Spagna insieme alla Francia e all’Olanda colpite dalla recessione.

Non c’è voluto molto tempo perché il Ministro iraniano del Petrolio e il Ministro degli Esteri smentissero questa decisione, che tecnicamente, avrebbe dovuto annunciare ufficialmente il Supremo Consiglio Nazionale di Sicurezza, che fra l’altro si occupa dei negoziati sul nucleare.

Ma solo un sordo, stupido e cieco non avrebbe colto il messaggio: il risultato delle ridicole e controproducenti sanzioni/embargo europee sarà l’ulteriore sprofondamento di porzioni sempre più vaste di Europa in situazioni di forte sofferenza economica.

L’Iran fornisce 500.000 barili di petrolio al giorno all’UE. La sola minaccia di un embargo all’Iran ha provocato un picco nei prezzi del petrolio.

Supponendo che le nazioni del Club Med riescano a rifornirsi di petrolio da altre fonti, cosa che non è scontata dato che l’Arabia Saudita vuole mantenere alti i prezzi del petrolio in maniera categorica, questi dovrebbero riqualificare le loro raffinerie per trasformarlo. Inevitabilmente ci sarebbe penuria di benzina; l’italiano medio, per esempio, è già furioso per l’impennata dei prezzi della benzina dal distributore.

Forse quelle decine di migliaia di inutili burocrati di Bruxelles che portano in giro le loro cartelline colorate dovrebbero fare qualcosa di sensato e mandare una lettera a Washington congratulandosi ufficialmente per il fatto che gli americani stanno impoverendo ulteriormente decine di milioni di cittadini dell’UE.

Nel dubbio, inondalo di altre sanzioni

Sicuramente gli avvoltoi, gli sciacalli e le iene a favore del cambio di regime/guerra non estingueranno mai la loro sete di sanzioni. Gli Stati Uniti stanno obbligando ora l’UE a tagliar fuori l’Iran dallo SWIFT, con base a Bruxelles, il meccanismo/camera di compensazione di telecomunicazioni indipendente usato da tutte le banche per scambiarsi dati finanziari (il suo nome ufficiale è Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunications). La stessa Banca Centrale dell’Iran potrebbe esserne vittima.

In parole povere, SWIFT è la ruota che muove le transazioni e il mercato globale. Quindi, se non è una dichiarazione estesa e remixata di guerra economica contro un paese, non so cosa altro sia.

Funzionerà? Difficilmente. Rappresenterà sicuramente un’ulteriore devastazione scatenata contro “la popolazione iraniana”, la vaga entità contro la quale gli USA non hanno nulla di personale.

Più di quaranta banche iraniane utilizzano SWIFT per processare le transazioni finanziare, e gli iraniani lo usano come chiunque altro in un’economia globalizzata.

Tutto ciò trascinerebbe nel fango la reputazione di neutralità e affidabilità che lo SWIFT ha cautamente preservato sinora; immaginate le reazioni di altri paesi membri al fatto che anche loro possono essere totalmente marginalizzati in relazione a un capriccio degli Stati Uniti.

Per non parlare del fatto che Washington non può dire a SWIFT cosa fare; infatti sta esercitando una pressione non discreta, in stile mafioso, sugli europei. Il “messaggio” è stato recapitato personalmente da David Cohen, il Sottosegretario americano del Dipartimento del Tesoro per il terrorismo e l’intelligence finanziaria.

E tutto questo per cosa? Secondo l’indefessa, soffocante raffica di notizie sparata dai media corporativi occidentali, “forse” è per guadagnare tempo in modo che l’amministrazione Obama possa “persuadere” il guerrafondaio e nuclearizzato governo del Likud di Israele a non attaccare l’Iran questa primavera.

Tenete d’occhio Golia

Intanto, secondo l’Organizzazione Iraniana dell’Energia Atomica, il paese ha sviluppato centrifughe di quarta generazione fatte di fibra di carbonio che sono “più veloci, producono meno residui e occupano meno spazio”, dato che ruotano a velocità supersonica per purificare l’uranio.

Le prime barre di combustibile arricchite al 20% e prodotte in Iran sono state installate nel Teheran Research Reactor, non una fabbrica di bombe ma un impianto civile volto a produrre isotopi curativi per il trattamento di tumori; questo dovrebbe permettere al Research Reactor di operare indipendentemente da qualsiasi interferenza straniera.

Per fugare ogni dubbio, Teheran ha inviato una lettera all’UE dichiarandosi disponibile a che i P5+1 - i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU più la Germania - tornassero a riunirsi seriamente al tavolo delle contrattazioni per il dossier nucleare iraniano.

Vediamo cosa vuol dire.

È una miniatura persiana molto sofisticata perché gli europei si prendano il disturbo di decodificarla. Teheran sta dicendo: vogliamo sinceramente avere un dialogo con voi; ma non abbandoneremo il nostro programma nucleare civile; e se continuate a trattarci come dei cani, con queste sanzioni, con l’embargo e ora con la questione dello SWIFT, possiamo applicare una pressione molto forte sulle vostre economie già al collasso.

Chiunque scommetta sul fatto che i disorientati politici europei e i loro sherpa riescano a capirlo, difficilmente vincerà il jackpot.

Poi c’è la stupida accusa che i recenti bombardamenti avvenuti o tentati a Delhi, in Georgia e a Bangkok rappresentano la rappresaglia di Teheran per l’assassinio di cinque scienziati nucleari civili in Iran, avvenuto per mano del gruppo terroristico iraniano Mek su ordine del Mossad israeliano.

Se e quando Teheran avrà intenzione di colpire gli interessi israeliani potrà farlo più vicino a casa propria, e sicuramente ha le competenze operative per farlo senza lasciare traccia.

