mercoledì 28 settembre 2011

News Shake

Un altro shake di notizie a caso, ma non per caso...


Il culo al potere
di Beppe Grillo - www.beppegrillo.it - 27 Settembre 2011

Basta, per favore basta con le presunte zoccole, i presunti maneggioni, i presunti favori, le alcove, le fotografie con i tanga, le tette e i fondoschiena.

Vogliamo toglierci l'ex presidente del Consiglio dai coglioni?

E' cosa buona e giusta, ma non c'è bisogno di trasformare l'Italia in una versione hard del Decamerone. Ogni giorno una nuova puntata a luci rosse.

Per capire quale procura sta indagando (Lecce, Bari, Roma?) , su quali escort, e dove si trova (ma soprattutto chi è) Lavitola bisogna leggere il riassunto delle puntate precedenti. Altrimenti non è possibile capire nulla.

Il premier ha indotto a mentire un testimone, si è scopato una minorenne, ha fatto la doccia dopo un amplesso, se ne è trombate otto in una volta?

Pagine su pagine di intercettazioni e di ragazze mai condannate in tribunale, ma diventate puttane per diritto giornalistico. In caso di non colpevolezza, di mancanza di reato, qualcuno le risarcirà?

Bagnasco
è sceso in campo. "Comportamenti licenziosi, va purificata l'aria". Incominci lui, inizi la Chiesa che ha tratto da questo governo tutti i benefici economici possibili, per tacere dello scandalo mondiale della pedofilia del quale non si scrive soltanto in quest'Italia papalina.

"Tarantini e moglie liberi. Per il tribunale del Riesame la competenza è di Bari e non di Roma." Qualcuno sano di mente mi spiega perché questa è la notizia oggi in prima pagina? L'economia sta sprofondando. Basterebbe questo per far cadere il governo.

Non si parla più di mafia, 'ndrangheta e camorra se non per il loro giro d'affari di circa 130 miliardi di euro all'anno. "Vanno recuperati i soldi!" ci spiegano i politici.

Ma come possono anche solo dirlo se la politica è collusa con la criminalità organizzata spesso e volentieri? Questo governo ha più scheletri nell'armadio di un ossario, ma nessuno si azzarda ad aprirlo quell'armadio, perché contiene tibie, crani, malleoli, costole condivisi con l'opposizione.

Meglio parlare di culi e di tette, attaccare su un fronte su cui l'ex presidente del Consiglio ha un indubbio vantaggio sin dai tempi delle vallette di Fininvest.

Non sappiamo nulla sulla fedina penale di un deputato, ma veniamo informati se è omosessuale, se è omofobo, se va a trans e in che zona di Roma. La fantasia al potere è stata sostituita dal culo al potere.

E le "Domande al Cavaliere?". Imperdibili! Sempre 10, mai una in più, forse i giornalisti sanno contare solo con le dita delle mani.

Mai una domanda scomoda, ma solo porno soft del tipo su Repubblica di oggi "Perché ripara i suoi atti di beneficenza, se sono tali, dietro accordi segreti e misteriosi?" oppure "Perché usa la RAI e i suoi dirigenti per ottenere favori da giovani donne?". Se le tragedie spesso finiscono in farsa, la nostra sta finendo in vacca.


Il peggio femminino
di Lameduck - http://ilblogdilameduck.blogspot.com - 24 Settembre 2011

"Questo patto [dichiarazione di voto, n.d.a.] vogliamo stipularlo con Lei e non col prof. Prodi: la sua campagna fatta di 'serietà' e 'sacrifici' non ci piace, ci intristisce e ci fa un po' spavento. E noi signore lo lasciamo volentieri perdere. 'La bellezza salverà il mondo'." (Dalla Lettera aperta delle donne a Silvio Berlusconi, marzo 2006)

Quando tutto sarà finito e ci aggireremo tra le macerie fumanti di questo disgraziato paese, bisognerà fare un discorsetto come si deve alle donne che hanno popolato, appoggiato, sfruttato ed acclamato il maledetto regime del Drago Flaccido per tutto questo tempo. Qualche testolina da rapare metaforicamente a zero per intelligenza - anzi incoscienza - con il nemico, insomma, non guasterebbe.

Non è un mistero che proprio le donne siano state lo zoccolo duro dell'elettorato del Nano della Provvidenza. Non solo le patetiche vecchie passerottine comperate last minute con il cestino da viaggio dei poveri - panino al salame e mezza minerale - e mandate di fronte a Palazzo di Giustizia a fare claque.

Non solo le signore bene e male tradizionalmente sensibili ai richiami del populismo fascista e del conservatorismo protettore del privilegio ma milionate di donne di tutte le classi sociali, anche le più umili, che gli si sono donate senza indugio come ringraziamento per essere state sedotte e condizionate pavlovianamente dalla sua cura Silvio-Ludovico.

Ore ed ore, giornate intere per trent'anni a farsi rincoglionire ed offendere da trasmissioni oscene per ignoranza e volgarità, senza che nessuna avesse il buon gusto di spegnere l'ordigno infernale e rifiutarsi di comperare i rovagnati, i mulini bianchi e tutte le cianfrusaglie che avrebbero finanziato altra televisione immonda, altra merda da far colare nel loro salotto, in un loop consumistico e culturalmente degradante senza fine.

L'oscenità che ci ha fatto rabbrividire in "Videocracy" e ne "Il corpo delle donne" le italiane l'hanno tollerata senza fiatare per decenni senza accorgersi di come questo condizionamento tette-culi stesse scavando come una talpa nell'inconscio maschile infettandolo con l'idea che le donne debbano essere sempre e solo categorizzate secondo un sistema binario in strafighe vs. cesse, minorenni vs. vecchie, chiavabili vs. inchiavabili, madonne (le loro madri) vs. troie (il resto del mondo).

Quando il responsabile di tale schifezza è sceso in politica, invece di evitarlo come la peste, lo hanno votato, gli hanno affidato le loro vite e quelle dei loro figli.

Del resto anche nella vita reale capita ad esempio che siano proprio le donne a volte - magari per stupidità ed incoscienza - a dare in pasto i figli ai pedofili, specie se di famiglia. Sarà il riflesso nei confronti del maschio dominante.

Ora le donne che lo hanno votato si adontano. Il vecchiaccio in fondotinta non riesce a difenderle dalla crisi perché ha perso troppo tempo a difenderle dai comunisti e si sentono punte nel vivo soprattutto per il fatto delle mignotte.

Lì per lì, quando Veronica già nel 2007 le aveva avvertite non le avevano creduto. L'avevano considerata un'ingrata che osava toccar loro il Silvio.

Avevano svuotato la sacca del veleno. Poi, a furia di martellare, scandalo dopo scandalo, identificandosi nella moglie cornuta con il marito che va a puttane e per giunta più giovani, nella dura scorza dell'elettorato femminile papiminkia si è formata una crepa strutturale, sintomo di crollo imminente del mito.

A proposito, è inquietante che si debba essere d'accordo con uno come Edward Luttwak che ha dichiarato Veronica "vera patriota italiana" per essere stata la prima a ribellarsi al Drago.
Che siano pentite o meno, le elettrici di B. non hanno comunque scuse: sono colpevoli di favoreggiamento continuato al regime.

Anche le donne di centrosinistra hanno latitato nel denunciare come la televisione italiana stesse diventando null'altro che lo specchio della personale perversione sessuale di un vecchio libidinoso.

Una manifestazione ogni trent'anni, la famosa "Se non ora quando" è francamente un po' pochino, soprattutto per quello che contano ormai le manifestazioni. Uno sciopero delle consumatrici, ad esempio, avrebbe fatto più male.

Il regime però non ha espresso solamente un elettorato femminile da vergognarsi ma soprattutto una classe dirigente in tacchi a spillo che è il peggio del peggio femminile. Il berlusconismo si è fatto rappresentare ed ha portato al potere, coprendole di denaro, carriere e ciondoli per farle star buone, le sciurette cotonate, le zie ricche fasciste, le imprenditrici coscialunga e cervello fino, le figlie-di, le terruncielle rampanti con la specializzazione in arti bolognesi, le zoccole e basta, le minorenni che vanno per i trentacinque, le casalinghe di Voghera, le anelle mancanti razziste con il terrore del negro, le pozze di ignoranza abissale elevate a ministre dell'istruzione e quelle che maitresse si nasce e loro lo nacquero.

Un mare di nullità femmine abituate a funzionare in modalità cervello automatico con schede pre-programmate; sacerdotesse della vita facile e della carriera molta spesa e poca resa grazie alla coscia allargata, tutto a spese dei contribuenti.

Tutte bonazze perché, come ha recentemente dichiarato la sacerdotessa che parla come Vito Catozzo, "le racchie devono stare a casa". A casa anche le brave e le intelligenti, era sottinteso.

Perché il combinato di bella & intelligente rischia di far andare in sovraccarico il sistema. Il berlusconismo, per stabilizzarsi, deve annichilire l'intelligenza, la creatività e la competenza della donna. Deve essere solo il Trionfo della Cretina.

E bastava guardare le sue televisioni per capirlo con anni di anticipo ed evitare i danni catastrofici che stiamo subendo.


Regali alle banche? Abbiamo già dato: che falliscano pure
di Aldo Giannuli - www.aldogiannuli.it - 27 Settembre 2011

Nuova settimana di passione per la Borsa e, soprattutto per i titoli bancari, in particolare francesi che perdono quasi il 50% del loro valore, in poco più di un mese.

Il sistema bancario europeo sembra un castello di carta velina: se i francesi piangono, gli italiani non ridono ed anche inglesi, tedeschi ed olandesi non hanno molto da stare allegri.

Ma, solo a giugno, non ci avevano detto che gli “stress test” erano stati superati a pieni voti e che il sistema bancario europeo era solido come la roccia?

Erano state bocciate solo 8 banche mentre per tutte le altre le cose andavano a gonfie vele. Che razza di stress test erano?

Ma, ci si dice, i test erano stati fatti prima della crisi greca, per cui è il rischio del default greco che crea problemi alle banche francesi e tedesche allontanando i risparmiatori dai loro titoli azionari.

Ma che la situazione greca fosse quella che è si sapeva già da tempo ed il più sprovveduto impiegato di banca sapeva perfettamente che, alla scadenza di maggio, si sarebbe presentata -peggiorata- la stessa situazione dell’anno prima. Dunque, che stress test hanno fatto?

E così viene fuori un altro pezzo di verità: in effetti i bond greci c’entrano, ma fino ad un certo punto: le banche francesi ne hanno in corpo per una cinquantina di miliardi, ma il guaio peggiore sono ancora i derivati dei mutui subprime (cdo, cds ecc.) americani che, nonostante l’alluvione di liquidità di questi anni, non sono stati smaltiti ed, a quanto pare, si tratta di cifre ragguardevoli.

Per di più le banche francesi li posseggono e li riportano a bilancio con il loro valore nominale, non essendosi ancora decise a registrare la perdita di circa il 90% del loro valore. Prima o poi dovranno registrare la perdita a bilancio e, dato che la notizia ormai serpeggia, gli azionisti si dileguano.

Dunque, i soldi dati dagli stati in tre anni, non sono serviti a togliere di mezzo questa spazzatura; torniamo a dire: come caspita hanno fatto gli stress test sulle banche? Non si erano accorti che le tre maggiori francesi avevano un bilancio fittizio?

Fra agenzie di rating e la European banking authority che fa i test a questa maniera, pensate in che mani siamo e quanto siano affidabili le notizie sulla situazione finanziaria.

