giovedì 31 luglio 2008

Olimpiadi di Pechino: vita dura per i giornalisti stranieri

Mancano otto giorni all’apertura dei Giochi Olimpici di Pechino e i giornalisti accreditati per seguire i Giochi avranno qualche difficolta’ nel compiere il proprio lavoro. Non potranno navigare liberamente cliccando ad esempio sui siti web delle organizzazioni umanitarie, delle associazioni tibetane in esilio e di molti media stranieri.

C’era chi, tra i mainstream media, si era illuso che le Olimpiadi potessero portare delle novita’ positive nel campo della liberta’ di stampa, ma gli eventi in Tibet della scorsa primavera e le successive proteste sulla fiaccola olimpica nel resto del mondo hanno provocato una naturale e ovvia chiusura del regime cinese nei confronti della stampa estera e nazionale.

Non e’ da biasimare il comportamento delle autorita’ cinesi e, onde dare un giudizio obiettivo, si deve attendere la fine dei Giochi per verificare se tutto cio’ sara’ stato o meno solo un fatto del tutto eccezionale e temporaneo - come lo sono d’altronde le Olimpiadi - e se nel prossimo futuro le autorita’ cinesi riprenderanno la strada di progressiva apertura intrapresa negli ultimi anni.

E poi lo stesso Comitato Olimpico Internazionale (CIO) aveva accettato il limite imposto dalle autorita’ cinesi alla navigazione online.
Quindi c’e’ poco da meravigliarsi e indignarsi, soprattutto quando a lamentarsi sono i giornalisti mainstream occidentali, ben abituati ad autocensurarsi o a disinformare quasi quotidianamente.


Pechino: i Giochi "censurati", le promesse mancate dei cinesi
di Federico Rampini – La Repubblica – 31 Luglio 2008

PECHINO - Il primo dicembre 2006, Pechino annunciava che di lì a poco sarebbero scomparse le ultime restrizioni sulla libertà di circolazione per noi giornalisti stranieri sul territorio della Repubblica Popolare. Il giorno dopo, nel descrivere quel provvedimento, scrivevo su Repubblica: "I Giochi del 2008 semineranno qualche germe di cambiamento in questa Cina". Quella previsione, ahimé, si è avverata nella direzione diametralmente opposta.

I reporter stranieri che arrivano in questi giorni, e che si aggiungono a noi corrispondenti permanenti per coprire le Olimpiadi, trovano una Cina per molti aspetti peggiorata dal 2006. Quello che colpisce subito i nuovi arrivati, naturalmente, è l'insopportabile groviglio di restrizioni alla nostra libertà. Non possiamo andare in Tibet. Non possiamo usare una webcam su Piazza Tienanmen, né in alcuno degli stadi olimpici. Non possiamo accedere a diversi siti Internet oscurati dalla censura.

Dietro questi limiti che ci colpiscono direttamente, c'è una situazione ben più drammatica per i cinesi. Rispetto alla tradizionale mancanza di libertà di informazione c'è stato un ulteriore arretramento. Proprio in vista dei Giochi il governo ha "ripulito" la capitale dei potenziali disturbatori dell'ordine: dagli immigrati che appartengono alle minoranze etniche tibetana e uigura, ai dissidenti, agli avvocati che difendono cause umanitarie. Alcuni di questi attivisti oggi sono agli arresti domiciliari per impedire che entrino in contatto con gli stranieri.

Che cos'è accaduto dunque perché le speranze accese nel dicembre 2006 si vanificassero così brutalmente? Gran parte della spiegazione sta negli avvenimenti tragici di questa primavera, che hanno colto la leadership cinese impreparata, e hanno provocato una reazione furibonda. La rivolta del Tibet a metà marzo, seguita dalle contestazioni contro la fiaccola olimpica a Londra, Parigi e San Francisco, hanno provocato un arroccamento.

Il regime di Pechino ha vissuto improvvisamente un incubo: il rischio che questi Giochi con l'accresciuta visibilità che comportano, diventino un'occasione per un "processo virtuale" alla Cina, ai suoi abusi contro i diritti umani, ai suoi gravi ritardi sul terreno delle libertà individuali. La reazione della nomenklatura ha fatto appello al riflesso condizionato del vittimismo nazionalista: il popolo cinese è stato chiamato a serrare i ranghi contro "l'offensiva" degli stranieri.

In questo clima di unità nazionale, invocato per difendere l'immagine della Repubblica Popolare, gli spazi di tolleranza che si erano aperti negli ultimi anni si sono nuovamente ristretti. Ogni voce critica è catalogata come un "sabotatore" dei Giochi, un nemico della patria. La censura è tornata ad avere carta bianca. Anche le maggiori libertà che erano state promesse a noi giornalisti stranieri sono state revocate, per effetto di questo clima.

Ma le vere vittime non siamo noi: sono le tante voci di dissenso che negli ultimi anni avevano trovato nuovamente il coraggio di farsi sentire in Cina, e ora tacciono in attesa di tempi migliori. In attesa che passi la "nottata" dei Giochi, un avvenimento che paradossalmente ha fatto fare ai leader cinesi un grande balzo all'indietro.

mercoledì 30 luglio 2008

Iran: Il Pentagono dice no alla “Sorpresa” di Israele

Anche ieri, dopo un incontro a Washington tra il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak e il suo omologo americano Robert Gates, Israele ha proseguito con le sue insistenti pressioni sugli USA per trascinarli nel prossimo futuro in un conflitto armato con l’Iran.

Il Ministero della Difesa israeliano ha infatti ripetuto il suo paranoico ritornello in un comunicato che afferma “Occorre continuare la politica che prevede la possibilita' di ricorrere a tutte le opzioni: il programma nucleare iraniano mette in pericolo la stabilita' della regione e del mondo intero”.

Quindi per l’ennesima volta Israele chiede con insistenza agli USA di non rinunciare all’opzione militare contro l’Iran, sempre piu’ osteggiata invece dagli alti gradi delle Forze Armate USA, ben consapevoli delle catastrofiche conseguenze che ne deriveranno nella regione mediorentale, e non solo.

Gli USA sembrano ormai aver abbandonato l’idea di bombardare l’Iran, avendo deciso di puntare sulle sanzioni e i negoziati diplomatici. Ma Israele e’ come un mulo che non ne vuole sapere di cambiare strada ed e’ disposto a trascinare nel baratro anche il suo piu’ fedele alleato pur di raggiungere il suo paranoico obbiettivo.


Qui di seguito si parla di questo tema e anche di un evento storico, quasi sconosciuto, che rende bene l’idea di cosa sia capace Israele pur di realizzare i suoi piani.


Il Pentagono a Israele: «Niente false-flag, d’accordo?»
di Maurizio Blondet – Effedieffe – 30 Luglio 2008

La scorsa prima settimana di luglio, l’ammiraglio Mike Mullen, da poco nominato capo degli Stati Maggiori riuniti dopo le dimissioni dell’ammiraglio Fallon, si è precipitato in visita ad Israele attorniato da una nutrita delegazione di gallonati USA. Ed ha incontrato i pari-grado delle forze armate israeliane. Che cosa si siano detti, non si sa.

Ma ora Mark Glenn, giornalista dell’American Free Press con agganci nel mondo dell’intelligence, ritiene di poterne dare un’idea (1). E la sua conclusione è esplosiva. Uno dei temi trattati nell’incontro, asserisce Glenn, è stato l’attacco dell’aviazione israeliana alla nave-spia USS Liberty, avvenuto ben 41 anni fa, e su come sia «importante» che «la storia non si ripeta» data la tensione esistente con l’Iran. L’affondamento della Liberty è una delle vicende più insabbiate in America.La nave, che osservava le operazioni al largo del Mediterraneo (era la guerra dei sei giorni) fu attaccata dal cielo da caccia senza insegne; morirono 34 marinai.

Israele ha sempre protestato che fu un errore di riconoscimento, in pieno conflitto; la nave-spia era per sè sospetta, poteva essere egiziana. In USA, alcuni ambienti hanno sempre sospettato che si fosse trattato di un tentativo di accollare l’attacco omicida agli egiziani, onde indurre l’America - a quel tempo non così filo-sionista - a passare dalla parte di Israele. In ogni caso, sulla vicenda lo stesso Pentagono, e tutte le successive presidenze USA, hanno steso una spessissima coltre di silenzio, nonostante le richieste instancabili dei sopravvisssuti dell’equipaggio perchè fosse fatta piena luce. La stessa opinione pubblica americana, in enorme maggioranza, non è informata nemmeno che il fatto avvenne (2).

Come mai ora il più alto in grado del Pentagono va a rivangare la vecchia vicenda (ufficialmente nemmeno avvenuta), raccomandando che «la storia non si ripeta», in collegamento con le tensioni attualissime con l’Iran?Per Glenn è chiaro: Mullen è andato ad avvertire gli israeliani - freneticamente occupati da settimane a minacciare un proprio attacco preventivo alle installazioni di Teheran, e a premere sugli americani per un aiutino in questo senso - a non inscenare un false flag. Ossia, più esplicitamente, Mullen teme un attacco ad una delle tante navi americane presenti nel Golfo, con forti perdite di vite americane, allo scopo di trascinare l’opinione pubblica ad esigere (a dirla come Hillary) «l’obliterazione» dell’Iran.

