giovedì 29 aprile 2010

Italia, un Pig da fare a fette ?

















Ritorniamo ancora a parlare di chi sta manovrando dietro le quinte, scommettendo in favore della bancarotta degli Stati (Grecia in primis).

Per poi accennare alla possibilita' che l'Italia, una volta finita nel vortice del collasso economico, non esista piu' come Stato unitario.


E ora gli speculatori di Wall Street puntano sul fallimento dei "Pigs"
di Federico Rampini - La Repubblica - 29 Aprile 2010

Obama in contatto con i governi europei: "Siamo preoccupati" Le banche d´affari soffiano sul fuoco dell´euro-panico: "Quei paesi sono come la Lehman" Il ministero della Giustizia Usa: gli hedge fund hanno concordato un attacco all´euro

Il contagio della crisi greca all´intera eurozona «preoccupa il presidente Obama». La Casa Bianca «segue gli sviluppi da vicino e si tiene in stretto contatto con i governi europei». Non è solo la frana dell´euro che preoccupa Obama. Washington osserva con nervosismo il ritorno dei "soliti noti", i giganti della speculazione che da Wall Street muovono all´attacco dell´eurozona.

È un copione sinistro, che alla Casa Bianca ricorda le tappe del collasso finanziario del 2008-2009. Sono cambiati i bersagli, stavolta sono gli Stati sovrani invece delle banche. Ma i metodi, gli strumenti, i registi della grande offensiva anti-euro sono figure fin troppo familiari. Ci sono le stesse agenzie di rating che nell´ultima crisi ebbero un ruolo perverso. Furono Standard & Poor´s, Moody´s e Fitch ad incollare le etichette prestigiose "Aaa" sui titoli tossici legati ai mutui subprime.

Incompetenza, conflitto d´interessi, la loro reputazione ne uscì distrutta. Quegli scandali non hanno impedito che Standard & Poor´s sia all´origine dell´ultima crisi di sfiducia, per il declassamento della Spagna (colpa delle regole europee: la Bce può acquistare titoli del debito pubblico solo se raggiungono un rating minimo).

Soffiano sul fuoco dell´euro-panico le grandi banche di Wall Street, noncuranti delle indagini avviate contro di loro dal Congresso, dalla Sec e dalla Federal Reserve. Gli economisti di Goldman Sachs e JP Morgan Chase ieri hanno lanciato in perfetta concordia un annuncio tremendo: altro che i 45 miliardi di euro inizialmente previsti per il salvataggio della Grecia, «ora gli aiuti necessari per arrestare il contagio in altri paesi mediterranei sono di almeno 600 miliardi di euro».

Si tratta, sottolineano i due colossi bancari di Wall Street, di «una cifra superiore al fondo Tarp (700 miliardi di dollari) varato nell´autunno 2008 dall´allora segretario al Tesoro Usa, Hank Paulson, per salvare il sistema finanziario da un collasso mortale».

L´economista Philip Lane vede nella Grecia, nel Portogallo e nella Spagna «gli equivalenti odierni di Bear Stearns e Lehman Brothers», le due banche fallite nel 2008. Il paragone fa paura perché i due istituti individualmente avevano dimensioni "gestibili", ma il contagio della paura rischiò di travolgere tutti gli altri. Tornano in primo piano i titoli derivati chiamati "credit default swaps" (Cds).

In apparenza sono contratti assicurativi, per proteggersi dal rischio del fallimento di un debitore. In realtà hanno assunto vita propria come formidabili strumenti speculativi, consentono di scommettere sulle bancarotte per guadagnarci.

Hanno un effetto moltiplicatore, che si vede all´opera in queste ore. «Occhio alle banche europee – avverte JP Morgan – perché gli istituti tedeschi, francesi, olandesi e belgi più esposti verso l´Europa mediterranea possono a loro volta essere coinvolti nelle perdite, quindi diventare meno solidi».

Un´inchiesta del Department of Justice accusa i più importanti hedge fund (Soros, Paulson, Grenlight, Sac capital) di aver concordato un attacco simultaneo all´euro, in una cena segreta l´8 febbraio a Wall Street. Il giorno dopo, 9 febbraio, al Chicago Mercantile Exchange i contratti futures che scommettevano su un tracollo dell´euro erano schizzati oltre 54.000, un record storico. Con Goldman Sachs e Barclays in buona vista nelle cronache su quelle grandi manovre.

Il club dei grandi banchieri, anche se accusati di frode dalla Sec come il chief executive di Goldman Lloyd Blankfein, continua ad avere un potere d´influenza. Indica la tendenza, si trascina dietro il mercato. Il fondo Pimco, il più grande investitore privato del mondo in titoli di Stato, ha sospeso ogni acquisto di titoli greci e sta considerando «l´abbandono di tutta l´Europa periferica».

Colossi industriali tradizionali come la Coca Cola, corrono a proteggersi contro una frana dell'euro, e così facendo usano gli stessi strumenti speculativi con cui gli hedge fund accelerano quella caduta. Payden & Rygel, gestore di 50 miliardi di fondi pensione californiani, ha svenduto titoli di Stato europei e comprato derivati per lucrare sulla svalutazione dell´euro.

Perfino i piccoli risparmiatori sono trascinati in questo tsunami: è aumentato del 57% il numero di clienti individuali che acquistano "option" valutarie per puntare contro l´euro.

Il colpo finale, secondo il Wall Street Journal, «è quello che verrà se le stesse banche centrali cominciano a mollare l´euro per limitare le perdite». Se la Fed, la banca centrale cinese e giapponese dovessero ridurre le loro riserve in euro «il prossimo scivolone sarà a quota 1,20 sul dollaro».

E´ lo scenario che ha in mente l´Ocse quando avverte: «Siamo ben oltre il pericolo del contagio. Il contagio c´è già stato. Questo è il virus Ebola. Quando ce l´hai non ti resta che amputarti una gamba per sopravvivere». L´amputazione, in questo caso, è l´uscita dall´Eurozona dei paesi più deboli. Uno scenario che a Wall Street ha molti fautori.


L'innesco di una crisi sistemica
di Pino Cabras - Megachip - 28 Aprile 2010

Con il precipitare della crisi greca si confermano le analisi di chi non era compromesso con la propaganda o con i pii desideri. La crisi si colloca nel solco di una crisi molto più vasta, una crisi sistemica. Si poteva comprendere da subito. Chi ha causato la crisi, ossia il sistema bancario ombra, punta ancora ai soliti suoi superprofitti,

soverchiando i poteri collocati più alla luce del sole.