Dove la cosa peggiore non è che facciano imbrogli (se la finanza non ne facesse non avrebbe ragione di esistere) ma che non li sappiano fare, al punto che i mirabolanti stress test della Eba crollano miseramente dopo nemmeno tre mesi dal trionfalistico annuncio dei loro esiti. Se una bugia non sta in piedi più di due mesi, vuol dire che il bugiardo è anche cretino.

Ed allora che si fa? Che domande! Trichet già parla di “liquidità illimitata” alle banche per far fronte alla crisi, Ma il denaro è per sua natura un debito, per cui questo significa solo tappare le falle delle banche trasferendo il loro debito a qualche altro.

E provate ad indovinare chi è questo altro? Ma lo Stato (o gli Stati europei) of course! Che, alla fine del giro, non potranno che emettere altri bond per la bisogna.

Insomma: le banche stanno male per colpa dei troppi bond statali che hanno in pancia e che sono sempre più rischiosi e cosa fanno? Chiedono altri soldi agli Stati, che ovviamente non possono reperirli che emettendo altri bond e peggiorando la propria situazione debitoria: geniale!

Per non far fallire le banche, dobbiamo far fallire gli Stati. Ma non si era detto che occorreva a tutti i costi raggiungere il pareggio di bilancio? E come pareggiare il bilancio con un’altra alluvione di denaro regalato alle banche?

Potremmo fare così: aboliamo la sanità pubblica, sospendiamo il pagamento delle pensioni, chiudiamo scuole ed università, raddoppiamo le tasse e poi i soldi ricavati li diamo tutti alle banche. Così l’economia è salva.

Diciamoci le cose schiettamente: è arrivato il momento di lasciar fallire le banche (e le assicurazioni) senza muovere un dito per salvarle. Punto e basta.

E’ una delle poche volte che ci sentiamo in piena sintonia con il pensiero liberista: se dei soggetti non si reggono da soli, il mercato li spazza via. Impeccabile.

Qui invece, i “neo liberisti del buon tempo” che vantano le virtù del mercato quando tutto va bene, poi pretendono subito l’intervento dello Stato quando c’è da socializzare le perdite. Troppo comodo.

Ma, si dice, in questo modo la recessione diventa catastrofe perchè crolla il sistema creditizio e con esso le imprese.
Siamo sicuri che le cose stiano così?

In primo luogo, occorre procedere con discernimento: le (poche) banche che sono soltanto illiquide, ma non insolventi, vanno salvate con prestiti (ho detto prestiti, non regali), utili anche a riattivare il mercato interbancario.

Un’altra parte delle banche potranno salvarsi attraverso fusioni oppure “rottamando” qualche attività collaterale e lasciando fallire qualche consociata minore.

Quelle insolventi, ma in grado di riprendersi, possono essere salvate, ma, nello stesso tempo, nazionalizzate: appunto, niente regali.

Le altre (probabilmente la parte più consistente) falliscano pure e liberiamo il mercato da imprese insane. Magari lo stato potrebbe fare un fondo di protezione dei risparmiatori, a parziale indennizzo delle perdite subite.

Certo ci sarà il problema di sostenere le imprese, fondi pensione, cooperative ecc. in difficoltà: vuol dire che il denaro che qualcuno pensa debba essere devoluto alle banche, lo sarà ad un fondo statale di sostegno all’impresa (possibilmente da gestire con criteri non clientelari).

In fondo, se lo Stato deve intervenire a sostegno dell’economia reale, perchè mai non lo fa direttamente? Dove sta scritto che per dare soldi alle imprese deve darli alle banche perchè poi queste li diano alle imprese?

E, d’altra parte, in una situazione del genere non sarebbe affatto una eresia dar vita ad una nuova Iri (peraltro profondamente rivista nei criteri di gestione e nella struttura). Fu una sciocchezza sciogliere le Partecipazioni Statali che, semmai, andavano riformate, risanate e moralizzare.

Si preferì farne grazioso regalo agli amici ed agli amici degli amici. E questo va messo sul conto più dei governi di centro sinistra che su quelli di centro destra. E forse sarebbe il caso di aprire una inchiesta su come fu liquidato quel patrimonio dello Stato.

Dunque, non è scritto da nessuna parte che per salvare e rilanciare l’economia occorra far regali ai banchieri. Quegli stessi soldi possono essere impiegati più proficuamente.

Nello stesso tempo, sarebbe bene che tutti i beni personali dei manager e dirigenti vari (sino all’ultimo euro) siano pignorati cautelativamente ed affidati ad un apposito organismo statale che li gestirà sino a quando il processo per fallimento non finisca.

Se poi emergeranno loro responsabilità, quei beni siano incamerati per ripagare i risparmiatori ed alimentare il fondo di ripresa.

Che ne dite se i sindacati (a cominciare dalla Cgil, ma noi vorremmo non solo quelli italiani) convocassero uno sciopero generale con uno slogan semplice e chiaro: “Basta con i regali alle banche”?



Usa, la catastrofe del bilancio
di Michele Paris - Altrenotizie - 27 Settembre 2011

Il Senato degli Stati Uniti ha licenziato lunedì sera a tarda ora un provvedimento di emergenza che ha evitato un’imminente paralisi delle agenzie e degli uffici federali, nuovamente minacciati dalla mancanza di finanziamenti.

Il più recente stallo al Congresso americano era scaturito dalla proposta di stanziare fondi straordinari per far fronte alle conseguenze dei ripetuti disastri naturali avvenuti negli ultimi mesi in varie parti del paese; un’emergenza sfruttata politicamente dai repubblicani per cercare di estrarre ulteriori tagli alla spesa pubblica.

In una vicenda che si è sostanzialmente risolta nell’ennesima capitolazione del Partito Democratico di fronte alle richieste di quello Repubblicano, alla fine da Washington non è stato praticamente stanziato nessun dollaro extra per le attività assistenziali e di ricostruzione svolte dalla protezione civile americana (FEMA, Federal Emergency Management Agency).

La sezione riguardante la FEMA faceva parte di un pacchetto di bilancio destinato a finanziare le spese federali fino al 18 novembre prossimo. Per l’agenzia governativa che si occupa di rispondere alle catastrofi naturali negli USA erano previsti un totale di 3,65 miliardi di dollari, di cui 2,65 da sborsare all’inizio del prossimo anno fiscale - che inizierà il 1° ottobre - e un miliardo in fondi straordinari per quello tuttora in corso.

Per dare il via libera al miliardo addizionale, i repubblicani pretendevano però che venissero tagliati 1,6 miliardi assegnati ad un programma federale di incentivi alla produzione di automobili a basso consumo energetico, particolarmente popolare tra i democratici.

Di fronte alla ferma opposizione di questi ultimi, la Camera dei Rappresentanti a maggioranza repubblicana venerdì scorso aveva comunque proceduto a votare un provvedimento comprensivo dei tagli, pur senza alcuna possibilità di superare l’ostacolo del Senato.

L’impasse nella camera alta del Congresso è stata alla fine superata, evitando il pericolo di “shutdown” del governo federale, nella giornata di lunedì, quando la FEMA ha fatto sapere di aver reperito 114 milioni di dollari, destinati ad altri progetti ma inutilizzati, che dovrebbero consentirle di operare fino a venerdì prossimo.

Superato l’ostacolo, il Senato ha così approvato il budget temporaneo con 79 voti a favore e 12 contrari. Il voto definitivo della Camera, come ha confermato lo speaker John Boehner, si terrà settimana prossima, al termine di una sospensione dei lavori di una settimana.

Grazie all’accordo bipartisan, la FEMA potrà così ottenere i 2,65 miliardi di dollari assegnati al suo bilancio per l’anno fiscale 2011-2012 a partire da sabato prossimo. Senza il miliardo extra, tuttavia, in questi ultimi giorni di settembre le sue operazioni negli USA risulteranno notevolmente ridotte, mentre non saranno possibili interventi in caso di nuove calamità.

La FEMA, oltretutto, è penalizzata da una cronica carenza di fondi e, alla luce del moltiplicarsi delle emergenze nell’ultimo periodo, il suo budget dovrà con ogni probabilità essere nuovamente discusso dal Congresso a breve.

La stessa Casa Bianca ha già fatto sapere che la FEMA avrà bisogno di almeno 4,6 miliardi di dollari nel prossimo anno fiscale, una cifra che in molti ritengono peraltro ben al di sotto delle reali necessità dell’agenzia.

Di fronte a situazioni drammatiche, con migliaia di persone senza un alloggio, servizi pubblici e infrastrutture da ricostruire, le vittime dei recenti terremoti, inondazioni, tornado e uragani sono dunque tenute in ostaggio dallo scontro politico sul debito in corso a Washington.

Fino al recente passato, gli stanziamenti per le emergenze seguite ai disastri naturali - ancorché spesso insufficienti - venivano approvati dal Congresso senza impedimenti.

La febbre del debito che ha contagiato l’intero panorama politico americano, e in particolare quello repubblicano, sembra invece aver portato all’ordine del giorno la necessità di bilanciare le spese per l’assistenza alle vittime delle calamità con altri tagli alla spesa pubblica.

Se questo principio non è stato per ora adottato, appare in ogni caso inevitabile che, visto il clima attuale, venga riproposto già in occasione della prossima emergenza.

L’ennesima messa in scena di un Congresso che non sa dare risposte né alle conseguenze della crisi economica né a quelle delle catastrofi naturali, ha rappresentato una nuova occasione per mettere in atto ulteriori misure di austerity.

Negli ultimi mesi, infatti, sono stati escogitati più volte ultimatum e scadenze inderogabili, utilizzate per implementare tagli devastanti alla spesa federale, puntualmente presentati come inevitabili per la sopravvivenza stessa dei servizi garantiti dal governo.

Ad aprile, ad esempio, lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner, e il presidente Obama trovarono un accordo sull’estensione del finanziamento della macchina federale addirittura a pochi minuti da un clamoroso “shutdown”.

L’esempio più eclatante di questa strategia, deliberatamente adottata per far digerire gli assalti alla spesa pubblica, è però quello dello scorso agosto, quando venne raggiunto un accordo bipartisan in extremis per innalzare il tetto dell’indebitamento americano in cambio di colossali tagli.

Da quel patto tra repubblicani e democratici è uscita una speciale commissione incaricata di individuare e proporre al Congresso entro la fine dell’anno tagli alla spesa per almeno 1.500 miliardi di dollari.

A ciò va aggiunto poi il recente piano della Casa Bianca per ridurre la spesa federale di altri 4 mila miliardi di dollari nel prossimo decennio.

Una proposta propagandata direttamente da Obama e che include anche tagli per oltre 4 miliardi di dollari al programma della FEMA per la copertura assicurativa dei danni causati dai disastri naturali.



Goldman Sachs governa il mondo
di Miro Renzaglia - www.mirorenzaglia.org - 27 Settembre 2011

Alessio Rastani e la verità di un broker: l’Europa è spacciata, shock in diretta alla BBC

Alessio Rastani è un trader (o broker) ovvero: un operatore finaziario. Intervistato dalla BBC, ha previsto il default economico per l’intera Europa entro un anno. Indicando, inoltre, nella Goldman Sachs la vera potenza che domina il mondo. Quella che segue è la trascrizione dell’intervista, per il video cliccate QUI.