La possibilità che Teheran invii agenti iraniani in paesi asiatici amici come l’India e la Thailandia - come nel caso dei tre scagnozzi a Bangkok che mostravano apertamente il loro passaporto e anche i loro rial - è campata in aria e va al di là di ogni immaginazione. Questi sono solo diversivi; la questione è che bisogna scoprire chi li sta manipolando.

Se l’isteria promossa da Washington/Tel Aviv è già ad un punto critico, attendete fino al 20 Marzo, quando la borsa petrolifera iraniana inizierà a vendere petrolio con altre valute oltre al dollaro americano, preannunciando l’arrivo di un nuovo indice monetario la cui denominazione sarà in euro, yen, yuan, rupie o un paniere di valute.

Questo favorirà i clienti asiatici, dai membri dei BRICS India e Cina agli alleati degli Stati Uniti Giappone e Corea del Sud, per non parlare del membro NATO Turchia. Ma converrà anche ai clienti europei pagare il greggio con la propria moneta.

Teheran come molti altri membri chiave del mondo in via di sviluppo vuole affondare i petroldollari. Potrebbe essere la rivincita di Davide su Golia.



I Rothschild vogliono le banche iraniane
di Pete Papaherakles - http://americanfreepress.net - 10 Febbraio 2012

Inserisci linkÈ possibile che il conseguimento del controllo sulla Banca Centrale della Repubblica Islamica d'Iran sia uno dei motivi principali per cui l'Iran si trova ad essere oggetto di attenzioni minacciose da parte delle forze occidentali e israeliane?

Dal momento che si percepisce una sempre maggiore tensione che suggerirebbe l'imminenza di una inconcepibile guerra con l'Iran, è opportuno esplorare il sistema bancario iraniano e confrontarlo con quelli statunitense, britannico e israeliano.

Alcuni ricercatori fanno notare che l'Iran è uno dei soli tre paesi rimasti al mondo la cui banca centrale non sia sotto il controllo dei Rothschild. Prima dell'11 settembre esistevano, a quanto pare, sette paesi con tale caratteristica: Afghanistan, Iraq, Sudan, Libia, Cuba, Corea del Nord e Iran.

A partire dal 2003, tuttavia, Afghanistan e Iraq sono stati inghiottiti dalla piovra Rothschild; dal 2011 la stessa sorte è toccata a Sudan e Libia. In Libia una banca dei Rothschild è stata istituita a Bengasi mentre ancora imperversava la guerra.

L'Islam vieta l'addebito di interessi, il che costituisce un problema rilevante, nella prospettiva del sistema bancario dei Rothschild. Fino a pochi secoli fa, la pratica di disporre interessi sul credito era vietata anche nel mondo cristiano, e talora punita con la pena capitale. Era paragonata allo sfruttamento e alla schiavitù.

Da quando i Rothschild hanno rilevato la Banca d'Inghilterra attorno al 1815, il loro controllo ha cominciato ad espandersi sulle banche di tutto il mondo. Il loro metodo è quello di far accettare un prestito ingente a un politico corrotto di un dato paese: si tratta naturalmente di un prestito che quel paese non è in grado di ripagare, e che lo conduce all'indebitamento con la potenza bancaria dei Rothschild.

L'esponente della classe dirigente che si rifiuta di accettare il prestito è spesso spodestato o ucciso. Se non ci si riesce, si può arrivare all'invasione, con successiva installazione di una banca usuraia dei Rothschild.

I Rothschild esercitano un'influenza considerevole sulle principali agenzie di stampa mondiali. La narrativa riprodotta in serie da queste ultime induce le masse a credere a racconti horror che parlano di criminali malvagi.

I Rothschild controllano la Banca d'Inghilterra, la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca dei Regolamenti Internazionali. Posseggono anche la maggior parte dell'oro del mondo, così come il London Gold Exchange che fissa quotidianamente il prezzo dell'oro.

Si dice che la famiglia possegga più della metà della ricchezza del pianeta, stimata dalla Credit Suisse in 231 trilioni di dollari, e che sia controllata da Evelyn Rothschild, attuale capo famiglia.

Ricercatori obiettivi sostengono che il motivo per cui l'Iran viene demonizzato non è legato a una presunta minaccia nucleare, così come non erano minacce i talebani, l'Iraq di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi.

Qual è, dunque, il vero motivo? I trilioni in gioco nel giro d'affari del petrolio o quelli dei profitti di guerra? Si tratta di portare a compimento la bancarotta degli Stati Uniti o di cominciare la Terza Guerra Mondiale?

Si tratta di distruggere i nemici di Israele o di distruggere la Banca Centrale Iraniana, in modo che non si possa sfuggire al controllo finanziario dei Rothschild?

Il motivo vero potrebbe essere ognuno di quelli citati, o, peggio, potrebbero essere tutti insieme



Denuclearizzare l'Iran o l'intero Medio Oriente?
di Sergio Romano - Panorama - 17 Febbraio 2012

Israele ha già distrutto con una incursione aerea gli impianti nucleari di due paesi vicini. Ha colpito il reattore iracheno di Osiraq nel giugno 1981 e quello in costruzione di Al-Qibar in Siria nel settembre 2007.

È questa la ragione per cui molti sospettano che il governo di Benjamin Netanyahu voglia fare altrettanto, nelle prossime settimane, contro le installazioni nucleari iraniane di Natanz e Qom.

Qualcuno pensa addirittura che la decisione sia favorita da due contesti elettorali. Netanyahu ha vinto le primarie del suo partito (il Likud) e si prepara a nuove elezioni che potrebbero avere luogo prima della fine dell'anno.

