domenica 31 ottobre 2010

L'arrosto coperto dal bunga bunga

Ancora qualche articolo sull'arrosto coperto dal fumo del bunga bunga...


Il bunga bunga che segna la fine di un regno
di Eugenio Scalfari - La Repubblica - 31 Ottobre 2010

Le recenti cronache dell'Italia berlusconiana che raccontano l'ennesimo scandalo ormai generalmente etichettato "bunga bunga" mi hanno lasciato al tempo stesso indifferente e stupefatto.

L'indifferenza deriva dal fatto che conosco da trent'anni Silvio Berlusconi e sono da tempo arrivato alla conclusione che il nostro presidente del Consiglio rappresenta per molti aspetti il prototipo dei vizi italiani, latenti nel carattere nazionale insieme alle virtù che certamente non mancano. Siamo laboriosi, pazienti, adattabili, ospitali.

Ma anche furbi, vittimisti, millantatori, anarcoidi, insofferenti di regole, commedianti. Egoismo e generosità si fronteggiano e così pure trasformismo e coerenza, disprezzo delle istituzioni e sentimenti di patriottismo.

Berlusconi possiede l'indubbia e perversa capacità di aver evocato gli istinti peggiori del paese. I vizi latenti sono emersi in superficie ed hanno inquinato l'intera società nazionale ricacciando nel fondo la nostra parte migliore.

È stato messo in moto un vero e proprio processo di diseducazione di massa che dura da trent'anni avvalendosi delle moderne tecnologie della comunicazione e deturpando la mentalità delle persone e il funzionamento delle istituzioni.

Lo scandalo "bunga bunga" non è che l'ennesima conferma di questa pedagogia al rovescio. Perciò non ha ai miei occhi nulla di sorprendente.

Da quando avviò la sua attività immobiliare con denari di misteriosa provenienza, a quando con l'appoggio di Craxi costruì il suo impero televisivo ignorando le ripetute sentenze della Corte costituzionale, a quando organizzò il partito-azienda sulle ceneri della Prima Repubblica logorata dalla corruzione diventata sistema di governo.

A sua volta, su quelle ceneri, il berlusconismo è diventato sistema o regime che dir si voglia: un potere che aveva promesso di modernizzare il paese, sburocratizzarlo, far funzionare liberamente il mercato, diminuire equamente il peso fiscale, sbaraccare le confraternite e rifondare lo Stato.

Il programma era ambizioso ma fu attuato in minima parte negli otto anni di governo della destra ai quali di fatto se ne debbono aggiungere i due dell'ultimo governo Prodi durante i quali il peso dell'opposizione sul paese fu preponderante.

Ma non solo il programma rimase di fatto lettera morta, accadde di peggio. Accadde che il programma fu contraddetto. Il sistema-regime è stato tutto fuorché una modernizzazione liberale, tutto fuorché una visione coerente del bene comune.

Per dieci anni l'istituzione "governo" ha perseguito il solo scopo di difendere la persona di Berlusconi dalle misure di giustizia per i molti reati commessi da lui e dalle sue aziende prima e durante il suo ingresso in politica.

Nel frattempo l'istituzione "Parlamento" è stata asservita al potere esecutivo mentre il potere giudiziario è stato quotidianamente bombardato di insulti, pressioni e minacce che si sono anche abbattute sulla Corte costituzionale, sul Csm, sulle Autorità di garanzia e sul Capo dello Stato.

Il "Capo" e i suoi vassalli hanno tentato e tentano di costruire una costituzione materiale incardinata sul presupposto che il Capo deriva la sua autorità dal voto del popolo ed è pertanto sovra-ordinato rispetto ad ogni potere di controllo e di garanzia.

Questa situazione ha avuto il sostegno di quell'Italia che la diseducazione di massa aveva privato d'ogni discernimento critico e che vedeva nel Capo l'esempio da imitare e sostenere.

Il cortocircuito che questa situazione ha determinato nel carattere di una certa Italia ha fatto sì che Berlusconi esibisca i propri vizi, la propria ricchezza, la sistematica violazione delle regole istituzionali e perfino del buongusto e della buona educazione come altrettanti pregi.

Non passa giorno che non si vanti di quei comportamenti, di quella ricchezza, del numero delle sue ville, del suo amore per le donne giovani e belle, dei festini che organizza "per rilassarsi", degli insulti e delle minacce che lancia a chi non inalbera la sua bandiera.

E non c'è giorno in cui quell'Italia da lui evocata e imposta non lo ricopra di applausi e non gli rinnovi la sua fiducia.

Lo scandalo "bunga bunga" è stato l'ennesima riprova di tutto questo. La magistratura sta indagando sugli aspetti tuttora oscuri di questa incredibile vicenda della quale tuttavia due punti risultano ormai chiari e ammessi dallo stesso Berlusconi: la sua telefonata al capo gabinetto del Questore di Milano nella quale chiedeva il pronto rilascio della minorenne marocchina sua amica nelle mani "sicure" di un'altra sua amica da lui fatta inserire da Formigoni nel Consiglio della Regione lombarda, e l'informazione da lui data alla Questura che la minorenne in questione era la nipote del presidente egiziano Mubarak.

Queste circostanze ormai acclarate superano ogni immaginazione e troverebbero adeguato posto nell'ultimo romanzo di Umberto Eco dove il protagonista ricalca per alcuni aspetti "mister B" per le sue capacità d'inventare il non inventabile facendolo diventare realtà.

La cosa sorprendente e stupefacente non è nella pervicacia con la quale Berlusconi resta aggrappato alla sua poltrona e neppure la solidarietà di tutto il gruppo dirigente del suo partito e della sua Corte, che fa quadrato attorno a lui ben sapendo che la sua uscita di scena sarebbe la rovina per tutti loro.

La cosa sorprendente è che - sia pure con segnali di logoramento e di sfaldamento - ci sia ancora quella certa Italia il cui consenso nei suoi confronti resiste di fronte alla grottesca evidenza di quanto accade.

Questo è l'aspetto sorprendente, anzi sconvolgente, che ci dà la misura del male che è stato iniettato e coltivato nelle vene della società e questo è il lascito, il solo lascito, di Silvio Berlusconi.

Sua moglie Veronica, in una lettera pubblicata un anno e mezzo fa, lo scolpì in poche righe, stigmatizzò l'uso che il marito faceva del potere e delle istituzioni, i criteri di reclutamento della "sua" classe politica imbottita di "veline" e di attricette che avevano "ceduto i loro corpi al drago" e concluse scrivendo: "Mio marito è ammalato e i suoi amici dovrebbero aiutarlo a curarsi seriamente".

Quello che sta accadendo lo dimostra e lo conferma: quest'uomo è gravemente ammalato, l'attrazione verso donne giovani e giovanissime è diventata una dipendenza che gli altera la mente e manda a pezzi i suoi freni inibitori.

Dovrebbe esser seguito da medici e da psico-terapeuti che lo aiutassero a riprendersi; ma sembra di capire che sia seguito da persone reclutate con tutt'altro criterio: quello di immortalare le apparenze della sua giovinezza in tutti i sensi. Ma così non fanno che aggravare il male.

* * *

È ormai evidente agli italiani normali e normalmente raziocinanti, il cui numero sta fortunatamente aumentando, che questa situazione non può continuare. In qualunque altro paese dell'Occidente democratico sarebbe terminata da un pezzo per decisione dello stesso interessato e del gruppo dirigente che lo attornia. Ma qui le cose vanno in un altro modo e sappiamo perché.

Tra lui e i suoi accoliti, uomini e donne che siano, esistono vincoli che non si possono sciogliere perché ciascuno di loro (quelli che contano veramente) ha le sue carte sul Capo e lui ha le sue carte su tutti gli altri. Così per Previti, così per Dell'Utri, così per Scajola, così per Verdini, così per Brambilla ed altri ancora.

A questo punto tocca a tutti coloro che ritengono necessario ed urgente porre fine al "bunga bunga" politico, costituzionale e istituzionale, staccare la spina.

Presentare una mozione di sfiducia che vada da Bersani a Fini e da Casini a Di Pietro, che abbia la funzione che in Germania si chiamerebbe "sfiducia costruttiva". Esponga cioè il programma che quell'arco di forze vuole attuare subito dopo che la sfiducia sia stata approvata e che si può riassumere così:

1. Indicare al Presidente della Repubblica l'esistenza di una maggioranza alternativa che gli consenta di nominare un nuovo governo, come la Costituzione prevede.

2. Elencare alcuni temi programmatici a cominciare dal restauro costituzionale, indispensabile dopo la devastazione compiuta in questi anni e, a seguire, alcune urgenti misure economiche e sociali, un federalismo serio che rafforzi l'unità nazionale e la modernizzazione della società articolandola secondo un disegno federale, una riforma della giustizia che sia utile ai cittadini, una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di eleggere i propri rappresentanti nei vari modi con i quali quest'obiettivo può essere realizzato.

Uno sbocco di questo genere sarebbe estremamente positivo per il paese e dovrebbe essere guidato da qui alla fine naturale della legislatura da un "Mister X" che abbia le caratteristiche e la competenza necessaria al recupero dei valori etici e politici che la Costituzione contiene nella sua prima parte, ammodernandola nella seconda in conformità alle esigenze che una società moderna richiede.

Noi riteniamo che questo percorso vada intrapreso al più presto anche per riconciliare con le istituzioni un paese stanco e disilluso dal tristissimo spettacolo che è sotto gli occhi di tutti.

Non si tratta di utilizzare lo scandalo della minorenne marocchina strumentalizzandolo per fini politici. Si tratta invece di metter fine ad una rovinosa gestione governativa del "non fare" e del "malfare", che non è riuscito ad aprire un cantiere, a sostenere i consumi e il potere d'acquisto, a recuperare un centesimo di avanzo nel bilancio delle partite correnti, ad invertire il trend negativo dell'occupazione, a fare un solo passo avanti nella buona riforma della giustizia e del federalismo.

Infine a smantellare la "cricca" che da quindici anni non fa che rafforzarsi prendendo in giro i gonzi con il racconto d'una improbabile favola a lieto fine.

La storia italiana ha visto più volte analoghe "cricche" al vertice del paese. Quando ciò è accaduto, la favola è sempre terminata male o malissimo. L'esperienza dovrebbe aiutarci ad interrompere questo percorso in fondo al quale c'è inevitabilmente la rovina sociale e il degrado morale.


Si tratta solo di Gnocca?
di Beppe Giulietti - www.ilfattoquotidiano.it - 30 Ottobre 2010

Sarà pure sbroccato di testa, come si usa dire dalle mie parti, sarà sicuramente “fuori controllo e malato” come scrive Famiglia Cristiana, ma occhio al Caimano e alla sua scorta mediatica!

Proprio perchè è ormai fuori controllo può riservare sorprese amare e ricche di veleno. Nell’immediato ha deciso di giocare la carta, per lui consueta, della barzelletta, di lanciare la palla in tribuna, tentando di parlare d’altro e di spostare il tiro, assisitito amorevolmenete dai tg di famiglia.

Sono un uomo buono, aiuto i bisognosi“. Questo il primo commento, ora ha ripiegato su uno spot di tipo mediterrameo machista: “Amo la vita e le donne,e allora?“, strizzando l’occhio al gallismo nazionale e contando su una diffusa complicità . “Non amate forse anche voi le stese cose? Non volete essere come il vostro presidente?

O volete forse assomigliare ai miei nemici, gente triste, che non sa divertirsi, invidiosa, cattiva, e che vorrebbe condannare anche voi a vivere così, senza,sorriso, senza sogni, senza speranze di immortalità?

Io almeno vi faccio divertire..”, questo più o meno il messaggio che tenta di lanciare, messaggio che sarebbe travolto da risate e pernacchie in qualsiasi altro paese, e non solo in Europa, ma non qui, dove viene ossessivamente ripetuto dai suoi tg che, ormai, hanno assunto il ruolo di appassionate badanti di un signore privo di freni e di autocontrollo.

Attenzione, tuttavia, anche inconsapevolmente, a non cadere nella sua trappola.

Berlusconi e i suoi fedelissimi, sempre meno per altro, vorrebbero costringere tutti noi a rilasciare commenti e battute sul bunga bunga, sul presidente amatore, sul giovanotto buono che piace alle donne.

Basta dare una rapida lettura ai fogli di sua proprietà per capire quale sia la strategia mediatica e politica: dal momento che il capo è indifendibile, diciamo che anche gli altri sono come lui e che, in ogni caso, “si tratta solo di gnocca”, per riprendere l’elegante titolo di Libero. Bisogna lasciarli solo su questa strada o meglio su questo marciapiede.

Sforziamoci, me per primo, di bandire la parola bunga, bunga, meglio, molto meglio concentrare l’attenzione sulle questioni vere, quelle che vorrebbero nascondere dietro al bunga al bunga e alla biografia del presidente grande amatore ed impareggiabile amante.

Non di questo si sta discutendo, ma di qulcosa di assai meno divertente, ammesso che ci sia qualcosa di diverntente nelle squallide avventure descritte dai giornali.

Il presidente ha telefonato o no in questura? Perhè lo ha fatto? Si è spinto sino alla impudenza di definire la povera Ruby come la nipote di Mubarack, quasi fosse una reminiscenza del bellissimo romanzo di Camilleri “Il nipote del Negus”?

Perchè ha sentito il bisogno e l’urgenza di occuparsi di questa ragazza minorenne? Perchè, nelle primissime ore, lui, i suoi avvocati, i suoi fedelissimi hanno negato e mentito ogni addebito?

Qui non si sta discutendo di una avventura, ma di conflitto di interessi, di abuso di potere, di prepotenza, di tutela del previlegio, di oltraggio non al comune senso del pudore ma al principio di uguaglianza tra i cittadini.

Perchè non ha mai telefonato per tutti gli altri bisognosi? Cosa c’entra Lele Mora con i bisognosi? Che tipo di bisogni curavano Lele Mora e Fabrizio Corona?

In qualsiasi altro paese basterebbe quello che è già emerso per provocare non le dimissioni, ma la spontanea consegna della lettera d’addio da parte del presidente medesimo.

In Francia, in Germania, in Gran Bretagna, per fare qualche esempio, sarebbero stati i giornali di destra, per primi, a chiedere le dimissioni, proprio per salvare l’onore, la dignità, il futuro stesso del loro blocco sociale e poltico.

Qui, invece, si titola, “Tutti nel lettone di Silvio“,oppure “Ci risiamo con la gnocca“, e questa sarebbe la stampa di destra, quella che dovrebbe invocare ordine e legalità!

A questo punto, costi quel che costi, sarà il caso di presentare una mozione di sfiducia nei confronti del presidente del Consiglio, sfidare lo stesso Fini a prendere posizione, affrontare una pubblica discussione prima che la propaganda trasformi il tutto nella ennesima barzelletta nazionale.

Questa volta Berlusconi l’ha fatta davvero grossa, questa volta anche il Corriere della sera, La Stampa, tutti i principali quotidiani, almeno quelli che non ha ancora comperato, hanno messo in rilievo errori ed orrori, hanno posto domande, le risposte non sono arrivate e non potranno arrivare.