Rastani: “Io sono un operatore finanziario, non mi preoccupa la crisi, se vedo un’opportunità di fare denaro, la seguo. Per cui per la maggior parte dei brokers non è questo il punto. Noi non ci preoccupiamo di come sistemare l’economia o di come si supererà questa situazione. Il nostro lavoro e fare soldi e io personalmente ho sognato questo momento negli ultimi tre anni. Devo confessarlo, ogni notte vado a dormire sognando un’altra recessione, un altro momento come questo.

Perché c’è molta gente che non lo ricorda, però la depressione degli anni 30 non è stata solo il crollo dei mercati. C’era gente preparata a fare soldi con quel crollo. E io credo che questo lo può fare chiunque, non solo un’èlite.

Chiunque può fare soldi con questo, è un’opportunità. Quando il mercato crolla, quando l’euro e le grandi Borse crollano, se sai cosa fare, se hai il piano corretto davanti, puoi fare una barca di soldi: per esempio, con una strategia di hedge funds o investendo nel debito sovrano, cose come questa”.

Giornalista: “Se può vedere le persone che sono qui con me, vedrà che sono rimaste a bocca aperta ascoltando quello che dice. La ringraziamo per il candore, ma questo non ci aiuta e non aiuta neanche l’Eurozona”.

Rastani: “Ascolti, a tutti quelli che ci stanno ascoltando. Questa crisi è come un cancro. Se aspettano e aspettano senza fare niente, questo cancro continuerà a crescere e sarà troppo tardi. Quello che dovrebbero fare è prepararsi.

Questo non è il momento di credere che i governi sistemeranno le cose. Loro non governano il mondo. Goldman Sachs governa il mondo. E a Goldman Sachs non importa questo pacchetto di misure di salvataggio e neanche importa ai grandi fondi di investimento.

Guardi, io voglio aiutare le persone e la gente può guadagnare soldi da questo, non solo i brokers, quello che devono fare è imparare a fare soldi in un mercato in caduta, la prima cosa che devono fare è proteggere i loro investimenti, proteggere quello che hanno, perché la mia previsione è che in meno di 12 mesi i risparmi di milioni di persone spariranno e sarà solo l’inizio. Per cui il mio consiglio è preparatevi e agite adesso. Il maggiore rischio che correte adesso è non agire”.




Libia. le vere ragioni della guerra
di F. William Engdahl* - Global Research - 25 Settembre 2011
Traduzione di Gianluca Freda su blogghete.altervista.org

L’AFRICOM e la minaccia alla sicurezza energetica nazionale della Cina

La decisione presa negli ultimi mesi dalla NATO di bombardare la Libia, sotto la direzione di Washington, allo scopo di ottenerne la sottomissione – con un costo per i contribuenti americani pari circa ad 1 miliardo di dollari – ha poco o nulla a che vedere con ciò che l’amministrazione Obama definisce una missione “per proteggere i civili innocenti”.

In realtà, tale aggressione fa parte di un più ampio assalto strategico, progettato dalla NATO e dal Pentagono, che ha l’obiettivo specifico di porre sotto totale controllo quello che è il tallone d’Achille della Cina, e cioè la sua dipendenza strategica dalle enormi quantità di petrolio greggio e gas che vengono importate dall’estero.

Oggi la Cina è il secondo maggior importatore mondiale di petrolio dopo gli Stati Uniti e la distanza tra i due si sta rapidamente colmando.

Se diamo un’attenta occhiata ad una cartina dell’Africa e poi osserviamo l’organizzazione in Africa del nuovo African Command (AFRICOM) del Pentagono, il quadro che ne emerge è quello di una strategia accuratamente predisposta per controllare una delle più importanti fonti strategiche della Cina per l’approvvigionamento di petrolio e materie prime.

La campagna militare della NATO in Libia è stata ed è ancora condotta per il petrolio. Ma non semplicemente per appropriarsi del greggio libico di alta qualità o perché gli USA siano ansiosi di procacciarsi fornitori esteri affidabili. Essa serve invece a controllare l’accesso della Cina alle importazioni petrolifere di lungo termine dall’Africa e dal Medio Oriente. In parole povere, serve a controllare la Cina stessa.

Geograficamente, la Libia è collegata a nord, attraverso il Mediterraneo, direttamente all’Italia, sede della compagnia petrolifera italiana ENI, che è stata per anni il maggiore operatore estero in Libia. A ovest confina con la Tunisia e con l’Algeria. A sud confina col Ciad. A est confina sia col Sudan (oggi diviso in Sudan e Sudan Meridionale) che con l’Egitto.

Ciò dovrebbe dirci qualcosa sull’importanza che la Libia riveste per la strategia di lungo termine dell’AFRICOM statunitense, in vista di un controllo sull’Africa, sulle sue risorse e sui paesi in grado di accedere a tali risorse.

La Libia di Gheddafi aveva mantenuto uno stretto controllo nazionale dello Stato sulle ricche riserve di greggio libico “leggero”. Secondo i dati del 2006, la Libia possedeva le più ampie riserve petrolifere accertate di tutta l’Africa, superiori di circa il 35% a quelle della stessa Nigeria. In anni recenti, concessioni petrolifere erano state accordate a compagnie cinesi, russe e di altri paesi.

Non c’è dunque da sorprendersi che un portavoce della cosiddetta opposizione che proclama la propria vittoria su Gheddafi, Abdeljalil Mayouf, il quale è addetto alle pubbliche relazioni dell’azienda petrolifera dei ribelli (la AGOCO), abbia dichiarato alla Reuters: “Non abbiamo problemi con le compagnie petrolifere di paesi occidentali quali Italia, Francia e Regno Unito. Ma potremmo avere delle riserve politiche verso Russia, Cina e Brasile”.

Russia, Cina e Brasile sono paesi che si sono opposti alle sanzioni ONU contro la Libia oppure hanno fatto pressione per ottenere una soluzione negoziale del conflitto interno e per porre fine ai bombardamenti della NATO.

Come ho già spiegato nel dettaglio altrove (1), Gheddafi, vecchio adepto del socialismo arabo sulla linea tracciata da Gamal Nasser, aveva utilizzato i proventi petroliferi per migliorare le condizioni del suo popolo. Le cure sanitarie erano gratuite, come anche l’istruzione.

Ogni famiglia libica aveva diritto ad un bonus di 50.000$ da parte dello Stato per l’acquisto di una casa e i prestiti bancari venivano concessi in base alle leggi islamiche anti-usura, senza interessi.

Lo Stato era privo di debiti. Solo grazie alla corruzione e all’infiltrazione massiccia nelle zone dell’opposizione tribale presente nella parte orientale del paese, la CIA, l’MI6 e altri operativi dell’intelligence NATO sono riusciti – al costo di circa 1 miliardo di dollari e di violenti bombardamenti NATO contro i civili – a destabilizzare i forti legami che esistevano tra Gheddafi e la sua gente.

Perché dunque la NATO ed il Pentagono hanno condotto un assalto così folle e devastante contro una pacifica nazione sovrana? E’ chiaro che uno dei principali motivi era quello di completare l’accerchiamento delle fonti di petrolio e materie prime che la Cina importava dal Nord Africa.

L’allarme del Pentagono sulla Cina

Passo dopo passo, negli ultimi anni Washington ha iniziato a diffondere la percezione che la Cina, la quale fino a un decennio fa era “il caro amico ed alleato dell’America”, stesse diventando la maggiore minaccia alla pace mondiale a causa della sua immensa espansione economica.

Dipingere la Cina come il nuovo “nemico” è stato complicato, visto che Washington dipende dalla Cina per l’acquisto della maggior parte del debito governativo americano, sotto forma di buoni del Tesoro.

Ad agosto il Pentagono ha pubblicato il suo rapporto annuale al Congresso sulla situazione militare della Cina. (2) Quest’anno tale rapporto ha fatto suonare in Cina molti campanelli d’allarme, a causa del nuovo e sgradevole tono con cui è stato redatto.

Il rapporto affermava tra l’altro: “Nell’ultimo decennio, l’esercito cinese ha potuto beneficiare di robusti investimenti in hardware e moderne tecnologie. Molti sistemi moderni hanno raggiunto la piena maturità e altri diverranno operativi fra pochi anni”, scriveva il Pentagono nel rapporto.

Aggiungendo: “Rimangono incertezze riguardo al modo in cui la Cina deciderà di utilizzare queste crescenti capacità... l’ascesa della Cina al ruolo di attore internazionale di primo piano sarà probabilmente il principale tratto distintivo del panorama strategico dei primi anni del 21° secolo”. (3)

Nel giro di due o forse di cinque anni, a seconda di come il resto del mondo reagirà o giocherà le sue carte, la Repubblica Popolare Cinese verrà dipinta dai media di regime dell’Occidente come una nuova “Germania hitleriana”. Se questa sembra oggi una cosa difficile da credere, si pensi a come ciò è stato fatto con altri ex alleati di Washington quali l’Egitto di Mubarak o lo stesso Saddam Hussein.

A giugno di quest’anno, l’ex ministro della marina militare americana, oggi senatore della Virginia, James Webb, ha stupito molte persone a Pechino, dichiarando alla stampa che la Cina si sta rapidamente avvicinando a quello che egli ha definito “momento-Monaco”, in cui Washington dovrà decidere come mantenere un equilibrio strategico.

Il riferimento era alla crisi cecoslovacca del 1938, quando Chamberlain optò per un accordo con Hitler sulla Cecoslovacchia. Webb ha aggiunto: “Se si guarda agli ultimi 10 anni, il vincitore, sul piano strategico, è stata la Cina”. (4)

La stessa efficiente macchina di propaganda del Pentagono, guidata dalla CNN, dalla BBC, dal New York Times e dal Guardian londinese, riceverà da Washington l’ordine discreto di “dipingere a fosche tinte la Cina e i suoi leader”.

La Cina sta diventando troppo forte e troppo indipendente per i gusti di molte persone a Washington e a Wall Street. Per tenerla sotto controllo, è soprattutto la sua dipendenza dalle importazioni petrolifere che è stata identificata come suo tallone d’Achille. La Libia è una mossa studiata per colpire direttamente questo tallone vulnerabile.

La Cina si sposta in Africa

L’espansione in Africa delle compagnie cinesi che commerciano in petrolio e materie prime è diventata motivo di forte allarme a Washington, dove un’attitudine di velenoso diniego aveva dominato la politica americana in Africa fin dall’epoca della Guerra Fredda.

Da quando diversi anni or sono il suo futuro fabbisogno energetico è divenuto evidente, la Cina è diventata uno dei principali partner economici dell’Africa, in un crescendo che ha raggiunto l’apice nel 2006, quando la Cina ha letteralmente srotolato il tappeto rosso ai capi di oltre 40 nazioni africane, discutendo con essi un ampio ventaglio di questioni economiche. Niente è più importante per Pechino che assicurare le vaste risorse petrolifere africane del futuro alla robusta industrializzazione cinese.

La Cina si è spostata in paesi che erano stati virtualmente abbandonati da ex potenze coloniali europee, quali Francia, Inghilterra e Portogallo.

Il Ciad è un caso emblematico. Il più povero e il più geograficamente isolato dei paesi africani, il Ciad è stato corteggiato da Pechino, che nel 2006 ha riallacciato i rapporti diplomatici.

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Nell’ottobre 2007, il gigante petrolifero cinese CNPC firmò un contratto per la costruzione di una raffineria con il contributo del governo del Ciad. Due anni dopo iniziò la costruzione di un oleodotto per trasportare il petrolio da un nuovo giacimento cinese che si trovava nel sud, a circa 300 chilometri dalla raffineria. Com’era prevedibile, le ONG finanziate dall’Occidente iniziarono ad ululare sull’impatto ambientale del nuovo oleodotto cinese.