Forse persino i comandi USA sapevano che un tale attacco false flag era in preparazione.Così, Mullen è andato a ricordare la tragedia della Liberty per significare: nessuna Liberty-bis, ci siamo capiti? American Free Press è un gruppo editoriale dell’estrema destra americana, ancorchè di solito benissimo informato su certi retroscena (ha molti simpatizzanti militari). Ma la sua ipotesi, apparentemente arrischiata, ha solide pezze d’appoggio.

Philip Giraldi, un famoso ex alto funzionario della CIA, e notoriamente ancora molto rispettato fra i colleghi, ha scritto sull’American Conservative Magazine un articolo dal titolo chiaro: «If Iran is Attacking, It Might Really Be Israel», ossia: «Se l’Iran ci attacca, potrebbe invece essere Israele».

Ed ecco la spiegazione di Giraldi: «... Certi ragazzi dell’intelligence stanno esprimendo allarme che gli israeliani possano far qualcosa di completamente folle per ottenere il coinvolgimento degli USA. Girano diversi scenario di possibili ‘false flag’ in cui gli israeliani possono creare un incidente che faranno apparire come iraniano, magari usando armamento iraniano o lasciando qualche ‘traccia’ di comunicazioni che punterebbero a Teheran come colpevole. Coloro che replicano: Israele non farebbe mai una cosa simile, è bene che ci ripensino... Ricordate l’attacco alla USS Liberty e l’attentato al Consolato USA ad Alessandria d’Egitto negli anni ‘50. Se ora essi sono convinti che l’Iran è una minaccia che deve essere eliminata, non è assurdo assumere che non si fermeranno davanti a nulla per ottenere che siano gli Stati Uniti a farlo per loro, dato specialmente che la loro forza aerea (israeliana) ha la capacità solo di danneggiare il programma nucleare iraniano, non di distruggerlo...» (3).

Difficile essere più espliciti. Ma non basta. Un altro vecchio e importante appartenente alla «intelligence community» americana, Ray McGovern, analista della CIA dagli anni ‘60 fino alla prima presidenza Bush jr. (e poi dimessosi in aspra polemica con Rumsfeld e Wolfowitz sulle «prove» che giustificarono l’attacco all’Iraq), ha suonato lo stesso motivo.

Un suo recente articolo - McGovern pubblica su diverse riviste e siti - ha come titolo: «Israel Planning a September/October Surprise?», e nel trattare della possibilità che gli USA, sotto la futura presidenza, comincino un disimpegno dall’Iraq, dice: «I capi israeliani sono come pazzi (a questa prospettiva)... un così drammatico cambiamento, o anche solo lo spettro di esso, aumenta fortemente l’incentivo per Israele di assicurare nell’area un coinvolgimento degli USA durevole, e per anni. Gli israeliani hanno bisogno di creare un ‘fatto compiuto’, qualcosa che garantisca che Washington resterà a fianco del ‘nostro alleato’ (...). Il punto è che l’aggravata percezione del rischio percepito dagli israeliani li spingerà probabilmente a trovare un modo di coinvolgere gli USA nelle ostilità con l’Iran. Tutto ciò che Israele deve fare è ‘apparire’ come aggredita. Non è un problema. Ci sono infinite possibilità tra cui Israele può scegliere per far precipitare un conflitto. Vista da Tel Aviv, la situazione è di minaccia crescente, e perciò di più urgente necessità di ‘incastrare’ gli Stati uniti più profondamente nella regione, in un conflitto che metta i due Paesi contro l’Iran. E’ probabile che Israele prepari una ‘september-october surprise’ progettata allo scopo di inchiodare gli USA in Iraq e nella più ampia area regionale, provocando le ostilità con l’Iran. Anzi non mi sorprenderebbe se ciò cominciasse prima, ad agosto» (4).

Dunque la «comunità d’intelligence in servizio» (CIA e le altre 17 agenzie d’informazione tenute alla disciplina), attraverso due loro autorevoli membri «a riposo» che possono parlare e perciò sono come dei suoi portavoce non-ufficiali, sta dicendo proprio questo: forse ci sarà un attacco sanguinoso a interessi americani; se avviene, sarà un false-flag. Fatto da Israele.

La visita dell’ammiraglio Mullen - grande «amico» di Sion - può indicare che i militari in servizio hanno preso molto sul serio questo messaggio, ed è andato ad avvertire gli «amici» di non provarci. Ma c’è un altro indizio in appoggio a questa tesi, ed arriva dal più alto livello ufficiale: da Robert Gates, ministro della Difesa, capo politico del Pentagono.

Nel giugno scorso, Gates ha messo la firma definitiva sull’importante documento dal titolo «US National Defense Strategy 2008 ». Questo documento non è ancora pubblico - lo sarà ufficialmente fra pochi giorni - ma il sito InsideDefense.com gestito dai militari ne ha già diffuso il contenuto (5). Ebbene: in questo documento, Gates omette Israele dall’elenco dei «nostri alleati». Eppure Gates li cita tutti, gli alleati degli USA, con pignoleria burocratica. Dai «più vicini alleati, Gran Bretagna, Australia e Canada», alle «altre alleanze di lunga durata, NATO, Giappone e Corea del Sud. Noi lavoreremo per espandere e rafforzare altre relazioni, compresa quella con l’India». In questa lista Israele non c’è.

Che si tratti di una svista è escluso, anche perchè il documento firmato da Gates sostituisce il documento precedente dallo stesso titolo «Us National Defense Strategy 2005» che fu firmato da Rumsfeld, e dove Israele è nominato come «our closest ally»; come in altri infiniti documenti pubblici e ufficiali, dove sempre Israele è «il nostro più vicino», o addirittura «il nostro solo alleato in Medio Oriente».

Il profilo di Robert Gates è quello del «realista» messo dai vecchi realisti della precedente gestione imperiale a controllare Bush figlio; è inoltre stato capo della CIA, e ha tutta una vita di carriera nella burocrazia al potere, di cui conosce i gerghi. Venuta da un simile personaggio, questa omissione tacita è molto eloquente: se Israele farà una «USS Liberty-bis», non sarà più considerata un «alleato che sbaglia». Nè l’America è disposta a bersi un altro «false flag».

A questo punto avanziamo anche un’ipotesi nostra, che non esclude ma rafforza quella di Glenn. La recrudescenza degli attentati di non identificati sunniti (o «Al Qaeda», fate voi) contro masse sciite in pellegrinaggio, dopo mesi di violenza in diminuzione, non sembrano servire alla perfezione allo scopo di «inchiodare» gli USA nella palude irachena e nell’area in generale? Proprio dopo che Barak Obama è andato in Iraq impegnandosi, se sarà eletto, ad un rapido alleggerimento delle presenza americana, che cosa fanno «i terroristi islamici»? Mostrano che no, che gli USA devono restare, che c’è ancora tanto bisogno di loro. Una volta di più, c’è da chiedersi per quale squadra giochino questi «terroristi islamici».

Lo stesso si può dire per i sanguinosi e misteriosi attentati in Turchia. Vero è che le tensioni interne - la Corte Suprema che può, con sentenza, mettere fuorilegge il partito di governo - potrebbero indurre ad una spiegazione tutta domestica. Ma si deve tener conto che la Turchia, proprio sotto il governo islamista di Erdogan, è diventata l’interlocutore-mediatore informale con cui Teheran cerca di comunicare con Washington; una novità che certo rende «apoplectic» i capi israeliani, e i loro alleati neocon in USA.

Il governo turco ha accusato degli attentati i curdi del PKK - che ha rigettato l’accusa. Ma il giornale Zaman, vicino ad Erdogan, ventila la responsabilità di un più oscuro «asse maligno del terrore»: e specificamente della organizzazione Ergenekon, di cui 47 membri sono ora in prigione in attesa di processo (il 20 ottobre) per tentato colpo di Stato, per banda armata e come colpevole di attentati (spesso attribuiti ad islamici) nel corso degli ultimi 20 anni (6).

Che cosa è Ergenekon? La Gladio turca. Una delle organizzazioni stay-behind che hanno operato nelle nazioni della NATO. Che in un regime militare come quello «laico e repubblicano» di Ankara prima di Erdogan, era ben più che questo. Enrgenekon «sta sopra anche allo Stato Maggiore, al MIT (il servizio segreto turco), sopra all’ufficio del primo ministro», scrisse nel 1997 l’analista strategico Erol Mutercimler. Insomma il governo segreto dei militari «laici» (dunmeh) che hanno governato la Turchia fino alla vittoria elettorale di Erdogan. Infatti tra gli arrestati ci sono generali, riciclatori di denaro, uomini d’affari loschi, avvocati d’estrema destra… insomma par di leggere la lista dei seguaci del nostro Edgardo Sogno, il «partigiano bianco» decorato.

La Gladio turca era stata ufficialmente disciolta. Invece continuava ad agire, come si è visto dopo gli arresti dell’inverno scorso, appena in tempo per sventare un colpo di Stato contro il governo islamista così sgradito ai militari. E’ significativo che al momento degli arresti il capo di Stato Maggiore delle forze turche, il generale Buyukanit (indicato dalla vox populi come un dunmeh, ossia un cripto-ebreo) abbia dichiarato: «In ogni ambiente ci sono persone che infrangono la legge... C’è chi cerca di stabilire un legame tra questi fatti e le forze armate».