Queste risposte, almeno quelle politiche, debbono essere date nelle aule del Parlamento.

C’è il rischio che tutto crolli, che si vada al voto subito? Può darsi, ma chi teme questo scenario forse non si è accorto che tutto è già crollato, non solo è stata travolta la legalità repubblicana, ma anche i dieci comandamenti, solo monsignor Fisichella non lo sa, anzi forse sta tentendo di trovare una soluzione ed una assoluzione anche per questa ultima storiaccia.

Prima si stacca la spina e meglio è, per tutti, forse persino per l’illustre malato.


L'ombrello del Pompiere
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 30 Ottobre 2010

Ormai i depistaggi arrivano rapidissimi, in contemporanea con le piste. Lasciamo da parte Minzolingua, che è un professionista (il Tg1 è tutto un “presunto”: manca soltanto che B. diventi il presunto premier e quella di Arcore la sua presunta villa).

A scavalcarlo han provveduto persino Emilio Fede, che al suo confronto è Ted Turner e lo stesso B., che ha confessato quasi tutto: conosce Ruby e le ha aperto il suo cuore, al punto di attaccarsi al telefono per salvarla dai poliziotti rossi che avevano osato fermarla per furto.

Lasciamo pure da parte i giornali della ditta che, non potendo negare la storia, riattaccano le lagne del “gossip” e della persecuzione, come se la Procura di Milano avesse braccato la ragazza per incastrare B., e non se la fosse invece trovata fra i piedi per caso.

Il Giornale titola: “Otto procure a caccia di Berlusconi. Neanche fosse Al Capone”. E Libero: “Ci risiamo con la gnocca. Trappolone per il Cav”. Se passa l’idea che lo perseguitano perché gli piacciono le donne, come riuscì a far credere un anno fa per Noemi, le veline candidate, la D’Addario e i festini nelle ville, B. vincerà anche stavolta.

E nei bar si risentirà l’orrendo ritornello italiota: “Lui almeno ama le donne, a sinistra invece sono gay o vanno a trans”. Proprio a questo – dirottare l’attenzione dal vero oggetto dello scandalo verso le sue abitudini sessuali – mirano le dichiarazioni rilasciate ieri da B., dopo l’improvvida confessione del primo giorno: “Amo la vita e amo le donne. Nessuno potrà mai farmi cambiare stile di vita, faccio degli sforzi massacranti, nessuno mi può impedire di passare ogni tanto qualche serata distensiva. Mi sono adoperato per trovare un affidamento per questa ragazza: mi sembrava in una situazione drammatica, le ho mandato una persona (Nicole Minetti, ndr) ad aiutarla”.

E così, in un incrocio fra la parabola evangelica e la fiaba, ecco il buon samaritano che si ferma sulla strada fra Gerusalemme e Gerico a soccorrere la piccola fiammiferaia marocchina.

Poi, si capisce, siccome si sacrifica per noi, avrà pur diritto a un po’ di svago. La vita è breve e la carne è debole. Casomai, una volta tanto, le opposizioni volessero approfittare dell’ennesimo scandalo (non solo è un loro interesse, ma un preciso dovere), dovrebbero evitare dichiarazioni moralistiche sullo stile di vita, la concezione della donna, la volgarità e i gusti sessuali del premier (fatti suoi, di chi lo vota e frequenta). E inchiodarlo non al bunga bunga, ma agli aspetti pubblici della vicenda.

1) L’abuso di potere (non più reato grazie a un’astuta legge del centrosinistra) commesso con la telefonata in Questura per far rilasciare la ragazza prima che parli spacciandola per nipote di Mubarak.

2) Il ruolo della Minetti, “igienista dentale” e tante altre cose, promossa su due piedi consigliere regionale.

3) L’esercito di persone che vedono, sanno, magari registrano tutto e possono chiedere qualsiasi cosa in cambio del silenzio: ragazze, amiche, prosseneti, mediatori, autisti, uomini di scorta, persone di servizio, altri invitati.

4) Il ruolo di Lele Mora, che procaccia al sultano ragazze anche a pagamento, anche minorenni e poi, quando una si mette nei guai e rischia di parlare, manda avanti la figlia per adottarla: lo fa gratis o c’è qualcosa anche per lui?

5) I tempi e i modi delle “indagini difensive” dell’on. avv. Ghedini, che interroga a una a una le ragazze ancor prima che compaiano dinanzi al pm: un’attività consentita da un’altra geniale legge del centrosinistra, che però potrebbe sconfinare nell’inquinamento probatorio.

Di questo dovrebbero parlare una politica e una stampa degne di questo nome. Infatti Bersani blatera di “singolari abitudini del premier”. Quel genio di D’Alema strilla all’“involgarimento” e chiede che “la Chiesa intervenga” (salvo poi accusarla di interferenza quando interviene su temi sgraditi al Pd).

E il Pompiere della Sera titola: “La bufera delle feste di Arcore”. Ecco: il problema sono le feste e le condizioni meteorologiche nei cieli della Brianza. Più che un’inchiesta, basta aprire un ombrello.

Tareq Aziz, il capro espiatorio

Una serie di articoli di commento alla condanna a morte comminata pochi giorni fa all'ex Ministro degli esteri iracheno Tareq Aziz, vice di Saddam Hussein.

Una vendetta a 360 gradi...


Tareq Aziz, la vendetta Usa
di Michele Paris - Altrenotizie - 30 Ottobre 2010

La recente sentenza della Suprema Corte Criminale irachena che condanna all’impiccagione l’ex ministro degli Esteri di Saddam Hussein, è un vergognoso atto di vendetta politica ordinato dal governo fantoccio di Baghdad con il beneplacito dei padroni di Washington.

La condanna a morte di Tareq Aziz, il quale per anni ha rappresentato la faccia presentabile del regime di Saddam, si basa su prove che nessun tribunale di un paese civile considererebbe attendibili e serve a zittire definitivamente uno scomodo testimone del vero ruolo giocato dagli Stati Uniti e dall’Occidente nelle travagliate vicende irachene degli ultimi tre decenni.

Nato Mikhail Yuhanna da una famiglia cristiana caldea nel nord dell’Iraq, Aziz studiò inglese presso l’Università di Baghdad per poi dedicarsi al giornalismo ed entrare nel Partito Ba’th nel 1957 con l’aspirazione a liberare il suo paese dal colonialismo britannico e superare le divisioni etnico-religiose fomentate dall’imperialismo occidentale.

L’appartenenza ad una minoranza cristiana e l’adesione al nazionalismo secolare baathista rendono tragicamente ironica la condanna alla pena capitale proprio per l’accusa di aver perseguitato membri di un partito islamico.

Poco dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, Tareq Aziz si consegnò volontariamente agli americani, sperando forse che la sua statura internazionale e gli stessi legami diplomatici con i precedenti inquilini della Casa Bianca avrebbero potuto risparmiargli il carcere.

Aziz venne invece spedito in isolamento, prima sotto il controllo statunitense e dallo scorso mese di luglio affidato alle forze di sicurezza irachene. Al momento del trasferimento sotto la responsabilità dei suoi connazionali, pare che Aziz abbia confidato al suo avvocato, “Sono sicuro che mi uccideranno”.

Il 74enne braccio destro di Saddam Hussein si trovava già sulle spalle due condanne a ventidue anni di carcere. Praticamente una sentenza a vita alla luce dell’età avanzata e del precario stato di salute che ha richiesto svariati interventi negli ultimi anni.

Nel 2008, dopo cinque anni di detenzione senza accuse specifiche a suo carico, venne processato e condannato per presunta responsabilità diretta nell’esecuzione di 42 mercanti iracheni accusati di aver manipolato il prezzo del cibo nel 1992, quando il paese era sottoposto alle sanzioni occidentali.

Nonostante il crimine fosse sempre stato attribuito al solo Saddam, l’Alto Tribunale Iracheno, istituito dal governo provvisorio dopo l’invasione USA, gli inflisse una condanna di 15 anni.

Nell’agosto del 2009, poi, arrivarono altri sette anni per la deportazione di cittadini curdi dall’Iraq nord-orientale. Anche in questo caso, come dimostrarono numerose indagini di media occidentali, non vi erano prove schiaccianti sulle responsabilità di Tareq Aziz.

Qualche giorno fa, infine, è stata la volta della condanna a morte per impiccagione, dopo che il supremo tribunale iracheno lo ha ritenuto colpevole delle persecuzioni ai danni di partiti sciiti nei primi anni Ottanta.

Nell’aprile del 1980, membri del partito Dawa, d’ispirazione sciita e supportato dall’Iran, attentarono alla vita di Saddam e dello stesso Aziz lanciando granate in una zona centrale di Baghdad che fecero varie vittime tra i civili.

Il regime, appoggiato da Washington in funzione anti-iraniana, ordinò allora la repressione che portò all’esecuzione di alcuni appartenenti al partito che oggi è guidato dall’attuale primo ministro Nouri al-Maliki.

Come se non bastasse, il giudice che ha emesso la sentenza di morte per Tareq Aziz, Mahmud Saleh al-Hasan, è un esponente di spicco della coalizione di governo dello stesso Maliki.

La condanna di Tareq Aziz, costretto per parecchio tempo a fare a meno di un avvocato per le minacce indirizzate a chiunque osasse difenderlo in tribunale, vorrebbe rendere giustizia dei crimini commessi da Saddam Hussein e dal suo entourage fino all’invasione del 2003.

Sono molti, tuttavia, a far notare come il funzionamento del regime baathista deposto tendesse ad escludere dagli apparati della sicurezza dello stato coloro che, sia pure in posizioni di spicco come l’ex primo ministro (1983-1991) e vice-primo ministro (1979-2003), non facevano parte del cosiddetto “clan di Tikrit”, dal nome della città di origine di Saddam.

È poi singolare che ad emettere la sentenza di morte per Aziz siano indirettamente formazioni politiche legate alle milizie responsabili dei massacri su base settaria scatenati dall’arrivo degli americani in Iraq ormai quasi otto anni fa.

Senza contare che, come hanno dimostrato i documenti appena pubblicati da Wikileaks sul conflitto iracheno, il governo di Baghdad si è reso protagonista di uccisioni e torture sistematiche di civili senza che da Washington si battesse ciglio o che l’impresa in Iraq degli Stati Uniti ha causato complessivamente un numero maggiore di vittime innocenti di quante possano essere attribuite al regime di Saddam Hussein.

Se l’Unione Europea e il Vaticano, che nella primavera del 2003 garantì un’udienza con Giovanni Paolo II al capo della diplomazia irachena poco prima dello scoppio del conflitto, hanno chiesto clemenza al governo di Baghdad, l’amministrazione Obama ha mantenuto al contrario un colpevole silenzio sulla sorte di Tareq Aziz. D’altra parte, sono evidenti i benefici che Washington trarrebbe dall’eliminazione di quest’ultimo.

Figura più importante ancora in vita del regime di Saddam, Aziz è stato protagonista di tutte le principali vicende che hanno visto gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali manovrare secondo i propri interessi in Iraq.

Nei mesi precedenti l’aggressione del 2003, inoltre, fu Tareq Aziz a cercare di confutare la falsa accusa americana del possesso di armi di distruzione di massa da parte irachena con numerosi missioni diplomatiche all’estero. Ancora più pericolosa sarebbe la sua testimonianza sul ruolo ambiguo degli USA nelle settimane che precedettero l’invasione irachena del Kuwait nell’estate del 1990.

Tareq Aziz era infatti al fianco di Saddam quando in un incontro a Baghdad l’allora ambasciatrice americana, April Gilaspie, assicurò a entrambi che il governo americano non aveva alcuna obiezione ad un intervento dell’Iraq in Kuwait, episodio che come è noto avrebbe innescato la prima Guerra del Golfo.

Decisamente interessante potrebbe essere anche il suo parere sull’influenza statunitense nello spingere l’Iraq in una sanguinosa guerra con l’Iran negli anni Ottanta.

Sempre Aziz ricevette tra il 19 e il 20 dicembre 1983 l’allora inviato speciale per il Medio Oriente dell’amministrazione Reagan, il futuro segretario alla Difesa Donald Rumsfeld, che avrebbe manifestato tutto il sostegno della Casa Bianca per il regime di Saddam nel contrastare il diffondersi della rivoluzione iraniana nel mondo arabo.

La sua versione sul contenuto di quei colloqui a Baghdad risulterebbe fondamentale, così come la verità sulle armi chimiche impiegate da Saddam contro gli iraniani e verosimilmente fornite dagli alleati occidentali.

Alcuni dei segreti sugli sporchi giochi degli USA in Medio Oriente finiranno così nella tomba con Tareq Aziz, una volta che sarà portato a termine l’ennesimo crimine di guerra dell’avventura americana in Iraq.


Tareq Aziz espia lo scontro di civiltà
di Roberto Zavaglia - www.lineaquotidiano.net - 27 Ottobre 2010

La condanna a morte di Tareq Aziz significa, prima di ogni altra cosa, che l’Iraq, a oltre sette anni dall’invasione statunitense, è ancora immerso in un clima di odio e di vendetta. Il parziale ritiro delle truppe di occupazione non è affatto la dimostrazione che la guerra, soprattutto la guerra civile, sia finita.

I piccoli segnali di normalità che gli Usa, i responsabili della tragedia irachena, si sforzano di enfatizzare non possono nascondere come, allo stato attuale, la pacificazione e la ricostruzione siano mete ancora lontane.

Sono passati quasi otto mesi dalle elezioni, ma a Baghdad ancora non c’è un governo. Sembra però si vada verso la formazione di un “monocolore sciita”, con l’alleanza tra il primo ministro uscente al-Maliki e il radicale al Sadr, contrariamente alle indicazioni delle urne che avevano assegnato la maggioranza relativa alla lista “trasversale” di Allawi.

Se così fosse, per la minoranza sunnita e anche per quel che rimane dei cristiani le cose potrebbero perfino peggiorare. La forca a Baghdad lavora a pieno regime e non c’è da stupirsi che presto ne possa fare le spese anche colui che fu uno dei principali collaboratori di Saddam. Dipinto dalla stampa internazionale come il “volto umano” del regime, Aziz fu, innanzitutto, un abile diplomatico che, fino all’ultimo, tentò di scongiurare l’attacco statunitense.

In Occidente suscitava sorpresa che il ministro degli Esteri di un regime giudicato una “dittatura sunnita” fosse un cristiano, cattolico caldeo per la precisione. Uno stupore immotivato perché il Baath era un partito laico che della polemica contro i regimi arabi fondati sul “conservatorismo religioso”, additato come lo strumento per perpetuare il potere delle vecchie classi dominanti, faceva il suo cavallo di battaglia. Del resto, il Baath siriano che, inizialmente, ispirò il “partito fratello” iracheno, venne fondato dal cristiano Michel Afleq.