Stranamente, le stesse ONG erano rimaste zitte quando nel 2003 era la Chevron a prendersi il petrolio del Ciad. Nel luglio 2011, i due paesi, Ciad e Cina, hanno festeggiato l’apertura di una nuova raffineria petrolifera realizzata in joint venture vicino alla capitale del Ciad, Ndjamena. (5) Le attività petrolifere della Cina in Ciad sono straordinariamente simili ad un altro grande progetto petrolifero cinese, realizzato in quella che era all’epoca la zona sudanese del Darfur, ai confini col Ciad.

Il Sudan è stato per la Cina una fonte crescente di approvvigionamento petrolifero, con una cooperazione iniziata alla fine degli anni ’90, quando la Chevron abbandonò le proprie attività nel paese. Nel 1998, la CNPC iniziò a costruire un oleodotto di 1500 chilometri che andava dai giacimenti del Sudan meridionale fino a Port Sudan sul Mar Rosso; e allo stesso tempo iniziò a costruire una grande raffineria vicino Khartoum.

Il Sudan fu il primo, grande progetto petrolifero d’oltremare realizzato dalla Cina. All’inizio del 2011, il petrolio del Sudan, proveniente quasi tutto dal sud agitato dalle guerre, garantiva circa il 10% delle importazioni petrolifere cinesi e rappresentava oltre il 60% della produzione quotidiana di petrolio del Sudan (490.000 barili). Il Sudan è diventato un punto vitale per la sicurezza energetica nazionale della Cina.

Secondo le prospezioni geologiche, il sottosuolo che va dal Darfur (in quello che era un tempo il Sudan meridionale) fino al Camerun, passando per il Ciad, è un unico, immenso giacimento petrolifero, equiparabile forse per estensione alla stessa Arabia Saudita. Controllare il Sudan meridionale, così come anche il Ciad e il Camerun, è vitale per la strategia del Pentagono di “impedimento strategico” ai futuri approvvigionamenti petroliferi cinesi.

Finché a Tripoli fosse rimasto in carica un regime di Gheddafi stabile e forte, questo controllo sarebbe stato assai problematico. La simultanea separazione della Repubblica del Sudan Meridionale da Khartoum e il rovesciamento di Gheddafi a favore di deboli bande ribelli sostenute dal Pentagono, era una priorità strategica per il Dominio ad Ampio Raggio progettato dagli USA.

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L’AFRICOM risponde

La forza più importante dietro le recenti ondate di attacchi militari occidentali contro la Libia o dietro i più coperti cambiamenti di regime come quelli avvenuti in Tunisia, Egitto e in Sudan meridionale (con il fatale referendum che ha ora reso “indipendente” questa regione ricca di petrolio) è l’AFRICOM, lo speciale comando militare statunitense creato nel 2008 dall’amministrazione Bush, con l’obiettivo specifico di contrastare la crescente influenza cinese sulle vaste ricchezze petrolifere e minerarie dell’Africa.

Alla fine del 2007, il Dr. J. Peter Pham, consigliere a Washington per il Dipartimento di Stato e della Difesa, ha affermato in modo esplicito che tra le mire dell’AFRICOM vi è quella di “proteggere l’accesso agli idrocarburi e ad altre risorse strategiche che l’Africa possiede in abbondanza... un compito che contempla il tutelarsi contro la vulnerabilità di queste ricchezze naturali e l’assicurarsi che nessuna terza parte interessata, come Cina, India, Giappone o Russia, ottenga il monopolio di esse o un trattamento preferenziale”. (6)

In una deposizione di fronte al Congresso americano, resa nel 2007 a favore della creazione dell’AFRICOM, Pham, che è membro della neoconservatrice Fondazione per la Difesa della Democrazia, ha dichiarato:

“Questa ricchezza naturale rende l’Africa un obiettivo invitante per le mire della Repubblica Popolare Cinese, la cui economia in crescita... ha una sete di petrolio pressoché insaziabile, così come la necessità di altre risorse naturali per potersi sostenere... La Cina importa attualmente circa 2.6 milioni di barili di greggio al giorno, approssimativamente la metà di ciò che consuma; più di 765.000 di questi barili – quasi un terzo delle sue importazioni – provengono da fonti africane, in particolare dal Sudan, dall’Angola e dal Congo (Brazzaville). C’è dunque da stupirsi del fatto che... forse nessun’altra regione al mondo sia comparabile all’Africa quale oggetto dei sostenuti interessi strategici di Pechino negli ultimi anni...

Intenzionalmente o no, molti analisti prevedono che l’Africa – soprattutto gli stati ricchi di petrolio della sua costa occidentale – diverranno sempre più il teatro di una competizione strategica tra gli Stati Uniti e il suo unico vero e quasi equivalente avversario sulla scena internazionale, la Cina, allorché entrambi i paesi cercheranno di espandere la propria influenza per garantirsi l’accesso a queste risorse”. (7)

E’ utile ricordare brevemente la sequenza delle “Twitter revolutions” finanziate da Washington, nel corso della cosiddetta “primavera araba”. La prima è stata in Tunisia, un paese apparentemente insignificante sulla costa mediterranea del Nord Africa. La Tunisia si trova però sul confine occidentale della Libia. La seconda tessera del domino a cadere nell’operazione è stato l’Egitto di Mubarak.

Ciò ha creato una grave instabilità dal Medio Oriente al Nord Africa, visto che Mubarak, con tutti i suoi limiti, si era però fermamente opposto alla politica di Washington in Medio Oriente. Anche Israele, con la caduta di Mubarak, ha perduto un sicuro alleato.

Poi, nel luglio 2011, il Sudan del sud si è proclamato Repubblica Indipendente del Sudan Meridionale, separandosi dal Sudan dopo anni di rivolte contro il governo di Khartoum, finanziate dagli USA. La nuova Repubblica si è portata via il grosso delle ricchezze petrolifere conosciute del paese, cosa che non ha certo fatto piacere a Pechino. L’ambasciatrice statunitense all’ONU, Susan Rice, ha guidato la delegazione americana ai festeggiamenti per l’indipendenza, definendola “un testamento a favore del popolo sudanese meridionale”.

Ha aggiunto che, nel determinare la secessione, “gli Stati Uniti si sono impegnati più di chiunque altro”. Il presidente Obama ha apertamente sostenuto la secessione del sud del paese. La separazione è stato un progetto guidato e finanziato da Washington fin da quando, nel 2004, l’amministrazione Bush decise di farne una priorità. (8)

Ora il Sudan ha improvvisamente perso la sua principale fonte di guadagno, quella dei profitti petroliferi. La secessione del sud, dove vengono estratti i tre quarti dei 490.000 barili che costituiscono la produzione giornaliera del paese, ha aggravato le difficoltà economiche di Khartoum, eliminando il 37% dei suoi introiti complessivi.

Le uniche raffinerie del Sudan e l’unico itinerario per l’esportazione si trovano nel nord, dai giacimenti petroliferi fino a Port Sudan sul Mar Rosso, nel Sudan settentrionale. Il Sudan Meridionale è stato ora incoraggiato da Washington a costruire un nuovo oleodotto per l’esportazione, indipendente da Khartoum, attraverso il Kenya. Il Kenya è una delle zone dell’Africa in cui è più forte l’influenza militare americana. (9)

L’obiettivo del cambiamento di regime orchestrato dagli USA in Libia, così come quello dell’intero progetto per un Grande Medio Oriente che si cela dietro la Primavera Araba, è quello di assicurarsi il controllo assoluto sui maggiori giacimenti petroliferi conosciuti al mondo, allo scopo di controllare le future politiche di altri paesi, in particolare quella della Cina.

Si dice che negli anni ’70, l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger, che all’epoca era probabilmente più potente dello stesso Presidente degli Stati Uniti, abbia affermato: “Se si controlla il petrolio, si controllano intere nazioni o gruppi di nazioni”.

Per la sua futura sicurezza energetica nazionale, la Cina dovrà trovare riserve energetiche sicure in casa propria. Fortunatamente esistono nuovi e rivoluzionari metodi per rilevare e mappare la presenza di petrolio e di gas laddove anche i migliori tra gli attuali geologi direbbero che non è possibile trovare giacimenti. E’ forse questo l’unico modo per uscire dalla trappola in cui la Cina è stata attirata. Nel mio nuovo libro, The Energy Wars, descrivo nel dettaglio questi nuovi metodi per tutti coloro che vi sono interessati.


*F. William Engdahl è l’autore di Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order


Note

1 - F. William Engdahl, Creative Destruction: Libya in Washington's Greater Middle East Project--Part II, March 26, 2011, reperibile all’indirizzo http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=23961

2 – Ufficio del Segretariato alla Difesa, ANNUAL REPORT TO CONGRESS: Military and Security Developments Involving the People’s Republic of China 2011, August 25, 2011, reperibile all’indirizzo www.defense.gov/pubs/pdfs/2011_cmpr_final.pdf.

3 - Ibid.

4 Charles Hoskinson, DOD report outlines China concerns, August 25, 2011, reperibile all’indirizzo http://www.politico.com/news/stories/0811/62027.htmlhttp://www.politico.com/news/stories/0811/62027.html

5 - Xinhua, China-Chad joint oil refinery starts operating, July 1, 2011, reperibile all’indirizzo http://english.peopledaily.com.cn/90001/90776/90883/7426213.html. BBC News, Chad pipeline threatens villages, 9 October 2009, all’indirizzo http://news.bbc.co.uk/2/hi/8298525.stm.

6 - F. William Engdahl, China and the Congo Wars: AFRICOM. America's New Military Command, November 26, 2008, reperibile all’indirizzo http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=11173

7 - Ibid.

8 Rebecca Hamilton, US Played Key Role in Southern Sudan's Long Journey to Independence, July 9, 2011, reperibile all’indirizzo http://pulitzercenter.org/articles/south-sudan-independence-khartoum-southern-kordofan-us-administration-role

9 - Maram Mazen, South Sudan studies new export routes to bypass the north, March 12, 2011, reperibile all’indirizzo http://www.gasandoil.com/news/2011/03/south-sudan-studies-routes-other-than-north-for-oil-exports

martedì 27 settembre 2011

Crisi economica - update

Una serie di articoli sugli ultimi sviluppi della crisi economica strutturale globale in corso ormai da 4 anni.


Una stampella per l'euro
di Mario Braconi - Altrenotizie - 26 Settembre 2011

Anche se non lo dichiarano ufficialmente, i leader europei stanno lavorando ad un piano di salvataggio per l’Unione Europea. In questo momento la politica europea brilla per la sua inesistenza, mentre i capi di governo sembrano più preoccupati di vellicare i propri elettori che di tentare di fare la cosa giusta. Poiché questo è il contesto politico; gli speculatori globali che stanno tentando di far crollare l’euro non mollano.

Per questa ragione, dal punto di vista della realpolitik è benefico l’elettrochoc degli USA, che, con il consueto piglio imperialista, stanno in questi giorni dando lezioni di finanza ai capi europei (da che pulpito!), stimolandoli apertamente ad uscire dalla tranche e a prendere finalmente in mano la situazione.

La pressione dagli Stati Uniti è fortissima, e le parole Segretario del Tesoro americano Timothy Geithner pesano come macigni: “Bisogna togliere di mezzo il rischio di fallimenti a cascata, corsa agli sportelli bancari, ed in generale il rischio di catastrofe, altrimenti tutti gli sforzi che si stanno facendo, tanto in Europa che altrove per arginare la crisi”.