Barack Obama attende nervosamente le presidenziali di novembre, quando il suo avversario sarà probabilmente il repubblicano Mitt Romney, moderato ma in materia d'Iran alquanto bellicoso.

In una situazione dominata dalla crisi iraniana, Netanyahu si presenterebbe ai suoi connazionali come un leader in trincea, impegnato nella difesa dei supremi interessi nazionali, e avrebbe buone possibilità di conservare il potere.

Obama è stato contrario all'intervento militare israeliano e ha fatto del suo meglio, per scongiurarlo; ma dovrebbe astenersi, per motivi di convenienza politica, dal condannarlo troppo duramente.

Se lo facesse, darebbe a Romney, agli evangelici, ai neoconservatori e alla lobby filoisraeliana l'occasione per parlare di lui come di un presidente fiacco e imbelle, insensibile ai reali interessi del paese.

Ma è davvero certo che l'Iran sia ormai prossimo alla costruzione di un ordigno nucleare? I «bollettini di guerra» da cui siamo stati bombardati nel corso degli ultimi anni ci hanno fornito indicazioni diverse e spesso contraddittorie.

Verso la fine del secondo mandato della presidenza di George W Bush vi è stato perfino un rapporto, scritto dalla maggiore organizzazione dell'intelligence degli Stati Uniti, in cui era avanzata l'ipotesi che l'Iran avesse rinunciato, al programma nucleare militare. In realtà abbiamo poche notizie verificabili e quelle che ci vengono impartite rispondono spesso agli interessi e agli scopi di chi le mette in circolazione.

L'ultimo rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Atea) denuncia severamente le reticenze dell'Iran, ma qualcuno potrebbe chiedersi se la nebbia in cui il regime degli ayatollah avvolge il suo programma nucleare non serva anche a impedire interferenze e intrusioni esterne.

L'assassinio di alcuni tecnici iraniani e il virus che ha inceppato il funzionamento delle centrifughe di Natanz possono forse spiegare le reticenze di Teheran. Il rapporto dell'Aiea, d'altro canto, non ha interrotto le visite dei 'suoi ispettori.

Negli scorsi giorni, mentre tinti discutevano la possibilità di un attacco israeliano, i tecnici dell'agenzia erano in. Iran per una nuova ispezione.

Non possiamo escludere che il governo di Teheran voglia costruire un ordigno atomico e' dobbiamo cercare di evitarlo.

Ma dovremmo ricordare, per non perdere di vista il quadro generale, che il paese è circondato da potenze nucleari e che nella disputa israelo-iraniana il paese nucleare è Israele (circa 300 testate), non l'Iran.

Se il governo dello stato ebraico gettasse sul tavolo dei negoziati la proposta di un'area mediorientale denuclearizzata, la sua denuncia della politica iraniana diventerebbe molto più credibile.

E la mossa gli garantirebbe una maggiore simpatia internazionale in un momento in cui ne ha grande bisogno.



Come si abbattono i regimi
di Giulietto Chiesa - Megachip - 18 Febbraio 2012

Raramente scrivo recensioni. In genere, quando non sono costretto a farlo da ragioni di convenienza, o per soddisfare le pretese di autori molto insistenti, scrivo di libri che mi piacciono, o che intendo proporre ad altri lettori perchè li ritengo utili, o perchè offrono angoli visuali originali.

In questo caso il libro in questione non mi è piaciuto per niente. Anzi l’ho trovato irritante. Il suo autore è sostanzialmente un poveraccio (intellettualmente parlando s’intende), che esce come un pulcino inzuppato di ideologia – intesa come falsa coscienza – dalla lavatrice del pensiero unico.

Un esegeta, dunque, della Matrix in cui ha vissuto, del tutto incapace di vedere i suoi confini. Una specie di protagonista da “Truman show”, ma privato di ogni possibilità di redenzione.

Perchè ne scrivo, dunque? Perchè – come avrebbe detto Leonardo Sciascia – il contesto che rappresenta è straordinariamente interessante, ricco di informazioni su come si pensa, cosa si pensa, come si agisce nei centri della sovversione, quei posti dove vengono elaborate le vere strategie e tattiche rivoluzionarie dei tempi moderni.

Tempi in cui, per essere precisi, le rivoluzioni le fa il Potere, non i rivoluzionari d’un tempo, non i mitici anarchici, non i popoli, non i partiti, non i soviet, o comunque si siano chiamati in passato, fino al secolo XX incluso.

E qui è subito opportuna una serie di notazioni non a margine. Forse utile per quei lettori che ancora pensano, appunto, con le categorie dei tempi andati; di quelli che, non essendosi aggiornati, non avendo fatto alcuno sforzo per capire quali cambiamenti sono intervenuti nei rapporti di forza, nelle dinamiche economiche e sociali, nei sistemi di informazione e comunicazione, nelle tecnologie della manipolazione, continuano ad applicare le teorie rivoluzionarie dell’epoca delle lotte di classe così come fu descritta, e creata, a partire dalla rivoluzione francese.

Ma queste note a margine, che sono la ragione vera per cui scrivo queste righe, potrebbero forse servire anche per coloro che rivoluzionari non sono, e non intendono essere, ma che semplicemente non hanno mai provato a cimentarsi intellettualmente con il problema del Potere.

E, essendo totalmente impreparati a farlo, non sono capaci di capire come il Potere agisce per mantenere se stesso. Con quale ferocia, un Potere – ferocia tanto più grande quanto più grande è questo potere – usa gli strumenti dei quali dispone. Il Potere non è mai “dilettante”. E’ un mestiere. E agisce sempre per la vita o per la morte.