I giganti della speculazione di Wall Street sanno che il dollaro, l’architrave della finanza mondiale, dovrà cedere, perché allo stato è impossibile rifinanziare la valanga di titoli del debito pubblico statunitense che verrà a scadere fra pochi mesi. Perciò va fatta crollare l’alternativa monetaria disponibile, l’euro, e creare un bisogno forzoso ed estremo di dollari.

Nel frattempo, con i meccanismi delle "profezie che si autoadempiono", da loro dominati attraverso spaventose entità criminali (le agenzie di rating), gli speculatori decidono i tempi e i modi dei crolli, su cui hanno scommesso montagne di soldi con la certezza – a breve – di vincere.

Lo schema somiglia al crollo del 2008-2009. Allora affossavano le banche, che sapevano gravate di scommesse impossibili su debitori insolventi. Ora affossano gli stati sovrani, che sanno esposti verso trucchi creati dagli stessi speculatori e verso piramidi di debiti fuori controllo. Ecco Standard & Poor's , Moody's e Fitch a decidere ancora quando un titolo deve andare all’inferno.

Se ne fregano di avere una pessima reputazione e di non essere attendibili agli occhi di chi usa la ragione per valutare la loro “oggettività” nelle valutazioni. I meccanismi legali sono inesorabilmente dalla loro parte. La Banca Centrale europea non può acquistare i bond spagnoli o greci se il loro rating non raggiunge una certa soglia. Così, chi decide il rating può decidere quando e come far cadere i pezzi di un sistema. Stati interi.

E questo gioco da padroni dell’universo è condotto dagli speculatori non solo a dispetto di ciò che abbiamo chiamato reputazione, ma perfino nonostante le inchieste del Congresso, della Sec e della Fed. Così, per capire quali sono i veri “poteri forti”.

L’annuncio delle facce di bronzo di Goldman Sachs e JP Morgan Chase è che non si parla più di 45 miliardi di euro per salvare Atene, ma di almeno 600 miliardi di euro per salvare il “Club Med” dell’euro. Una cifra superiore a quanto dissanguò le casse Usa per impedire il collasso totale nel 2008, quando i contribuenti furono salassati per 700 miliardi di dollari, una parte dei quali allegramente finiti nei bonus dei “Masters of Universe”.

Con l’uso di titoli derivati "credit default swaps" (Cds), la speculazione anziché assicurarsi contro la bancarotta (problema di medio termine), vi ci punta direttamente per guadagnarci subito, creando contagio finanziario, di cui non avverte la minima responsabilità. Nella sua ottica, questi al momento saranno problemi insolubili delle banche europee.

Lo ricorda Federico Rampini su «la Repubblica» del 29 aprile 2010: «Un'inchiesta del Department of Justice accusa i più importanti hedge fund (Soros, Paulson, Grenlight, Sac capital) di aver concordato un attacco simultaneo all'euro, in una cena segreta l'8 febbraio a Wall Street. Il giorno dopo, 9 febbraio, al Chicago Mercantile Exchange i contratti futures che scommettevano su un tracollo dell'euro erano schizzati oltre 54.000, un record storico. Con Goldman Sachs e Barclays in buona vista nelle cronache su quelle grandi manovre.»

La grande finanza anglosassone sta decidendo che gli europei saranno divisi in nordici e sudici. Noi sudici a ciucciarci il default, da subito.

In realtà anche la Gran Bretagna è seduta su una voragine di debiti e bugie contabili, che si rinvia il più possibile, almeno a dopo le elezioni politiche.

E sullo sfondo, irrisolvibile con gli strumenti ordinari, c’è il nodo più grosso, gli USA.

Tanti Stati, non solo i PIGS mediterranei, per coprire i debiti e le scadenze, avranno scelte estremamente costose da fare: aumentare le imposte, scatenare l’inflazione per ridurre il peso del debito, altrimenti fare bancarotta. Quel che è peggio, queste situazioni possono addirittura arrivare in contemporanea, anche negli Stati Uniti.

La politica sarà investita naturalmente da tensioni e novità di enorme portata, che spazzeranno via interi sistemi.

Intervista Enzo Bettiza

di Aldo Cazzullo - Il Corriere della Sera - 26 Aprile 2010

«Se sogno la mia balia Mare, sogno in serbocroato. Se sogno le Poljakove, madre e figlia, che mi ospitarono a Mosca quando Giulio De Benedetti mi licenziò dalla Stampa e mi tolse casa, sogno in russo. Se sogno Simone Veil, cui fui molto vicino all’Europarlamento, sogno in francese. Ma se sogno mio padre, sogno in dialetto veneto».

Enzo Bettiza ricorre a una metafora onirica per confidare al Corriere una cosa che non aveva mai detto: il giornalista più raffinato d’Italia, lo scrittore mitteleuropeo, vota Lega. La Lega di Bossi, con il Carroccio, Alberto da Giussano, lo spadone e tutto. «Ma Pontida è un mito immaginario, come i druidi, i celti e le bevute dell’acqua del Po. La Lega non è figlia della battaglia di Legnano, condotta dai lombardi contro un imperatore germanico. Al contrario: la Lega discende dal Lombardo-Veneto asburgico. Gli antenati di Bossi sono Maria Teresa, Giuseppe II, il lato umano di Radetzky. Il suo antecedente è la buona amministrazione austriaca».

«So che la Lega è stata considerata a lungo buzzurra e folkloristica. E in parte lo era, per necessità politica, per distanziarsi in maniera popolaresca e dialettale dal Sud, per marcare un’identità culturale e antropologica che, spinta all’iperbole, diventava differenziazione etnica. Ma eravamo ai primordi: Roma ladrona, la secessione, il separatismo. Una strada percorsa da altri gruppi regionali in Europa: baschi, catalani, irlandesi, prima ancora i sudtirolesi e anche i bavaresi, che si ritengono uno Stato nello Stato, come il Texas negli Usa. È in questa fase rozza, romantica, pittoresca che la Lega si balocca con riti inventati, zodiacali. Ora la Lega è un partito serio, solidificato. La sua grande forza è la correttezza amministrativa, la cura del Rathaus, il Comune. Detesto la parola "territorio", mi fa venire in mente la mafia. Non esistono partiti territoriali né partiti cosmici. Ora la Lega si insedia a Bologna, penetra negli Appennini, schiera in Toscana un’avanguardia che evoca il Granducato. È un partito nazionale, costruito su grandi temi come l’immigrazione e la difesa delle tasse lombarde, venete, piemontesi. Non a caso i duemigliori ministri sono Maroni, uomo della Lega, e Tremonti, che alla Lega è molto vicino. E presto nascerà anche la Lega del Sud».