Nessun europeo si era mai azzardato a ventilare uno scenario di questo tipo, con le file agli sportelli bancari, e non c’è dubbio che quell’intervento non verrà dimenticato.

La preoccupazione americana è denunciata anche dalle (pare) frequenti telefonate di Obama alla Cancelliera tedesca Merkel, nel corso delle quali forse ha tentato di farle capire che, per quanto possa essere importante per il suo futuro politico interpretare la pancia dell’operaio Mercedes, il futuro di un intero continente è un tantino più importante.

Benché gli interessati facciano a gara di smentite, secondo il caporedattore Economia della BBC Robert Peston, che riporta voci provenienti dal Fondo Monetario Internazionale, un piano europeo starebbe prendendo forma.

Il primo punto dovrebbe essere il rafforzamento patrimoniale del Fondo europeo per il superamento della crisi (European Financial Stability Facility), che vedrebbe quadruplicare la sua dotazione, dagli attuali 440 miliardi di euro agli oltre 2.000.

Si tratterebbe di un bel salto in avanti, considerando che l’Unione Europea ha recentemente richiesto al fondo di passare a 780 miliardi: dato che poco meno della metà della dotazione è garantita da Francia e Germania, è facile immaginare con quale felicità la Merkel e Sarkozy possano aver ricevuto la di raddoppio della dotazione, proveniente dall’Europa; e con quale giubilo considerino la proposta di quadruplicarla, proveniente, nei fatti, dal Governo americano.

Secondo le indiscrezioni raccolte da Peston, Il piano fantasma imporrebbe un pesante sacrificio a tutti gli investitori privati che hanno finanziato entità greche, i quali potrebbero vedersi decurtati della metà i loro asset: e su questo, nulla da obiettare.

L’unica ragione per cui si giustifica un governo e uno Stato (o un super-stato) è quella di proteggere i suoi cittadini, non quello di immunizzare gli investitori spericolati dal rischio di impresa.

Il terzo pilastro del progetto di salvataggio dovrebbe infine concentrarsi sul rafforzamento patrimoniale delle banche, su cui aleggia ormai da anni lo spauracchio di una capitalizzazione troppo evanescente, specie in considerazione dei rischi assunti; e qui, si sta pensando certamente alle banche francesi, molto esposte verso la Grecia.

Si dice che ci vorranno almeno sei settimane per capire se il progetto di salvataggio sia agibile politicamente; un periodo di tempo che, nella situazione corrente, corrisponde ad un’era geologica.

La speranza è che il senso di responsabilità per una volta abbia la meglio e che i politici europei dimostrino uno scatto d’orgoglio, che potrebbe ridurre i danni per i cittadini che li hanno eletti.

Non è probabile che questo accada, e comunque è forte l’amarezza che si prova davanti ad una politica tanto incapace e imbelle da necessitare di essere eterodiretta.



Preparato un piano multitrilionario per salvare l'eurozona
di Philip Aldrick e Jeremy Warner - www.telegraph.co.uk - 24 Settembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

I funzionari europei stanno lavorando a un grosso progetto per ripristinare la fiducia nell’area della moneta comune, che consisterebbe in una massiccia ricapitalizzazione delle banche e in un possibile default greco.

La autorità tedesche e francesi hanno iniziato a lavorare a porte chiuse a una triplice strategia proprio mentre si teme sempre di più che la crisi del debito sovrano dell’Eurozona possa andare fuori controllo.

Il loro obbiettivo è di costruire un “muro tagliafuoco” intorno alla Grecia, al Portogallo e all’Irlanda per evitare che la crisi si diffonda in Italia e in Spagna, paesi che sono considerati “troppo grandi per essere salvati”.

Secondo le fonti, sono stati fatti dei progressi nel corso della riunione del G20 che si è tenuta a Washington, dove i leader globali si sono mossi in coro perché l’eurozona risolva i propri problemi prima che il mondo affondi di nuovo nella recessione.

Nel comunicato del G20 pubblicato venerdì, le economie che guidano il pianeta hanno fissato un limite temporale di sei settimane per risolvere la crisi, per rivelare la soluzione da adottare del summit del G20 che si terrà a Cannes il 4 di novembre.

Le stesse fonti riferiscono che il piano dovrebbe essere implementato tutto assieme, visto che i singoli elementi non possono funzionare da soli.

Intanto, le banche europee dovrebbero essere ricapitalizzate con molte decine di miliardi di euro per rassicurare i mercati che un default di Grecia o Portogallo non farebbe precipitare in una crisi finanziaria sistemica.

Il piano per la ricapitalizzazione dovrebbe andare ben oltre i 2,5 miliardi di euro richiesti dai controllori in seguito agli stress test delle banche europee di luglio e riguarderebbe soprattutto i prestatori francesi oramai sotto pressione.

I funzionari sono fiduciosi che alcune banche potranno alzare i fondi privatamente, ma, se non fossero in grado, sarebbero comunque ricapitalizzate dallo stato o dall’European Financial Stability Facility (EFSF), la struttura di salvataggio da 440 miliardi di euro dell’eurozona.

La seconda parte del piano consiste nel potenziare l’EFSF. Alcuni economisti hanno stimato che avrebbe bisogno di 2 trilioni di euro per soddisfare le necessità di finanziamento di Italia e Spagna nel caso che i due paesi non avessero più accesso ai mercati.

I funzionari stanno lavorando per poter dare maggior potere all’EFSF tramite la Banca Centrale Europea per poter raggiungere gli obbiettivi.

Questo schema complesso vedrebbe l’EFSF fornire una parte relativa alle perdite di “capitale” di ogni fondo destinati ai salvataggi e la BCE dare il rimanente sotto forma di “debito” protetto.

Se l’EFSF dovesse sostenere il primo 20 per cento di ogni perdita, il bottino del fondo verrebbe alla fine portato a 2 trilioni di euro. Se l’EFSF dovesse coprire il 40 per cento di tutte le perdite, il fondo dovrebbe poter utilizzare un altro trilione di euro.

Usare l’indebitamento in questo modo consentirebbe ai governi di incrementare le risorse a disposizione presso l’EFSF senza dover ricorrere ai parlamenti nazionali per l’approvazione, dato che in molti paesi dell’eurozona si tratterebbe di una soluzione davvero problematica.

L’accordo è simile alla proposta fatta all’eurozona dal Segretario del Tesoro USA Tim Geithner nel corso della riunione EcoFin, che si è tenuta il 16 settembre in Polonia. I disordini febbrili nei mercati finanziari hanno convinto la Germania a collaborare a una qualche variante del piano statunitense, anche se all’inizio aveva rigettato il piano ritenendolo impraticabile, visto che minaccia di compromettere l’indipendenza della BCE.

La proposta sarebbe molto delicata per la Germania, dove il parlamento deve ancora ratificare l’accordo del 21 luglio per consentire all’EFSF di iniettare capitali nelle banche e di comprare il debito sovrano dei paesi che non fanno parte dell’Unione Europea e dei programmi di ristrutturazione del Fondo Monetario Internazionale. Il voto è atteso per il 29 settembre.

In cambio di un potenziamento dei bail-out, si ritiene che i tedeschi vogliano richiedere un default controllato per la Grecia, che dovrà comunque rimanere nell’eurozona.

In base al piano, i creditori del settore privato dovranno sostenere una perdita fino al 50 per cento, più del doppio della proposta del 21 per cento attualmente sul tavolo. Un nuovo programma di salvataggio dovrebbe essere quindi preparato per la Grecia.

I funzionari sperano che il piano possa arginare il panico nei mercati e fermare gli speculatori che stanno puntando sulle obbligazioni di Italia e Spagna, mentre i dati europei e del FMI evidenziano che questi due paesi non sono in pericolo immediato, ma che necessitano di riforme strutturali a lungo termine.

I delegati alla riunione del FMI tenuta a Washington hanno affermato che c’è stata “una svolta visibile per ritmo e modalità” per risolvere i problemi del debito sovrano, particolarmente nell’eurozona.

Ma oggi George Osborne, il Cancelliere, ha detto: "Nessuno ha proposto un piano per questo. La Grecia ha già un programma e deve solo implementarlo.”



Segui i soldi: dietro la crisi europea ci sono altri bailout per le banche
di David McNally - Global Research - 23 Settembre 2011
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Supervice

Mentre stavo imprecando contro gli inutili commenti mainstream sull’economia globale, mi sono ricordato di una scena fondamentale in un film del 1976, “Tutti gli Uomini del Presidente”.

Mentre ci sono due giovani giornalisti che indagano sul furto con scasso avvenuto negli uffici del Partito Democratico allo Watergate Hotel, un agente scontroso e di alto livello dell’FBI, nome in codice Gola Profonda, dà un consiglio: “Seguite i soldi. Seguite sempre i soldi.”

Lo fecero. E , nel corso del processo, i veri giornalisti, Bob Woodward e Carl Bernstein, tolsero il coperchio a uno dei più grossi scandali della politica del XX secolo.

Da allora, il giornalismo investigativo del mainstream è entrato in un sonno profondo. Come Bernstein ha notato venti anni dopo Watergate, “i media, ogni settimana, ogni giorno e ogni ora che passa, riescono sempre a fare cose peggiori”.

E in nessun posto stanno facendo di peggio che nella loro copertura della crisi del debito in Europa. Come sempre, ci vengono propinate le più vacue banalità. “La Grecia ha vissuto al di là dei propri mezzi,” intonano gli esperti, “e ora deve pagare il conto”.

Lo stesso fanno per Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia, che sembrerebbero essere tutti casi di gente fuori controllo che ora devono risistemare la propria casa, tramite tagli enormi ai programmi dei governi.

E questi tagli, noti in gergo come misure di austerità, rappresentano un crimine politico di uguale, se non maggior peso, del furto con scasso al Watergate, anche se non potrai venire a saperlo consultando la stampa mainstream, che da tempo ha perso ogni inclinazione per seguire i soldi.

Salvare le banche… Ancora

Se ci fossero giornalisti disposti ad ascoltare il consiglio di Gola Profonda, sarebbero costretti a tratteggiare una conclusione ineludibile: il salvataggio multi-trilionario che è iniziato nel 2008 non è ancora finito. Continua ancora oggi sotto forma di salvataggi per il debito pubblico.

E i tagli alle spese – per le pensioni, per l’educazione e per i lavori del settore pubblico – che portano devastazione alle vite di milioni di persone – servono solo a incanalare ricchezza collettiva verso le banche.

Considerate questo. Nella metà del 2011, le banche tedesche avevano prestato il 170 per cento del proprio capitale ai governi di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna. Le banche francesi avevano circa il 100 per cento di esposizione verso gli stessi governi (1).

I numeri sono significativamente più alti quando l’Italia viene aggiunta all’equazione. Le banche statunitensi, nel frattempo, hanno circa 700 miliardi di dollari di debito pubblico delle cinque economie più disastrate dell’Eurozona.

Anche se il default praticamente certo della Grecia non potrà far cadere le banche – quelle fuori dalla Grecia, si intende -, potrebbe provocare una serie di crisi del debito e altri default che potrebbero danneggiare altre nazioni.

I default dei debiti pubblici sembrano apparentemente inevitabili, e altrettanto lo sono perdite multi-miliardarie per il settore bancario.