Ora gl’intellettuali sono spesso inclini a ragionare proiettando sugli altri la loro visione del mondo. Quando lo fanno sulle persone prive di potere commettono sempre dei guai, ma talvolta questi guai sono di secondaria importanza, perchè le persone normali non hanno potere. Ma quando questa proiezione si esercita nei confronti del Potere, essa può divenire esiziale, sia per chi la fa (cioè per gl’intellettuali stessi), sia per chi ci crede, cioè per i lettori dei loro libri, dei loro scritti, dei loro articoli, delle loro conferenze.

Se dunque tu cercherai di descrivere una lotta politica del Potere contro i suoi antagonisti come se fosse una partita di scopone, probabilmente finirai male (soprattutto se sei dalla parte degli oppositori al Potere).

Il quale non gioca a carte, se si sente in pericolo: liquida, squalifica, esclude, se necessario uccide. Questo dettaglio sfugge alla gran parte degl’intellettuali e a quasi tutti i giornalisti.

Quelli, tra questi ultimi, cui non sfugge, di regola si mettono dalla parte del Potere e così smettono di giocare a carte anche loro. Gli altri, i maggiormente stupidi, continuano a giocare a carte, essendo spesso utili a impedire a tutti gli altri di capire cosa fa il Potere.

Questo spiega perfettamente perchè il libro di Gene Sharp è stato scritto: per loro.

Ovvio che con quelle categorie interpretative autoreferenti, non solo non si può vincere niente, ma non è più nemmeno possibile capire chi attacca e chi si difende, dov’è il campo di battaglia, chi sono i contendenti.

Quando si discute con questi orfani della ragion politica non è difficile rendersi conto, per esempio, che questo vacuum quasi assoluto di analisi porta spesso costoro a pensare di essere all’offensiva su inesistenti tenzoni, mentre stanno subendo sconfitte clamorose nei campi reali dove la battaglia è in corso, ma dove loro non ci sono. Appunto perché sono altrove.

I mulini a vento sono ciò che vedono questi Don Chisciotte modernissimi. La differenza tra loro e il loro prototipo consiste in un solo, enorme dettaglio. Quello della Mancia sognava per conto proprio. Questi sono stati ipnotizzati dal Potere, e vengono condotti per mano dove questo vuole.

Il libro è, in sostanza, la descrizione di come l’Impero, morente, diventa sovversivo per difendersi. E’ un manuale della “rivoluzione regressiva”: l’unica rivoluzione esistente, che segnerà gli ultimi decenni che precedono il crash finale di questo sistema. Il quale, non avendo più futuro, è costretto a pensare a ritroso. E lo fa utilizzando l’ultimo strumento che ha a disposizione: le tecnologie.

E’ per questo che riesce ad apparire moderno agli occhi di milioni di giovani, che – immersi come sono nella Grande Piscina dei Sogni e delle Menzogne – non riescono a guardare “fuori” e a vedere la complessità della manipolazione cui sono soggetti.

L’autore si chiama Gene Sharp e non è un ragazzino, visto che è classe 1928. Come abbia vissuto fino ai giorni nostri è faccenda non misteriosa. Basta guardare su Wikipedia la sua modesta carriera di sovversivo.

In questa specialità emerge al termine di una lunga vita nell’ombra, pubblicando un libro il cui titolo originale – “From Dictatorship to Democracy” – richiama subito alla memoria Francis Fukuyama, quello della “fine della storia”.

L’editore italiano è Chiarelettere, per altri aspetti benemerito, ma in questo caso completamente abbacinato anch’esso dall’ideologia imperiale.

I confini di Matrix, come sappiamo, sono vasti e appiccicosi. Nell’ultima di copertina l’editore italiano ci informa che Sharp “è ritenuto tra i principali ispiratori delle rivoluzioni che stanno sconvolgendo il mondo arabo”. Definizione riduttiva.

In realtà Gene Sharp (diciamo la sua scuola di pensiero, sebbene chiamarla in questo modo faccia correre qualche brivido nella schiena) è l’ispiratore di tutte le esportazioni della democrazia americano-occidentale dell’ultimo trentennio.

Di quelle innescate e vinte, come di quelle tentate e perse. E’ bene ricordarlo, perchè nonostante il Potere sia l’unico rivoluzionario esistente, non è detto che le rivoluzioni che tenta le vinca tutte. Qualche volta le perde.

Comunque Sharp è il profeta, appunto, delle “rivoluzioni regressive”. Per questo merita tutta l’attenzione da parte nostra, di noi che siamo le sue vittime, i suoi bersagli.

Lui, di sè, dice: “Ero a Tien an men quando i carri armati ci sono venuti addosso” (La Repubblica, 17 febbraio 2011). Capito dove stava? Forse era lui quel giovanotto che fermò la colonna dei carri armati sotto l’Hotel Pechino.

A quanto pare fu dappertutto. C’era lui dovunque sorgessero le rivoluzioni , come i funghi, specie dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sicuramente Gene Sharp era anche quel rude picconatore che sgretolava a martellate il famoso Muro di Berlino.

E’ stata la sua tavolozza a fornire i colori delle varie rivoluzioni del ventennio passato, da Belgrado a Tirana, a Pristina a Kiev, a Tbilisi. Quando Gene Sharp non era presente di persona, sembra di capire che “ispirava” da lontano.

Il libro risulta tradotto in quasi trenta lingue, sicuramente in arabo, in russo e in cinese. E si capisce il perché, leggendolo. Perché le centrali sovversive guardano già a Mosca e San Pietroburgo, a Pechino e Shanghai. Si capisce anche che contenga qualche contraddizione, come accade a tutti i bestsellers.