E’ comprensibile che, in un Paese a grande maggioranza islamica, il giovane Aziz, come molti altri suoi correligionari, aderisse e poi percorresse il cursus honorum in un partito che predicava il socialismo nazionale e il panarabismo al di là di tutte le differenze confessionali.

Sebbene i sunniti, di fatto, fossero in maggioranza nella classe dirigente, sotto Saddam i cristiani, al contrario di oggi, non se la passavano male, godendo di piena libertà di culto, senza che nessuno si permettesse di minacciarli a causa della loro fede.

Aziz è stato condannato alla pena capitale per avere genericamente partecipato alla “persecuzione dei partiti religiosi”. Probabilmente, si tratta dei fatti che seguirono al fallito attentato del 1980 contro lo stesso ministro degli Esteri, ad opera, sembra, di un agente iraniano.

Il regime reagì condannando a morte molti militanti del partito sciita Dawa, al quale apparteneva anche al –Maliki, e facendo impiccare l’ayatollah Mohammed Baqer Sadr, zio di al-Sadr. Oggi sembra arrivato il momento della vendetta, sotto il velo trasparente di un formale processo.

E’ difficile indicare l’entità delle persecuzioni politiche ordinate da Saddam, essendo materia di contesa fra la propaganda dei nostalgici del regime e quella dei suoi nemici. Ancora più arduo è stabilire le concrete responsabilità di Aziz che, secondo alcuni esponenti della diplomazia internazionale, sarebbero pressoché nulle.

In ogni caso, il nuovo regime iracheno, continuando a epurare sanguinosamente i vinti, dimostra di non credere alle parole di riconciliazione nazionale che pronuncia nei discorsi ufficiali. Anche perché i tribunali non concedono alcuna garanzia agli imputati. “E’ stato un processo fasullo, con un giudice fasullo”, ha dichiarato Giovanni di Stefano, uno degli avvocati di Aziz: “Il tribunale non mi ha permesso di fare neppure una domanda ai testimoni”.

I vescovi cristiani in Iraq hanno protestato per la condanna a morte nella quale, probabilmente, vedono l’indizio di un ulteriore accanimento contro la propria comunità.

Che la situazione dei cristiani sia sempre più difficile l’ha scritto, qualche giorno fa su “The Indipendent”, anche Robert Fisk, un giornalista di grande valore, con un’enorme esperienza delle vicende mediorientali: uno che bisogna ascoltare sempre attentamente, anche quando occasionalmente non si è d’accordo, per la sua qualità morale di testimone super partes e per il suo coraggio, dimostrati in decenni di attività.

Scrive Fisk che “quasi la metà dei cristiani iracheni sono fuggiti dal loro Paese, dopo la Prima guerra del Golfo del 1991 e, soprattutto, dopo l’invasione del 2004 ( strano omaggio alle sedicente fede cristiana dei due presidenti Bush che scatenarono le guerre contro l’Iraq)”.

La progressiva scomparsa delle comunità cristiane riguarda comunque tutto il Medio Oriente: “Più della metà dei cristiani libanesi vive fuori dal loro Paese: un tempo maggioranza, il milione e mezzo di cristiani, in gran parte maroniti, costituisce oggi forse il 35% dei libanesi”. La drastica riduzione del numero dei cristiani, aggiunge il giornalista inglese, riguarda anche altri Paesi, come l’Egitto, dove forte era il loro radicamento.

Questa è la situazione alla fine (?) dell’epoca delle guerre umanitarie che, nel delirante progetto dei neocon Usa, avrebbero dovuto “rifare il Medio Oriente”, portando democrazia e diritti umani per tutte le minoranze.

E’ ovvio che i problemi per i cristiani della regione non dipendono solo dalle spedizioni militari di Washington, ma certamente ne sono stati acuiti.

In un oceano musulmano, essi vengono sempre più identificati come i rappresentanti di un Occidente aggressivo e anti-islamico, anche in quei Paesi dove non solo erano tollerati ma, da secoli, godevano di piena cittadinanza.

Il recente sinodo del Medio Oriente ha messo in luce questo pericolo, oltre a sottolineare come l’eterna questione palestinese contribuisca a peggiorare i rapporti fra le varie comunità religiose.

Il governo israeliano ha reagito con rabbia alle prese di posizione espresse, in quella sede, dai vescovi che vivono nella regione, arrivando a minacciare ripercussioni nei rapporti tra lo Stato ebraico e il Vaticano.

Il vice ministro degli Esteri, Danny Ayalon, ha dichiarato che “i governi israeliani non si sono mai serviti della Bibbia”, in risposta alle affermazioni del Sinodo in cui si sosteneva che non è lecito giustificare le ingiustizie e l’occupazione di terre altrui sulla base di posizioni teologiche e di letture bibliche.

Forse nei documenti ufficiali gli israeliani sono più prudenti, ma i politici al governo che difendono i coloni in Cisgiordania non hanno timore di riferirsi alla Terra Promessa. In quanto poi alla pretesa che Israele non faccia discendere la sua legittimità dai testi sacri, per demolirla basta pensare alla nuova legge sulla cittadinanza.

Quella per la quale i cittadini dovranno giurare lealtà allo Stato di Israele “in quanto Stato ebraico e democratico”. Una norma davvero laica e, soprattutto, democratica…



Tariq Aziz condannato a morte - la vendetta degli sciiti
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 27 Ottobre 2010

Aveva avvertito l’amministrazione Obama: se ve ne andate, abbandonerete l’Iraq ai lupi – e ora i lupi vogliono mangiarselo. Tariq Aziz, che fu il numero due del regime ba’athista iracheno, il vice di Saddam Hussein, è stato condannato a morte ieri per aver partecipato alla “liquidazione dei partiti religiosi”.

Ossia per la repressione dei partiti sciiti - a cominciare da quello del premier (uscente) Nuri al Maliki, al Da’awa, che venne praticamente decimato negli anni in cui era al potere Saddam.

E di Saddam Aziz fu indubbiamente strettissimo collaboratore, se non proprio il braccio destro (il raìs di Baghdad sostanzialmente non ne aveva) – prima come ministro degli Esteri, poi come vice premier. Carica che mantenne fino alla caduta del regime, avvenuta a seguito all’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti del marzo 2003.

Ieri la condanna a morte da parte della Corte Suprema irachena, che arriva dopo altre due condanne a pene carcerarie per un totale di 22 anni.

Il cristiano caldeo (il suo vero nome è Mikhail Yuhanna) che fu il volto presentabile del regime ba’athista a livello internazionale (ricevuto più volte e apprezzato anche in Vaticano) ora rischia l’impiccagione, assieme ai suoi quattro coimputati: Sa’adun Shaker, ex ministro degli Interni e capo dei servizi segreti, Abed Hamoud, che fu tra i segretari privati di Saddam, Sabawi Ibrahim al-Hasan, uno dei fratellastri di Saddam, e Abdul Ghani Abdul Ghafour, ex pezzo grosso del partito Ba’ath.

Il legale: “sentenza ingiusta e politicamente motivata”

Di “sentenza ingiusta e politicamente motivata” parla uno dei suoi legali, Badie Izzat Aref, da Amman, il Giordania: una mossa del governo Maliki (che prima o poi dovrebbe fare i bagagli, anche se il premier uscente sta facendo di tutto per avere un secondo mandato) per distogliere l’attenzione dalle recenti rivelazioni sugli abusi diffusi nelle carceri irachene che emergono dai documenti Usa resi pubblici da WikiLeaks.

Le televisioni irachene hanno trasmesso la lettura della sentenza – durante la quale Aziz, 74 anni, da tempo malato, con indosso una camicia blu, appariva debole, mentre faceva dei leggeri cenni con la testa ascoltando il giudice.

Giudice forse non propriamente al di sopra delle parti.

Mahmoud Saleh al-Hassan, infatti, si era presentato alle elezioni legislative del 7 marzo scorso nelle liste dell’Alleanza per lo Stato di Diritto – la coalizione di Maliki – senza però riuscire a essere eletto.

Nei manifesti della sua campagna elettorale si leggeva: “Coloro che vogliono vedere i tiranni umiliati devono votare per il giudice Mahmoud Saleh al-Hassan".

E che Maliki – e il suo partito – non siano estranei alla sentenza che condanna Aziz (e i suoi coimputati) alla forca sono in parecchi a pensarlo.

A cominciare, ovviamente, dai suoi rivali. Secondo i quali il momento scelto per emetterla fa pensare che il premier uscente stia cercando di utilizzare i tribunali per promuovere i suoi obiettivi politici.

Sapore di vendetta

Il tutto ha comunque un sapore di vendetta.

Aziz, che nell’aprile 2003 decise di consegnarsi spontaneamente agli americani (fu uno dei primi a farlo – dei pezzi da novanta), è stato condannato per aver partecipato alla repressione – effettivamente sanguinosa – lanciata contro i partiti religiosi sciiti a partire dal 1980.

Un durissimo giro di vite (secondo alcune fonti i morti furono decine di migliaia), che costrinse molti esponenti di tali partiti a fuggire dall’Iraq – rifugiandosi in Iran e in Siria. Uno di loro era proprio Maliki.

L’ex vice premier iracheno adesso ha 30 giorni di tempo per presentare appello. Se la sentenza che lo condanna a morte dovesse venire confermata, potrebbe venire giustiziato entro un mese.

Dal carcere non aveva comunque speranza di uscire. Consegnato dalla forze Usa agli iracheni a metà luglio, aveva detto più volte che si aspettava di morire in prigione.

Prigione in cui era stato intervistato dal Guardian poco dopo la sua consegna.
Nell’occasione aveva detto al quotidiano britannico che gli Stati Uniti, ritirando le loro truppe, “abbandonavano l’Iraq ai lupi”.

Si muove il Vaticano – e anche l’Italia

Molte le reazioni internazionali. A cominciare da quella del Vaticano, che ha diffuso un comunicato esortando le autorità irachene a non eseguire la sentenza.

E poi l’Unione Europea (ufficio della responsabile per la politica estera Catherine Ashton), e Amnesty International.

Anche in Italia c’è parecchio movimento: oltre a Marco Pannella, che ha iniziato uno sciopero totale della fame e della sete per protesta contro la condanna (come già aveva fatto per Saddam), si segnalano numerose prese di posizione, fra cui quella della Comunità di S.Egidio – che parla di “punizione postuma”, con la quale l'Iraq “dimostra di essere un Paese che non trova pace e rischia di allontanarsi dal sentire della gran parte degli Stati del mondo”.

Si muove anche il Senato. Un gruppo di senatori (prima firmataria Emma Bonino) ha presentato una mozione, sottoscritta fra gli altri dal presidente della Commissione Straordinaria per i Diritti Umani, Pietro Marcenaro, che impegna il governo a “intervenire con urgenza nei confronti delle autorità irachene perché sia evitata l’esecuzione di Tarek Aziz e dei suoi coimputati, coerentemente con la straordinaria iniziativa nonviolenta, parlamentare, istituzionale e di opinione pubblica che il 18 dicembre 2007 ha portato allo storico risultato dell’approvazione della “Moratoria Universale della pena di morte” da parte dell'Assemblea Generale dell’Onu”.

I firmatari del documento chiedono inoltre al governo italiano di promuovere presso i partner europei “una formale richiesta” alle autorità irachene perché venga reintrodotta la moratoria sulla pena di morte stabilita in Iraq dopo la caduta del regime di Saddam, “al fine di rafforzare il completamento della transizione democratica dell’Iraq secondo i principi di uno Stato di diritto che rispetta i più alti standard delle giustizia internazionale”.

Questo, anche se a Baghdad sembra che tiri tutt’altra aria.



Norimberga e dintorni
di Giacomo Gabellini - www.conflittiestrategie.splinder.com - 30 Ottobre 2010

Come è noto, Tareq Aziz, l'ex numero due del vecchio rais Saddam Hussein, è stato recentemente condannato all'impiccagione da un tribunale di Bagdad. I grandi sforzi profusi dalle ridicole e servili autorità irachene non hanno di certo impedito a chi ha ancora occhi per vedere di squarciare il velo di Maya dell'ipocrisia e di intravedere le reali motivazioni, eminentemente politiche, della sentenza.

Ma al di là di tali superflue ovvietà, occorre focalizzare l’attenzione su quello che è senza ombra di dubbio l'aspetto decisamente indegno dell'intera faccenda; il fatto, cioè, che una volta di più i vincitori si sono arrogati il diritto di giudicare i vinti.

Questa tendenza non è di per sé nuova, ma affonda le radici a poco più di sessant'anni fa, e più precisamente negli scranni di Norimberga, ove i giudici rappresentanti delle potenze uscite vincitrici della Seconda Guerra Mondiale misero le proprie “competenze” al servizio dei loro superiori per "vagliare" le responsabilità dei vinti e deciderne arbitrariamente i destini.

Come accade in ogni processo a sentenza già scritta che si rispetti, per onorare quello di Norimberga i facinorosi giuristi che stavano "dalla parte giusta" ebbero l'ardire di suggerire "a chi di dovere" di decretare l'introduzione di reati ad hoc, perseguibili con effetto retroattivo, e di sottrarre i propri imputati al giudizio del medesimo tribunale, da essi stessi voluto e finanziato, minandone così ogni pur minima credibilità e legittimità.

A riempire (seppur parzialmente) la voragine creata dal vergognoso e assordante silenzio riservato alla faccenda dagli "intellettuali" dell'epoca, si levò la puntuale e autorevole voce di Benedetto Croce, che in un celebre discorso pronunciato al parlamento italiano nel luglio del 1947 affermò: "Segno inquietante di turbamento spirituale sono ai nostri giorni (bisogna pure avere il coraggio di confessarlo) i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto nomi di criminali di guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa pratica, esente da ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad alcuni dei loro uomini e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte, proseguendo e concludendo con ciò la guerra".

Parallelamente alle acute e pertinenti critiche mosse a suo tempo da Croce, andava ovunque insinuandosi il sospetto che i vincitori non disponessero affatto dei titoli per giudicare i vinti.

Si voleva (e si vuole ancora oggi) veramente credere che Stati Uniti, URSS e Gran Bretagna non si fossero macchiati di gran parte degli stessi crimini per cui furono condannati i gerarchi nazisti?

La Storia ha fatto ampia luce (bombardamenti sui civili di Dresda e Amburgo, "distruzione indiscriminata" ecc.) in merito a questa faccenda. Ma congedandoci da Norimberga e venendo a questioni attuali, è bene interrogarsi sulla reale stoffa di cui sono fatti i vincitori di oggi, visto e considerato che la smania di processare i vinti non accenna battute d’arresto.

Dopo la caduta dell'URSS e l'instaurazione dell'unipolarismo, il diritto internazionale ha subito una ancor più marcata distorsione ed è stato ridotto a nulla più che vero e proprio braccio armato degli Stati Uniti, che se ne servono solo ed esclusivamente nei momenti in cui le sue iniziative coincidono con i loro obiettivi politici, ma a cui non riconoscono alcuna legittimità allorquando si tratta di sottoporre a giudizio militari o politici americani.