Dice Bettiza di non essere spaventato dal rischio di una disgregazione del paese. «L’Italia era abituata a essere divisa. Una splendida divisione, da cui viene la sua grandezza. Ducati, comuni, persino un impero: Venezia era la Gran Bretagna del Mediterraneo. Se Mantova non fosse stata una capitale non avremmo Mantegna e la Camera degli Sposi, se non lo fosse stata Ferrara non ci sarebbe il Palazzo dei Diamanti».

«Il carisma di Bossi, sempre esistito per il suo popolo, si è molto rafforzato dopo la malattia. Ha assunto una ruvidezza un po’ immobile e statuaria, una loquela condensata e tagliata che fa delle sue apparizioni in pubblico un’icona popolare (Bettiza dice ìcona, con l’accento sulla “i”, alla greca). Non farà il sindaco di Milano, perché non ha la salute né l’interesse a sobbarcarsi il lavoro e le arrabbiature di un sindaco. Il piccolo de Gaulle popolaresco padano che diventa podestà: no, non lo vedo. Bossi ha un grandissimo fiuto politico. Sa bene dove va il boccino e fin dove lo può spingere. Non è certo lui che aizza Berlusconi, anzi, quando lui esagera con la sua attitudine megalomanica è Bossi a tirarlo per la manica, a esercitare una pressione sedativa. È evidente che il dopo- Cavaliere è la Lega».

Come finirà Berlusconi? «Berlusconi durerà. Non so se realizzerà il sogno di salire al Quirinale eletto dal popolo. Ma durerà, perché non c’è nessuno nel partito pronto a sostituirlo. Non vedo elezioni anticipate: tutti hanno paura, molti anche di perdere l’indennità. Non vedo grandi prospettive neppure per Fini, uomo di partito rimasto senza partito: resterà nel Pdl solo perché non ne ha un altro. Al centro non nascerà il "partito della nazione", ma un partitino cattolico con Casini, Rutelli e Pisanu, satellite ora del Pdl, in futuro della Lega che tanto contesta». E la sinistra? «Il vero leader, D’Alema, è offuscato. Vendola è fenomeno folkloristico e provinciale. Bersani mi pare all’ultimo giro. Rappresenta lo stadio finale del comunismo emiliano; e, come nota da vecchio animale comunista Giuliano Ferrara, nel Pci mai si sarebbero sognati di affidare la leadership agli emiliani. Bravi sindaci, generosi cassieri; ma i capi del Pci dovevano essere nati nel Regno di Sardegna, o nelle grandi famiglie liberali napoletane. La sinistra paga l’errore mortale di aver dato la caccia a un grande uomo di sinistra come Bettino Craxi. Berlusconi è la nemesi storica di Craxi». Che cos’hanno in comune? «Entrambi hanno fatto crescere alla loro ombra molti uomini da nulla, che a Craxi sono stati fatali. Berlusconi si è salvato perché ha armi che Craxi non aveva. Ha impresso una svolta storica a un’Italia terrorizzata da Mani Pulite; ma l’ha impressa con metodi stravaganti per un paese sottilmente articolato sul piano politico. Il suo carisma sta nel suo stile depoliticizzato: è quel che piace alla gente, ma è anche il suo limite. Le élites lo detestano, i radical-chic vedono in lui un radical-kitsch; ma è proprio per il kitsch, per il suo coté brianzolo, che l’Italia del week-end fuori porta si riconosce in lui».

Bettiza ha una vicenda in comune con Berlusconi, che nel dicembre 1996 gli offrì la direzione del Giornale: rifiutata. Perché? «Ho conosciuto Berlusconi negli anni in cui salvò il Giornale abbandonato da Cefis e da Petrilli. Aveva un’adorazione speciale per Montanelli e molta simpatia per me, una volta in tv raccontò di indossare un impermeabile copiato dai miei. Come uomo d’affari era di un dinamismo eccezionale, e non individuava mai con chiarezza i limiti tra dire il vero e il non vero: come adesso, quando dice che venderà il Giornale, mentre non ci pensa neppure. Quando mi offrì la direzione, per prima cosa mi consultai con Montanelli: avevamo appena fatto la pace dopo che non ci eravamo parlati per tredici anni, non volevo perderlo di nuovo. Indro mi consigliò di accettare. Con Berlusconi ne parlammo in una cena ad Arcore. C’erano Letta, Confalonieri, Massari che era l’amministratore, Biazzi Vergani e Belpietro, che avrebbe dovuto essere il mio condirettore o vicedirettore, a garanzia del lato popolaresco e digrignante: dopo l’innegabile successo della direzione Feltri, c’era il timore che io facessi un giornale troppo elitario. Proposi di far scrivere il primo fondo a Montanelli. Letta disse subito di sì. Berlusconi rimase in silenzio, ma il suo istinto di venditore ambulante lo induceva ad accettare, per pure ragioni pubblicitarie. Tutti gli altri si opposero».

«Il giorno dopo ci vedemmo a pranzo con Belpietro da Savini. Gli esposi il mio programma, a cominciare dal ritorno di Francesco Damato e di François Fejto, che aveva portato al Giornale l’intellighentsia liberale parigina: Aron, Ionesco, Morin, Furet. Belpietro mi interruppe, spiegandomi che lui non sarebbe stato il mio vice ma direttore come me, sia pure non responsabile. A me le querele, a lui il potere, per conto di Berlusconi. Ovviamente, rinunciai. Il Cavaliere telefonò per rilanciare; e offriva davvero un sacco di soldi. Ma con Montanelli e Piovene avevo cofondato il Giornale nell’alveo del Mondo di Pannunzio e di Tempo presente di Chiaromonte. Non avrei mai potuto fare un foglio sotto padrone».


Puo' l'Italia fare la fine della Yugoslavia?
di Moreno Pasquinelli - www.campoantimperialista.it - 28 Aprile 2010

Il leghismo, la casta e il destino dell’Italia come stato-nazione

Ha suscitato scalpore
l’intervista di Enzo Bettiza al Corriere della sera del 26 aprile. Non solo e non tanto perché il prestigioso intellettuale di area liberal-conservatrice ha ammesso di aver votato per la Lega Nord, quanto per le ragioni di questo sostegno.