Questo è il motivo per cui le azioni delle banche francesi come BNP Paribas e Société Générale sono in caduta libera da mesi. Questa è la ragione per cui le grandi aziende, le banche e gli hedge fund stanno facendo uscire i soldi dalle banche europee.

Siamo, in sintesi, molto vicini a vedere “La Crisi Finanziaria Mondiale: Il Sequel”, un disastro dalle enormi implicazioni. Ma c’è del giornalismo di indagine sulle cause?

Dove sono i racconti che spiegano perché, a tre anni dal fallimento della banca di investimento Lehman Brothers che ha dato il via al collasso finanziario del 2008, quasi niente sia cambiato?

In assenza di serie analisi, siamo assoggettati a questi notiziari idioti che danno la colpa ai popoli delle nazioni indebitate per tutto il casino esistente. Ricordate come la povera gente - che aveva contratto i mutui subprime - divenne il capro espiatorio degli Stati Uniti?

È stata tutta colpa dei poveri invece che delle banche che li hanno spinti, raggirati e imbrogliati per prendere soldi in prestito, per poter creare titoli tossici, ma altamente remunerativi, che si appoggiavano su questi mutui e che potevano essere venduti agli investitori.

Quasi la stessa cosa è successa in Irlanda, Spagna e Gran Bretagna. Allo stesso tempo, le banche di Germania e Francia inviarono i propri agenti di vendita presso governi e banche in altre parti dell’Europa.

Ora, queste stesse banche stanno guardando con orrore a quei prestiti si stanno guastando, proprio come avvenne negli Stati Uniti pochi anni fa, e anche loro stanno dando la colpa ai debitori.

E ancora, come fecero nel 2008-09, i governi si stanno affrettando per salvare le banche traballanti con i fondi pubblici. Questo è il motivo per cui la BCE, il FMI e i più grossi poteri in Europa continuano a soccorrere stati come Grecia, Irlanda e Portogallo. Di nuovo: seguite i soldi.

Quando i governi a corto di fondi ricevono centinaia di miliardi di nuovi prestiti, quei soldi sono inviati all’istante nei forzieri delle banche private per i pagamenti dei prestiti precedenti.

La situazione vista nel suo insieme, come ha osservato uno scrittore sul Financial Times, “somiglia a uno schema Ponzi o a uno piramidale” nei quali i prestatori iniziali sono ripagati con nuovi prestiti (2).

La differenza è data dal fatto che i nuovi prestiti vengono dai fondi pubblici, un altro modo per dire che le banche private vengono ancora una volta salvate dalla gente.

Come nella crisi bancaria globale del 2008-09, i profitti delle banche sono privati, ma le perdite sono pubbliche. Non proprio come direbbe il libero mercato. Ma è un buona cosa per i banchieri dissoluti.

E le dimensioni di questo affare invitante sono da togliere il fiato. In luglio, l’Ufficio di Contabilità del Governo ha pubblicato un documento che dettaglia i bailout delle banche.

Tra il dicembre 2007 e il luglio 2010 più di 16 trilioni di dollari erano stati indirizzati dal governo USA alle banche statunitensi ed europee (3).

Altri trilioni sono stati spesi per salvare le grandi aziende con sede negli USA e per finanziare i programmi degli stimoli. Ancora altri trilioni sono stati fatti piovere per i salvataggi bancari e per gli stimoli monetari in Cina, in America Latina, in Europa, eccetera.

Al tempo in cui pubblicai Global Slump (nel dicembre del 2010), la mia stima per il totale dei salvataggi bancari globali e della spesa per gli stimoli era nell’ordine dei 21 trilioni di dollari, circa una volta e mezzo il PIL degli Stati Uniti (4). Ora è chiaro che la mia valutazione, tra le più approfondite (e forse tra le più accurate) del tempo, era diversi trilioni distante dal vero totale.

Questi sbalorditivi salvataggio dei capitali globali hanno portato a un massiccio innalzamento dei debiti pubblici. Coinvolti in interventi senza precedenti in tutto il pianeta, le nazioni hanno preso a prestito sui mercati del debito, vendendo obbligazioni governative.

Ora, viste le dimensioni del debito accumulato, alcuni prestatori stanno diventando sempre più sospettosi. Dubitano delle capacità di molti governi di poter ripagare.

Come conseguenza i tassi di interesse sono saliti: Italia e Spagna possono prendere a prestito (per le obbligazioni a dieci anni) a tassi che superano il 5 per cento.

Per l’Irlanda, il tasso è salito oltre il 9 per cento; per il Portogallo ha superato l’11 per cento; e per la Grecia siamo arrivati all’incubo del 23 per cento.

E per quanto riguarda i prestiti a breve termine, la Grecia è già stata esclusa dai mercati monetari, che chiedono un tasso di interesse dell’80 per cento sulle sue obbligazioni a due anni. In sintesi, la Grecia è fallita e il default è solo una questione di tempo.

Estorcere tassi di interesse così alti significa che la crisi del debito andrà a peggiorare. Vietando un miracolo – o la nostra opzione preferita, il default – tutti questi paesi saranno ancora più indebitati il prossimo anno, e ancora di più l’anno successivo, a prescindere dai devastanti programmi di austerità.

Nel frattempo, questi programmi, con i forti tagli alla spese dei governi e enormi licenziamenti nel settore pubblico, acuiscono invariabilmente la crisi economica.

Già adesso il tasso ufficiale di disoccupazione in Irlanda è catapultato oltre il 14 per cento (il 27 per i giovani), mentre in Spagna raggiunge il 21 per cento (e il 45 tra i giovani).

La Grecia, nel frattempo, è in piena recessione, la sua economia si sta contraendo quest’anno del 5,5 per cento senza alcun segno di recupero per gli anni a venire.

Austerità e resistenza

E ancora, mentre il debito sale, i tagli continuano ad arrivare. L’ultimo pacchetto di salvataggi per la Grecia include due miliardi di euro di tagli al settore sanitario e l’eliminazione di ancora 30.000 dipendenti pubblici.

Sulla scia dei precedenti provvedimenti, l’Irlanda ha tagliato del 20 per cento gli stipendi delle infermiere e di altri dipendenti pubblici, oltre a ridurre sussidi per i bambini e per il sociale. Ovunque sono i più vulnerabili a essere sacrificati per far prosperare le banche.

Anche il più strano banchiere centrale è oramai costretto a riconoscere questa verità. Parlando a maggio ai membri del Parlamento britannico, Mervyn King, governatore della Banca di Inghilterra, ha osservato che “il prezzo di questa crisi finanziaria viene pagato da quelle persone che non l’hanno assolutamente causato.”

Per di più, ha continuato, “ora che siamo giunti al momento in cui vengono pagati i costi, sono sorpreso che il grado di rabbia della gente non sia più grande di quanto riesca a vedere.”

Naturalmente, ci sono state resistenze massicce: scioperi generali, occupazioni giovanili di piazze in Grecia e Spagna, rivolte popolare in Tunisia e Egitto, un’agitazione che è partita dalla scuola in Cile.

Ma in gran parte del pianeta, il grado della rabbia della gente è sorprendentemente basso, almeno fino a ora. E parte della responsabilità è da attribuire all’atteggiamento dei media che incolpa le vittime e si rifiuta di seguire i soldi.

C’è una sola ragione per cui abbiamo più bisogno ora di una politica economica radicale che mai. Uno dei segreti del capitalismo, dopo tutto, è il modo con cui oscura e nasconde i processi di sfruttamento economico. La ricchezza si muove e si accumula attraverso circuiti nascosti che tendono a eluderci.

Per questo le serie analisi economiche richiedono un vero lavoro di indagine, atti investigativi che possano scoprire gli sporchi segreti del capitalismo - gli sweatshop, il lavoro minorile, i migranti spremuti nei campi o nell’edilizia – e le fantastiche ricchezze che sono così rese possibili.

Abbiamo bisogno delle stesse sensibilità quando ci si riferisce alla crisi del debito che in questo momento sta colpendo gran parte dell’Europa.

Di fronte ai discorsi banali dei media mainstream sui debitori indisciplinati, dovremmo dimostrare che, come suggerito da un esperto consulente economico della banca UPS, stiamo avendo a che fare con “una crisi epocale del capitalismo” (6). Questa crisi attribuisce i crimini del sistema gli innocenti. E c’è un modo molto potente per dimostrarlo: segui i soldi. Bisogna sempre seguire i soldi.

Note:

1. Vedi le tabelle assemblate da Martin Wolf, “The Eurozone after Strauss-Kahn”, Financial Times, 17 maggio 2011.

2. Mario Blejer, “Europe is Running a Giant Ponzi Scheme”, Financial Times, 5 maggio 2011.

3. United States Government Accountability Office, Federal Reserve System: Opportunities Exist to Strengthen Policies and Processes for Managing Emergency Assistance (luglio 2011), Tabella 8, p. 131. Un ‘analisi importante di questo report è fornita da Petrino Dileo, “The $16 Trillion Bailout”, socialistworker.org, 7 settembre 2011.

4. David McNally, Global Slump: The Economics and Politics of Crisis and Resistance, Oakland, PM Press, 2011, pp. 2-3, 197n4.

5. Vedi i miei precedenti post, “Night in Tunisia: Riots, Strikes and a Spreading Insurgency”, 8 gennaio 2011 e “Mubarak's Folly: The Rising of Egypt's Workers”, 11 febbraio 2011. Sulle proteste degli studenti in Cile, vedi Manuel Larrabure e Carlos Torchia, “'Our future is not for sale': The Chilean Student Movement Against Neoliberalism”, The Bullet, N. 542, 6 settembre 2011.

6. George Magnus, “Markets are Reacting to Crisis of Capitalism”, Financial Times, 12 settembre 2011.



3000 miliardi di ridicole promesse
di Felice Capretta - http://informazionescorretta.blogspot.com - 25 Settembre 2011

Al G20 una delle grandi decisioni è stata quella di espandere il fondo europeo salva-stati da 400 miliardi a 3000 miliardi di euro. Bla bla bla. La storia è un po' sempre la stessa... tanti miliardi promessi per salvare l'eurozona accoppata dalle divergenze interne e dallo spostamento dell'insolvenza dalle banche agli stati. Poi bisogna vedere all'atto pratico effettivamente chi e come pagherà.

Vedremo la prova dei mercati. Nel frattempo Atene va a picco e Venizelos ribadisce che lo stato è ancora troppo grasso e bisogna fargli fare una bella cura dimagrante.

Dopo i tagli e i licenziamenti, dopo la patrimoniale sulla casa e dopo l'aumento dell'IVA, altri tagli e licenziamenti.

Cosa succederà in futuro?

E' sempre difficile cercare di fare anticipazioni, ma su Informazione Scorretta gira sempre il profumo dell'anticipazione.
Molto semplicemente, i soldi sono finiti. Punto. L'economia ha raggiunto il punto di collasso sistemico nel 2008 con la caduta di Lehman Brothers e da allora tutto è finito.

Quello che abbiamo vissuto in questi anni è stato il classico rimbalzo del tasso morto, mentre il G20 tenta di ripetere l'operazione. Un altro calcio al barattolo, ma la strada è cieca.
Quindi non ci sono più soldi, anche se lo ripetiamo dal 2008, e non c'e' più margine per la crescita.

Ora le strade naturalmente sono due: o si salva la Grecia una volta al mese, o si lascia fare default. Nel secondo caso assisteremmo probabilmente alla fine dell'Euro ed alla fine dell'economia. Quindi c'e' interesse a che la Grecia sia salvata.