Così, Milosevic, Karadzic e Hussein sono stati o saranno processati mentre nessun americano o inglese o italiano, quali che siano le nefandezze compiute (e ne hanno compiute molte) è comparso nelle aule di "giustizia" dell'Aja, senza che nessuna Carla Del Ponte insceni alcun isterico stracciamento di vesti.

Alla fin fine, l’unica certezza che emerge da questa torbida vicenda è che nei tanti tribunali di “giustizia” istituiti in giro per il mondo (L’Aja, Bagdad ecc.) hanno “scambiato” la “dea bendata” per l’infinitamente meno rispettabile Zio Sam, e che Tareq Aziz, dopo Saddam Hussein (la cui impiccagione è stata definita da Bush “Pietra miliare sul cammino della democrazia”), non è che l'ultimo dei capri espiatori, l'ultimo pezzo di carne da immolare all'altare dell'imperialismo, brutale e assassino come sempre ma fregiato, questa volta, con gli educati e accattivanti crismi dell'umanitarismo, l'oppio dei popoli su cui si forgia lo sciagurato zeitgeist contemporaneo.



Lettera a Sua Santità Benedetto XVI
di Felicity Arbuthnot e Tony Benn* - www.globalresearch.ca - 26 Ottobre 2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Micaela Marri

Lettera aperta :

A sua Santità Papa Benedetto XVI,

A Sua Grazia l’Arcivescovo di Canterbury,
A Sua Grazia l’Arcivescovo di Westminster,

Al Primo Ministro On. David Cameron,
Al Vice Primo Ministro On. Nick Clegg,
Al Ministro degli Esteri, On. William Hague.

Sua Santità, Vostre Grazie, Primo Ministro, Vice Primo Ministro, Ministro degli Esteri,

Mi scuso per questa missiva a destinatari multipli , ma è questione assoluta di tempo. È stato versato così tanto sangue nell’invasione illegale dell’Iraq, che è difficile da comprendere, con una cifra superiore dei caduti dal 2003 stimata a 1,4 milioni di persone.

Quasi cinque milioni (4,7) di persone sono profughi, internamente ed esternamente, secondo l’UNHCR, sono stati creati un milione di vedove e cinque milioni di orfani, secondo le agenzie delle Nazioni Unite.

Adesso, dopo il disgustoso linciaggio del legittimo presidente del paese, e dei suoi stretti colleghi, un paese la cui: “sovranità ed integrità territoriale”, era garantita dall’ONU, è stato oggi annunciato che il suo sostituto, Tareq Aziz, un cristiano caldeo, sta per essere giustiziato. Questo in aggiunta al sangue versato per l’invasione, su scala biblica – e alla luce delle terribili rivelazioni delle realtà della “liberazione”, nei giorni scorsi, su Wikileaks.

Certo Wikileaks ha anche rivelato che il terrorismo si riversava sul popolo dell’Iraq per mano delle forze governative imposte di “Vichy”, “ guidate” dalle truppe USA e Britanniche.

L’accusa contro l’ex Vice Primo Ministro nonché Ministro degli Affari Esteri dell’Iraq, è una discriminazione religiosa. Ironicamente, mezzo milione di Cristiani iracheni, sono fuggiti, a causa della persecuzione, dal momento dell’invasione.

Innumerevoli sono stati assassinati. Avevano vissuto fianco a fianco della maggioranza musulmana a quanto pare dall’anno 33 D.C., quando si crede che San Tommaso abbia fondato la Cristianità in Mesopotamia.

L’accusa si riferisce ad un tentato assassinio contro Aziz e Saddam Hussein a Dujail, in Iraq, nel 1982 da parte di affiliati del partito Dawa appoggiato dall’Iran. Lo stesso partito Dawa a cui aderisce Nuri al Maliki. (Non ho detto il “Primo Ministro”, poiché non lo è più, in un Iraq senza direzione).

La vendetta a Dujail è stata certamente deplorevole, ma è stata una decisione presa dal Presidente. E comunque vista nel contesto, pare lieve in confronto al massacro riservato alla popolazione di Fallujah nel 2004 dalle forze americane, per vendicarsi dell’uccisione di quattro mercenari, e della reazione contro gli USA, le truppe che avevano ucciso inspiegabilmente uomini, donne e bambini dal momento dell’invasione.

Il massacro in Iraq è stato per mano di tutti i cittadini degli Stati Uniti e del Regno Unito.

Ci dobbiamo convivere ovunque viaggiamo, con la vergogna e il vituperio delle azioni dei loro governi. Inoltre, non c’ è stata l’immunità presidenziale per il governo illegalmente rovesciato dell’Iraq, una consueta norma legale, e tuttavia le forze dell’occupazione avrebbero potuto interrompere i loro massacri. Come forza occupante dominante e rimanente, l’America adesso è responsabile di ogni violazione dei diritti umani.

Aziz è stato parte di un governo che lungi dal discriminare religiosamente, sosteneva annualmente, proporzionatamente, equamente tutte le religioni per la manutenzione dei loro luoghi culto e dei loro uffici affiliati. Le punizioni sono state date non sulla base della religione, ma per i crimini commessi.

Senza discussione sono state dure, ma ci fa vergognare riflettere come siano lievi, al confronto con quello che è accaduto, e continua ad accadere, sotto i poteri occupanti, dal giorno dell’invasione.

Tariq Aziz si è consegnato alle autorità degli Stati Uniti, in buona fede.

Tale buona fede non era fondata ed è stata sfruttata. È un uomo anziano ed era in cattive condizioni di salute molto prima dell’invasione.

I suoi giorni comunque, sono sicuramente contati. Vi scongiuro di prendere almeno questa chance di salvare anche solo una vita. Aziz è un nazionalista, come tutto il suo governo, avrebbero potuto fuggire. Hanno scelto di rimanere in Iraq perché si sentono profondamente iracheni - contrariamente all’attuale governo, con le sue fedeltà e i suoi passaporti stranieri, in gran parte.

Tareq Aziz si è recato in Vaticano, prima dell’invasione, per incontrare il Capo della Chiesa in cui aveva riposto tutta la sua fede, tutta la sua vita, per implorare che venisse bloccata la distruzione del suo popolo e della terra dell’ Ur della Caldea, menzionata certo tre volte nel libro della Genesi: 11:28, 11:31, 15:7. La sua preghiera non è stata ascoltata.

Vostra Santità, Vostre Grazie, Primo Ministro, Ministro degli Esteri, vi prego non deludetelo ancora una volta. La Gran Bretagna e l’America non potranno mai, comunque, lavare il sangue dalle loro mani. “Salvare una vita, è come salvare l’intera umanità” è un convincimento comune a tutte le fedi.

Vi prego di agire subito.

Sta per finire il tempo. Se così dovesse essere e non aveste fatto nulla, nonostante la vostra influenza e i vostri contatti collettivi, il suo corpo giacerà ai vostri piedi, per tutta la vostra vita. Per lo più il non agire, che porta ad un altro linciaggio, imporrà quell’orrore a ogni cittadino con una coscienza, dato che siamo, così ci viene detto, una democrazia. Vi imploriamo di agire.

Oggi siamo stati avvisati circa un reale pericolo di un attentato terroristico; abbiamo già commesso innumerevoli atti di terrorismo – per favore non fatecene essere parte di un altro, che volendolo, è del tutto prevenibile.

Distinti saluti.

*FELICITY ARBUTHNOT (giornalista, corrispondente per i diritti umani, Global Research) E TONY BENN ( veterano di guerra, ex parlamentare britannico, autore, fondatore del CND)

sabato 30 ottobre 2010

Se non un TSO, almeno un bunga bunga tutto per Silvio

Torniamo ancora sulle ultime gesta del cosiddetto premier che, meritevole già da anni di un energico Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO), ha dichiarato ieri: "Sono orgoglioso del mio stile di vita".

Ok, nessuna obiezione a queste sue parole.
Ma sarebbe ora che l'Italia la smettesse una volta per tutte di subire quotidiani bunga bunga e lasciasse che sia esclusivamente Silvio a provarne gli effetti...


L'ira di Bossi: pronti all'esecutivo tecnico, "Il governo non può telefonare alla polizia"
di Claudio Tito - La Repubblica - 30 Ottobre 2010

«Dobbiamo prepararci. Il governo tecnico è alle porte. E noi andremo all'opposizione. Per certi versi è pure un bene». La sua analisi è spietata. E non lascia spazio a vie di fuga. Fini valuta la rottura col Pdl, ma vuole arrivarci sulla giustizia e non sul Rubygate

Eppure il quadro dipinto ieri da Umberto Bossi ha colto di sorpresa pochi dei membri della segreteria della Lega riunita d'emergenza ieri a Via Bellerio. Il braccio di ferro ininterrotto con Gianfranco Fini, gli esodi che stanno travagliando il Pdl e ora lo shock del «Rubygate» stanno facendo crollare le azioni del quarto esecutivo Berlusconi.

Tutti fattori che l'istinto politico del Senatur ha captato con nettezza. Infatti, davanti ad un centrodestra che un "colonnello" berlusconiano definisce «sfinito e depresso», si sta facendo sempre più largo la tentazione del blitz, della spallata al governo.

Nelle ultime 48 ore, i contatti tra il segretario del Pd Bersani, il leader Udc Casini, il presidente della Camera Fini e il capogruppo democratico Franceschini si sono via via intensificati.

Soprattutto si è accelerato il pressing sul capo di Futuro e Libertà. Che mai come in questo momento ha iniziato concretamente a valutare l'idea di «rompere». Nei colloqui che Fini ha avuto con i vertici del suo movimento e con i rappresentanti dell'opposizione, ha fatto capire che stavolta «qualcosa è cambiato».

«Ma il campo su cui far cadere il governo - è il suo ragionamento - non può essere quello delle compagnie femminili del premier». Il «Rubygate», insomma, non può essere l'appiglio per disarcionare il Cavaliere. I finiani, semmai, ora alzeranno il tiro su due fronti: la giustizia (lo stesso Fini ha dato il primo segnale ieri), e su «l'abuso di potere».

Il percorso, dunque, non è più quello fissato fino alla scorsa settimana. Non si tratta di aspettare le amministrative di primavera per «cuocere» il presidente del consiglio. Perché, come Casini ha fatto notare ai suoi interlocutori prima di partire per gli Stati uniti, «Berlusconi non sarà mai più così debole».

Una debolezza non solo politica ma connessa al «malessere» dei vertici dell'Amministrazione pubblica, alla «freddezza» di ampi settori della Confindustria e alla distanza che le gerarchie ecclesiastiche hanno frapposto tra Palazzo Chigi e Oltretevere. Una considerazione che ha colpito non poco il presidente della Camera. E che sta corroborando le riflessioni di Bersani e Franceschini.

Non a caso l'opzione di presentare nei prossimi giorni una mozione di sfiducia sul caso «Ruby» per coinvolgere subito i finiani è stata accantonata. Sia il segretario Pd che il capogruppo hanno recepito il messaggio dei finiani: «non potete pretendere di farci votare la sfiducia su una cosa del genere». Ma sul resto la tensione verrà subito alzata. Nel Pdl poi è ormai scattata la sindrome del «si salvi chi può».

Molti dei «maggiorenti» del Popolo delle libertà hanno cominciato a parlare con franchezza persino con gli uomini del centrosinistra: «Così non si va avanti, non abbiamo più un leader. Forse è addirittura meglio che facciate un governo tecnico».

L'esodo verso Fli e Udc è senza sosta, in modo particolare a livello locale. E intanto il presidente del consiglio si sente sempre più «accerchiato» e sospetta l'esistenza di un piano per «screditarmi a livello internazionale».

Per non parlare della crudezza con cui ieri Bossi ha parlato di Berlusconi e della sua coalizione. Con i big lumbard è stato pesantissimo nei confronti dell'inquilino di Palazzo Chigi anche in riferimento alla vicenda «Ruby». «Ma come gli viene in mente di chiamare la Questura. Un uomo del governo non può farlo, è a dir poco inopportuno. Questa è una cosa che danneggia noi. Ci fa perdere voti, soprattutto a Milano. Come lo spieghiamo?».

E ancora: «Il redde rationem sarà a gennaio. Prepariamoci, Silvio cadrà e noi andremo all'opposizione. E ci resteremo. Qualcuno mi dice di un governo Tremonti, ma non esiste. Noi stiamo con Silvio. Tanto il governo tecnico dura comunque poco. Poi si torna al voto. E tutto sommato, prima delle urne, se stiamo un po' all'opposizione ci fa bene. Ci rigenererà».

L'obiettivo leghista è far arrivare la legislatura almeno fino a febbraio, quando scadranno i termini per i pareri da formulare ai decreti sul federalismo. Scaduti quei termini, i decreti entreranno in vigore. «A noi basta», ha ripetuto il Senatur. Che nel frattempo ha aperto di fatto la campagna elettorale. Il prossimo 20 novembre, infatti, si riunirà il «Parlamento del nord» che giaceva in sonno da anni: «Lì inizieremo a rullare i tamburi».

Una situazione senza vie di fuga di cui il Cavaliere ora inizia a preoccuparsi. «Al consiglio europeo - si è sfogato ieri con i fedelissimi - si parlava solo di quella Ruby. Avevano tutti in mano il New York Times. Ma se arriviamo a dicembre, il governo tecnico se lo scordano».

Con l'ultimo scandalo, però, si è riaperto anche il fronte della Chiesa. Gianni Letta è dovuto correre ai ripari. Ha obbligato il premier a partecipare lunedì prossimo ad un meeting sulla famiglia organizzato da Carlo Giovanardi e a prevedere una manovrina a dicembre per finanziarie le scuole cattoliche. Il tutto mentre giovedì scorso si verificava un'assoluta novità per il centrosinistra.

Quasi l'intero stato maggiore democratico (ad eccezione di Bersani) è stato ricevuto da Mons. Fisichella e da Josè Martins, ex prefetto della Congregazione per la santificazione. D'Alema, Franceschini, Finocchiaro hanno conversato per quasi un'ora con i due prelati. Segno che davvero nelle sale ovattate del Vaticano qualcosa è cambiato.


"Basta crisi, l'Italia si dà al bunga bunga". Il caso Ruby sulla stampa estera
da www.repubblica.it - 29 Ottobre 2010

Il nuovo scandalo sulle pagine dei giornali e sui siti stranieri. "Le rivelazioni della minorenne minacciano di travolgere Berlusconi"

"Come al cinema", scrive Libération. Del caso Ruby, delle rivelazioni della minorenne ai magistrati sui festini a casa di Silvio Berlusconi, bunga-bunga incluso, si occupa anche la stampa estera fra quotidiani e siti di informazione fra cui Le Monde. che parla di "un nuovo scandalo a carattere sessuale che coinvolge una minorenne".

"Silvio Berlusconi e le donne, capitolo secondo": in Francia, Rue 89 descrive il nuovo scandalo sessuale raccontato dalla ragazza, le serate a casa del premier e il rito sessuale "copiato" da Gheddafi.