Premesso che Bettiza vede nel leghismo, oramai messi da parte i riti celtici alle sorgenti del Po, un erede della “buona amministrazione asburgica”, ha confessato di non considerare disdicevole il commiato dall’Italia come stato unitario e la rinascita del Lombardo-Veneto come entità geopolitica a sé stante.

Tutto assurdo? Meno di quanto si pensi. Quantomeno un campanello d’allarme per la casta politica romana (una casta che ha assunto da tempo tutte le caratteristiche della curia cardinalizia vaticana, decisa a conservare il monopolio nella scelta del clero politico, dal Papa fino ai vescovi delle diocesi) perché mostra che i “buzzurri” della Lega stanno facendo proseliti tra le élites culturali e intellettuali.

Che il sopraggiungere della globalizzazione e del turbo-capitalismo abbiano minato alle fondamenta gli stati-nazione, questo lo si sapeva. Decisive prerogative vennero sottratte alla potestà degli stati per essere sequestrate da gruppi oligopolistici transnazionali che poterono infine porre gli stati sotto tutela grazie alla trasformazione delle élites politiche nazionali in loro comitati d’affari.

La nascita dell’Unione europea, pur sorta per opporre agli oligopoli un contropotere di pari consistenza, ha tuttavia finito per rafforzare la tendenza sovranazionalista, togliendo agli stati-nazione ulteriori decisive prerogative per affidarle ai (renani) centri nevralgici di Francoforte, Bruxelles e Strasburgo.

A questo va aggiunto che l’Italia si è presentata agli appuntamenti con la globalizzazione e l’Unione come stato-nazione-zoppo, visto che uscì dalla seconda guerra, al di là della retorica repubblicana e antifascista, col sigillo di uno stato a sovranità limitata, ovvero sottoposto al rispetto della giurisdizione imperiale nord-americana.

Non è il leghismo quindi che ha determinato la crisi dello stato-nazione italiano ma, al contrario quest’ultima che ha causato il leghismo. Non è forse vero che se l’Europa riuscisse a trasformarsi in una solida costruzione politica gli stati-nazione evaporerebbero? E in questo caso non sorgerebbero forse al loro posto delle macro-regioni proprio come certe frazioni “progressiste” del grande capitale teorizzavano agli inizi degli anni ’90?

C’è quindi una malcelata ipocrisia negli anatemi che la curia romana lancia contro il leghismo e la sua spinta anti-nazionale: si tratta dello stesso centro oligarchico di potere che ha cantato le sorti progressive della globalizzazione e che perorava e tutt’ora apertamente invoca la fondazione di un’Europa come definitiva unione statuale che rimpiazzi l’attuale sgangherata configurazione.

Il dissidio tra la Lega Nord e la curia, non consiste dunque che gli uni vorrebbero sbarazzarsi dello stato-nazione mentre gli altri ne sarebbero indefessi paladini. Il dissidio, entrambi essendo interni all’orizzonte strategico europeista ed euro-atlantico, consiste solo in due differenti visioni dell’oltrepassamento.

Per essere più precisi il contrasto dipende da diverse considerazioni riguardo alla distribuzione dei costi e dei ricavi che l’unificazione europea implica (di qui le tensioni sul “federalismo fiscale”).

Il capitalismo padano, di cui la Lega è oramai l’interfaccia politico, punta all’integrazione europea, da cui avrebbe teoricamente tutto da guadagnare non avesse la palla al piede del Mezzogiorno. L’orizzonte strategico padano-leghista è quello di agganciarsi alla motrice euro-renana come macro-regione fortemente autonomizzata da Roma.

Una prospettiva che la curia romana potrebbe accettare ove ciò non implicasse la sua marginalizzazione, visto che il peso di Roma, privata di Milano, sarebbe prossimo al nulla o, se vogliamo, di poco superiore a quello di Atene o Lisbona.

Non fosse sopraggiunta questa crisi epocale del capitalismo occidentale, non sarebbe stato da escludere un compromesso, un accordo d’interesse tra la borghesia padana e la casta politica sacerdotale romana (di cui Fini si pone ormai come alto cardinale).

C’è chi lo ritiene ancora possibile, ovvero ritiene probabile, visto il crepuscolo del berlusconismo, un nuovo salto della quaglia di Bossi e un accordo di reciproca convenienza con la curia. La qual cosa avrebbe una sua plausibilità, poiché non si vede perché la Lega dovrebbe impiccarsi per salvare Berlusconi rinunciando ad un accordo vantaggioso col centro-sinistra, il quale non vedrebbe l’ora di siglarlo.

In effetti, se facessimo finta per un attimo che la crisi economico-sistemica non ci fosse, e quindi la tendenza all’unificazione europea, pur tra alti e bassi, marciasse, la Lega avrebbe solo dei vantaggi a siglare un patto con la curia.

La mossa di Fini cosa dimostra a Bossi? Che i cardinali, che non hanno mai digerito Berlusconi, ovvero che gli fosse sottratta la prerogativa di eleggere il Papa, stanno schierando le loro truppe per la battaglia finale per defenestrarlo. La curia, con alle spalle i grandi gruppi economici oligarchici, va infatti conformando un CLN, una Santa alleanza, nella quale appunto spera di agganciare la borghesia padana, quindi la lega.

Attenti dunque alla fronda finiana: la lotta per spezzare l’asse Berlusconi-Bossi, condotta apparentemente in nome di un italianismo anti-padano, è in realtà una lotta per far fuori il cavaliere e costringere la Lega ad un compromesso. Chi ritiene che non ci siano margini di accordo per un modello federale condiviso tra il blocco oligarchico e curiale di centro-sinistra e la borghesia padana si sbaglia di grosso.

Il collegio cardinalizio, da Fini a D’Alema, conosce infatti molto bene i suoi “polli capitalisti padani” e sa che questi non rinuncerebbero ad un accordo vantaggioso e Bossi, che li conosce meglio di tutti, non avrebbe altra scelta che adeguarsi, cantando vittoria come gli si addice, magari pagando lo scotto di qualche fibrillazione interna.