Si, ma chi paga?


Sappiamo bene che le caste si guardano bene dal pagare di tasca propria. Loro non sono scemi, i soldi li prendono dallo stato, mica glieli danno.
Quindi Atene ed il grasso Venizelos in persona continueranno a fare la sola cosa che sanno fare: tassare e far pagare i greci.

Queste saranno chiamate ancora "misure di risanamento", che risanano solo le tasche di Venizelos, delle banche e dei poteri che dominano lo status quo, e il FMI e il G20 e il fondo salva stati concederanno un'altra tranche di salvataggio.
Parola di Venizelos:
pronto a prendere le iniziative necessarie, qualsiasi costo politico questo richiedano
Si continuerà così, sempre di più, saccheggiando le tasche dei greci e le tasche della Grecia come nazione, fino a quando...

Il punto di rottura


Fino al punto di rottura. Ci sono due possibilità. Fino a quando i greci non faranno qualcosa. Perchè ormai lo sappiamo, lo abbiamo visto in Egitto ed in Tunisia: protestare a milioni non serve a niente, se vogliamo che se ne vadano bisogna andare a prenderli a casa.

Oppure, fino a quando gli eventi non travolgeranno le ridicole misure di salvataggio e l'ammonticchiare di migliaia di miliardi si riveleranno per quello che sono: inutili promesse prive di fondamento pratico, e sara' chiaro a tutti che i soldi sono finiti.

Nel frattempo, si sbadiglia.
Ricordiamoci pero' che oggi tocca ad Atene, ma domani a Roma. Proteste negli USA E guarda caso, l'occupazione di Wall Street sta iniziando a dare risultati, con assembramenti spontanei non solo a New York.

Ieri i primi arresti
, in particolare è stato fermato il team che realizzava gli streaming live su internet, chiaro segnale che le proteste hanno fatto il salto di qualità e stanno iniziando ad impensierire qualcuno.

Si è scomodato perfino il dipartimento di Homeland Security con suoi uomini presenti nei pressi della manifestazione, in particolare con l'unità di crisi biologica e chimica.
Segnali di inquietudine.


Non può piovere per sempre, ma per un po' sì
di Beppe Grillo - www.beppegrillo.it - 25 Settembre 2011

Il 2008 è stato l'anno del crack. L'economia di carta si è schiantata. L'architrave su cui si reggeva erano le banche. Non potevano fallire, sarebbe saltato il sistema. Gli Stati hanno dovuto indebitarsi per finanziarle.
Molti erano già pesantemente esposti e non hanno retto. I più deboli, come sempre avviene, hanno ceduto per primi e stanno trascinando con sé, in un castello di carte, altri Stati. I governi rassegnano le dimissioni. E' successo in Grecia, in Portogallo, in Spagna. E' del tutto improbabile che a Sarkozy e alla Merkel, e forse allo stesso Obama, venga rinnovato il mandato.
Il salvataggio delle banche ha affossato i governi, ma il debito degli Stati, acquistato negli anni sotto forma di titoli dalle banche, le ha riportate alla casella di partenza, come in un gioco dell'oca. Le banche francesi sono le più esposte verso la Grecia, hanno in pancia decine di miliardi di carta straccia di titoli.
Lo stesso vale per le banche italiane che posseggono 200 miliardi del nostro debito. La Francia sta valutando la nazionalizzazione delle banche. In Italia il valore azionario delle banche è stato dimezzato. Il fallimento di Wall Street si sta trasformando nel fallimento di Main Street, dall'economia di carta si passa all'economia reale, alle strade. E' l'inizio di una traversata nel deserto che cambierà tutto, anche se non sappiamo ancora in che modo. Non sarà indolore.
Nel 1929, anno gemello del 2008, vi fu il crollo delle Borse, al quale seguì la Grande Depressione che durò anni. Nell'ottobre del 1929 negli Stati Uniti la disoccupazione era del 5% e l'indice Dow Jones 343. Due anni dopo, la disoccupazione era cresciuta al 17,4% e l'indice DJ sceso a 140.
La situazione si aggravò nel 1933, l'equivalente del prossimo 2012, con il 23,2% di disoccupati e l'indice DJ a 90. Nel 1934 la situazione, nella sua gravità, rimase identica. Nel 1938, la maggiore economia del mondo aveva ancora il 17,4% di disoccupazione, più di tre volte quella pre crisi, e il valore del DJ era 121, tre volte in meno del 1929.
Poi venne la Seconda Guerra Mondiale che azzerò ogni cosa. La Storia non si ripete mai uguale, ma presenta spesso molte somiglianze. La crisi durerà a lungo e sarà dura. Il biennio 2012/2013 potrebbe essere il peggiore con licenziamenti di massa nel settore pubblico e fallimenti a catena delle aziende private.
Alcune democrazie potrebbero essere a rischio. Nel 1933 Hitler venne eletto cancelliere. Vis pacem, para bellum. E' tempo di affrontare il futuro che ci aspetta a viso aperto, senza più deleghe. "Guardala in faccia la Realtà! .......è più sicura!".


Grecia, chi paga la crisi
di Margherita Dean -
Peacereporter - 21 Settembre 2011

Il prezzo devastante della sesta tranche di aiuti ad Atene. Il ministero delle finanze greco: 'Per fortuna c'è la troika'


I soldi non si trovano proprio in Grecia. Le misure di austerità adottate dal marzo 2010 a oggi non sono servite a nulla per dare un soffio di vita al Paese. Con la recessione giunta al 7,7 per cento, la ricetta rimane sempre quella: tagli, licenziamenti, tasse.

Mentre la maggior parte di Greci si chiede come pagherà la sesta tassa straordinaria del 2011, quella sugli immobili, che sarà imposta attraverso le bollette della luce di ottobre e novembre, il Ministro delle Finanze, Evanghelos Venizelos, e i commissari della troika si sono incontrati, nel corso della teleconferenza di ieri sera, per definire quei ‘'dettagli'' che dovrebbero sbloccare la sospirata sesta tranche (di otto miliardi) del prestito contratto dalla Grecia con la Bce, il Fmi e l'Ue.

I dettagli altro non sono che nuove misure di austerità: 28,35 miliardi entro il 2014 invece che entro il 2015, come inizialmente previsto dal programma di medio termine, votato dal Parlamento ellenico alla fine di giugno.

In particolare:

  • Circa 58.000 lavoratori del settore pubblico, a tempo determinato, saranno licenziati.

  • Saranno posti in ‘'disponibilità'' dai venti ai trentamila dipendenti statali, regionali e comunali. Essere ‘'in disponibilità'', significherà percepire il 60 per cento dello stipendio per 12 mesi e poi essere licenziati.

  • Chi, sempre nel settore pubblico, non sarà licenziato, subirà la riduzione del 40 per cento dello stipendio.

  • Sarà imposto un tetto massimo a tutte le pensioni.

  • Si abbasserà la soglia dell'imponibile fiscale: questa era di 12.000 euro annui e, nel corso del 2010, è stata ridotta a 8.000 euro. Si prevede che ora scenda ulteriormente, per arrivare ai 6.000 euro; ciò significa che saranno tassati tutti coloro che percepiscono più di 501 euro al mese.

  • Sarà equiparata la tassa sul petrolio per riscaldamento a quella sul carburante, cosa che significherà che, dal 15 ottobre, il litro di petrolio per riscaldamento costerà il 55 per cento in più. D'altra parte, all'inizio di luglio la società del gas naturale di Atene, aveva annunciato l'aumento del 18 per cento sulle bollette.

  • Infine, subiranno ulteriori aumenti tutte le tasse sugli immobili.

    Intanto, nel rapporto autunnale del Fmi sull'economia mondiale dal titolo ‘'Slowing Growth, Rising Risks'', si prevede che, nel 2012, il debito greco arrivi al 189 per cento del Pil (oggi si attesta al 166 per cento), la disoccupazione al 18,5 per cento (oggi al 16,8 per cento) e lo sviluppo al meno 2 per cento. Previsioni molto peggiori di quelle che, a giugno, aveva fatto lo stesso Fmi.

  • Poche ore fa in Parlamento, il Ministro delle Finanze ha dichiarato che per la Grecia è una fortuna avere la troika.



Perché il 1° ottobre
di Giorgio Cremaschi - Liberazione - 22 Settembre 2011

Da Standard&Poor’s, alla Confindustria, al Corriere della Sera, è un coro unico. Berlusconi se ne deve andare. Non è paradossale che l’uomo più ricco d’Italia, colui che ha governato il sistema politico italiano negli ultimi vent’anni nel nome dell’impresa e del mercato, sia sfiduciato da questi ultimi.

Per il capitale gli stati sono come aziende, e se gli amministratori delegati sono inaffidabili e impresentabili devono essere licenziati. La crisi della democrazia italiana sta anche in questo: che gli enormi guasti sociali, civili, morali, che l’hanno colpita, per opera decisiva di Silvio Berlusconi, non sarebbero stati sufficienti a farlo cadere se non ci fosse stata la crisi del debito.

Berlusconi viene licenziato dai suoi colleghi padroni, ma è ancora lì a far danni, perché i virus autoritari della seconda repubblica non hanno vaccini sufficienti. Almeno per ora.

Nella tanto vituperata prima repubblica dei grandi partiti e delle organizzazioni di massa, del proporzionale, del conflitto politico e della lotta di classe, un capo di governo indegno e indecente come Berlusconi sarebbe già stato liquidato dalla sua stessa parte.

Così non è oggi ed è per questo che cacciare Berlusconi è condizione necessaria, ma assolutamente non sufficiente per riprendere un percorso realmente democratico.

Dovremo scendere in piazza, mobilitarci, perché l’uomo delle escort e la sua corte ci liberino del loro ridicolo.

Ma dobbiamo nello stesso tempo sin d’ora preparare l’alternativa a chi vuole cacciarlo e pensa di farci pagare tutti i conti del suo disastro.

Abbiamo due avversari. L’attuale governo e il governo unico delle banche e della finanza europee e mondiali, che stanno distruggendo con le loro ricette liberiste lo stato sociale e i diritti in tutta Europa.

Il primo avversario è oramai in crisi, il secondo invece aumenta prepotenza e arroganza, nonostante sia altrettanto responsabile dei nostri guai.

Nel nome della cacciata di Berlusconi si chiedono ancora tagli alle pensioni, privatizzazioni, liberalizzazioni, ulteriori flessibilità nel mercato del lavoro. E’ un terribile accanimento terapeutico contro un corpo sociale massacrato da anni di flessibilità, bassi salari, distruzione dei diritti sociali e dei beni comuni. Eppure pare l’unica strada.

Anche la Cgil cede ad essa firmando, senza neppure la consultazione dei lavoratori, l’accordo del 28 giugno. Accordo da cui ha preso spunto quell’articolo 8 della manovra che cancella contratti e Statuto dei lavoratori.

Pare che Berlusconi debba essere cacciato perché non è stato sufficientemente di destra e antisociale. A tutto questo dobbiamo porre rimedio con le sole armi a nostra disposizione: la costruzione di un altro punto di vista, di un’altra via per uscire dalla crisi e la mobilitazione per percorrerla.

Oggi il debito non può essere pagato. La Grecia è arrivata ai sacrifici umani pur di far contenti gli strozzini della Banca Europea (che poi sono le banche francesi e tedesche) e del Fondo Monetario Internazionale. Taglia, taglia e non basta mai perché il debito cresce. Più tagli, più lo alimenti.