Questi imputati eccellenti e intoccabili hanno tutto da guadagnare da una sentenza della Corte che obbligasse il governo Erdogan a lasciare il potere, come fuorilegge (anche in Turchia, come nell’Italia massonica, a decidere chi vince politicamente tende ad essere la magistratura). Il processo che li attende potrebbe allora essere rimandato, insabbiato, manipolato… Una opportuna «strategia della tensione», con attentati indiscriminati come quelli esplosi, è nelle corde della Ergenekon da sempre.Ma chissà cos’è la nuova Ergenekon clandestina; chissà chi la infiltra, chissà a quali nuovi o vecchi padroni obbedisce? Sicuramente, hanno bisogno anche loro che gli USA non si disimpegnino dall’area, che restino «inchiodati» lì.

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1) Mark Glenn, «US warns Israel - There will be no USS Liberty pt.II», American Free Press, 28 luglio 2008.
2) Per la completa ricostruzione della vicenda rimando a Wikipedia (dove si adotta la versione israeliana dell’errore).
3) «Some intel types are beginning to express concerns that the Israelis might do something completely crazy to get the US involved. There are a number of possible ‘false flag’ scenarios in which the Israelis could stage an incident that they will make to look Iranian, either by employing Iranian weapons or by leaving a communications footprint that points to Tehran’s involvement. Those who argue Israel would never do such a thing should think again. Israel is willing to behave with complete ruthlessness towards the US if they feel that the stakes are high enough. Witness the attack on the USS Liberty and the bombing of the US Consulate in Alexandria in the 1950s. If they now believe that Iran is a threat that must be eliminated it is not implausible to assume they will stop at nothing to get the United States to do it for them, particularly as their air force is only able to damage the Iranian nuclear program, not destroy it…».
4) «My guess is the Israeli leaders are apoplectic… This dramatic change - or even just the specter of it - greatly increases Israel’s incentive to ensure US involvement in the area that would endure for several years. The Israelis need to create ‘facts on the ground’ - something to guarantee Washington will stand by ‘our ally. The legislation drafted by AIPAC calls for a blockade of Iran. That would be one way to entangle; there are many others. The point is that the growing danger the Israelis perceive will probably prompt them to find a way to get the US involved in hostilities with Iran. All Israel has to do is to arrange to be attacked. Not a problem. There are endless possibilities among which Israel can choose to catalyze such a confrontation. Viewed from Tel Aviv it appears an increasingly threatening situation, with more urgent need to ‘embed’ (so to speak) the United States even more deeply in the region - in a confrontation involving both countries with Iran.A perfect storm is brewing… In sum, Israel is likely to be preparing a September/October surprise designed to keep the US bogged down in Iraq and in the wider region by provoking hostilities with Iran. And don’t be surprised if it starts as early as August…».
5) Insidedefense.com, «008 US National Defense Strategy». 24 luglio 2008. Accesso a pagamento.
6) «Sketches of top agencies found during Ergenekon raid», Zaman, 29 luglio 2008. Nella mitologia nazionale turca, Ergenekon è il nome del luogo leggendario dove il mitico fondatore radunò la nazione turca.

martedì 29 luglio 2008

L’instabilita’ turca

Mentre il bilancio dei due attentati di ieri a Istanbul e’ salito a 18 morti e circa 150 feriti , oggi si è aperta ad Ankara la seconda riunione della Corte Costituzionale che dovrà decidere sulla chiusura dell'Akp, il partito del premier Recep Tayyip Erdogan e del presidente Abdullah Gul, accusato di attentare alla laicità dello Stato e di voler imporre la legge islamica.

A metà luglio il giudice designato aveva depositato la sua relazione con il parere motivato non vincolante, in cui si esprimeva in maniera contraria alla chiusura del partito, che comporterebbe l'interdizione dalla politica per 71 dei suoi membri, compresi Erdogan e Gul. La Corte dovrà riunirsi a oltranza fino al raggiungimento di un verdetto e lo scioglimento del partito richiede una maggioranza di 7 componenti su 11.

Inoltre sempre oggi sono ripresi ad Ankara i negoziati di pace tra Israele e Siria con la mediazione turca, iniziati nel maggio scorso dopo un’interruzione di 8 anni.
Gli USA sono stati del tutto esclusi da questi negoziati - per espressa volonta’ di tutte le parti in causa, Turchia in primis – a riconferma della loro progressiva perdita d’influenza nell’area e dell’evidente peggioramento delle relazioni con la Turchia, cominciato per via della risoluzione approvata nello scorso Ottobre dalla Commissione Esteri del Congresso Usa, che definisce "genocidio" le stragi degli armeni in Turchia tra il 1915 e il 1920.
E in seguito a cio’ la Turchia aveva anche richiamato il suo ambasciatore da Washington.

Il governo turco accusa il PKK per gli attentati di ieri ma il PKK nega fermamente, nonostante continuino i bombardamenti dell’aviazione turca sulle postazioni del PKK nel nord dell’Iraq. Raid aerei che non sono mai piaciuti agli USA.
Il braccio politico del Pkk imputa invece la strage a non meglio specificate "forze sinistre".

Made in USA per caso?


Turchia, un Paese in bilico
di Alessandro Ursic – Peacereporter – 28 Luglio 2008

Mentre ad Ankara i giudici della Corte costituzionale hanno in mano il futuro politico della Turchia, questa mattina Istanbul è ancora impegnata nel doloroso conteggio delle vittime del doppio attentato di ieri sera, nel quartiere residenziale di Gungoren. Il bilancio è salito a 18 morti e 154 feriti, di cui almeno sette però in gravissime condizioni. Con il Paese diviso tra il dolore per la tragedia e l'attesa della sentenza che potrebbe portare alla chiusura del partito di governo Akp, dai servizi segreti turchi è già partita la prima indicazione sulla responsabilità dell'attentato: i ribelli curdi del Pkk, che avevano promesso di “portare l'inferno” nelle città turche per vendicarsi dei raid contro le loro basi nel nord dell'Iraq. Ma il Pkk, per bocca del suo leader politico Zubeyir Aydar, ha negato questa mattina qualsiasi coinvolgimento. “Questo episodio non ha nulla a che vedere con la lotta per la libertà portata avanti dal popolo curdo. Non può essere fare alcuna connessione con il Pkk”, ha detto Aydar.

Le accuse ai curdi. Il dito contro i curdi è stato puntato già ieri sera, anche in assenza di qualsiasi rivendicazione. Non disponendo degli elementi in mano alle forze di sicurezza, va comunque notato che l'accusa contro i “terroristi”, senza neanche specificare curdi, parte di solito in automatico per qualsiasi atto violento in territorio turco. Al Pkk, nonostante ufficialmente sostenga di voler colpire solo obiettivi militari, sono stati attribuiti in passato diversi attentati in località turistiche come Kusadasi e Antalya – rivendicato da un fino ad allora sconosciuto gruppo di “oltranzisti” chiamato “Falchi per la libertà del Kurdistan”. I guerriglieri del Pkk – come ripetuto costantemente a PeaceReporter durante la sua visita a uno dei loro più grandi accampamenti sulle montagne irachene – negano qualsiasi responsabilità per questi attacchi, accusando invece i servizi segreti turchi di orchestrare una campagna di violenza come pretesto per mantenere alta “l'emergenza terrorismo”. Ma in seno al gruppo separatista – sebbene dal carcere Abdullah Ocalan ripete da anni che l'obiettivo ora è solo una maggiore autonomia e la conquista di più diritti civili – sono attive da tempo divisioni sulle strategie di guerriglia, in assenza di un capo carismatico come Ocalan, tanto che sull'esatta leadership del Pkk si possono fare solo supposizioni.

L'ipotesi islamica. L'altra possibile pista potrebbe essere quella islamica. Istanbul è già stata vittima di attentati suicidi rivendicati da minuscoli gruppi affiliati ad al Qaeda. Il 5 novembre 2003, due autobomba guidate da altrettanti kamikaze esplosero nei pressi delle sinagoghe di Neve Shalom e di Bet Yiakov, causando 25 morti e oltre 300 feriti. Due settimane dopo, due kamikaze fecero saltare in aria due autobomba davanti alla sede della banca inglese Hsbc, causando 16 morti, e nel cortile del consolato britannico, con 13 morti e in totale 450 feriti. Ultimo episodio di violenza attribuito agli islamici, anche se non rivendicato, è stato l'attacco da parte di un gruppo armato al consolato statunitense a Istanbul, tre settimane fa. Le modalità dell'attentato di ieri – un primo ordigno minore per attirare la folla, un secondo devastante per fare più vittime possibili – ricorda una modalità tristemente affermatasi negli ultimi anni in Iraq. E mai utilizzata prima d'ora in Turchia.

Il caso Ergenekon. Per i teorici dello “Stato profondo” - la commistione tra l'establishment devoto ai valori laici di Ataturk e servizi segreti deviati – va ricordato che sul piatto dei tanti casi aperti c'è anche la questione dell'organizzazione Ergenekon. Negli ultimi mesi, in corrispondenza con le accuse di voler instaurare uno stato islamico rivolte al partito del primo ministro Recep Erdogan, la polizia turca ha affondato ancora di più il colpo contro questa oscura rete composta da ex generali, esponenti nazionalisti, giornalisti, che secondo l'accusa aveva pianificato una serie di atti violenti e omicidi eccellenti contro i “nemici della Turchia”, ma che stava anche organizzando un colpo di stato in caso di "deriva islamica". L'inchiesta su Ergenekon, in particolare con una seconda ondata di arresti avvenuta nelle ultime settimane, si è sovrapposta con l'apertura del caso giudiziario contro l'Akp, tanto che alcuni analisti temono un confronto dietro le quinte tra la vecchia guardia dell'establishment laico-militarista e gli islamici al governo, anche attraverso atti violenti che rappresentino un “segnale” all'altra parte.