La tesi centrale del libro è che ogni dittatura può essere abbattuta, “purchè la ribellione nasca dall’interno”. Ovvero: purchè sembri che essa nasca dall’interno.

Viene in mente subito la Libia. E, ai giorni nostri, la Siria, o anche la Russia.

Infatti Gene Sharp spiega subito che, per nascere dall’interno, se non ci arriva da sola, la ribellione, deve “essere ispirata” da qualcuno. Ecco: il libro di Sharp è un manuale per formare gli “ispiratori”. Per questo – ma Sharp non lo dice – è sufficiente avere molti soldi, a decine e centinaia di milioni.

Infatti, queste ribellioni avvengono di regola – così è stato fino ad ora – nei luoghi dove i redditi sono bassi, più bassi, e dove il denaro è l’arma principale per “ispirare”. Senza questo “differenziale” di ricchezza, non c’è ispirazione che tenga.

E il primo suggerimento da dare agl’ingenui che non conoscono il Potere è proprio quello di chiedersi: come mai gl’«ispirati» che Gene Sharp cerca sono tutti nei paesi che soffrono di quel differenziale?

Non sarà che, ad essere «ispirati», sono gl’intellettuali dei paesi più poveri? Con i proventi di quel differenziale si possono finanziare centinaia e migliaia di borse di studio, di grants per professori universitari, che accorreranno nelle università britanniche, americane, francesi, tedesche, nei think-tank occidentali, dove verranno educati in piena libertà ad amare solo i valori occidentali, e dove vedranno aprirsi autostrade per le loro carriere future. In patria dopo la vittoria, all’estero in caso di sconfitta. E’ così che si delinea il provvidenziale aiuto dall’esterno.

C’è, per questo, e opera da decenni, una possente rete di istituzioni specificamente ad esso destinate, costruite, finanziate. Da “Giornalisti senza frontiere”, solo per fare qualche esempio, ai vari Carnegie Endowment for International Peace, agli Avaaz che raccolgono firme a tutto spiano, e che a volte sembrano davvero delle centrali missionarie, moralizzatrici, libertarie, ecologiche, verdi, comunque molto colorate. Ci sono, per questa bisogna, radio come Free Europe, Radio Liberty, Deutsche Welle e via elencando.

Ci sono televisioni satellitari, una marea di siti web, che sono impinguate di piccoli eserciti di “ispiratori” dall’esterno, che trasmettono incessantemente, foraggiano, spingono, descrivono le lotte per i diritti umani, per la democrazia; che fissano le scadenze delle rivoluzioni, delle “primavere”, degli aneliti alla libertà d’impresa, al mercato.

Se, per esempio – com’è accaduto recentemente – il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve votare una risoluzione di condanna del governo siriano che troverà il veto di Russia e Cina, ecco che l’”ispirazione” giungerà puntuale a muovere tutti i media occidentali perchè annuncino stragi in diverse città siriane.

Mancheranno fonti attendibili e conferme, ma basterà per questo pubblicare i dati forniti da Avaaz, non si sa come raccolti, oppure quelli di Al Jazeera e di Al Arabiya, la cui attendibilità è ormai pari a quella della CNN, cioè uguale a zero.

Non insisterei su tutti questi noiosi dettagli se non avessi assistito di persona alle modalità con cui sono state finanziate e organizzate le rivoluzioni colorate in Jugoslavia, in Ucraina, in Georgia, in Cecoslovacchia, e prima ancora con il meraviglioso prototipo di Solidarność in Polonia, che ebbe come “ispiratore” principale, sotto il profilo ideologico e finanziario, niente meno che il Vaticano del – per questo – beatificato Karol Wojtyła.

Operazioni che, nel centro d’Europa, continuano tutt’ora attorno all’”ultima dittatura”, quella di Aleksandr Lukašenko in Bielorussia, accerchiata dalle radio e dalle televisioni che, pagate dall’Unione Europea, trasmettono dai territori appena conquistati del Prebaltico e della Polonia.

Naturalmente – sarà opportuno ricordarlo per prevenire le geremiadi di coloro che mi accuseranno di sostenere i dittatori più o meno sanguinari – in molti di questi casi le repressioni sono esistite ed esistono.

Naturalmente la corruzione e la palese assenza di democrazia di alcuni di quei regimi esistono e sono esistite. Naturalmente esistono e sono esistite forme di resistenza dei diritti umani che meritano tutta la nostra solidarietà.

Esse esistono, combattono in condizioni impari contro un Potere che è più forte di loro. Ed è appunto su di esse che si esercita l’”ispirazione” di cui scrive Gene Sharp.

Ed essa può fare conto sulla potenza sterminata del denaro, quando è sterminato; ma anche sull’ingenuità dei destinatari. I quali, costretti come sono sulla difensiva, sono straordinariamente penetrabili alle forme più sottili, più innocenti, più “giustificabili”, di corruzione.

E’ appunto maneggiando questa trappola che agiscono gl’”ispiratori” come Gene Sharp e i finanziatori che sono appollaiati sulle sue spalle.

Dunque la prima cosa che occorre fare, per capire cosa è successo e succede in tutti i paesi che si trovano dalla parte bassa del differenziale di ricchezza, è osservare l’evoluzione che si verifica proprio nei movimenti di ribellione: cioè come essi sono prima della cura cui vengono sen’altro sottoposti dagl’”ispiratori”, e poi dopo.

Questa analisi rivelerebbe curiose somiglianze tra la trasformazione che fu subita, per esempio, da movimenti come “Otpor”, a Belgrado e nella ex Jugoslavia, e la rinomata e ormai defunta “Rivoluzione Aarancione” in Ucraina. Si parte da qualche vecchio ciclostile, e si arriva con un contratto di insegnamento magari a Harvard. Resistere è difficile, per non dire impossibile.