Alla domanda di Maurizio Tropeano: “Presidente cosa vorrebbe mettere in risalto del dossier 150esimo?» Il Neoletto presidente della regione Piemonte Cota risponde: «Il federalismo che avevano in testa Cavour e Minghetti e che non è mai stato realizzato da allora. Mi piacerebbe mettere in evidenza quella parte del pensiero di Cavour, su cui solo oggi si stanno alzando i veli di un’interpretazione a senso unico, che parla di una gestione della macchina burocratica basata sul decentramento visto come strumento per eliminare le differenze. (…) La repubblica partigiana dell’Ossola è un messaggio più che attuale perché solo il federalismo può tenere unito questo stato». (LA STAMPA del 25 aprile)

Chi ha orecchie per intendere intenda. Non più secessionismo, e nemmeno il federalismo di Cattaneo, bensì quello… di Cavour. Con queste premesse anche gli ultimi seguaci del neoguelfismo cattolico (fatta salva l’eliminazione di Berlusconi) potrebbero trovare un accordo, ovvero un modello federativo che veda Roma, alleata di Milano, ben salda come capitale di uno Stato formalmente unitario. Bossi si riallaccia non a caso ad Alberto da Giussano, che fu, a difesa della supremazia milanese sul resto della Lombardia, combattente guelfo e filo-papalino.

Si potrebbe risalire alla “Pataria” del secolo precedente e che ebbe Milano come epicentro. Movimento popolare ribelle che prese sì di mira la “canina stercora” dell’alto clero locale, i suoi privilegi, la sua corruzione ma, cattolico quant’altri mai, invocò e ottenne l’appoggio del Papa e di Roma, per poi diventare carburante prezioso alla grande riforma restauratrice e centralista gregoriana.

Ma… c’è un ma. La sopraggiunta crisi storico-sistemica del capitalismo occidentale, e anzitutto di quello europeo. Una crisi che mette in forse sia l’unificazione europea che la “dolce morte” degli stati nazione tutti. E’ sotto gli occhi di tutti che le forze centrifughe, a causa di questa crisi globale, sono oggi decisamente più forti di quelle centripete.

Lo sconquasso finanziario e monetario mondiale, il molto probabile scoppio del bubbone greco e l’eventualità che con i “Piigs” tutta l’Eurozona venga travolta, ingarbugliano terribilmente le cose a tutti i protagonisti della scena italiana, Bossi compreso.

Checché ne dica Tremonti-Pinocchio, il debito pubblico italiano continua a crescere e la possibilità che l’Italia venga da un giorno all’altro declassata da qualche agenzia di rating per essere poi aggredita dal capitalismo predatorio internazionale, diventa altamente probabile.

E ove davvero la barca economica nazionale rischiasse di affondare, salterebbero non solo i disegni della curia romana, ma verrebbe interdetta alla Lega la possibilità di ottenere un accordo vantaggioso con un nuovo salto della quaglia a sinistra.

Salterebbero perché a quel punto le forze sociali che stanno dietro alla Lega, precisamente il blocco corporativo che vede uniti padroni, operai e bottegai padani, sarebbe davvero tentato di compiere lo strappo, ovvero abbandonare la barca italiana in affondamento per salire sul vascello carolingio franco-tedesco (ammesso che questo resista al terremoto tenendo fermo l’Euro come moneta forte).

Nell’eventualità di una catastrofe nazionale lo scenario che evoca Bettiza, del risorgere di un’entità lombardo-veneta sarebbe tutt’altro che peregrina. Ma a quel punto nulla sarebbe indolore, un simile esito implicherebbe passare attraverso la porta stretta dello scontro civile, o di un conflitto che deciderebbe in modo cruento le sorti dell’Italia come stato unitario.

Non diversamente, appunto, della Jugoslavia, dove certo i fattori di attrito tra le diverse nazionalità covavano da tempo, ma dove l’innesco della disgregazione fu rappresentato dalla profondissima crisi economica e dal peso di un debito estero e pubblico stellare che ogni repubblica cercava di scaricare sulle spalle degli altri.

La Jugoslavia è stata cancellata e al suo posto abbiamo sì una serie di staterelli, ma con la Slovenia nell’Unione europea e la Croazia in procinto di entrarci, mentre le altre repubbliche sono sprofondate nel pantano balcanico.

Si spiega così perché il tatticista Bossi non abbia ancora mollato Berlusconi. Egli se lo tiene ancora stretto poiché gli è funzionale in entrambi i casi. E’ un’arma di ricatto per strappare il massimo risultato (federalismo fiscale) al tavolo negoziale con la curia.

Ma potrebbe essere un alleato indispensabile ove la crisi, conoscendo una precipitazione, facesse saltare il tavolo della trattativa e spingesse il paese verso il redde rationem.

mercoledì 28 aprile 2010

PIGS o PIIGS?....



















Ieri l'agenzia di rating Standard & Poor's ha declassato la Grecia, con i suoi titoli definiti ufficialmente "spazzatura". Subito dopo e' stata la volta del Portogallo, mentre oggi e' toccato anche alla Spagna. Entrambi i Paesi pero' non hanno ancora raggiunto il livello greco di "spazzatura". Le Borse sono naturalmente crollate, bruciando ben 160 miliardi di euro.

Insomma, "tutto va bene, madama la marchesa".... e finalmente oggi il governo tedesco sembra essersi convinto a mettere mano al portafoglio (8,4 miliardi di euro nel 2010 piu' altri nel biennio successivo) per gli aiuti alla Grecia, mentre il Fmi si e' detto pronto a sborsare ulteriori 10 miliardi di euro per un totale quindi di ben 25 miliardi.
Nel complesso la cifra necessaria a "salvare" la Grecia sarebbe pari a circa 160 miliardi di euro in tre anni.

Quindi, dopo le lettere P, G e S - che formano il famigerato acronimo PIGS - ormai manca all'appello solo la I dell'Irlanda, anche se pero' sono in tanti coloro che hanno gia' aggiunto un'altra I, quella dell'Italia...


La Grecia in fiamme e il pompiere Tremonti
di Beppe Grillo - www.beppegrillo.it - 28 Aprile 2010

"Serve il federalismo fiscale altrimenti l'Italia fa la fine della Grecia, è assolutamente necessario." Lo ha detto Bossi, senza aggiungere che con il federalismo fiscale, di cui nessuno ha calcolato i costi, faremo invece la fine dell'Argentina. La scelta è difficile, fallire subito o rimandare?

Le agenzie di rating hanno declassato i titoli di Stato greci a spazzatura. Il debito della Grecia non ha più mercato, i suoi titoli sono invendibili. Li possono comprare solo banche greche su ordine del Governo centrale.

Senza il ricorso al debito, la Grecia può invocare unicamente la carità degli altri Stati per non fare bancarotta e dichiarare il suo debito insolvibile con l'uscita obbligatoria dall'euro.
L'elemosina, comunque insufficiente, tarda però ad arrivare, un aiuto stimato in 45 miliardi di euro per non fallire subito.