La sorte dell'Akp. Mentre si cerca di risalire ai responsabili della strage di Gungoren, la Turchia attende con il fiato sospeso il pronunciamento della Corte costituzionale sulla sorte dell'Akp, accusato di voler islamizzare la Turchia andando contro i principi laici della repubblica fondata da Ataturk; ad esempio, rimuovendo il divieto di indossare il velo islamico nelle università. Basterebbe una maggioranza di sette giudici su 11 per decretare lo scioglimento del partito e l'esclusione dalla politica per alcuni anni di decine di suoi dirigenti, tra cui lo stesso Erdogan e il presidente della repubblica Abdullah Gul. In tal caso, dato che l'Akp detiene circa il 60 percento dei seggi in Parlamento, sarebbe inevitabile andare ad elezioni anticipate, dove probabilmente i membri dell'Akp potrebbero presentarsi come indipendenti e poi confluire in un nuovo gruppo. Oppure, un nuovo partito potrebbe rinascere con un volto più moderato dalle ceneri dell'Akp, che nacque proprio dopo la chiusura dell'islamico Partito del benessere a fine anni Novanta (negli ultimi cinquanta anni, la Corte costituzionale ha bandito oltre 20 partiti, ma nessuno aveva mai il sostegno dell'attuale movimento al governo). Negli ultimi giorni si è fatta strada anche un'ipotesi alternativa: quella di una dura presa di posizione della Corte contro l'Akp, ma che porti più a sanzioni economiche che a una dissoluzione del partito. La sentenza è attesa entro questa settimana: i giudici sono già riuniti, ma difficilmente si arriverà a un verdetto entro oggi.

Tra passato e futuro. Quel che è certo, nella ridda di supposizioni e ipotesi, è che nel giro di un anno la Turchia ha completato una trasformazione in negativo. Nelle elezioni del 22 luglio, l'Akp aveva ottenuto il 47 percento dei voti e si parlava di un Paese ormai stabile, pronto a introdurre nuove riforme sulla via dell'Unione Europea, con investimenti stranieri in crescita. Oggi, la repubblica di Ataturk rischia di tornare alla paralisi politica. Si scopre ancora esposta al potere occulto dell'establishment laico, e troppo dipendente dagli investimenti stranieri: l'enorme debito pubblico è una preoccupazione, anche perché la Borsa di Istanbul è calata di quasi il 40 percento rispetto ai picchi di dodici mesi fa. Soprattutto, dato che nell'ultimo anno le violenze tra forze armate e guerriglia del Pkk hanno causato centinaia di morti, si ritrova con una guerra in casa. E chiunque abbia piazzato la doppia bomba di Istanbul, ha colpito un Paese in lotta con se stesso per il suo futuro.

lunedì 28 luglio 2008

Thailandia, Cambogia e il tempio della discordia

Nelle ultime settimane e’ improvvisamente salita la tensione tra Thailandia e Cambogia, in seguito alla decisione dell’UNESCO di inserire nella lista dei Patrimoni Mondiali dell’Umanita’ il tempio hindu di Preah Vihear risalente all’XI secolo e situato in una zona di confine tra i due Paesi, oggetto di disputa fin dagli anni successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Nel 1962 la Corte Internazionale di Giustizia ha pero’ assegnato alla Cambogia la sovranita’ territoriale sul tempio e la Thailandia ha accettato il verdetto. Il problema ancora irrisolto riguarda pero’ un’area di 4,6 Km quadrati vicino al tempio che garantisce l’accesso alla sua entrata principale.

Infatti finora l’unica strada percorribile per arrivare all’entrata del tempio e’ in territorio thailandese.
Dalla Cambogia non e’ ancora possible, per mancanza delle infrastrutture necessarie, accedere all’entrata del complesso religioso.

Quest’area contesa sara’ infatti fondamentale per costruire, anche attraverso i prossimi e sicuri fondi emanati dall’UNESCO, le strade e tutte le strutture turistiche utili ad attrarre le migliaia di turisti che nel prossimo futuro affluiranno a visitare il tempio, che necessita anche di notevoli fondi, sempre gentilmente forniti dall’UNESCO, per importanti opere di restaurazione e conservazione.
Si tratta percio’ di un grande business in prospettiva ed entrambi i Paesi ne vogliono beneficiare.

Finora questa vicenda ha gia’ provocato qualche settimana fa le dimissioni del ministro degli Esteri thailandese, accusato di aver svenduto la sovranita’ sul tempio alla Cambogia con l’accordo firmato a Parigi insieme al direttore dell’UNESCO e al ministro degli Esteri cambogiano nel Maggio scorso, con cui il governo thailandese accettava ufficialmente la decisione dell’UNESCO.

E in questi due Paesi infiammare le rispettive popolazioni soffiando sul nazionalismo e’ questione di un attimo. Si e’ infatti gia’ arrivati al punto che circa duemila soldati thailandesi sono schierati sul territorio conteso, fronteggiati da altrettanti soldati cambogiani disposti sull’altro versante del confine.

Questo movimento di truppe e’ dovuto all’arresto, durato pero’ solo poche ore, di tre attivisti politici thailandesi del movimento PAD (People’s Alliance for Democracy), tra cui un monaco, che, dopo aver oltrepassato il confine di soppiatto per protestare contro la decisione dell’UNESCO, erano entrati nel tempio, la cui entrata principale era gia’ stata chiusa giorni prima dalle autorita’ cambogiane.

Domenica scorsa poi si sono svolte le elezioni politiche in Cambogia, stravinte ancora una volta dall’eterno primo ministro Hun Sen, che in campagna elettorale ha molto strumentalizzato la questione del Preah Vihear toccando il nervo nazionalista dei cambogiani.

Va ricordato anche che nel gennaio del 2003, sei mesi prima delle precedenti elezioni, e’ bastata una dichiarazione alla radio cambogiana di una famosa attrice thailandese che reclamava il ritorno alla sovranita’ thailandese di un altro complesso di tempi hindu – quello di Angkor Wat situato nel nord-ovest della Cambogia – per richiamare immediatamente centinaia di persone intorno all’ambasciata thailandese di Phnom Penh e metterla letteralmente a ferro e fuoco, insieme a molti negozi della compagnia di telefonia mobile Shinwa, appartenente all’allora premier thailandese Thaksin Shinawatra.

Si e’ poi scoperto che si era trattato di una montatura costruita alla perfezione dal partito di Hun Sen. La dichiarazione dell’attrice era stata infatti estrapolata da una vecchia puntata di una soap opera che la vedeva protagonista.

Sono comunque in corso colloqui tra i due governi per risolvere la questione pacificamente, cosi’ come tra i capi delle rispettive Forze Armate. Ma il ministro degli Esteri cambogiano ha gia’ dichiarato che se i colloqui dovessero fallire il suo Paese si rivolgera’ al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
La Thailandia invece vuole mantenere la questione solo a livello bilaterale.

Il nodo da sciogliere ruota intorno a quale mappa fare riferimento. Una e’ stata disegnata dai francesi durante il periodo coloniale, ma favorisce la Cambogia ed e’ rifiutata dai thailandesi che insistono per un’altra mappa disegnata da loro con il supporto di tecnici americani.

Comunque il movimento PAD, in lotta contro il governo da piu’ di due mesi e che ha gia’ ottenuto le dimissioni del ministro degli Esteri, e’ convinto che dietro la decisione dell’UNESCO ci siano le grandi Potenze - USA e Cina in testa - che avrebbero supportato la Cambogia per avere poi in cambio le concessioni per l’estrazione di petrolio dai nuovi e ricchissimi giacimenti scoperti un paio di anni fa circa al largo delle coste cambogiane.

Inoltre il PAD accusa il governo thailandese di aver svenduto la sovranita’ thailandese per permettere a Thaksin Shinawatra e ai suoi amici di fare nei prossimi anni grossi affari nel campo del turismo e delle infrastrutture nell’area contesa.

Ma per ora i soldati dei due Paesi schierati sul confine si scambiano solo cibo e chiacchiere, non pallottole. Pero’ la situazione potrebbe improvvisamente sfuggire di mano, anche perche’ quella e’ una zona piena di mine antiuomo, crudele lascito della guerra civile cambogiana degli anni ’80 e ’90.

E gli ex Khmer Rossi - che allora in quella zona intorno ad Anlong Veng spopolavano guidati dal comandante Ta Mok, morto due anni fa - hanno gia’ fatto sapere di attendere solo il segnale del premier Hun Sen per riprendere le armi in difesa della sovranita’ cambogiana.

Nei prossimi giorni si vedra se sara’ necessario o meno l’intervento dell’ONU per risolvere una contesa territoriale che verte fondamentalmente su come spartirsi i fondi UNESCO e i proventi che deriveranno dall’industria turistica destinata a svilupparsi in quell’area.
Ma dietro a tutto cio’ c’e’ ancora una volta l’oro nero.

domenica 27 luglio 2008

Un governo senza opposizione

In soli due mesi il governo ha approvato una serie di provvedimenti senza la benche' minima reazione da parte della cosiddetta opposizione, Partito Democratico in testa.