All’inizio sono “ispirazioni”, poi diventano ordini, ai quali è impossibile resistere. E più il differenziale è alto, più è facile trovare decine, poi centinaia, poi migliaia di sinceri, sincerissimi “ispirati”.

Hic Rhodus, hic salta. E’ qui che bisogna avere il coraggio e la forza di distinguere i diritti sacrosanti che vengono violati, dai profittatori politici esterni (o anche interni) che li utilizzano per fini di conquista. C’è un criterio abbastanza semplice per distinguere. Basta conoscere chi finanzia.

Se, per esempio, ci sono buone ragioni per pensare che sia l’Arabia Saudita a comprare armi e a assoldare eserciti, ecco che si può stare certi che, appoggiando una data rivolta, non si lavora al servizio della democrazia e dei diritti, bensì si sostiene la barbarie e l’oppressione.

Ti mostreranno il contrario, naturalmente. E’ il loro mestiere. Lavorano per questo, ben pagati, 24 ore al giorno, tutti i giorni. Esempi preclari di questa circostanza sono l’UCK del Kosovo e la rivolta siriana.

Nel primo caso fu un intero esercito a essere organizzato, finanziato, istruito, appoggiato da fiumi di denaro provenienti da Riyād, da Washington, da Berlino, dalla Nato.

E non è un caso se il governo di Pristina che ne è emerso è un covo di criminali, le cui mani insanguinate vengono strette ora con calore a Bruxelles, in pieno ludibrio di ogni diritto umano e di ogni principio europeo di libertà e di rispetto dei diritti umani.

L’altro esempio è ora sotto i nostri occhi in Siria, dove l’evidenza mostra un intreccio complesso ma trasparente di aiuti esterni, ai ribelli provenienti da Israele, dalla Turchia, dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti d’America.

Non sono singole unità, sono centinaia, e poi migliaia di stipendi, di prebende, di consiglieri, di esperti. E poi, quando non bastassero i consigli e si dovesse fare ricorso alla forza, è la volta degli eserciti mercenari. E, quando essi vanno al potere e vincono, segue una lunga scia di sangue, di violenze, di vendette, di illegalità e di soprusi.

E, dunque, si può essere certi che, in caso di caduta del regime di Bashar el-Assad, quello che verrà dopo non sarà certamente il trionfo della libertà e dei diritti umani.

Si veda il caso, di nuovo, della Libia appena liberata dal “sanguinario” dittatore Gheddafi e in preda a masnade criminali che erano già tali prima che il conflitto cominciasse e che ora sono divenute padrone.

Insomma basta applicare l’antica regola del cui prodest. Che non è criterio certo al 100%, ma che funziona, in politica, quasi sempre. Ovviamente usando norme di cautela elementari, come quella di stare sempre attenti che gli organizzatori delle provocazioni le costruiscono sempre utilizzando alla rovescia proprio il principio del cui prodest.

Così, quando vi capiterà di trovarvi di fronte a un attentato terroristico qualunque, basterà che analizziate bene – per disinnescarlo - il cui prodest che vi viene offerto su un piatto d’argento.

Per esempio quando qualcuno assassinasse Vittorio Arrigoni, e voi sentiste da tutti i mass media, all’unisono, la rivendicazione di un non meglio identificato “gruppo salafita”, con tanto di sito internet e musichetta rivoluzionaria araba, dovreste immediatamente pensare che gl’ispiratori sono stati – faccio un esempio a caso - i servizi segreti israeliani.

L’edizione italiana di Gene Sharp mette in caratteri minori il titolo inglese e offre una nuova titolazione: “Come abbattere un regime”, e come sottotitolo offre un condensato ideologico da cento tonnellate di peso: “Manuale di liberazione non violenta”. Come non applaudire? Qui, sommersi nella melassa libertaria, si possono intravvedere diversi contenuti complementari.

Il primo è chiarissimo: noi siamo la democrazia, la libertà e la verità. Dunque abbiamo il diritto, se non addirittura il dovere, si insufflarla sugli altri. Meglio se negli altri. Chiunque si opponga al trionfo dei nostri ideali è parte del “Male”.

I dittatori sono tutti brutti e cattivi, e sono tutti gli altri: quelli che contrastano il Bene. Chi non li combatte con sufficiente convinzione è un alleato del Male.

Perchè esistano i dittatori, da dove vengano, come si siano formati, se abbiano qualche legittimità, se siano stati un prodotto della storia, chi li ha portati al potere, se siano stati nostri amici e alleati, se siano capi di stato o di governo riconosciuti dalle Nazioni Unite, se abbiano quindi diritti riconosciuti dalla comunità internazionale, se abbiano ragioni da rivendicare, di carattere storico o di emergenza, tutte queste sono questioni che non meritano di essere neppure prese in considerazione. Essi infatti sono “oppressori di popoli”.

I quali popoli, ipso facto, vengono sussunti all’interno del nostro sistema di valori. Essi, cioè, hanno i nostri desideri, i nostri impulsi, i nostri bisogni, le nostre aspirazioni.

La storia, le diverse storie dei popoli vengono, come per incanto, cancellate. E, come passo successivo immediato, occorre immaginare per loro conto quale dovrà essere la forma di governo che essi devono avere.

Il secondo contenuto implicito è questo: loro, i dittatori, sono violenti; noi, i democratici, dobbiamo essere non violenti. Purchè, naturalmente, il dittatore non riesca a mantenere soggetto il suo popolo. Nel caso ci riesca, poichè noi abbiamo deciso che può farlo solo grazie alla violenza, allora saremo autorizzati a esercitare a nostra volta la violenza.