L’Italia è sulla stessa via. Gli interessi sul debito sono pari a 80 miliardi di euro all’anno, le attuali catastrofiche manovre ne finanziano forse due terzi. Quindi anche noi continuiamo a tagliare mentre il debito cresce.

Non si può più andare avanti per questa via e tutte e tutti coloro che anche nel centrosinistra si piegano ad essa, preparano, dopo la catastrofe di Berlusconi, un altro disastro.

Bisogna fermare la schiavitù del debito e rompere radicalmente con la politica economica liberista. La lotta all’evasione fiscale, la tassa patrimoniale, devono servire a finanziare la ripresa dei salari, dei diritti, della crescita fondata sui beni comuni e non finanziare gli interessi delle banche.

Se si facesse solo questo, anche una patrimoniale severa sarebbe solo una partita di giro, che tornerebbe al mondo dei ricchi attraverso la speculazione finanziaria.

Bisogna rompere la macchina infernale del debito e delle politiche liberiste che l’alimentano e per questo occorre una svolta radicale. La politica italiana di oggi non è in grado di farlo. Pensa di sostituire Berlusconi con qualche banchiere più affidabile ed estraneo al mondo della prostituzione di lusso. Ma così la crisi sociale si aggrava.

E i drammatici segnali di catastrofe civile che vediamo oggi a Lampedusa potrebbero estendersi ben oltre quell’isola. Bisogna ricostruire una politica democratica basata sull’uguaglianza sociale e pertanto fondata sulla distruzione delle politiche economiche liberiste.

Altro che le filosofie bocconiane ben strapazzate ieri da Dino Greco su queste pagine. Per questo in 1.500 abbiamo firmato un appello per trovarci a Roma il 1° ottobre, per lanciare anche in Italia, così come sta avvenendo in tutta Europa, un movimento contro la schiavitù del debito, per far pagare davvero la crisi ai ricchi e soprattutto per non pagarla più noi.

La piccola Islanda ci ha insegnato la via da percorrere. Bisogna partire da qui, bisogna partire da una piattaforma alternativa a quella di chi ha sfiduciato Berlusconi in nome degli interessi del grande capitale.

Bisogna che la successiva manifestazione del 15 ottobre esprima una profonda sintonia con l’appello degli “indignados” spagnoli, che non chiedono semplicemente un cambio di governo (da loro le politiche dei tagli li amministra il governo socialista), ma vogliono ripristinare la democrazia distrutta da trent’anni di politica economica liberista.

L’alternativa a Berlusconi e al liberismo si comincia a costruire sin d’ora, mentre si lotta per cacciarlo, solo così non finiremo dalla padella nella brace. Non siamo tutti nella stessa barca.


Una crescita senza benessere

di Guido Viale - www.ilmanifesto.it - 25 Settembre.2011

La crescita (che non c'è e, dove c'era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del Pil), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit - e debito - e Pil con un aumento del denominatore (Pil) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito).

Il tutto soprattutto per «rassicurare i mercati».
Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch'essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus).

Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l'avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l'andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.


La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito.
Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto?

In parte perché non sanno che fare (era una sopravvenienza prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (privatizzandolo) va preso prima di ammettere l'irreversibilità della situazione.


La posizione dell'Italia non è molto diversa anche se il suo tessuto industriale è più robusto: una crescita sufficiente a pareggiare i conti non arriverà più; soprattutto strangolando così la sua economia.

Ma qui i beni da saccheggiare - in barba ai risultati dei referendum - sono più succosi, mentre una presa d'atto del fallimento farebbe saltare, insieme all'euro, anche l'Unione europea. Per questo il gioco è destinato a durare più a lungo.

Se però un governo ne prendesse atto, annunciando un default concordato - e selettivo: per colpire meno i piccoli risparmiatori - l'Europa correrebbe ai ripari e gli eurobond salterebbero fuori dall'oggi al domani.

Ma così, dicono gli economisti, si blocca il circuito bancario e si arresta tutto il processo economico.
Certo le cose non sarebbero facili; ma non lo sono, per i più, neanche ora. Però il circuito bancario si era già bloccato dopo il fallimento Lehman Brothers, e sono intervenuti gli Stati nazionalizzando di fatto, per un po', le banche.

Succederebbe di nuovo; e anche senza uscire dall'Euro, perché a intervenire dovrebbe essere la Bce.


Quella spirale del debito non è una novità: nella seconda metà del secolo scorso quasi tutti i paesi del Sud del mondo si sono indebitati per promuovere una crescita (allora si chiamava "sviluppo") che non è mai venuta.


Poi, non potendo ripagare il servizio del debito, sono stati tutti presi sotto tutela dal Fmi, che ha loro imposto privatizzazioni e riduzioni di spesa analoghe a quelle imposte oggi dalla Bce e dal Fmi ai paesi cosiddetti Piigs: con la conseguenza di avvitare sempre più la spirale del debito.

La letterina (segreta) che la Bce ha spedito al governo italiano per dirgli che cosa deve fare quei paesi la conoscono bene: ne hanno ricevute a bizzeffe, e sono andati sempre peggio.

Viceversa, le economie cosiddette emergenti sono quelle che avevano scelto di non indebitarsi, o che ne sono uscite con un default: cioè decidendo di non pagare - in parte - il loro debito.


La crescita di cui parlano gli economisti - e di cui blaterano tanti politici - è la ripresa, accelerata, del meccanismo che ha governato il mondo occidentale nella seconda metà del secolo scorso e che oggi torna a operare, tra l'invidia generale, nei paesi cosiddetti emergenti (i quali hanno ritmi di sviluppo accelerati solo perché sono partiti da zero, o quasi); mentre da noi quel meccanismo è ormai irripetibile anche in paesi considerati locomotive del mondo.

Vorrebbero tornare a moltiplicare la produzione di automobili, di elettrodomestici, di gadget elettronici, in mercati ormai saturi e gravati da eccesso di capacità (vedi il fiasco di Marchionne); di moda e di articoli di lusso in un mondo in cui i ricchi non sanno più che cosa comprare perché hanno già tutto e di più (mentre le produzioni a basso costo sono state delocalizzate in paesi emergenti; per cui ogni eventuale, quanto improbabile, aumento dei redditi da lavoro non avrebbe comunque conseguenze sull'occupazione in Occidente); di turismo in ambienti naturali sempre più degradati e - soprattutto: questa dovrebbe essere la "molla" della ripresa - di Grandi opere.

Si tratta di un modello di impresa fondato su finanziamenti pubblici (spesso contrabbandati come finanza di progetto); su catene senza fine di subappalti (con conseguente corruzione, evasione fiscale, caporalato e mafia: non sono guai solo italiani); guasti irreversibili ai territori; inganni e violenze sulle popolazioni locali per imporre l'opera per poi, alla fine dei lavori, destinare all'abbandono territori e tessuti sociali degradati. Il Tav in Val di Susa ne è il paradigma. Per la protezione dell'ambiente, invece, niente.

Dicono che per favorire il ritorno alla crescita va - temporaneamente - sospesa. Così si succedono i summit mondiali che non decidono niente, mentre il pianeta corre verso il collasso. Per l'equità - tra paesi ricchi e paesi poveri; tra ricchi e poveri di uno stesso paese; tra l'oggi e le generazioni future - meno ancora.


La crescita per fare fronte al debito non riguarda quindi né l'occupazione (c'è da tempo un disaccoppiamento tra occupazione e aumento del Pil, dei fatturati e dei profitti); né la qualità del lavoro (è sempre più precario in tutto il mondo e si investe sempre meno in formazione); né i redditi da lavoro diretti o differiti (le pensioni); né il benessere delle comunità, messo sotto scacco dal degrado ambientale, dal taglio dei servizi e del welfare, dall'aumento delle persone disoccupate, scoraggiate o emarginate (sospinte sempre più numerose sotto la soglia della povertà); né dalla distruzione della socialità e della socievolezza.


Infine, la crescita affidata ai meccanismi di mercato aborre dalle politiche industriali; e se le propone o le invoca, è solo per dare una spinta - con incentivi, sgravi fiscali, tassi di interesse sotto zero o investimenti pubblici in Grandi opere - a un meccanismo che poi dovrebbe andare avanti da sé: non ci sono obiettivi generali da perseguire, perché deve essere il mercato a selezionare quelli che corrispondono alle propensioni del consumatore (esaltato come sovrano quanto più viene soggiogato dai meccanismi della pubblicità e della moda); non ci sono problemi di governance - intesa come composizione degli interessi e partecipazione dei lavoratori e delle comunità alla gestione delle attività che si svolgono su un territorio - perché è l'impresa che deve avere il controllo assoluto su di esse (come sostiene Marchionne tra gli applausi generali).

Le privatizzazioni sono la traduzione di questa logica: il trasferimento della sovranità da quel che resta degli istituti della democrazia rappresentativa al dispotismo di imprese sempre più grandi, potenti, centralizzate, lontane dai territori e dalle comunità.

Anche questa è una spirale senza fine: più si smantella quanto di pubblico, condiviso, egualitario è stato conquistato negli anni, più si imputa la mancanza di risultati al fatto che non si è ancora smantellato abbastanza.

Il liberismo è un dogma senza possibilità di verifiche praticato da una setta incapace di tornare sui suoi passi.

Per far fronte alla crisi - che è innanzitutto crisi delle condizioni di vità della maggioranza della popolazione - valorizzando le risorse che territori, comunità e singoli sono in grado di mettere in campo - ci vuole invece una vera politica economica e industriale; che oggi non può che essere un programma di riconversione ecologica di consumi e produzioni, tra loro strettamente interconnessi.

Non c'è spazio - né ambientale, né economico, né sociale - per rilanciare i consumi individuali: generazione ed efficienza energetiche, mobilità sostenibile, agricoltura e alimentazione a km0, cura del territorio, circolazione dei saperi e dell'informazione (e non della patonza) non possono che essere imprese condivise, portate avanti congiuntamente dai lavoratori, dalle loro organizzazioni, dalle iniziative comunitarie, dalle amministrazioni locali, dalle imprese legate o che intendono legarsi a un territorio di riferimento (rime tra le quali, i servizi pubblici locali: non a caso sotto attavvo).


Le produzioni che hanno un avvenire, e per questo anche un mercato vero, sono quelle che corrispondono a questi orientamenti; ad esse dovrebbero essere riservate tutte le risorse finanziarie impiantistiche, tecniche e soprattutto umane che è possibile mobilitare.

Questo è anche un preciso indirizzo di governance per prendere in carico la conversione ecologica.
Sostituire un'economia fondata sul consumo individuale e compulsivo con un sistema orientato al consumo condiviso (che non vuol dire collettivo o omologato: la condivisione esige attenzione per le differenze e per la loro realizzazione) non può essere programmata in modo verticistico; né gestita con i meccanismi autoritari delle Grandi opere.

La conversione ecologica è un processo decentrato, diffuso, differenziato sulla base delle esigenze e delle risorse di ogni territorio, integrato e coordinato da reti di rapporti consensuali, basato sulla valorizzazione di tutti i saperi disponibili.


Una politica economica e industriale che si ponga questi obiettivi può anche affrontare, in modo selettivo e programmato, l'azzardo di un default: per non destinare più le risorse disponibili al pozzo senza fondo del debito pubblico.


Ma certo questo richiede l'esautoramento di gran parte delle attuali classi dirigenti (e di molti economisti). L'alternativa non è dunque tra crescita e decrescita, ma tra cose da fare e cose da non fare più.