Il partito guidato da Veltroni - ancora per poco si spera - e' del tutto immobile e muto, incapace di reagire con l'energia e la durezza necessarie per contrastare, quantomeno in Parlamento, la devastante azione di un governo che tira dritto come un caterpillar senza ostacoli di fronte.

Qui di seguito si parla sia dell'inesistente opposizione del PD che dei provvedimenti sulla giustizia decisi dal governo, con le "naturali" conseguenze che ne derivano.


I democratici e la sindrome del rospo
di Luca Ricolfi – La Stampa – 27 Luglio 2008

Forse è colpa del clima vacanziero, ma l'impressione è che stiamo diventando un Paese senza opposizione. Nel giro di soli due mesi il governo è riuscito a intervenire sulla giustizia (lodo Alfano, sospendi-processi), sull'immigrazione e la sicurezza (impronte digitali, poteri ai sindaci, stato di emergenza), sulle tasse (Robin tax, soppressione dell'Ici), sulla spesa pubblica (manovra finanziaria). E, ora si scopre, anche sul precariato. In autunno si ripromette di intervenire sulle intercettazioni, sulla magistratura, sul federalismo, sui servizi pubblici locali, sullo Stato sociale (è di ieri la pubblicazione del Libro verde sulla «vita buona» del ministro Sacconi). Berlusconi si è liberato dei magistrati e, con i suoi ministri più attivi, sta per rivoltare l'Italia come un calzino. E il principale partito di opposizione che fa? Il Partito democratico sembra affetto dalla sindrome del rospo. Avete presente il rospo, che resta fermo e immobile mentre il bimbo lo prende a sassate? E più viene colpito più si pietrifica, tentando (invano) di rendersi invisibile?

Non c'è atto del governo che non susciti il dissenso o la preoccupazione del partito di Veltroni, ma ciononostante il massimo di opposizione che il Pd riesce a immaginare è una «grande manifestazione» in autunno, quando tutti i buoi saranno scappati dalle stalle. Nel frattempo, non passa giorno senza che qualche esponente del partito di Di Pietro, dei girotondi, della «società civile» o di qualche minoranza interna dello stesso Pd non riversi la sua ira e la sua amarezza sulla non conduzione politica del nuovo (?) partito. La gente di sinistra si chiede dove la stia portando Veltroni, e la risposta che si sente ripetere è la solita: noi non siamo giustizialisti, né moralisti, né massimalisti, noi siamo riformisti e la nostra opposizione è seria e responsabile. Ma è davvero così?

Secondo me no, l'opposizione del Pd non è seria bensì inesistente. Se fosse seria dovremmo osservare cose che invece non accadono, e non dovrebbero accadere cose che invece osserviamo. Fra le cose che ci piacerebbe osservare c'è, ad esempio, la costruzione di un partito davvero nuovo. E' mai possibile che, dopo aver affermato di non volere i voti della mafia, dopo avere invocato fino alla noia l’esigenza di rinnovare la politica, di restituirle moralità e purezza di intenti (ricordate i discorsi alati sulla «bella politica»?), Veltroni non abbia mai pensato di cominciare a fare un po' di repulisti in casa propria? Non voglio togliere a Marco Travaglio il suo mestiere, e quindi non elencherò le decine e decine di casi, individuali e collettivi, nei quali esponenti di Ds e Margherita sono tristemente coinvolti in brutte storie di corruzione, affarismo, clientelismo, mala sanità, pessima amministrazione.

Mi limito a poche e semplici domande: possibile che il nuovo partito non senta anche sulla propria pelle il bruciore della questione morale? O basta a consolarlo il fatto che i partiti di centro-destra abbiano ancora più inquisiti e condannati ? E' mai possibile che, anziché prendere solennemente le distanze dalle molte storie di cattiva politica che coinvolgono il Pd, si stia discutendo se salvare Bassolino dai suoi guai giudiziari con un seggio al Parlamento europeo? Possibile che non ci si renda conto che la magistratura tende a esondare dai suoi limiti anche perché la politica non fa nulla per autocorreggersi?

Ma supponiamo per un attimo che queste siano domande ingenue, dettate da moralismo o «dipietrismo latente». Veniamo alla politica vera, quella che si occupa di riforme, economia, Stato sociale, sicurezza. Qui, più che le omissioni, è quel che osserviamo che lascia interdetti. Il Partito democratico per ora non vuole scendere in piazza, ma in compenso non manca di dare la sua solidarietà a tutte le categorie in lotta contro la manovra finanziaria, un po' come Alleanza nazionale due anni fa, quando aizzava i taxisti contro il ministro Bersani. La critica principale del governo ombra alla manovra è che ci sono troppi tagli, mentre non c'è nulla per salari, stipendi, pensioni, quando proprio la crisi economica suggerirebbe politiche anticicliche, di sostegno ai redditi delle famiglie.

Incredibile. Il partito di Veltroni, che pure aveva provato a prendere le distanze dal governo Prodi, finge irresponsabilmente che due anni di centro-sinistra abbiano lasciato al governo entrante un margine (extragettito, o tesoretto) per aumentare i redditi fissi, e così alimenta le illusioni di famiglie e sindacati. Critica la manovra non per la struttura dei tagli alla spesa pubblica, ma per la loro entità, sorvolando sul fatto che in campagna elettorale il Pd aveva promesso tagli ancora più pesanti. Sostiene che le riforme vadano fatte con le categorie interessate, ma dimentica che, se una parte delle resistenze al cambiamento è guidata da preoccupazioni del tutto ragionevoli, un'altra parte è puramente corporativa, ossia dettata dalla difesa di abusi, storture e privilegi.

E dire che di critiche riformiste e costruttive alla linea del governo vi sarebbe un immenso bisogno. Non solo sul versante delle mancate o troppo timide liberalizzazioni, ma sul terreno fondamentale della riduzione e ricomposizione della spesa pubblica. Qui il problema vero è che i tagli finora varati dal governo non sono abbastanza selettivi: nonostante alcune lodevoli eccezioni, molti di essi colpiranno troppo le amministrazioni più virtuose e non colpiranno abbastanza quelle più dissennate. Un vero partito riformista non cavalcherebbe demagogicamente la protesta delle categorie, ma premerebbe sull’esecutivo per rendere i tagli più profondi e più giusti, nonché per usare al meglio le risorse così liberate: abbiamo un disperato bisogno di asili nido, ammortizzatori sociali, politiche contro la povertà.

Ma una linea del genere richiederebbe forse una dose eccessiva di onestà intellettuale: al partito nuovo spetterebbe anche riconoscere di aver sbagliato negli anni scorsi quando, per tenere in piedi un governo paralizzato dai suoi contrasti interni, i dirigenti di Ds e Margherita permisero a Prodi e Padoa-Schioppa di sprecare l'unica vera occasione - la congiuntura favorevole del 2006-2007 - per incidere davvero sulla voragine della spesa pubblica. Se lo si fosse fatto allora, oggi il deficit sarebbe più vicino a zero che al limite del 3%, e l'invocazione di misure a sostegno delle famiglie suonerebbe meno ipocrita.


Colpirne due per educarli tutti
di Marco Travaglio - l'Unità - 24 luglio 2008

La vera anomalia non è l'aborto giuridico del Lodo Alfano, che si spera verrà spazzato via dalla Corte costituzionale come il suo deforme progenitore Maccanico-Schifani: solo un marziano un po’ tonto poteva scambiare Al Tappone per uno statista dedito agl’interessi del Paese anziché ai cazzi suoi. La vera anomalia è quel che accade, anzi non accade tutt’intorno. E' l'aria di annoiata normalità con cui il Lodo è stato accolto in Parlamento anche dal grosso delle cosiddette opposizioni.

E' il silenzio del Colle, allarmato invece da una fantomatica "giustizia spettacolo". E' il Tg1 che lo nasconde come terza notizia del giorno. Sono i giornali che non gli dedicano un solo editoriale (a parte, forse, il manifesto) e gli riservano lo stesso spazio dedicato a celebrare il "ritorno di Veronica a Villa Certosa", con tanto di foto della Sacra Famiglia gentilmente offerte da "Chi" (Mondadori). E' il tradimento degli intellettuali "liberali" che si son messi "a vento", proni a tutto (nel 2003 il Corriere di De Bortoli denunciava le leggi vergogna, infatti De Bortoli dovette sloggiare). Ed è pure questo Csm che, cacciando in sequenza Luigi De Magistris e Clementina Forleo, fa di tutto per dar ragione a Gasparri e anticipa spontaneamente la controriforma annunciata da Angelino Jolie per conto del padrone: quella che farà dell'ex "organo di autogoverno" dei giudici l'ennesima protesi della Casta. Riforma sintetizzata dal cosiddetto ministro Rotondi con l'icastica frase "colpire un magistrato per educarne cento".

Il giorno scelto per trasferire la Forleo da Milano non poteva essere più azzeccato: mentre Tavaroli rivela a Repubblica i ricatti che regolano la politica e l’economia, mentre il Cainano si blinda dai processi come la regina d’Inghilterra (che però non ha processi) e mentre s'annuncia il festoso ritorno dell'immunità parlamentare, la gip che osò intercettare i furbetti del quartierino e i loro santi protettori trasversali sparsi fra Bankitalia, Palazzo Grazioli, Pontida e il Botteghino viene espulsa dalla sua sede naturale. Anche il voto al plenum è emblematico: tutti d'accordo, come già per De Magistris, destra e sinistra, laici e togati (a parte, per la Forleo, quelli di MI).