O, per meglio dire, saremo autorizzati a “ispirare” l’uso della violenza da parte degli oppressi contro il “dittatore” che, nel frattempo avremo già definito “sanguinario”, autore di “massacri indiscriminati”.

E, giovandoci del differenziale a nostro favore, incluso quello mediatico, saremo riusciti a far diventare dominante la nostra narrazione degli eventi in tutto il mondo esterno.

Dunque, se vi sarà violenza, questa sarà interamente da attribuire alla “sacrosanta” reazione popolare alla “repressione” del dittatore. S’intende che questa “sacrosanta” reazione popolare sarà armata e organizzata mediante il differenziale di armi, munizioni, organizzazione, informazione, tecnologia.

Ma saranno comunque i pacifici manifestanti per la libertà a usare le armi contro il sanguinario dittatore e i suoi scherani.

E i morti saranno tutti, indistintamente pacifici cittadini, la popolazione civile innocente. Va da sé, inutile ricordarlo, che effettivamente la popolazione civile morirà in grande quantità.

L’essenziale è che i racconti e i filmati assegnino la responsabilità degli eccidi esclusivamente al dittatore sanguinario e ai suoi scherani. Che magari sono effettivamente scherani e sanguinari, ma che avranno la malasorte di essere considerati gli unici criminali che agiscono sul terreno.

Sarà utile non dimenticare che, mentre noi - che stiamo sulla parte alta del differenziale, e che leggiamo le cronache dalle nostre alture - applaudiremo alla rivolta pacifica dei popoli oppressi presi di mira dai dittatori efferati che abbiamo preso di mira, altri dittatori, proprio lì a fianco, insieme ai loro scherani sanguinari, saranno lasciati in piena tranquillità a opprimere i rispettivi popoli, godendo, nel fare ciò, del nostro più cordiale appoggio e sostegno. Questo dettaglio – lo ricordo di passaggio – viene sempre dimenticato dagl’intellettuali amanti dei diritti umani che ci stanno intorno e a fianco.

E, se glielo fai ricordare, si irritano accusandoti di cambiare discorso. Infatti uscire dalla narrazione del mainstream significa, per loro “cambiare discorso”. E, a pensarci bene, per chi conosce solo la narrazione del mainstream, uscirne anche solo per un attimo significa cambiare discorso.

Ma procediamo oltre. A questo punto il paese astratto che stiamo considerando si trova già in piena guerra civile. Il movimento di protesta ha già ricevuto le necessarie istruzioni per l’uso per colpire i “talloni d’Achille” di quel determinato regime. Perchè Gene Sharp sa perfettamente che ogni regime ha i suoi talloni d’Achille che, se bene individuati e colpiti, potranno farlo crollare di schianto.

Da qualche parte, possibilmente in un paese confinante, si trova già un’avanguardia bene organizzata, bene collegata con l’interno, bene integrata con il sistema informativo occidentale, capace di usare al meglio i social networks (tutti sotto il controllo e la guida dei centri di analisi occidentali).

Non sarà mica stato casuale se,all’inizio del 2011, poco dopo l’avvio della cosiddetta “primavera araba”, Obama e Hillary Clinton convocarono proprio i chief executive officers dei principali social network, di Google, Facebook, Yahoo and companies?

Per la verità quest’ultima è una evoluzione tecnologica che Gene Sharp non include nel suo manuale. Il libro è stato scritto prima che essa diventasse utilizzabile su larga scala e, sotto questo profilo, appare datato.

Ma il manuale di Sharp ha un pregio indubbio, quello di aiutarci a capire bene i meccanismi tradizionali, quelli che sono stati usati negli ultimi decenni e che – si può essere certi - non usciranno di moda.

Adesso in Siria, superata la fase dell’innesco della guerra civile, non c’è più nemmeno bisogno di fingere che, a combattere, siano solo i pacifici dimostranti armati oppositori del regime di Bashar el-Assad.

Ora si dice apertamente che centinaia di agenti americani, sotto la guida di David Petraeus, attuale direttore della Cia, sono impegnati a reclutare, in Iraq, miliziani delle tribù di confine perchè vadano a combattere in Siria.

La stessa cosa avviene attraverso la frontiera turca, dove agiscono i contingenti militari provenienti da Bengasi di Libia, comandati dai leader fondamentalisti islamici che, con l’aiuto della Nato, hanno abbattuto il regime libico.

E, dalla frontiera libanese, agiscono le bande del deputato di Beirut Jamal Jarrah, reclutatore di mercenari per conto dell’Arabia Saudita, uomo che fa da cerniera tra il pincipe Bandar, da un lato, e dall’altro – attraverso il nipote Ali Jarah – i servizi segreti israeliani.

Come dire: da un lato i dollari a camionate, dall’altro i migliori consiglieri militari e i più evoluti sistemi di intelligence di tutto il Medio Oriente.

Si aggiungano le bande di commandos che già da mesi operano dentro i confini siriani, con l’obiettivo specifico di uccidere Bashar e i suoi più stretti collaboratori, di collocare bombe, di far saltare gli oleodotti.

Sarebbe evidente, il tutto, se i pubblici occidentali lo sapessero. Ma non lo sanno, perchè la cronaca è scritta all’incontrario. E i “diritti umani” della popolazione siriana sono giù stati avvolti nello stesso sudario in cui è imbavagliata ogni verità.

Ma gl’intellettuali occidentali, insieme ai giornalisti, e assieme a una certa dose omeopatica di pacifisti, credono di sapere. L’esistenza del sudario non riescono nemmeno a immaginarla.