Sul sito francese si ripercorrono le frequentazioni del premier a partire da Noemi Letizia, il divorzio da Veronica Lario e le accuse della moglie a Berlusconi, "uomo malato che frequenta minori". E poi Patrizia d'Addario, per arrivare alla novità del bunga bunga: "Fino a ieri era sconosciuto alla maggioranza degli italiani, oggi si scopre che nel giro ristretto del premier vuol dire sesso anale di gruppo". E il Wall Street Journal in un titolo ironizza: "Stanca della crisi sul debito l'Italia si dà al bunga bunga".

Il quotidiano Libération si chiede se "Berlusconi e la piccola ladra" si trasformerà in un nuovo scandalo sessuale. Di certo, il resoconto è tra il farsesco e il grottesco. "In Italia la politica è come il cinema", si conclude. Mentre il Courrier International titola: "La vita privata di Berlusconi di nuovo in prima pagina".

Mentre Le Monde non ha dubbi: "Nuovo scandalo per Silvio Berlusconi". Il quotidiano si limita a ricostruire la vicenda e scrive che il premier "ha riconosciuto la telefonata alla questura" per far liberare la ragazza.

Del nuovo "scandalo legato alla prostituzione che investe Berlusconi" scrive anche l'influente blog americano Huffington Post, ricostruendo la vicenda dai giornali italiani. In Gran Bretagna, il Guardian dà conto dei "legami del presidente del Consiglio con la minorenne marocchina" e delle reazioni furiose di Silvio Berlusconi alla "spazzatura mediatica".

"Soldi in cambio di sesso con una teenager", riporta il Telegraph. La ragazza racconta di essere stata alcune volte ospite nella residenza di Berlusconi quando cercava di entrare nel mondo della moda, scrive il corrispondente da Roma Nick Squires, legando Ruby al caso D'Addario e agli altri festini del premier. Sul sito del giornale britannico c'è anche una foto-gallery dedicata alle donne di Berlusconi.

Di Ruby e bunga-bunga si occupa anche l'Hindustan Times: per il quotidiano asiatico il presidente del Consiglio è minacciato da un altro scandalo sessuale. Si precisa che Berlusconi minimizza il caso, ma si ricorda il divorzio da Veronica Lario e le accuse della moglie sulle frequentazioni di minorenni. E si legge: "Berlusconi dice di non essere un santo, ma nega di aver mai pagato per prestazioni sessuali".


Berlusconi di nuovo nello scandalo
di Giorgio Vecchiato - www.famigliacristiana.it - 29 Ottobre 2010

La moglie, Veronica Lario, lo aveva già segnalato: uno stato di malattia, qualcosa di incontrollabile. Incredibile che un uomo di simile livello non abbia il necessario autocontrollo.

L’ultima bufera su Berlusconi e la sua corte di ragazze sta provocando ondate di reazioni, una diversa dall’altra. C’è chi, con linguaggio sprezzante, lo esorta a dimettersi.

Chi già apertamente lo insulta nelle rubriche tv, con termini da trivio. Chi vede solo l’aspetto etico e chi tenta analisi politiche a freddo, interrogandosi sule conseguenze. Chi tende a ingigantire e chi tenta di arginare: però nel secondo caso, vedi stampa di destra, con titoloni su tutta la prima pagina.

Per una vicenda che si voleva sopire, strana tecnica
. E siamo solo all’inizio. Come sa chi ha un minimo di esperienza sul gossip e le sue diramazioni, aspettiamoci il peggio.

Fra tutte queste reazioni ne manca una che faticheremmo a definire, qualcosa che sta fra la tristezza civile e la pietà umana. Non assistiamo soltanto a una tegola sulla testa del Berlusconi politico, primo ministro in carica e aspirante al Quirinale.

Né stavolta si può parlare di complotto giudiziario, o tanto meno poliziesco. Semmai, fino a ieri, prevaleva la circospezione. Il fatto è che esistono testimonianze, alcune opinabili ma altre, ahimè, documentate, che creano un duplice ordine di problemi.

Uno, ovviamente, è politico: la credibilità, meglio ancora la dignità, dell’uomo che governa il Paese; i riflessi sulla vita nazionale e sui rapporti con l’estero; l’esempio che dall’alto viene trasmesso ai normali cittadini. I quali non si sognano né trasgressioni né festini, ma da oggi dovranno abituarsi alle variazioni pecorecce sul “bunga bunga”.

L’altro problema, da valutare come se Berlusconi fosse un tizio qualunque, è la condizione che già la moglie, Veronica Lario, aveva pubblicamente segnalato. Uno stato di malattia, qualcosa di incontrollabile anche perchè consentito, anzi incoraggiato, dal potere e da enormi disponibilità di denaro.

Si sa che Berlusconi è un generoso, non lesina su aiuti e ricompense. Ma quale tipo di aiuti, e ricompense per che cosa? Incredibile che un uomo di simile livello e responsabilità non disponga del necessario autocrontrollo. E che il suo entourage stia a guardare.

E’ vero che in passato abbiamo avuto personaggi di primo piano che, oggi, non l’avrebbero passata liscia. Altri tempi, però. Altro comportamento di giornali e tv. Altre cautele. O forse allora si taceva o si sminuiva un po’ per prudenza, un po’ per tristezza e un po’, nessuno sghignazzi, per pietà.


L'autunno del governo
di Massimo Franco - Il Corriere della Sera - 30 Ottobre 2010

Verrebbe spontaneo usare le ultime, imbarazzanti rivelazioni sulla vita privata del premier per sancire il tramonto della sua leadership. In realtà, si tratta di vicende da maneggiare con molta cautela, sebbene non con reticenza; e da affrontare sapendo che forse sono la metafora di una crisi politica, prima che morale.

Quanto sta venendo fuori sembra non dire molto di nuovo rispetto a quello che si intuiva o si sapeva, purtroppo. A rendere tutto più grave è la saldatura con una paralisi governativa che dura ormai da mesi; e che sta facendo danni all’Italia, oscurando quel poco o tanto di buono ottenuto ad esempio nella lotta al crimine.

Il «caso Ruby» diventa dunque una sorta di certificazione sul versante privato della crisi del centrodestra. Sottolinea l’inverecondia della guerra interna che si sta combattendo da tempo nel Pdl. Aggiunge simbolismi deteriori all’immondizia vera di Napoli.

Esalta l’impotenza del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, rispetto ai suoi alleati; e l’incapacità di riprendere in mano le redini di una maggioranza che avrebbe il dovere di concentrarsi soltanto sul governo.

Il conflitto, le scissioni, le rese dei conti consumano energie e disperdono il senso di responsabilità verso gli elettori, ed il senso dello Stato. Di questa deriva Berlusconi è il principale, non l’unico responsabile.

Ma colpiscono le parole dure nei confronti del premier pronunciate dal suo amico e sodale Fedele Confalonieri; e l’invito quasi brutale a cambiare registro e ad imparare dagli errori.

Significa che perfino il «primo cerchio» berlusconiano intuisce di essere ad un passo dal baratro. Nonostante il capo del governo ripeta di non voler modificare stile di vita e di lavoro, solo una metamorfosi in extremis potrebbe salvare la situazione.

Non si tratta semplicemente di aggiustare l’immagine di chi appena due anni e mezzo fa era stato portato a Palazzo Chigi da una messe di voti; né di «fare pace» con Gianfranco Fini in modo da fermare il logoramento anche istituzionale di entrambi.

L’estetica a dir poco discutibile del potere attuale è un problema. Ma lo è molto di più il contraccolpo che provoca a livello internazionale l’agonia inspiegabile di una coalizione ancora radicata nel Paese, eppure afflitta da un malessere che la sta sfibrando, senza offrire altre soluzioni.

Al punto che cresce il sospetto di un governo deciso a resistere ed a sopravvivere solo per un po’: non però per rilanciare la propria azione ma per arrivare alle urne quasi per forza di inerzia, bruciando alternative che comunque appaiono studiate a tavolino e difficili da spiegare all’opinione pubblica. L’immobilismo governativo, tuttavia, può produrre effetti perversi.

Sottolineato ed aggravato da scandali come quello che sta emergendo dalla sfera privata di Berlusconi, rischia di inquinare e consumare anche quei margini di manovra che il Paese si aspetta vengano sfruttati al meglio, senza esporlo alle mire della speculazione finanziaria; e senza rassegnarsi ad elezioni dalla genesi confusa, e dagli esiti potenzialmente traumatici.


Bungagiorno
di Massimo Gramellini - La Stampa - 29 Ottobre 2010

Gli americani sono dei quaccheri. Lì un presidente può fare bunga bunga con Marilyn Monroe o una stagista della Casa Bianca, ma se telefonasse all’Fbi per far rilasciare una minorenne arrestata per furto, oltretutto spacciandola per nipotina di Mubarak, sarebbe costretto a dimettersi alla velocità della luce.

E se dicesse di averlo fatto perché è un uomo di buon cuore? Peggiorerebbe soltanto la situazione. L’abuso di potere, la sacralità della carica, bla-bla.

Che perbenismo triste, che formalismo ipocrita. E la Francia giacobina? Neanche a parlarne.
Lì un presidente può tenere nascosta una figlia tutta la vita come Mitterrand o sposare una modella col birignao più appuntito delle caviglie, ma se telefonasse alla Gendarmerie per far rilasciare una minorenne arrestata per furto, oltretutto spacciandola per nipotina di Mubarak, sarebbe costretto a ritirarsi a vita privata.

I francesi non hanno una storia alle spalle che consenta loro di apprezzare certi slanci liberali. Sapranno cucinare le omelette, ma la democrazia non gli è mai riuscita bene.

I tedeschi, poi: luterani, gente fanatica. Lì un cancelliere non telefonerebbe al Polizeipräsidium neanche per far rilasciare la propria, di nipotina, altro che quella di Mubarak.

Ecco, forse solo in Egitto, dove la democrazia affonda nei millenni (i famosi Faraoni della Libertà), il presidente telefonerebbe alla polizia per far rilasciare una minorenne arrestata per furto. Ma non la spaccerebbe per nipotina di Mubarak, essendo lui Mubarak. Semmai per nipotina di Berlusconi: esisterà, al riguardo, un accordo bilaterale?


Lodo Al Bunga
di Marco Travaglio - www.ilfattoquotidiano.it - 29 Ottobre 2010

E’ venuto il momento di fondare un comitato di solidarietà per Angelino Al Fano e Niccolò Ghedini. Due giorni fa, già molto provati dalle ottanta versioni del processo breve e dalle novantacinque della legge bavaglio (peraltro finite nel cesso), erano usciti esausti ma felici dalle segrete di Palazzo Grazioli, dopo mesi di duro lavoro, con l’ultima formula magica del cosiddetto Lodo: un algoritmo complicatissimo che non si capiva bene se fosse reiterabile ma non retroattivo, o retroattivo ma non reiterabile, o reiattivo e retroterabile, tenendo presenti la variante Mills, l’equazione Mediaset, la prescrizione Mediatrade, la radice quadra di Fini costruita sull’ipotenusa di Napolitano che produce una spinta dal basso verso Casini diviso Cuffaro moltiplicato Bersani fratto Di Pietro meno Bossi. I due poveracci stavano per esultare con il classico “eureka!”, ma l’urlo liberatorio gli s’è strozzato in gola.

Mentre quelli lavoravano, l’Utilizzatore Finale ci era ricascato con una minorenne, riuscendo a infilarsi in una storia di prostituzione e abusi di potere (vedi telefonata alla questura per far rilasciare la ragazza fermata per furto senza documenti).

Tutto da rifare. Ogni volta che gli fabbricano uno scudo su misura e glielo provano addosso, quello si sposta di lato e ne combina un’altra delle sue.

Provate voi a scudare un nano in movimento. Aveva ragione B.: non è lui a volere lo scudo, sono Alfano e Ghedini che, non potendone più, sono disposti a tutto pur di tornare a uno straccio di vita normale.

Che so, rivedere ogni tanto la luce del sole, riabbracciare i familiari un paio di volte l’anno e soprattutto evitare che mogli e figli li guardino con due occhi così: “Caro, ma davvero hai detto che la storia di Ruby è assolutamente infondata, quando l’ha confermata persino Fede? Sicuro di star bene?”.

Ora Angelino Jolie e Niccolò Pitagorico sono ripiombati in laboratorio per apportare alcuni emendamenti al Lodo Al Nano: la maggiore età è abbassata retroattivamente a 12 anni; proibito ex post trattenere in questura le ladre carine nel raggio di 100 km da Arcore; depenalizzato lo sfruttamento della prostituzione quando appaia chiaro, come nel caso B., che non è lui a sfruttare la prostituzione: è la prostituzione a sfruttare lui. L’importante è che lui si cucia la bocca, altrimenti poi persino Minzolini capisce che non è perseguitato.

Ieri invece lo sventurato ha spiegato la telefonata in questura con un meraviglioso “lo sanno tutti che sono una persona di cuore e mi muovo sempre per aiutare chi ne ha bisogno”. Ecco, è fatto così: come possono testimoniare migliaia di ladri, non appena ne finisce uno in questura, B. chiama da Palazzo Chigi per farlo rilasciare.

Soprattutto se è di origini marocchine e balla sul cubo. E’ un uomo di cuore e farebbe di tutto pur di agevolare l’integrazione degli immigrati: li inviterebbe persino in una sua villa per un Bunga Bunga, li coprirebbe d’oro e li spaccerebbe per nipoti di Mubarak perchè nessuno li infastidisca più.

Massima solidarietà anche agli agenti delle scorte di Fede e B.: forse, quando entrarono in polizia o nei carabinieri, non immaginavano che sarebbero finiti a reggere il moccolo a un anziano latrin lover.

Massima solidarietà soprattutto al ministro degli Esteri Frattini Dry, impegnatissimo in queste ore a rassicurare le ambasciate egiziana e libica sul fatto che quella storia della nipote di Mubarak era solo una battuta, così come quella sui bunga bunga di gruppo attribuiti all’amico Gheddafi.

Ieri, per alcune ore, si è temuta la terza guerra mondiale: non bastando gli elogi del Foglio ai vignettisti anti-Islam e le magliette di Calderoli con insulti a Maometto, si rischiavano nuovi assalti ai consolati italiani in tutto il Nordafrica, con rappresaglie Nato ed escalation militari in tutto il Mediterraneo.

Solidarietà anche a Bruno Vespa che, sempre sulla notizia, sta precipitosamente allestendo il plastico della piscina coperta di Arcore con dentro le donnine nude, per una puntata speciale di “Porta a Bunga”.

venerdì 29 ottobre 2010

Il bunga bunga finale

Nessun ulteriore commento sull'ennesima vicenda italiota, squallida e da voltastomaco. Solo l'ultima di una lunga serie.