Con i complimenti del Giornale, per la penna del rubrichista con le mèches: avrebbe preferito il suo licenziamento, ma per ora s'accontenta, poi magari ci pensa Brunetta. Una soave corrispondenza di amorosi sensi destra-sinistra che la dice lunga sull’astio trasversale della Casta per i cani sciolti, senza padrone e senza collare. Ancora 15 anni fa erano i magistrati più preziosi. Oggi sono i nemici da abbattere. "Un giudice indipendente che non appartiene a nessuno", ha detto Clementina al Csm mentre le sparavano addosso da destra a sinistra, "in questo Paese ancora non può esistere".

Cacciata per "incompatibilità ambientale". Motivo: ha provocato "disagio e allarme sociale" (figuriamoci) denunciando ad Annozero la solitudine di chi tocca i poteri forti e confidando le sue ansie per l’inchiesta sulle scalate a un pm milanese e a un vecchio collega, Ferdinando Imposimato, di cui (sbagliando) si fidava. Trasferita non per aver venduto o insabbiato processi, non per aver poltrito, non per aver agito scorrettamente. Ma solo per aver parlato, dicendo cose magari discutibili, ma parole, pensieri, concetti (incredibile che i "progressisti" di Magistratura democratica, così sensibili alla libertà di espressione si siano prestati a una simile vergogna). Il Csm, che l'aveva lasciata sola nei mesi terribili dell’estate scorsa mentre l’intero Parlamento le saltava addosso per l'ineccepibile ordinanza sulle scalate, l'ha trattata come una mitomane"tendente al vittimismo"che s'inventa pericoli inesistenti. Intanto quell’ordinanza, presentata un anno fa come una sua alzata d’ingegno in dissenso con la Procura, è stata avallata dalla stessa Procura, che due mesi fa ha chiesto al Parlamento europeo il permesso di usare a carico di D'Alema le telefonate tra quest’ultimo e Consorte. Intanto le sue denunce han trovato conferma in un'indagine a Potenza e nell’arrivo di proiettili e lettere anonime, tanto che le hanno assegnato una scorta armata. Purtroppo la scorta non ha potuto proteggerla dal Csm che, con l'aria di smentire le sue denunce, ne ha in definitiva confermata tutta l'attendibilità. Sapeva che gliel'avrebbero fatta pagare,e gliel'han fatta pagare. Anche lei, come De Magistris, è "incompatibile". Ma non con Milano o con Canicattì. E' incompatibile con questo lurido paese.


Lettera al presidente del Senato
di Marco Travaglio - l'Unità - 26 Luglio 2008

Gentile Presidente del Senato, avv. sen. Renato Schifani, chi Le scrive è un modesto giornalista che ha avuto la ventura di occuparsi talvolta di Lei per motivi professionali. L’ultima - forse lo ricorderà - fu nel mese di maggio, quando Lei ascese alla seconda carica dello Stato e io pubblicai una sua breve biografia sull’Unità e nel libro "Se li conosci li eviti"(scritto con Peter Gomez) che poi presentai su Rai3 a "Che tempo che fa".

Anzitutto mi consenta di congratularmi con Lei per la Sua recentissima invulnerabilità penale, in virtù del Lodo Alfano, figlio legittimo del Lodo Schifani già dichiarato incostituzionale dalla Consulta nel 2004 e prontamente replicato in questa legislatura, anche grazie alla fulminante solerzia con cui Lei l'ha messo all’ordine del giorno di Palazzo Madama. E' davvero consolante, per un cittadino comune, apprendere che da un paio di giorni l'articolo 3 della Costituzione è sospeso con legge ordinaria approvata in 25 giorni, e che dall'altroieri esistono quattro cittadini più uguali degli altri dinanzi alla legge, come i maiali della "Fattoria degli animali" di George Orwell. Il fatto poi che Lei faccia parte del quartetto degli auto-immuni è per tutti noi motivo di ulteriore soddisfazione.

Si dà il caso, però, che Lei mi abbia recentemente fatto recapitare in busta verde, da ben tre avvocati (uno dei quali pare sia un Suo socio di studio), un atto di citazione presso il Tribunale civile di Torino affinchè io vi compaia per essere condannato a risarcirLa dei presunti danni, patrimoniali e non, da Lei patiti a causa del mio articolo sull'Unità e della mia partecipazione al programma di Fabio Fazio. Danni che Lei ha voluto gentilmente quantificare in appena 1,3 milioni di euro. A carico mio, s'intende.

Tutto ruota, lo ricorderà, intorno al fatto che avevo osato ricordare come Lei, alla fine degli anni 70, fosse socio nella Sicula Broker di due personaggi poi condannati e arrestati per mafia, Benny D’Agostino e Nino Mandalà; e che negli anni 90 Lei abbia prestato una consulenza in materia urbanistica per il Comune di Villabate, poi sciolto due volte per mafia in quanto ritenuto nelle mani dello stesso boss Mandalà.

Circostanze che Lei non ha potuto negare neppure nel suo fantasioso e spiritoso atto di citazione (ho molto apprezzato i passaggi nei quali Lei fa rientrare quei fatti nell’ambito dei "commenti sulla vita privata delle persone"; e mi rimprovera di non aver rammentato come Lei sia stato socio non solo di persone poi risultate mafiose, ma anche di altri "noti imprenditori mai coinvolti in episodi giudiziari", e come Lei abbia prestato consulenze non solo per comuni poi sciolti per mafia, ma anche per altri enti locali mai sciolti per mafia).

Ora, sul merito della controversia, decideranno i giudici. Ma non Le sfuggirà la sproporzione delle forze in campo, sulla bilancia della Giustizia, fra la seconda carica dello Stato e un umile cronista: i giudici, già abbondantemente vilipesi e intimiditi negli ultimi anni da Lei e dai Suoi sodali, sapranno che dar torto a Lei significa dar torto al secondo politico più importante del Paese, mentre dar torto a me è davvero poca cosa. E' questo oggettivo squilibro che, in tempi e in paesi normali, consiglia a chi ricopre importanti cariche pubbliche di spogliarsi delle proprie liti private, per dedicarsi in esclusiva agli interessi di tutti i cittadini.

Lei invece non solo non si è spogliato delle Sue liti private, ma ne ha addirittura ingaggiata una nuova (con me) dopo aver assunto la presidenza del Senato. Ora però quello squilibrio diventa davvero abissale in conseguenza della Sua sopraggiunta invulnerabilità. In pratica, se io volessi querelarLa per le infamanti accuse che Lei mi muove nel Suo atto di citazione, non avrei alcuna speranza di ottenere giustizia in tempi ragionevoli, perché il Lodo Alfano La mette al riparo da qualunque conseguenza penale delle Sue parole e azioni, imponendo la sospensione degli eventuali processi a Suo carico. Lei può dire e fare ciò che vuole, e io no. Riconoscerà che, dal mio punto di vista, la situazione è quantomai inquietante.

Ma c'è di più e di peggio. L’anno scorso l’ex presidente del consiglio comunale di Villabate, Francesco Campanella, indagato per mafia a causa dei suoi rapporti con la cosca Mandalà e con Bernardo Provenzano, ha raccontato ai giudici antimafia di Palermo che il nuovo piano regolatore di Villabate era stato addirittura "concordato" da lei e dal senatore La Loggia con il solito Mandalà. Lei e La Loggia annunciaste subito querela. E da allora i magistrati antimafia stanno verificando se Campanella si sia inventato tutto o magari dica la verità. Io Le auguro e mi auguro, visto che Lei ora rappresenta l'Italia ai massimi livelli, che prevalga la prima ipotesi.

Ma, nella malaugurata evenienza che prevalesse la seconda, il Lodo Alfano impedirebbe alla magistratura di processarLa, almeno per i prossimi cinque anni, finchè terminerà la legislatura e, con essa, svanirà il Suo preziosissimo scudo spaziale. Converrà con me, Signor Presidente, che nella causa civile che Lei mi ha intentato la conclusione di quelle indagini sarebbe comunque decisiva per valutare la mia posizione: sia che le accuse di Campanella trovino conferma, sia che trovino smentita, sarebbe difficile sostenere che io non abbia esercitato il mio diritto-dovere di cronaca, segnalando ai cittadini una vicenda di così bruciante attualità e interesse pubblico.

Detta in altri termini: non vorrei che la causa civile da Lei intentatami si concludesse prima delle indagini sul caso Campanella-Villabate, magari in conseguenza del blocco di quel procedimento per via del Lodo Alfano. Essere condannato a versarle 1 milione o anche 1 euro, e poi scoprire a cose fatte di aver avuto ragione, sarebbe per me estremamente seccante.

L'altro giorno, con nobile gesto, il presidente della Camera Gianfranco Fini ha rinunciato preventivamente al Lodo, dando il via libera al processo che lo vede imputato per diffamazione ai danni del pm Henry John Woodcock. Mi rivolgo dunque a Lei, e alla prima carica dello Stato che quel Lodo ha così rapidamente promulgato, affinchè rassicuriate noi cittadini su un punto fondamentale: o ritirate le vostre denunce penali e civili finchè sarete protetti dallo scudo spaziale, oppure rinunciate preventivamente al Lodo in ogni eventuale processo che potesse eventualmente influenzare, direttamente o indirettamente, l'esito di quelle cause. In attesa di un Suo cortese riscontro, porgo i miei più deferenti saluti.

sabato 26 luglio 2008

Serbia: dopo l’arresto di Karadzic

Come si era gia’ detto qualche giorno fa, dopo la cattura di Karadzic la strada per l’ingresso nell’UE della Serbia e’ ormai spianata, anche se non sara’ tutta in discesa.