La Grecia ha necessità di reperire 160 miliardi di euro per i prossimi tre anni solo per finanziare gli interessi sui titoli di Stato emessi, pagare i titoli di Stato in scadenza e il disavanzo annuo tra entrate e uscite.

Il prestito di 45 miliardi sarà finanziato dal Fondo Monetario Internazionale per 10/15 miliardi e da alcune nazioni europee, tra queste la Germania con 8,4 miliardi e l'Italia con 5,5 miliardi (quasi il triplo dell'Olanda e più della Spagna con 3,7 miliardi).

L'86% dei tedeschi è contrario al prestito, non vuole pagare per la finanza allegra di altri Paesi. Tremorti invece è entusiasta, il parere degli italiani non è noto anche perché nessuno li ha interpellati.

La Merkel, prima di consegnare i soldi dei tedeschi al primo ministro greco George Papandreou vuole avere la rassicurazione che la Grecia metterà a posto i suoi conti. Tremorti ha invece fretta di erogare il prestito per paura che il fuoco divampi.

La Grecia, infatti, è vicina. Il nostro debito pubblico è di circa 1.800 miliardi, nei primi mesi del 2010 è aumentato di più di 30 miliardi, il tasso di disoccupazione italiano è comparabile a quello greco, il saldo import/export 2009 è stato negativo per circa 280 milioni di euro, mentre nel 2008 era positivo per 10 miliardi. Le entrate fiscali sono in diminuzione mese dopo mese, la spesa pubblica è in continuo aumento ed è la peggiore sul Pil degli ultimi 10 anni, pari al 52,3%.

I numeri greci e quelli italiani sono simili, qualche volta sono peggio loro, altre volte stiamo peggio noi. Se fallisce la Grecia, l'euro vacilla. Se fallisce l'Italia, l'euro sprofonda insieme a tutti i nostri creditori. Per ora il nostro immenso debito pubblico ci protegge.

Nel 2010 Tremorti deve collocare 450 miliardi di euro di titoli e pagare 70/80 miliardi di interessi (pari a 4/5 finanziarie) su quelli già emessi. I greci, a confronto, sono dei dilettanti.


I conti col buco
di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 27 Aprile 2010

Ogni volta che gliene viene data la possibilità, il Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, è pronto nel ribadire quanto grande sia stata l’abilità del governo nel gestire la crisi, ancora molto lontana dall’essersi conclusa.

In effetti al Ministro spetta il riconoscimento del merito di aver impedito un peggioramento eccessivo dei nostri saldi di finanza pubblica, garantendone livelli meno problematici rispetto a diversi paesi europei che aderiscono alla moneta unica.

E poiché paesi solitamente più virtuosi di noi nei conti pubblici ne hanno accettato un consistente deterioramento per affrontare la crisi, l'Italia, che non l’ha fatto, è riuscita a trasformarsi in un paese, almeno in termini relativi - o semplicemente statistici se si è amanti della precisione - virtuoso.

Ma da qui a sostenere che i nostri problemi di finanza pubblica siano scomparsi o che siano stati notevolmente attenuati vi è un gran salto; semplicemente si notano di meno in un mondo rapidamente peggiorato nei suoi conti pubblici.

Il presidente della Banca Centrale Europea, Trichet, insieme al Financial Times e ai mercati finanziari internazionali hanno, o per il momento fingono di avere, una buona opinione della finanza pubblica italiana perché, osservandola attraverso gli occhiali del trattato di Maastricht, guardano ai saldi di bilancio in rapporto al Pil e non alle grandezze che quei saldi li determinano, senza cioè osservare entrate e spesa pubblica in rapporto al prodotto interno lordo, per avere un'idea sicuramente più chiara delle dinamiche economiche che interessano il nostro paese.

Lo farebbero, se fosse nel loro interesse analizzare più compiutamente lo stato della nostra economia, ma non lo fanno semplicemente perché in questo periodo sono altri i problemi, Grecia in testa.

Dal punto di vista del disavanzo pubblico rispetto al Pil - ossia la differenza tra quanto si è speso e quanto si è prodotto - l'Italia nel 2009 è andata meglio della media dell'area Euro e si è tenuta molto distante dai valori di paesi in cui il deficit è letteralmente esploso come la Grecia, l’Irlanda, la Spagna; e, fuori dall'area Euro, la Gran Bretagna.

Il nostro rapporto deficit/Pil é infatti solo raddoppiato nel 2009 rispetto al 2008, passando dal 2,7% al 5,3% mentre nell'intera area Euro è più che triplicato, passando dal 2% al 6,2%, e si colloca ora un punto di Pil al di sopra del valore italiano.

È esattamente questo differenziale che ci sta coprendo rispetto alla speculazione internazionale, notoriamente aggressiva con chi versa in posizione di maggior debolezza. Le istituzioni economiche europee sembrano, inoltre, non dare grande peso all'altro rilevante parametro di finanza pubblica alla base del trattato di Maastricht, cioè il rapporto tra il debito pubblico e il Prodotto interno lordo.

L'Italia, che ha il terzo maggiore debito pubblico del mondo, senza avere contemporaneamente la terza economia del mondo, (come giustamente ricorda ogniqualvolta gli si chieda conto di qualcosa il Ministro Tremonti) detiene anche il record del peggior rapporto europeo debito/Pil, battendo persino la Grecia.

Ma sino a quando riuscirà a tenere il suo rapporto deficit/Pil tra quello dei paesi virtuosi, e s’impegnerà nei prossimi anni a migliorarlo più rapidamente degli altri, nessuno farà troppe storie.

Tutto da vedere se vi riuscirà o meno e, per valutarlo, è necessario per l’appunto estendere l'analisi dal deficit alle due grandezze che lo determinano, la spesa e le entrate pubbliche. In relazione ad esse le dinamiche sono tuttavia molto sfavorevoli: nel 2009, anno di profonda recessione, la spesa pubblica complessiva ha nettamente sforato il valore del 50% rispetto al Pil, anzi ha quasi toccato il 52%, più di tre punti percentuali al di sopra del dato del 2008 e questo nonostante il risparmio di mezzo punto conseguito alla voce degli interessi sul debito. Si tratta del valore europeo più elevato dopo quello dei paesi che hanno rilevanti ed efficienti sistemi di welfare, come la Svezia e la Danimarca.