Le feste di Ruby e il Bunga Bunga
da www.corriere.it - 28 Ottobre 2010

La formula sarebbe stata copiata dal rito dell'harem di Gheddafi. In realtà è la barzelletta preferita dal premier

Dopo il Tuca tuca spunta il Bunga bunga. Ma se il primo è un successo musicale tutto italiano, inventato dal caschetto biondo della Carrà, questo Bunga bunga non sembra essere «solo» un ballo sexy oppure un fiore indonesiano ma qualcosa di più.

Apparentemente il Bunga bunga è una specialità africana, più probabilmente libica, forse cara a Gheddafi, e quindi d'importazione. Ma in queste ore, dopo la sua apparizione in atti giudiziari della procura di Milano, tutti si chiedono cosa effettivamente sia. E sul web impazza il tormentone.

LA VICENDA - Ruby, la minorenne marocchina, che questa estate ha raccontato ai pm di Milano delle sue visite nella villa di Arcore e delle decine di belle donne, vip ed escort, presenti alle feste di Silvio Berlusconi, ha svelato, nero su bianco ai giudici, le regole del «Bunga bunga».

E cioè di quel rituale del padrone di casa d'invitare alcune ospiti, le più disponibili - racconta a verbale la diciassettenne - ad un dopo cena hard. «Silvio mi disse che quella formula l'aveva copiata da Gheddafi: è un rito del suo harem africano». Vere o no le parole di Ruby, c'è da scommettere che il Bunga bunga diventerà il prossimo tormentone nazionale.

LA BARZELLETTA - Il Bunga bunga ha già fatto la sua apparizione nell'intreccio gossip-politica in cui è avvinghiato il nostro Belpaese. E il rituale erotico del bunga bunga? «È una semplice barzelletta, peraltro nota».

Bunga bunga? «Di queste cose non so nulla, il salotto lo chiamavano così. C’è un salotto a Villa San Martino con un bar, dove ci si sedeva, si beveva qualcosa, qualche volta c’era la musica». Ma «bunga bunga non so cosa sia», dice Emilio Fede, che poi ricorda: «È una semplice barzelletta, peraltro nota».

Infatti nell'aprile del 2009 a parlarne ad un giornalista del Corriere del Mezzogiorno è nientemeno che Noemi Letizia, colei che dava del «papi» a Berlusconi: Mi racconta qual è la sua barzelletta preferita tra le tante che il premier le racconta? «Vi sono due ministri del governo Prodi che vanno in Africa, su un’isola deserta, e vengono catturati da una tribù di indigeni - rispondeva la biondina di Portici - Il capo tribù interpella il primo ostaggio e gli propone: ‘‘Vuoi morire o Bunga-bunga?’’.

Il ministro sceglie: ‘‘Bunga-bunga’’. E viene violentato. Il secondo prigioniero, anche lui messo dinanzi alla scelta, non indugia e risponde: ‘‘Voglio morire!’’. Ma il capo tribù: ‘‘Prima Bunga-bunga e poi morire». Per i meno burloni ovvero per i più pignoli suggeriamo di andare a sbirciare la definizione che del Bunga bunga ne dà in rete l'«urbandictionary». Mortale.


Sul premier torna l'incubo-minorenni. "Ma sarà un boomerang per i miei nemici"
di Francesco Bei - La Repubblica - 29 Ottobre 2010

Il Cavaliere è apparso demoralizzato ai suoi fedelissimi: "Non ho fatto niente di cui vergognarmi". Si teme una mozione ad hoc in Parlamento: che farebbero in quel caso i finiani?

"Non ho fatto niente di cui vergognarmi". Silvio Berlusconi lo giura a tutti quelli che incontra, nella lunga giornata trascorsa tra Arcore, Napoli e Bruxelles. È il ritorno di un incubo, il ripetersi di una maledizione. Di nuovo nella bufera per una minorenne, dopo i mesi "orribili" seguiti allo scandalo Noemi.

Ma stavolta è diverso. Lo scorso anno il governo era solido, Fini un alleato fedele e Berlusconi - ad Onna con il fazzoletto rosso al collo - assaporava il picco della popolarità. Il colpo oggi arriva su una casa già piena di crepe, che potrebbe crollare senza preavviso. Ne hanno discusso ieri mattina in un vertice alla Camera, con tutta la "preoccupazione" per un momento "estremamente difficile", ministri e capigruppo del Pdl.

Mentre tutta la prima linea del partito e del governo, nelle conversazioni private e con l'esterno, non nascondeva il grande "imbarazzo" per la nuova tempesta Ruby. "Sarà pure vero che i giornali nemici ci stanno marciando - si sfoga un ministro al riparo dell'anonimato - ma sarebbe l'ora che Berlusconi si desse una regolata".

Eppure il premier, che è apparso ai suoi "stordito" e "depresso" per quanto accaduto, è convinto di non avere nulla da farsi perdonare. "Mi stanno mettendo in mezzo", ha spiegato ad Acerra circondato da orecchie amiche, "ormai dobbiamo aspettarcene una al giorno. Non è finita qui. Ma, anche se ci attaccano da tutte le parti, noi dobbiamo andare avanti con la forza dei fatti". La "forza dei fatti": come la crisi dei rifiuti a Napoli, che tra pochi giorni "sarà risolta".

La notizia di un imminente scandalo a sfondo sessuale girava da alcuni giorni ai piani alti del Pdl. Tanto che Giulio Tremonti, incrociando un senatore amico, si era lasciato sfuggire una battuta enigmatica: "Ricordati la profezia di Veronica".

Un'allusione a quella metafora delle "vergini che si offrono al drago", usata proprio dalla moglie di Berlusconi? Le voci c'erano, eccome. Semmai a stupire i parlamentari del Pdl, angosciati per il futuro della legislatura, oggi è un certo eccesso di "confidenza" che emana dal premier.

Una "sicurezza" che al Cavaliere deriva dalla convinzione che ancora molto dovrà venire fuori sulla "vera storia" di Ruby. "Vedrete - ha assicurato sibillino il Cavaliere - alla fine tutto questo si rivelerà un boomerang". "Cosa succederà - si lascia sfuggire uno degli uomini di punta del Pdl - quando magari salterà fuori che qualcuno ha offerto qualcosa a questa signorina per parlare, per raccontare cose inventate?".

Tuttavia la sensazione prevalente nel governo è di camminare sulle sabbie mobili. Al summit dei capi Pdl s'ipotizza anche lo scenario peggiore, quello di una spallata parlamentare che prenda forza proprio dallo scandalo Ruby. È il timore di una mozione di sfiducia a Berlusconi, basata sull'assunto della ricattabilità del presidente del Consiglio, sul suo essere "unfit", inadatto all'incarico.

La richiesta, avanzata dal Pd, affinché Berlusconi riferisca in Parlamento sulla vicenda è considerato solo l'antipasto di quello che potrebbe accadere. E se l'ala dura dei finiani riuscisse a imporsi, anche Futuro e libertà potrebbe convergere sulla mozione e realizzare "il ribaltone". Per far fronte a tutto questo, il quartiere generale Pdl ha provato a serrare le fila.

La Direzione del partito si riunirà il 4 novembre e i capipartito hanno siglato ieri una tregua nello studio a Montecitorio di Fabrizio Cicchitto. "Basta con i gruppi e gruppetti - hanno detto nella riunione - altrimenti qui salta tutto. Dobbiamo restare uniti".

Sandro Bondi, uno dei più preoccupati, ha suggerito di spostare l'attenzione sulle cose fatte: "Proviamo a ripartire dai contenuti organizzando degli eventi tematici".

Intanto al Senato Andrea Augello guida la rivolta di una cinquantina di senatori contro l'attuale gruppo di potere di via dell'Umiltà. Chiedono che ci sia un "vero chiarimento" con Fini e accusano gli attuali capi del Pdl di ostacolarlo solo per perpetuare il proprio potere.

Facendo un danno al Cavaliere. "Vogliamo scuotere l'albero", spiega Augello, "non buttarlo giù". Il fatto che tra i ribelli ci sia anche il compagno di scuola del premier, il fedele Romano Comincioli, lascia supporre che lo stesso Berlusconi non sia particolarmente ostile all'iniziativa.


Riti, miti e barzellette da dopocena sexy. Nel "bunga bunga" l'arroganza del potere
di Filippo Ceccarelli - La Repubblica - 29 Ottobre 2010

E allora: bunga bunga a tutta l'Italia! L'osceno augurio, e dovutamente allucinato, aleggia sulle macerie della politica e i relitti del buonsenso. Bunga bunga, senza trattino, rimbomba nelle chiacchiere e negli sms, intasa la rete, sovverte il quadro politico, sprofonda il potere nell'abisso dei propri arcaismi rivestendoli di una risata carnevalesca che oltraggia la razionalità e rivendica il monopolio della trasgressione.

Non la si farà troppo lunga, né troppo complicata. L'altra settimana ha raccontato l'Espresso che nella reggia di Arcore, con gli opportuni consigli di Lele Mora, sono stati montati pali da lap-dance e un trono dorato.

Chi abbia speso qualche tempo a studiare le seratine berluscononiane si accorge presto che lì va in scena un'autentica liturgia: invocazione del nome ("Papi"), paramenti (tubino nero), accorgimenti di purificazione (trucco leggero, no calze, no smalto); e poi visioni dei successi politici e delle ricchezze divine, quindi "spettacolini" a base di canti, danze, le donne che fanno la "ola" al ritmo di "Meno male che Silvio c'è" in un esorbitante sfolgorio di farfalline, pure donate dal padrone di casa come segno di possesso e riconoscimento, crisma dell'avvenuta iniziazione.

Ecco: da adesso si sa pure che, varcata una certa soglia, al rituale del dopocena era assegnata la denominazione invero esotica di bunga bunga. Assimilabile, quanto a strizzatine d'occhio, ma più potente, a consimili espressioni quali gnacca gnacca, tuca tuca e bingo bongo, quest'ultima nell'accezione non necessariamente leghista, ma sadico-anale chissà se ancora in voga nella scuola dell'obbligo.

Cosa accadesse di preciso in tali sessioni post-prandiali non è dato sapere - né sono pratiche che si certificano dal notaio. Ma non di rado le fantasie e gli scherzi che bollono nel calderone dell'immaginario insieme a simboli sacri e a impulsi animaleschi, anticipano la realtà o per lo meno si sforzano si adattarla all'ormai patologica fuoriuscita di storie intime e narrazioni orgiastiche di cui si alimenta il potere nell'Italia del 2010.

Quasi superfluo è segnalare a questo punto che da remote vestigie colonialiste il bunga bunga nasce quale scherzo da caserma britannica; e che nel corso del tempo l'espressione ha imbarcato una certa dose di cruda violenza sessuale - come tale si rinviene in vignette, canzoni e film - fino ad approdare nel novero basso materiale delle barzellette.

Ed è da tale magmatico stagno che l'ha certamente ripescata il Cavaliere rilanciandola negli incontri politici per rianimarli dalla loro noia mortale - "Sapete, un giorno Bondi e Cicchitto... " - e poi anche nelle sue festicciole come invito ammiccante e burlesco rivolto alle femmine, per quanto inconfessabilmente collegato con la brutalità più profonda e selvaggia che risiede nell'inconscio collettivo.

Che c'entri Gheddafi o qualche altro dittatore pare abbastanza secondario. Già ieri un navigatore bolognese aveva registrato il dominio: www. bungabunga. it. In qualche modo è la prova che Berlusconi riesce a entrare in sintonia con i meandri più oscuri del pubblico, "la parte maledetta" della società; e che con la leva del buffonesco, del comico, del grottesco, dell'osceno, addirittura del sadico per certi versi, stabilisce inedite connessioni e identificazioni con quel "popolo" che gli sta tanto a cuore, con le sue libertà.

Ehi, dice, quante storie per una storiella! Ma la storiella cui fa riferimento lo statista con i suoi subordinati e poi adesso anche con le sue amiche tra una sessione di lap-dance ed un eventuale soggiorno sull'affollato lettone post-sovietico, verte pur sempre su di un rito di punizione e di dolore, anzi per l'esattezza su uno stupro eseguito da un'intera tribù ai danni di qualche malcapitato/a che pur di scampare al supplizio del bunga bunga preferisce la morte.

Senza addentrarsi in quest'ultima direzione, vale forse notare l'aspetto tribale che certo scopre e rispecchia alcuni altarini dell'odierno sistema di potere; così come, fra intercettazioni, veline, minorenni, escort, farfalline, cerbiatte, igieniste orali e altre rispettabili disponibilità professionali, a parte il lenocinio e lo spaccio di droga, ecco, magari si può verificare sul campo come nel berlusconismo ormai allo stremo l'ordinario richiamo alla Cultura del Fare, ai Sani Valori e ai programmi rose & fiori dell'Amore, del Sogno e della Felicità ceda al mercato dei corpi nel quadro di una diffusa Pornocultura ammantata di euforia e incantesimi pubblicitari.

Di tutto questo permanente carnevale, trasmesso e percepito in mostruose sembianze, è testimone il bunga bunga. C'è un libro appena uscito, difficile ma molto molto bello, che spiega prima ancora che venisse fuori l'ultima storiaccia come questo rito faccia paura e al tempo stesso faccia ridere.

S'intitola Gioia tragica (Lupetti), l'ha scritto un giovane sociologo che ovviamente lavora in Francia, Vincenzo Susca, e che letto in filigrana, con uno sgomento rischiarato dal nitore delle prospettive evocate, dimostra e descrive la metamorfosi di un potere che inesorabilmente si va trasformando in un orrendo, crudele e doloroso cinepanettone. Bunga bunga è il nome che si merita, e buonanotte a tutti.


L'abuso di potere
di Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica - 29 Ottobre 2010

"Ho buon cuore" dice. Silvio Berlusconi ammette di essere intervenuto con la sua autorità di capo del governo sulla polizia di Milano per favorire una giovane amica in stato di fermo con sul groppo un'accusa di furto.

Ha un buon cuore e, se può, una mano la dà, dice. C'è un non trascurabile requisito. Si deve essere suoi amici o dipendenti o familiari o protetti o corifei e il soccorso, la tutela, la salvaguardia arriverà.

Non scopriamo oggi che, nel regime berlusconiano, il potere statale protegge se stesso e i suoi interessi economici. Senza scrupoli e apertamente. Con l'intervento a favore della giovanissima Karima Keyek, in arte Ruby; quel potere che sempre privatizza la funzione pubblica muove un altro passo verso un catastrofico degrado rendendo "pubblica" finanche la sfera privatissima dell'Eletto.

In un altro Paese appena rispettoso del canone occidentale il premier già avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni. Siamo nell'infelice Italia e quel che la scena mostra ancora una volta non può sorprenderci perché l'abuso di potere è il sigillo più autentico del dispositivo politico di Silvio Berlusconi. È un atteggiamento ordinario, un movimento automatico, una coazione meccanica.

Il Cavaliere non accetta critiche, travolge ogni misura istituzionale. Non conosce il raziocinio politico che gli dovrebbe consigliare discrezione, affidabilità, trasparenza, equilibrio per onorare la responsabilità e rispettare il decoro della funzione. Attese sublunari per l'Eletto. Conquistato il bottino dei voti sufficienti per governare, invece di sentire gli oneri dell'incarico, se ne sente liberato.