Sentenziano con l’aria di farci sapere che “a loro non la si fa”. Pensano di essere più intelligenti – avendo letto qualche romanzo giallo, o perfino avendolo scritto – dei professionisti che lavorano a tempo pieno per conto di un Potere che non sta giocando a carte.

Così, m’è venuto in mente, usando un altro gioco, di provare una mossa del cavallo. Cioè di andare a vedere, in retrospettiva, cosa avvenne, una ventina d’anni fa, in Lituania.

Anche lassù, molto lontano dal Medio Oriente, ci fu un inizio di guerra civile, quando l’Unione Sovietica stava per crollare. I lituani volevano l’indipendenza, e avevano diritto di chiederla. C’era un genuino movimento popolare che si batteva per questo. Fu sufficiente un inizio.

Poi tutto si concluse con la sconfitta dell’Impero del Male. Ci furono una ventina di morti a Vilnius, quando le truppe russe e il KGB occuparono la torre della televisione. L’accusa cadde su Gorbaciov, sui russi, i cattivi di turno, che furono accusati di avere sparato a sangue freddo sulla folla.

Quell’episodio è diventato il momento fondante della Repubblica indipendente di Lituania, ora uno dei 27 paesi dell’Unione Europea. Ma adesso sappiamo che tutta quella storia fu scritta da altre mani, ben diverse da quelle del “popolo lituano”.

Lo racconta ora Audrius Butkevičius, che divenne poi ministro della difesa della repubblica, e che, quel 15 gennaio 1991, organizzò la sparatoria.

Fu una operazione da servizi segreti, predisposta, a sangue freddo, con l’obiettivo di sollevare la popolazione contro gli occupanti.

Chiedo al lettore di sopportare la lunga citazione dell’intervista che venne pubblicata nel maggio-giugno 2000 dalla rivista “Obzor” e che è stata recentemente ripubblicata sul giornale lituano “Pensioner”. Sarà una fatica non inutile, perchè coronata da una preziosa scoperta, che ci aiuterà a capire diverse cose del libro di cui stiamo parlando.

«Non posso giustificare il mio operato di fronte ai familiari delle vittime – dice Buzkiavicius, che allora aveva 31 anni – ma davanti alla storia io posso. Perchè quei morti inflissero un doppio colpo violento contro due cruciali bastioni del potere sovietico, l’esercito e il KGB. Fu così che li screditammo. Lo dico chiaramente: sì, sono stato io a progettare tutto ciò che avvenne. Avevo lavorato a lungo all’Istituto Einstein, insieme al professor Gene Sharp, che allora si occupava di quella che veniva definita la difesa civile. In altri termini si occupava di guerra psicologica. Sì, io progettai il modo con cui porre in situazione difficile l’esercito russo, in una situazione così scomoda da costringere ogni ufficiale russo a vergognarsi. Fu guerra psicologica. In quel conflitto noi non avremmo potuto vincere con l’uso della forza. Questo lo avevamo molto chiaro. Per questo io feci in modo di trasferire la battaglia su un altro piano, quello del confronto psicologico. E vinsi».

Spararono dai tetti vicini, con fucili da caccia, sulla folla inerme. Come hanno fatto in Libia, come hanno fatto in Egitto, come stanno facendo in Siria.

Adesso avete capito. Gene Sharp era là, in spirito. Fu lui che insegnò a Buzkiavicius come vincere, “trasferendo la lotta sul piano psicologico”. Peccato che, lungo la strada, morirono 22 persone innocenti. Ma, “di fronte alla storia”, cosa pretenderanno i nostri difensori dei diritti umani?

Il libro di Sharp va dunque letto sotto un’altra luce. Ed è, sotto questa luce, un’opera geniale. E’ stato scritto proprio per le giovani generazioni, che sono ormai totalmente prive di ogni memoria storica, già omologate dalle televisioni, ora intrappolate nei social network, che non hanno mai fatto politica, che sono digiune di ogni forma di organizzazione.

Per questo è scritto con sconcertante semplicità, per essere compreso da un ragazzo o una ragazza della scuola media: per introdurli nella lotta politica e psicologica rese possibili dai tempi moderni, ma in modo tale che siano strumenti non in grado di capire ciò che fanno e per chi lavoreranno.

E’ un manuale per organizzare la “sovversione dall’interno”, di tutti i paesi “altri” rispetto all’America e all’Europa; per armare, con la “non violenza” le quinte colonne che devono far cadere tutti i regimi che sono esterni al “consenso washingtoniano”.

Questa operazione ha un solo “tallone d’Achille”. Che si potrebbe vedere, come fosse fosforescente, non appena si strappasse il tendaggio principale: l’assioma indiscutibile che “noi siamo la democrazia”.

Perché capiremmo tutti che la ribellione “non violenta”, che suggerisce Sharp, può essere diretta contro i nostri oppressori “democratici”, che hanno trasformato la democrazia in una cerimonia manipolatoria e senza senso.

Potremmo anche noi attuare tutti i suggerimenti di Sharp: dileggiare i funzionari del regime, fare marce, boicottare certi consumi, esercitare la non collaborazione generalizzata, attuare la disobbedienza civile.

In realtà, a ben pensarci, grazie professor Sharp, lo stiamo già facendo. Solo che non abbiamo, a sostenerci, i mercenari pagati con i denari dell’America. E possiamo anche noi citare, come fa Sharp, il deputato irlandese Charles Stewart Parnell (1846-1891) : “Unitevi, rafforzate i deboli tra voi, organizzatevi in gruppi. E vincerete”.

Solo che questa nostra democrazia è molto più subdola delle dittature. E dobbiamo sapere che, quando cominceremo ad abbatterla, per costruirne una vera, magari tornando alla nostra Costituzione, non avremo nessun aiuto dall’esterno.