Indicativo è anche il fatto che, per ritrovare indietro nel tempo un dato simile, bisogna tornare al 1996. Ma in quell'anno, se togliamo dalla spesa pubblica la voce degli interessi sul debito, che pesò allora per 11,5 punti di Pil trattandosi ancora della vecchia lira, se guardiamo quindi alla spesa pubblica primaria, scendiamo ad un valore pari solo al 41%.

Se ripetiamo l'operazione del 2009 e togliamo i 4,6 punti di spesa per interessi sul debito, scendiamo invece poco al di sotto del 48%, un valore di quasi sette punti più elevato rispetto a quello del 1996.

Nelle cifre precedenti sta tutto il dramma della nostra spesa pubblica: al netto degli interessi è la più elevata in rapporto al Pil mai raggiunta nella storia d'Italia; inoltre tutto il risparmio conseguito attraverso il cosiddetto "dividendo di Maastricht", cioè il vantaggio derivante dalla conversione degli alti tassi di interesse che gravano sul debito espresso in lire rispetto i bassi tassi del debito espresso in una valuta forte quale è l’Euro, è stato interamente dilapidato.

Dal 1996 al 2009 abbiamo risparmiato grazie all'Euro sette punti di Pil di spesa per interessi, ma nonostante tutto i vari governi che si sono succeduti sono riusciti nel miracolo di rendere un simile vantaggio invisibile agli occhi dei cittadini, che dall’introduzione dell’euro hanno ricavato solo una pesantissima perdita di potere d’acquisto.

A parità di pressione fiscale avremmo potuto portare il bilancio pubblico in attivo, oppure avremmo potuto migliorare il disavanzo e ridurre le tasse; invece abbiamo integralmente utilizzato il beneficio per spendere di più sull'insieme delle altre voci. Cosa accadrà quando i tassi di interesse, e con essi il costo del debito, riprenderanno a salire dagli attuali bassissimi valori, è facile immaginarlo.

In questo scenario la Banca d'Italia ha recentemente sancito che il debito italiano è aumentato di 15 miliardi nei primi due mesi dell'anno, mentre le entrate fiscali sono in diminuzione. Nella disperazione generale (negata per ordine di scuderia) si fa filtrare la notizia che l'agenzia delle entrate sta per acquisire una lista di 10.000 nomi di depositari italiani che hanno conti bancari in Svizzera; questi evasori potranno avvalersi dello scudo fiscale pagando un'aliquota del 7% prima che il fisco metta loro le mani addosso. Attilio Befera, direttore generale dell’Agenzia, deve aver pensato: "Meglio pochi maledetti e subito". E, se sono preoccupati, un motivo ci sarà.

Il quadro generale dell’eurozona è infatti decisamente fosco, ma nonostante tutto l'Italia pensa di essere al sicuro con il suo rapporto deficit/Pil inferiore a quello dei suoi partner europei . Purtroppo però è solo un gioco di specchi: le banche d'investimento comprano titoli italiani per mitigare il rischio dell'esposizione al ribasso su Portogallo e Spagna: sembra stiano seguendo un ordine ben preciso di vittime predestinate.

L'andamento della spesa pubblica e la diminuzione delle entrate fiscali non aiuta ad uscire dalla lista nera. Tremonti sa bene che gli scogli sono pericolosamente vicini e i passeggeri pare non sappiano neanche nuotare.

Entro l'estate il governo dovrà infatti decidere quale segnale vorrà dare ai mercati e il ministro del Tesoro sta cercando di mitigare l'entità delle manovre da attuare nei prossimi anni con una grande svendita di immobili pubblici: come se una famiglia vendesse il proprio patrimonio per pagare le bollette.

Se si considera che il patrimonio pubblico é la garanzia per il nostro debito, ben si comprende il perché non sia catastrofismo, ma realismo, il sostenere che l’Italia sia praticamente già alla canna del gas.

Basterà questo a calmare i mercati e a tenere unita la maggioranza del paese? Chi vivrà vedrà.

Quello che è certo, però, è che la mancanza di trasparenza sui mercati avrà un prezzo in termini di compromessi da dover raggiungere tra forze politiche e sociali, in una gigantesca commedia degli errori in cui si dice che tutto va bene nello stesso tempo in cui si stringe la cinghia.


Crisi finanziaria: salvare l'Europa, istruzioni per l'uso
di Gilles Bonafi* - http://gillesbonafi.skyrock.com - 14 Aprile 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Micol Barba

La crisi greca suscita speranza e inquietudine. Speranza per coloro che sognano di vedere implodere l'Europa, inquietudine per chi, questa fine, non può concepirla. Tuttavia, non bisogna perdere di vista il fatto che l'Europa è un anello essenziale del Nuovo Ordine Mondiale che ha così tanto bisogno di energia che è “impensabile” che questa possa sparire; Del resto, sono già pronte delle soluzioni elaborate da tempo. Come al solito le riforme saranno di ordine tecnocratico mettendo in atto strutture che sfuggono al controllo delle nazioni e dunque dei cittadini.

L'euro, una moneta fragile

Una volta individuato, il problema necessita di alcuni richiami.

Prima di tutto, non bisogna perdere di vista che il trattato di Maastricht ha diviso l'Europa in due: da un lato l'Unione Europea, dall'altra la zona euro. Ora, la zona euro è estremamente fragile per il fatto che i paesi che la compongono hanno economie differenti. Per esempio, la Germania non è certo allo stesso livello della Grecia, e tuttavia, questi due paesi hanno una moneta comune.

Questo non è trascurabile! In effetti, siamo in molti a spiegare che l'euro, nello stato attuale delle cose non potrebbe sopravvivere a una crisi peggiore.

L'economista Jeans-Calde Werrebrouck, del resto, aveva dato un' eccellente sintesi della situazione il 3 febbraio 2009:

“La soluzione sarebbe, in Europa, di arginare la grave divergenza, in continua crescita, dei tassi d'interesse sul debito sovrano, condividendo i rischi. Questo aggiramento presuppone la creazione di una agenzia comune di emissione, facendo sparire gli “spreads”. Tutto questo, però, necessita di strategie di cooperazione interstatali che portino a regole rigide per gli Stati minacciati dal fallimento ”

Infatti, le differenze tra i tassi d'interesse sul debito (spread) in ragione delle divergenze economiche sono inconcepibili nell'ambito di una moneta comune. Questo si può comparare ad una barca sulla quale nessuno dei rematori rema alla stessa velocità' e per giunta senza timone.

Per evitare questo problema e salvare l'euro, bisogna mettere in atto una struttura interstatale, un tesoro europeo.