Fino al punto di non avvertire alcun disagio nell'esigere in una notte di maggio che i poliziotti facciano in fretta ad affidare una ragazzina che frequenta la sua villa e le sue cerimonie notturne a una persona di sua fiducia (una venticinquenne soubrette e igienista dentale trasformata in eletta del popolo).

In uno "Stato legislativo", dove quel che conta è la legalità e chi esercita il potere agisce "in nome della legge", le burocrazie sono "neutrali", uno strumento puramente tecnico che serve orientamenti politici diversi e anche opposti.

Berlusconi che non vuole essere l'anonimo esecutore di leggi e non intende governare in nome della legge, ma in nome di ciò che ritiene necessario a se stesso, pretende ora che la burocrazia dello Stato si trasformi in ufficio ubbidiente e sottomesso.

Anche qui si misura un altro passo verso il precipizio perché fino a ieri - è sufficiente prendere atto del ruolo di Guido Bertolaso - il capo del governo pretendeva che le burocrazie condividessero la capacità di assumersi il suo stesso rischio politico, come fossero un'élite politica e non istituzionale. Oggi anche questo standard scolora, trasformando con un abuso di potere l'ufficio pubblico in un obbligo servile.

È soltanto una delle "violenze" che abbiamo sotto gli occhi.

Era già un abuso di potere telefonare in un pomeriggio di autunno del 2008, da un palazzo di Roma e senza conoscerla, a una ragazzina (Noemi Letizia) che sta facendo i compiti nella sua "cameretta" per sussurrarle ammirazione per "il volto angelico" e inviti a conservare la sua "purezza".

Era un abuso di potere ancora maggiore imporre ai genitori della ragazza di confermare la fiaba di "una decennale amicizia" con il premier, nata invece soltanto qualche tempo prima grazie a un book fotografico abbandonato da Emilio Fede sullo scrittoio presidenziale.

È un abuso di potere - disonorevole per un uomo di Stato - trascurare la fragilità di una giovanissima ragazza, il suo evidente disagio umano e sociale, per afferrare soltanto la vitalità, la bellezza sfruttandone il bisogno e le ambiziosissime smanie.

L'abuso di potere per Berlusconi ne annuncia sempre altri. Non occorre un mago Merlino per sapere che, nei prossimi giorni, una nuova "violenza" si scatenerà sulla ragazza.

La poveretta, come è accaduto anche per Noemi Letizia, dovrà rettificare, correggere, negare, contraddirsi, smentire ciò che è scritto nero su bianco in un pugno di interrogatori che raccontano quanto disordinati siano tornati ad essere i comportamenti del capo del governo.

C'è qualcosa di notturno e patologico nel declino di una leadership sempre più affannosa e affannata. Nel suo crepuscolo se ne intravede il macroscopico deficit. È l'incapacità di interpretare una politica all'interno delle regole, costretta a adulterarsi in una perenne violenza istituzionale che non assicura alcun governo al Paese ma soltanto più tempo a chi governa. Già era arduo rassegnarsi a questo destino.

Ora appare difficile accettare la cristallina inadeguatezza di Berlusconi. Il capo del governo appare incapace non solo di rispettare il livello di onore che la sua responsabilità dovrebbe imporgli, ma addirittura se stesso. Una previsione non può essere che cupa.

L'Io ipertrofico di Berlusconi non ammette interlocutori, consigli, regole, critiche, equilibrio istituzionale, saggezza politica. Incapace di guardare in faccia la realtà che si cucina da solo, trascinerà irresponsabilmente il Paese nella sua caduta. Impedire questa rovina non può essere un dovere soltanto per le opposizioni.


“Parliamo di spazzatura vera, non mediatica”, B. in conferenza stampa glissa su Ruby
da www.ilfattoquotidiano.it - 28 Ottobre 2010

Poco spazio alle domande dopo l'incontro con la stampa ad Acerra, domande a cui il premier non risponde. Mentre quindici giornalsti sono stati accompagnati fuori

“Sono una persona di cuore, e mi muovo sempre per aiutare chi ha bisogno di aiuto. Sono qui per occuparmi della spazzatura vera e della spazzatura mediatica lascio a voi di occuparvene”.

Incalzato da una domanda di Conchita Sannino di Repubblica sul caso “Ruby” nella conferenza stampa ad Acerra, Silvio Berlusconi ha voluto glissare e ha contrattaccato: “Nessun contraddittorio, usiamo il sistema di Annozero. Contraddittorio nei miei confronti zero. Insulti e accuse a iosa, contraddittorio zero”.

Erano tanti i giornalisti arrivati ad Acerra per assistere alla conferenza stampa del premier sull’emergenza rifiuti in Campania.L’organizzazione non era preparata e quindi una quindicina sono stati accompagnati fuori. Si tratta dei cronisti del Sole 24 Ore, del Roma, Metropolis e alcune agenzie.

Anche Vincenzo Iurillo, inviato del Fatto quotidiano, era tra di loro. Dentro invece, oltre alla giornalista di Repubblica, c’erano gli inviati di Annozero, della Stampa, delle tv e di molti quotidiani locali.

Alcuni di loro erano riusciti a entrare, ma sono stati portati all’esterno dalla security perché la sala stampa allestita era troppo piccola per ospitare giornalsti, operatori tv e rappresentanti delle istituzioni: “Siamo rimasti fuori perché la sala era un bugigattolo 4×3″, spiega Iurillo. Gli addetti alla sicurezza per calmare le proteste dei cronisti “hanno detto che saranno fatte solo dichiarazioni, non domande”.

Quindi si sono accompagnati fuori, dove sono stati chiusi dalle transenne: “Da un lato avevamo le transenne, e abbiamo solo potuto vedere Berlusconi uscire dalla riunione. Alle spalle invece c’erano altri addetti alla sicurezza sulla montagnola e ci guardavano con i binocoli”.

C’erano degli altoparlanti, che hanno permesso loro di ascoltare le dichiarazioni del premier: “Quando abbiamo sentito che c’era il tempo per le domande ci siamo incazzati. Non c’è stata possibilità di farle, e quelle dei colleghi non potevamo sentirle”.



Da Roma fino a Bruxelles, l’esercito rosa delle “Papi girl” conquista la politica italiana

di Vito Laudadio - www.ilfattoquotidiano.it - 10 Settembre 2010

Ilfattoquotidiano.it vi propone l'elenco di tutte le amiche del Cavaliere, premiate in questi anni con un seggio a Montecitorio, all’Europarlamento o negli enti locali

“Non escludo che con questa legge elettorale qualche senatrice o deputata si sia prostituita per il seggio”: le parole di Angela Napoli – la coraggiosa parlamentare che da anni denuncia gli affari e le collusioni della ‘ndrangheta, – hanno fatto gridare allo scandalo il Popolo delle Libertà.

Le parlamentari del Pdl sono insorte, hanno minacciato di querelare la deputata finiana, che alla fine è stata costretta a chiedere scusa. Peccato, perché sarebbe davvero un bel vedere ascoltare una ad una, in un aula di Tribunale, le deposizioni giurate di alcune sue “colleghe”.

A chi si riferisse la Napoli non è comunque dato saperlo. Ma il fattoquotidiano.it vi propone qui di seguito un elenco (che sarà continuamente aggiornato) delle amiche del Cavaliere, premiate in questi anni con un seggio a Montecitorio, all’Europarlamento o negli enti locali. Accanto ai nomi troverete le loro storie e la loro attività politica.

Licia Ronzulli

Ha smentito di essere la fisioterapista personale di Berlusconi e di aver partecipato alla scuola di Brunetta & Co. Ha smentito pure di essere una delle ragazze fotografate a prendere il sole sullo yacht di Berlusconi nell’estate 2008, in quegli scatti pubblicati in esclusiva da L’espresso. Poi, però, dopo le dichiarazioni di una testimone di eccezione, Licia Ronzulli ha dovuto ammettere di essere una frequentatrice di Villa Certosa.

Era stata Barbara Montereale, la escort che ha accompagnato Patrizia D’Addario agli incontri con il Premier, a tirarla in ballo. “È lei che organizza la logistica dei viaggi delle ragazze. Che decide chi arriva e chi parte. E smista nelle varie stanze” (Repubblica, 20 giugno 2009 – Paolo Berizzi e Gabriella De Matteis).

Così, all’eurodeputata non è rimasto altro che metterci un toppa: “In occasione di vacanze, sono stata ospite a Villa Certosa con mio marito e ho avuto modo di collaborare con il presidente Silvio Berlusconi nell’accoglienza degli invitati: politici, imprenditori, amici”.

“Quel giorno il marito non c’era. Però so chi è. Dopo averci fatto vedere il video della festa di Capodanno, con il presidente e tutte le ragazze vestite da Babbo Nataline, sul maxi schermo trasmisero anche il matrimonio della Ronzulli…” replicò a stretto giro la Montereale (Repubblica Bari, 26 settembre 2009 – Gabriella De Matteis e Giuliano Foschini).

Candidata senza successo alle politiche 2008 nelle Marche, la caposala dell’ospedale Galeazzi di Milano che il Premier e i suoi house organ presentano come una top manager della sanità meneghina, è stata nel 2009 una delle tre superstiti all’ira funesta di Veronica Lario che, con le sue dichiarazioni, aveva stroncato sul nascere decine di candidature.

Con quasi 40 mila preferenze è stata eletta a Strasburgo, mentre suo marito, Renato Cerioli, sposato nell’estate 2008 con Berlusconi a fare da testimone, pochi giorni dopo veniva designato alla Presidenza di Assindustria Monza e Brianza.

Per BerlusconiLicia Ronzulli è la nostra deputata ideale, una personalità come la sua nel Parlamento europeo ci sarebbe utilissima” (intervento telefonico alla cena elettorale per presentare la candidatura della Ronzulli, Il Giornale, 27 maggio 2009).

Lei, risponde coi fatti: “Nessuno potrà mai impedirci di fare colazione con pane e Nutella, come stiamo leggendo sulle cronache di questi giorni. Il solo rischio che corrono la Nutella e gli altri prodotti dolciari sarà legato alla pubblicità. In futuro potremmo non vedere più il cuoco della Nazionale raccontarci che i nostri atleti fanno una sana ed equilibrata colazione a base di Nutella. Nonostante ciò, noi potremmo continuare a preparare la colazione ai nostri bambini, controllandone la quantità ed evitandone gli eccessi” (Panorama, 25 giugno 2010).

Nel 2010 ha preso la parola 7 volte in aula, l’ultima volta lo scorso 7 luglio durante il dibattito su “nuovi prodotti alimentari”: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, chiedo semplicemente di verificare elettronicamente l’emendamento 5″. In compenso, appena può segue il suo Presidente ovunque.

Persino all’ultimo incontro con Confindustria a Parma, durante il pranzo con la Marcegaglia, oltre allo staff ristretto del Premier c’era anche lei. Sempre pronta a prenderne le parti: Ma un difetto ce lo avrà? “Sì: non sbaglia mai. Con me non ha certo sbagliato” (Repubblica, 10 giugno 2009).

Barbara Matera

Nella sua biografia on line scrive “Nel 2008 rinuncia alla candidatura, in posizione utile, alla Camera dei Deputati nelle Liste elettorali del Popolo della Libertà, così da terminare gli studi universitari”. Ma dopo due anni la laurea non è ancora arrivata. A far saltare la sua candidatura, in realtà, fu la scelta del Premier di puntare su un’altra giovane promettente, Elvira Savino.

Non importa: Barbara si prenderà la sua rivincita nel 2009, e con gli interessi. Candidata nonostante tutto, nonostante Veronica e il “ciarpame senza pudore”, stavolta con tutto il partito schierato per lei nella circoscrizione sud dove ha raccolto 130 mila voti.

Da letteronza per la Gialappa’s Band e valletta di Mengacci (che, giustamente, rivendica un ruolo da selezionatore della classe dirigente nel Partito del Premier, “Con Carfagna e Matera sono io il vero talent scout del Pdl” dice) a vicepresidente della Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere del Parlamento Europeo, dopo la parentesi da annunciatrice Rai insieme a Virginia San Just, altra prediletta del Sultano.

Fu uno dei tre nomi su cui Berlusconi si impuntò, “Barbara Matera sarà la nuova Carfagna“. Un’investitura e un investimento, di risorse e di uomini per far crescere un nuovo “cavallo di razza”. Così, nel suo primo anno a Strasburgo la Matera si è distinta per il suo iperattivismo: interviene su tutto, con puntualità.

L’ultimo intervento in aula è dello scorso 7 luglio, nel corso del dibattito sulle emissioni industriali: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, l’approccio integrato dell’Unione europea al problema dell’inquinamento ci permette di essere istituzionalmente sempre più presenti e concreti nel controllo delle emissioni industriali”. Non male per una che nella sua prima uscita, all’Alfonso Signorini Show in onda su Radiomontecarlo, steccò più di un congiuntivo.

Elvira Savino

Il giorno dell’insediamento si presentò a Montecitorio con ai piedi due sandali Gucci tacco 14: difficile passare inosservata. Da quel giorno, Elvira Savino, deputata di Conversano a Bari, è per tutti la “Topolona”, soprannome affibbiatole da Dagospia. Arrivava in parlamento dopo un’esperienza all’ufficio stampa e comunicazione dell’Udc, e una collaborazione con la rivista Formiche.

Ma, soprattutto, per lo stretto rapporto che aveva cementato con Silvio Berlusconi, grazie all’amica con cui divideva l’appartamento romano, Sabina Began, l’Ape regina dell’Harem di Silvio. Berlusconi le ha fatto da testimone di nozze, nel settembre 2008 nella chiesa di San Lorenzo in Lucina a Roma, per il suo matrimonio con il napoletano Ivan Campili.

C’era pure Gianpaolo Tarantini, l’imprenditore barese che introdurrà donne a Palazzo Grazioli e Villa Certosa, amico della sposa. Ed è lì che Berlusconi conoscerà pure Carolina Marconi, l’ex gieffina tra le frequentatrici delle feste del Premier. Tutto, insomma, ruota intorno alla Topolona. Pure gli affari della criminalità barese, tanto da trascinare la parlamentare in una brutta storia di mafia e appalti. Da allora, era il 3 dicembre dello scorso anno, la Topolona è scomparsa dalla circolazione.

Gabriella Giammanco

Deputata palermitana, Gabriella Giammanco è giornalista professionista: prima inviata per una trasmissione di costume su un’emittente siciliana, poi è entrata nella redazione del Tg4 di Emilio Fede. Quando viene candidata nella circoscrizione Sicilia per la Camera dei Deputati nelle elezioni politiche del 2008, l’Ansa parla di un colpo di scena: “Confermato l’inserimento a sorpresa della giovane giornalista del Tg4 Gabriella Giammanco, originaria di Palermo, il cui nome sarebbe stato caldeggiato personalmente da Berlusconi”. Così, la nipote di Michelangelo Alfano, definitivamente condannato come boss di Bagheria legato a Bernardo Provenzano, è balzata agli onori della cronaca. Ma l’Italia si accorgerà di lei solo per il pizzino sdolcinato di Berlusconi destinata a lei e alla collega Nunzia De Girolamo durante un dibattito alla Camera: “Gabri, Nunzia, state molto bene insieme! Grazie per restare qui, ma non è necessario. Se avete qualche invito galante per colazione, Vi autorizzo (sottolineato) ad andarvene! Molti baci. Il Vostro Presidente”. La risposta: “Caro…(dolce presidente?) gli inviti galanti li accettiamo solo da lei”.