Inoltre il governo di Belgrado ha gia’ deciso che gli undici ambasciatori serbi ritirati nei mesi scorsi da quei paesi Ue, Italia compresa, che avevano riconosciuto l'indipendenza del Kosovo, rientreranno nelle loro rispettive sedi.

L'unica eccezione rimane la sede diplomatica di Washington. Belgrado infatti considera gli Stati Uniti il patrocinatore della dichiarazione unilaterale di Pristina del 17 febbraio scorso. E come dargli torto?


Qui di seguito un altro articolo sulla cattura-farsa di Karadzic, in cui si affrontano anche le sue potenziali conseguenze in Serbia, e non solo.

Karadzic. Dalla tragedia alla commedia
di Ennio Remondino – Megachip – 26 Luglio 2008

Pura e stretta cronaca, ad evitare l'apparentenza della fantapolitica. Ho visitato l'osteria preferita da Radovan Karadzic latitante. Cliente abituale mi hanno raccontato, e da tempo. Musica popolare serba dal vivo e, alle pareti, tante fotografie del passato, a partire da quella di Tito. Ritratti mischiati tra loro con dubbia coerenza politica: le foto dello scomparso Milosevic e, sopra il banco di mescita, l'immagine di un Radovan Karadzic nel suo piglio ufficiale di leader politico della Serbo-Bosnia. Accanto, quella del generale Mladic. Fossimo in Italia, paese superstizioso, i tifosi di Mladic ancora latitante avrebbero già imposto di separare le fotografie per distinguere il futuro dei protagonisti. Per clienti a camerieri il Karadzic arrestato era soltanto il dottor Dragan Dabic, figura in bilico tra la medicina alternativa e le filosofie del santone orientale. Trasformazione adeguata di abbigliamento, barbone candido in grado d'ingannare anche i suoi parenti stretti, e codino tinto di nero alla sommità del capo. Siamo alla periferia di Novi Beograd, vicino all'aeroporto militare di Batajnica. A questo punto la fantasia vola nello spazio, con l'abitazione clandestina di Karadzic al 267 di Via Juri Gagarin. Racconto surreale, ma non finisce qui.

Il super ricercato dalle polizie e servizi segreti di mezzo mondo che compare in molte televisioni locali a proporre la sua medicina alternativa. Editorialista apprezzato della rivista "Vita sana". Un suo sito internet ampliamente pubblicizzato dove Dabic-Karadzic ridisegna il suo passato. Si fa nascere nel villaggio di Kovaci, vicino Kraljevo (invece del suo Montenegro), si fa migrante all'estero, con una laurea in medicina, psichiatria, presa a Mosca (invece che a Sarajevo). Poi, a costruire la copertura del guru alternativo, si racconta in India, Giappone e Cina. Ammette l'esistenza di una vecchia famiglia da cui vive separato, e trasforma la "Sarajevo serba" di Pale, dove vivono moglie e figlia, nella lontana America. Si sussurra anche di una nuova compagna, Mila, a consolarlo negli affetti. La piacevole cinquantenne che gli compare accanto in alcune fotografie smentisce categoricamente sostenendo di avere condiviso con lui, dottor Dragan David Dabic, soltanto la passione esoterica. La tragedia che si trasforma in commedia.

Via via che crescono i particolari della singolare latitanza, aumenta lo stupore nell'opinione pubblica non solo serba e le difficoltà per la politica locale. Quesiti per ora soltanto sussurrati. Evaporata la favola del risultato di una brillante azione investigativa, tutti a interrogarsi sulla spiata che ha venduto Karadzic. Chi, come, quando, perché. L'ABC della notizia. Perché questo arresto proprio in questa fase politica interna e internazionale? Chi ne ha coperto prima la latitanza e chi poi l'ha venduto? è la domanda chiave. Probabilmente la stessa parte politica o istituzionale coinvolta nel "prima" e nel "dopo", insinua qualche malizioso amico serbo, con un non troppo velato riferimento alla nuova leadership del partito socialista che fu di Slobodan Milosevic. L'ago della bilancia, la forza decisiva all'interno del nuovo governo serbo messo assieme dal presidente Boris Tadic. "Filo europeista" nei programmi ambiziosi ma striminzito nei numeri parlamentari.

Trascorso il momento degli applausi di mezzo mondo per quella cattura, il fragile governo serbo (due soli seggi di maggioranza) scopre infatti che le strade della politica internazionale assomigliano a quelle dell'inferno, lastricate di buone intenzioni e di facili promesse. Nessuna garanzia di rapido avvio della trattativa di accesso all'Europa. Karadzic, già dicono da Bruxelles, non basta. Dovrà prima finire in galera anche il generale Ratko Mladic, e subito dopo l'ex leader della Krajna serba, gli ultimi due latitanti. Esami infiniti per la Serbia , con la tensione interna più portata a crescere che a creare un ampliamento di consensi attorno al governo. Secondo quesito che corre ora sulla bocca di molti. Perché l'arresto ora, quando sarebbero bastati altri sei mesi per sottrarre Karadzic al giudizio del tribunale Internazionale dell'Aja prossimo alla scadenza del suo mandato? Perché nessuno a Belgrado ed in Serbia potrebbe sostenere in casa le tensioni di un processo di questo genere, è la risposta non espressa che viene dai palazzi governativi. Nessuno ne avrebbe la forza oggi, nei confronti del montenegrino di Bosnia Karadzic, nessuno potrebbe soltanto immaginarlo domani per il serbo Ratko Mladic, militare di carriera.

Per tornare dalla commedia del santone-guru-guaritore, alla tragedia che fu la Bosnia , possono diventare utili alcune memorie personali d'allora. Per qualsiasi giornalista che abbia vissuto il macello Bosnia spostandosi, come facevo io, tra una parte e l'altra del fronte di guerra, tra gli assediati di Sarajevo e i loro assedianti sulle montagne, Radovan Karadzic era l'interlocutore ideale. Difficile da avvicinare, certo, ma arrivati alla sua vista con telecamera e microfono, era l'interlocutore ideale. "For the news, mister President", che tradotto nella lingua televisiva internazionale vuol dire, "stai corto". Bastava indicare il numero di minuti che avevi a disposizione e l'interlocutore, col cronometro in testa, recitava le sue ragioni e la sua propaganda per il taglio breve da telegiornale. Intervistato ideale insomma quel presunto assassino, con la precisazione che mai nessun assassino incontrato in tanti anni di mestiere, somiglia davvero ad un assassino. Non Radovan Karadzic, in particolare. I brutti ceffi, i cattivi a prima vista, li aveva attorno. Le "Bodyguard" cresciute sulle montagne tra Pale ed il Trebevic e, soprattutto, quell'arpia della figlia Sonja. Era lei ad avere il potere di accoglienza o di cacciata, per noi giornalisti.

Lui, Karadzic, con la sua capigliatura folta e sempre ordinata, qualche volta sorrideva persino. Con lui, confesso oggi, ho scambiato i gesti liturgici della pace. Erano le settimane della cattura dei caschi blu delle nazioni unite, esibiti incatenati sulle stradine di Pale e poi detenuti in luoghi inavvicinabili. Quella del Tg1 Rai era una delle poche troupes occidentali presenti. Tensione internazionale alle stelle, la sesta flotta Usa che si avvicinava all'Adriatico, tamburi di guerra che terrorizzavano il mondo e, noi narratori, reclusi a nostra volta nei confini stretti di quella sorta di villaggio alpino, modello svizzero, che era ed è Pale. La Sarajevo dell'assedio crudele ad una decina di chilometri, ed il resto del mondo lontano anni luce. Trovarsi al centro del bersaglio da cui sembra poter scaturire la terza guerra mondiale, ed avere a disposizione soltanto immagini agresti con prati verdi e chalet di montagna.

Ricordo di aver insistito con diversi "Stand Up", la parte del reportage televisivo in cui il giornalista si mostra, di fronte al solo cartello stradale con la scritta Sarajevo bucherellato di proiettili. La sola immagine guerresca che ero riuscito a trovare. Ricordo anche di un ordine di ritirata giunto da Roma. "Rientra subito, sta par partire l'attacco aereo americano. E' la guerra", fu l'ordine. "La sola che vola qui sono le mosche e i soli mezzi pesanti attorno sono le mucche", fu la mia risposta, con ordine puntualmente disatteso. Noi Rai eravamo stati i primi, ma stavano arrivando tutti gli altri, CNN compresa. Peter Arnet, pensate: il giornalista delle cronache marziane da Bagdad, le riprese notturne verdognole della prima guerra del Golfo. Chi era accampato al mitico "Hotel Olimpic", poco più di una modesta pensione a due stelle, chi preferiva l'ospitalità di famiglie bisognose di danaro. La caccia disperata al nulla televisivo, col rombo dei caccia bombardieri americani sull'Adriatico in contrasto con le bevute amicali che sapevo esserci tra detenuti Onu e detenenti serbi.