Del resto, nel febbraio 2009, anch'io avevo sollevato lo stesso problema soprattutto spiegando che questo dibattito non era nuovo, nel mio articolo Crisi sistemica: le soluzioni (n 1: l'euro),oggi più che mai attuale e nel quale scrivevo: “ A dire il vero, questa idea non è nuova ( quella del tesoro europeo), la si può far risalire a Erik Robert Lindahl che parlava già un tesoro europeo nel 1930 e, nel 1989 Carlo Ciampi, (banchiere e decimo presidente della Repubblica Italiana) aveva fatto una proposta che avrebbe dovuto dare il monopolio dell'emissione dell'euro alla BCE ( proposta Ciampi).

Il rapporto Lamfalussy (2004) era stato più preciso e dimostrava la necessita' di un soggetto regolatore unico. Un recente articolo di Bruegel (Think tank che opera per lo sviluppo economico dell'Europa) parla anche della creazione di un regolatore finanziario unico in Europa.

Ora, l'urgenza della situazione ci obbliga a creare una “struttura di difesa” che ci permetta di riacquisire i crediti dubbiose, cosa al momento impossibile visto che non possediamo un tesoro europeo. Questo è confermato da Anton Brender, capo economista della banca Dexia:
“ c'è bisogno di qualcuno che acquisti i debiti, ora, anche su scala zona euro, non esiste un Tesoro comune. Ecco tutta l'ambiguità dell'Unione monetaria europea. E' dotata della stessa moneta ma la Banca Centrale Europea non dispone di nessuna autorità' in materia cautelativa rispetto alle banche” (Le Figaro.fr del 24.0908).

Più di recente, l'economista Michel Aglietta ha dimostrato che “il sistema dell'euro era fragile poichè non poteva (contrariamente alla FED) posizionarsi come prestatore centrale, in ultima istanza, dal momento che la BCE non emetteva l'euro e possedeva pochi fondi propri.

Ora, oggi le cose si stanno delineando ed ecco nel dettaglio come questo tesoro europeo, di chi CERS sarà' la tappa chiave, verrà creato.

Il CERS, verso un tesoro europeo

Il Centre for European Policy Studies (CEPS), è un think tank europeo, il cui direttore è Daniel Gros, un economista tedesco. Del resto, è lui che, l'8 febbraio, con Thomas Mayer ,capo economista della Deutsche Bank ha lanciato l'idea di un Fondo Monetario Europeo, un tesoro europeo.

A grandi linee, spiegano che di fronte all'esplosione del debito pubblico (avvalendosi dell'esempio greco) c'è bisogno, in ultima istanza, di un organismo di prestito. Per chi volesse approfondire la questione vi invito a leggere l'articolo pubblicato, sul sito del The Economist Disciplinary measures.

Tuttavia, è interessante notare che questi due economisti propongono strutture soprannazionali con un consiglio di amministrazione rappresentativo dei paesi della zona euro.

Del resto, la creazione di un FME, non è ancora all'ordine del giorno e tutto questo maschera la vera soluzione in corso. Si tratta del Consiglio europeo per i rischi sistemici , CERS ( rapporto di Sylvie Goulard) il cui punto di forza sarà il Sistema europeo delle banche centrali, SEBC, che comprende le 27 banche centrali nazionali dell'Unione europea e che avrà l'incarico di controllare e sorvegliare ogni paese europeo.

Certamente il CERS dipenderà' interamente dalla BCE. Ecco la “ breve storia del CERS che debutterà “nel corso del 2010”.

“ La creazione della sorveglianza macro cautelativa, a livello europeo e l'istituzione del CERS sono previsti nell'ambito di un progetto di regolamento basato sull'articolo 95 del trattato CE, che esige la codecisione del Consiglio e del Parlamento europeo. Il regolamento è completato da un progetto di decisione del Consiglio che conferirà alla BCE il compito di assicurare il segretariato del CERS. Prima di avanzare proposte legislative, la commissione ha ampiamente consultato tutte le parti interessate, sia dopo la pubblicazione del rapporto del gruppo De Larosiere che dopo la Comunicazione del maggio 2009, che ha descritto la nuova architettura di sorveglianza nelle sue linee generali. Il Consiglio Europeo, di giugno, ha appoggiato le proposizioni contenute nella Comunicazione e ha accolto favorevolmente l'intenzione della Commissione di adottare dei testi legislativi all'inizio dell'autunno, per una rapida approvazione. L'obiettivo e' che il nuovo quadro sia messo in atto nel corso del 2010. Il Consiglio europeo ha annunciato che analizzerà' il soggetto in ottobre”.

Ecco qualche precisazione sul funzionamento del CERS che dovrebbe particolarmente illuminarvi:

⁃ la maggior parte delle decisioni non saranno rese pubbliche poiché “ le questioni potenzialmente abbordate negli avvertimenti e nelle raccomandazioni saranno estremamente sensibili e bisogna stare attenti agli effetti nocivi che potrebbe provocare la pubblicazione come, per esempio, il pericolo di una precipitazione o una reazione esagerata dei mercati finanziari”.

⁃ Il CERS coopererà strettamente con il nuovo FSB, il comitato di stabilità finanziaria USA che organizzera' anch'esso un organismo di controllo del rischio sistemico dipendente dalla riserva federale americana.

⁃ Le autorità nazionali non avranno diritto di voto perché non saranno responsabili che della sorveglianza microcautelativa. (1)

Del resto, lunedì 15 febbraio, la BCE ha creato la direzione generale della Stabilità finanziaria incaricata di identificare e valutare “i rischi sistemici in seno alla zona euro e al sistema finanziario dell'UE”.

Un nuovo organismo sarà ben presto quello del Sistema europeo di sorveglianza finanziaria SESF incaricato di sorvegliare banche, mercati finanziari,assicurazioni e pensioni.

José” Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea ci da il senso di tutto questo:
“i mercati finanziari sono non solamente nazionali ma europei e mondiali. La loro supervisione deve esserlo altrettanto. Il nuovo sistema che proponiamo oggi, forte dell'appoggio politico degli stati membri seguito al rapporto di Larosiere, è destinato a proteggere i contribuenti europei dal ripetersi dei giorni bui dell'autunno 2008 quando i governi sono stati obbligati a versare miliardi di euro alle banche. Questo sistema potrà' anche ispirare un sistema mondiale. Questa la posizione che sosterremo al G20 di Pittsburgh”

*Gilles Bonafi, professore e analista economico

Note

(1) http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=MEMO/09/405
(2) http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/09/1347