Sempre presente in aula (solo il 10 per cento le assenze alle votazioni elettroniche, ndr), il suo impegno è diviso tra la difesa degli animali (“Grazie al mio intervento, e alla collaborazione dell’onorevole Carlucci, sono state introdotte agevolazioni fiscali a favore dei circhi senza animali”) e l’esaltazione del capo: “Berlusconi, ancora una volta, ha saputo mettersi in gioco dimostrando di amare profondamente il suo Paese. Prestando la sua voce allo spot del Ministero per il Turismo si è impegnato in prima persona a sostenere il capitale storico, culturale e paesaggistico dell’Italia. Chi meglio del Presidente del Consiglio può sponsorizzare il nostro straordinario Paese?”.

Infatti, i primi dati ufficiali parlano di un crollo della presenza di turisti stranieri per l’estate che va concludendo. Ultimamente l’onorevole Giammanco si fa spesso vedere in giro con il direttore del Tg1, Augusto Minzolini.

Nunzia De Girolamo

Galeotta fu la “pigotta”. Nunzia De Girolamo, 35 anni a ottobre, avvocato coordinatrice di Forza Italia per la città di Benevento, incontrò Silvio Berlusconi al termine di un comizio nel 2007. Erano gli anni in cui i pretoriani campani del Cesare di Arcore facevano a gara per presentare giovani e procaci militanti al capo.

A quell’incontro Nunzia arrivò con una di quelle bambole di pezza che l’Unicef utilizza per raccogliere fondi: “Questa è per Lei, si chiama Libertà”, disse porgendola al Capo. Un anno dopo, con la caduta del Governo Prodi, era seduta accanto a Gabriella Giammanco tra i banchi della Camera dei Deputati. Fu subito ribattezzata la “Carfagna del Sannio”.

Nelle ultime settimane il nome della De Girolamo è stato il più gettonato come sostituta alla guida del partito campano di Nicola Cosentino. C’era anche lei – insieme a Verdini, Cicchitto, Gasparri, Quagliariello e La Russa – al vertice di Palazzo Chigi che ha portato alle dimissioni da sottosegretario di Nick ‘O mericano.

“Anch’io ho sentito questa notizia – si è schermita al termine dell’incontro la Carfagna del Sannio- ma oggi Berlusconi ha all’ordine del giorno questioni di governo e non di partito”. E intanto si fa promotrice di un progetto autonomista della sua provincia, il Molisannio.

Francesca Pascale

Napoletana di Fuorigrotta, 25 anni lo scorso 15 luglio: Francesca Pascale ne aveva 21 quando conobbe Silvio Berlusconi, durante una cena con gli europarlamentari azzurri. Era il 2006 e Francesca, insieme con Emanuela Romano aveva da poco dato vita a Napoli al comitato “Silvio ci manchi”. Fino a pochi giorni prima, aveva fatto la “velina” su un’emittente locale, “TeleCafone”. Poi, prese il volo. Nel vero senso della parola: a novembre 2006, sale con le sue avvenenti compagne (oltre alla Romano c’era Virna Bello, ndr) sull’aereo privato del Premier che le porta a Villa Certosa.

Di aereo in aereo: il 13 luglio 2007, al termine di una manifestazione di Forza Italia a piazza del Plebiscito, la Pascale torna sullo stesso aereo per una cenetta riservatissima sulla pista di Capodichino. Con lei, oltre alla Romano e alla Bello, quella volta c’erano pure le gemelle De Vivo (più volte, poi, avvistate ai summit napoletani del Premier sulla munnezza, ndr). Di lì a poco la Pascale sarà chiamata a Roma, prima come collaboratrice all’ufficio stampa di Forza Italia a stretto contatto col Capo, poi nello staff del sottosegretario ai Beni culturali, Francesco Giro. Diventa la pupilla del Presidente. Lei capisce e passa all’incasso.

Così, proprio mentre scoppiava il “caso Noemi”, arriva la candidatura blindata alla Provincia di Napoli. Per lei si mobilita tutto il partito. A gestire la macchina elettorale sarà il coordinatore cittadino degli azzurri, Maurizio Iapicca. Una campagna elettorale costosa, quella della Pascale, che per un mese e mezzo ha avuto il suo quartier generale proprio all’Hotel Vesuvio, alloggio incluso. Era lì anche la sera della festa di Noemi a Casoria ad attendere il Premier fino a notte inoltrata solo per mostrargli “le bozze dei manifesti elettorali”.

Alla fine verrà eletta consigliera provinciale con quasi 7.500 voti di preferenza, un terzo di quelli espressi dagli elettori nel suo collegio. Tre anni prima, alle Comunali, ne aveva raccolto appena 83 nella stessa zona della città. Un plebiscito che non le varrà l’agognata poltrona di assessore. Nemmeno con l’ultimo rimpasto, che pure la vedeva in pole-position: “Non me lo aspettavo, ma alcuni colleghi hanno proposto davvero il mio nome come assessore al Turismo, il documento sarà presentato a breve, sono felicissima”.

Alla fine, però, le è stata preferita la “meteorina” Del Giudice e Francesca l’ha presa proprio male. La notizia, l’ha raggiunta ad Antigua, dove era stata invitata, insieme con la deputata Maria Rosaria Rossi e l’architetto Garamondi, nella tenuta del Premier. Una vacanza programmata in coda al G20 in Brasile, alla quale Berlusconi ha dovuto rinunciare dopo che è iniziata a circolare la notizia.

Emanuela Romano

La sua storia si intreccia con quella di Francesca Pascale: insieme fondano il comitato “Silvio ci manchi”; insieme frequentano Palazzo Grazioli e Villa Certosa, cene pubbliche o riservatissime a bordo pista. Laureata in Psicologia, master in marketing e comunicazione in Publitalia ‘80, Berlusconi stravede da subito per lei: la vuole prima deputato, poi europarlamentare.

Agli inizi del 2008, ai genitori della ragazza in visita a Palazzo Grazioli, Berlusconi dice “mi date l’onore di fare di vostra figlia un deputato della Repubblica?”. E la fa accomodare al suo posto dietro la scrivania di Palazzo Grazioli. Una scena da “mille e una notte” ma il finale è amaro: la candidatura naufraga miseramente. Sarà così anche nel 2009 per il Parlamento Europeo, dopo essersi dovuta sorbire la scuola di partito con Denis Verdini e Renato Brunetta.

Papà Cesare, artigiano dei presepi, per protesta tenterà di darsi fuoco proprio davanti alla residenza romana del Premier. Toccherà a Nicola Cosentino trovare a Emanuela una sistemazione. L’ex sottosegretario, propone la ragazza a diversi imprenditori campani ma le proposte sono per lei “irricevibili”: sognava uno scranno in Parlamento, le offrono una comoda poltroncina da segretaria d’azienda.

A marzo 2010, per la Romano arriva la candidatura alle regionali, con la promessa di un posto nella giunta del Presidente Caldoro. Il claim della sua campagna elettorale sembra più un avvertimento al suo Pigmalione che agli elettori: “Mo’ basta! Arap l’uocchie”. Contrariamente a quanto era stato per la Pascale, però, il partito al suo fianco non c’è ed Emanuela sarà la meno votata in assoluto del Pdl. Poco male: un mese dopo sarà nominata assessore al Comune di Castellammare di Stabia, la ex Leningrado del Sud appena espugnata dal centrodestra.

Deleghe pesanti per lei, lavoro e politiche sociali in una delle aree del Paese più colpite sul fronte occupazionale: “Sono stata chiamata come tecnico”, dichiara decisa appena nominata. Ora, sembra aver trovato la sua dimensione: “La pace interiore è una grande forma di energia!!!” ha scritto alle ore 8,19 del 4 giugno sulla sua pagina Facebook. E a chi le chiede come trovare il giusto equilibrio, risponde: “Continua a cercare, a volte basta solo vedere meglio ed è già lì dentro di noi…”. Un po’ Freud, un po’ Quelo.

Virna Bello

Era la terza del gruppo “Silvio ci manchi”. Più che alla politica amava dedicarsi alle feste mondane di provincia: faceva la pr, per tutti era la “braciulona”. Sarà la prima a ottenere un incarico: assessore comunale all’Istruzione a Torre del Greco, la sua città di origine. E anche la prima a confermare la propria presenza a Villa Certosa nell’ottobre 2006 con le amiche Francesca ed Emanuela: “Ricordo ogni particolare perché in quell’occasione mi resi conto che il paradiso esiste pure sulla Terra… Il viaggio a Villa Certosa rappresentò una spinta decisiva, in termini di entusiasmo e passione, per intraprendere diciamo così la carriera politica” ha dichiarato al portale napoletano www.metropolisweb.it. Sarà anche la prima a rimanere senza incarico: un anno dopo la nomina le è stata revocata.

Giovanna Del Giudice
Ventisei anni, iscritta alla facoltà di giurisprudenza, un passato da ragazza immagine al Billionaire e da meteorina nel tg4 di Emilio Fede: tanto è a Giovanna Del Giudice bastato per finire tra le “Papi Girl” della scuola di formazione azzurra in cui nella primavera 2009 si allevavano veline per Bruxelles.

Le parole di Veronica Lario, il “ciarpame senza pudore” denunciato dopo la festa per i 18 anni di Noemi Letizia a Casoria, ostacolarono la sua candidatura: “Non protesto, ma un po’ ci resto male. Avevo anche firmato dal notaio” dichiarò all’indomani della sua esclusione tornando a fare da assistente parlamentare (ha lavorato con i senatori Ghigo, Rizzotti e Picchetto). Anche per lei, ci sarà un posto alle regionali in Campania ma, con 4000 voti, Giovanna risulterà la penultima dello schieramento azzurro. Peggio di lei farà solo Emanuela Romano, nominata poi assessore comunale a Castellammare di Stabia.

Un posto a Giovanna lo troverà, invece, Luigi Cesaro, che agli inizi di luglio la nomina nella sua giunta provinciale a Napoli: assessore alle pari opportunità e alle politiche giovanili. “Giovane ed ex meteorina: e allora? L’ho premiata e non me ne pento affatto” ha dichiarato al Corriere del Mezzogiorno il Presidente amico prima di don Raffaele Cutolo poi di Silvio Berlusconi.

Antonia Ruggiero

“Ho salvato la Giunta Provinciale di Avellino da un destino come quello di Taranto” (giunta annullata dal Tar per mancato rispetto delle quote rosa) raccontava appena pochi mesi fa Antonia Ruggiero, la prediletta irpina del premier. Perché era l’unica donna nella Giunta di Cosimo Sibilia, il presidente senatore (doppio incarico), anche se imposta direttamente Berlusconi.

Figlia di imprenditori, sposata con un giornalista Rai, bruna con gli occhi di ghiaccio che hanno stregato il premier: nel 2008 il nome della Ruggiero era stato cassato all’ultimo momento dalla posizione numero cinque della lista di Forza Italia alla Camera. “Ero in quota Rotondi, ma la mia era una candidatura del presidente Berlusconi e, purtroppo, sono stata inspiegabilmente silurata all’ultimo minuto. Ci sono rimasta di gesso”. Un anno dopo, stesso refrain per le Europee. Il rimedio è quel posto da assessore provinciale alle politiche giovanili e alle pari opportunità.

Ma non basta, Berlusconi impone nuovamente il suo nome in lista alle regionali. Come per la Del Giudice e la Romano. Per lei, però, il premier ha preteso l’impegno dell’intero partito e alla fine la Ruggiero è risultata la prima eletta nella provincia di Avellino, mandando su tutte le furie l’ex capo dell’opposizione in Consiglio, il finiano Franco D’Ercole, che non ce l’ha fatta a essere riconfermato. Ora guida la commissione cultura, con auto blu e indennità aggiuntiva.

Nicole Minetti

“Sono adeguata al ruolo”. La giovane e bella Nicole Minetti al suo primo giorno da consigliere regionale si è mostrata decisa e spavalda. Purtroppo ai giornalisti non è stato consentito porgerle domande perché dalle sue spalle è spuntata una signora di mezza età che con piglio preciso ha agguantato e allontanato i microfoni.

“La dottoressa Minetti non parla, io son la sua pierre”. Abbandonati i microvestiti con i quali ha tentato di sfondare nel dorato mondo televisivo (fra cui i casting per Colorado Cafè di Italia 1 e i passaggi in Scorie su un’altalena), la 25enne Minetti si è presentata in aula con un abito monacale grigio chiaro.

Su di lei si erano scatenate polemiche furibonde perché Berlusconi aveva imposto la sua candidatura nel listino blindato di Roberto Formigoni. Scalzando volti e nomi più noti, come Paolo Cagnoni, l’assistente del ministro Sandro Bondi. Ma l’ordine arrivato da Arcore non poteva cadere nel vuoto.

Silvio Berlusconi e Nicole Minetti si sono incrociati un anno fa. Quando la giovane di Rimini, arrivata a Milano per la specializzazione di Igiene dentale al San Raffaele, venne reclutata per fare la hostess allo stand di Publitalia da Luigi Ciardello. Accomodata su uno sgabello, con tacchi 12, tailleur bleu scuro con doverosi spacchi e adeguate scollature, il Cavaliere rimase folgorato.

Questo almeno raccontano i soliti maligni, gli invidiosi retroscenisti. Lei, pur non avendo mai fatto mistero dell’amicizia nata con il premier, ha sempre tenuto a precisare di essere “adeguata”.

Io, ha detto in una (rarissima) intervista al Corriere della Sera rilasciata prima di essere eletta, “ho il mio curriculum, mi sono preparata e credo di essere adeguata al ruolo”. Certo “sono consapevole di essere giovane e di avere ancora molto da imparare. Ma non mi piacciono i giudizi affrettati e credo che le persone vadano misurate sul campo”.

E poi fa una richiesta: “Potreste smettere di pubblicare le foto di quando ho lavorato in tv? Il mio mestiere è un altro”. Ovviamente il Corriere della Sera pubblica l’intervista corredata da due foto.

Una che ritrae Minetti ai tempi della tv con abiti a dir poco succinti e l’altra nella nuova veste: niente più scollature audaci né lunghi capelli al vento ma una casta camicia bianca e capelli raccolti.

Al primo giorno tra i banchi del consiglio regionale si è conquistata l’interesse dell’altra matricola: Renzo Bossi. Il trota, in appena due ore, ha colto l’adeguatezza in aula di Nicole Minetti.