Silenzio stampa. Nessuna dichiarazione. Karadzic apparentemente scomparso. Caccia quotidiana ad immagini e notizie che non c'erano. La piazza del mercato, al centro del villaggio, deserta come sempre, con la sua chiesetta ortodossa poco frequentata. Un gruppo di auto di prestigio, tutt'attorno, attira l'attenzione. Le facce cattive di uomini armati ci danno la conferma. In chiesa Karadzic segue il rito per il santo che dovrebbe prendersi cura dei morti, mi pare di ricordare. Diffida immediata di Sonja Karadzic a porre domande al padre. All'uscita, ultima parte liturgica-popolare con la recita di un'invocazione. Karadzic che all'uscita saluta uno ad uno tutti i presenti, chiedendo per loro la protezione del santo, e l'interlocutore che ripete la formuletta rituale. Imparo a memoria, in serbo, e quando è il mio turno recito l'invocazione di pace e di bene e porgo il microfono. Karadzic, come alcuni politici italiani, non sa resistere alla tentazione di una telecamera e dichiara al mondo, attraverso la Rai , che i prigionieri stanno per essere liberati. I cacciabombardieri appontano sulle loro portaerei e il mondo tira un sospiro di sollievo.

Neppure un anno dopo, fine 1995 e dopo la tragedia di Srebrenica, Karadzic sarà il latitante numero uno, pari merito con suo generale Mladic. Vita, fuga, latitanza e cattura di Karadzic da affidare alla saggezza della storia, non potendo credere oggi alle piccole convenienze della politica o alle semplificazioni folkloristiche della cronaca sul santone. Più del finale del film latitanza-Kardzic, credo dovremmo rileggerne con più attenzione l'inizio. Chi davvero decise allora, 1995, e rese possibile, autorizzò e sostenne la sua fuga e la sua latitanza? Cosa fu deciso segretamente a Dayton e cosa avvenne realmente tra Washington, Belgrado e Pale? Parlassi un migliore inglese andrei a porre queste domande in America. Nel frattempo, più che alle reazioni della svogliata piazza nazionalista di Belgrado, guardo con più preoccupazioni alla Bosnia di Sarajevo. Le tentazioni di associare i nomi di Karadzic e Srbska Republika, accomunandoli nello stesso destino prossimo futuro, non si faranno attendere.

Altre due banche falliscono negli USA

Prosegue lo stillicidio di fallimenti nelle banche degli USA. Anche oggi infatti la crisi dei mutui ha mietuto altre due vittime dopo IndyMac, chiusa l’11 Luglio scorso.

La First National Bank of Nevada e First Heritage Bank sono state chiuse in tarda nottata dalle autorità finanziarie perché sotto-capitalizzate.
A decidere la chiusura delle attività dei due istituti, che fanno entrambi capo ad un gruppo dell'Arizona, First National Bank Holding, è stato l'Office of the Controller of the Currency, l'ente statale di controllo sul denaro circolante negli Stati Uniti.

Comunque secondo Bloomberg i depositi bancari presso le due banche e i loro attivi saranno acquisiti dalla Mutual of Omaha Bank. Si vedra’, ma non sarei cosi’ tranquillo se fossi un cliente di una delle due banche.

Intanto con First National Bank of Nevada e First Heritage Bank salgono a sette le banche fallite negli USA dall'inizio di quest'anno. Ma l’elenco e’ destinato a crescere inesorabilmente.

venerdì 25 luglio 2008

Futuro incerto per l’India

Negli ultimi due anni l’India ha posto fine alla sua tradizionale politica di non allineamento, decidendo invece di stringere un’alleanza strategica con gli USA.

Cio’ ha provocato pesanti critiche in tutto il Paese, che si sommano all'endemica crisi sociale, ai notevoli mutamenti in atto nel panorama politico indiano e alla ribellione armata dei maoisti che, partita dalle regioni orientali, si e’ ormai estesa a 22 dei 28 stati indiani.

Inoltre solo oggi ci sono state 7 esplosioni a Bangalore, con 3 morti e 20 feriti finora.

La democrazia indiana, oltre che da un grosso boom economico gia' in corso d'opera, e’ attesa anche da un futuro politico molto incerto e potenzialmente esplosivo.


L’India al bivio
di Enrico Piovesana – Peacereporter - 25 Luglio 2008

La democrazia indiana è giunta a un bivio storico. I nodi accumulatisi in sessant’anni di indipendenza sono arrivati al pettine. Da come verranno sciolti dipende il destino della terza potenza economica mondiale, e forse anche qualcosa di più.

Nasce un’alternativa popolare. La decisione del premier Manmohan Singh di stringere un’alleanza strategica con gli Stati Uniti in materia nucleare e militare ha posto fine alla tradizionale politica di non-allineamento di Delhi, facendo dell’India rispetto a Washington quello che la Cina e’ rispetto a Mosca: un alleato strategico nell’ambito di una contrapposizione tra potenze.

Questa svolta non è andata giù ai partiti comunisti indiani del Left Front, che giorni scorsi hanno deciso di ritirare il proprio sostegno al governo Singh e di dare vita a un fronte di opposizione assieme al Bahujan Samaj Party (Bsp), il partito dei dalit, gli ‘intoccabili’, guidato dalla nuova stella della politica indiana: Mayawati Kumari, detta la ‘regina dei dalit’, oggi a capo del governo statale dell’Uttar Pradesh. Idolatrata da 160 milioni di paria fuoricasta, che attorno a lei stanno costruendo un vero e proprio culto della personalità, e odiata dai potenti delle caste superiori, che contro di lei hanno scatenato una violenta campagna diffamatoria, ‘Maya’ aspira a guidare l’India fuori dal sistema delle caste, da lei denunciato come incompatibile con la moderna democrazia.
Ma per ora, la nuova alleanza tra Left Front e Bsp dichiara di volersi concentrare sui problemi dell’inflazione e dei contadini, oltre che sull’opposizione all’accordo nucleare con gli Usa.

Dilaga la ribellione maoista. Ma a sinistra di questa nuova forza di opposizione c’è un'altra realtà, sempre più forte, che persegue cambiamenti ben più radicali: la guerriglia maoista dei Naxaliti. Secondo rapporti d’intelligence resi pubblici la scorsa settimana dal ministero degli Interni di Delhi, l’insurrezione naxalita, originariamente radicata nelle regioni orientali, si è ormai estesa a ventidue dei ventotto stati indiani, arrivando ad essere attiva anche nell’ovest, comprese la regione di Delhi, il Punjab, il Guajarat, l’Uttarakhand e perfino Goa.

Secondo i servizi segreti indiani, i guerriglieri maoisti – forti di oltre 100mila uomini, principalmente contadini poveri e senza terra – si sono posti l’obiettivo di “liberare” e prendere il controllo di un terzo del territorio indiano entro la fine del 2009. Già da tempo il premier Singh, temendo il contagio del trionfo militare e politico dei ribelli maoisti nel vicino Nepal, va ripetendo che i Naxaliti “rappresentano la maggiore minaccia alla sicurezza nazionale”. Se lo sviluppo economico del gigante indiano continuerà a calpestare le masse contadine e a emarginare i senza casta, è facile prevedere che la ribellione continuerà a estendersi.

In molti, già vedono nell’alleanza Left Front e Bsp i possibili artefici di un nuovo corso politico potrebbe disinnescare la bomba sociale indiana. Ma, a giudicare dalle spietate politiche anti-contadine attuate dal Left Front negli stati dove sono al potere, l’alternativa rischia di essere assai simile al modello autoritario cinese. A meno che la ‘regina dei dalit’ non ci metta del suo.

1929-2008: parallelismi

Un altro paio di articoli sulle comunanze tra il 1929 e 2008.

Scommettono un trilione contro l’America
di Maurizio Blondet – Effedieffe - 25 Luglio 2008

Il segretario al Tesoro Henry Paulson ha ottenuto 800 miliardi di dollari (sotto forma di aumento del debito pubblico) per cercar di salvare Fannie Mae e Freddie Mac, i due enti esposti con metà dei mutui immobiliari USA. Paulson potrà comprare gli «attivi» e i titoli di questi enti, ha carta bianca.

Mettiamo le cifre in prospettiva: 800 miliardi di dollari è il bilancio di un anno del Pentagono; e sono quasi il 10% del debito pubblico federale (9,5 trilioni, ossia 9.500 miliardi di dollari). Di colpo, un 10% che si aggiunge al debito più mostruoso della storia; lo dovranno pagare i contribuenti. Di fatto, è un salvataggio disperato degli speculatori rovinati dai loro subprime; ed è anche una mossa necessitata.

Per coprire il suo deficit, l’America confida nei Paesi stranieri che comprano i suoi Buoni del Tesoro. Se crollano Fannie e Freddie, la fiducia di quei debitori sarà alquanto scossa - è il minimo che si possa dire. E i creditori scottati rischiano di non far più credito agli USA.

Un terzo del debito emesso da Fannie e Freddie è stato acquistato dalle Banche Centrali estere. La Cina detiene 376 miliardi di dollari di titoli delle agenzie federali americane; la Russia ha il 21% delle sue riserve investite in obbligazioni di Fannie e Freddie (sembravano sicuri, pochi mesi fa).Se Fannie e Freddie precipitano nell’abisso dell’insolvenza, non solo l’America, ma Russia e Cina, e gli altri Stati esteri (che nell’insieme detengono 1,3 trilioni di dollari di titoli di debito delle due agenzie) finiscono nella spazzatura della storia. E’ il bello della globalizzazione e della interdipendenza economica mondiale.

E’ anche il paradosso della superpotenza del liberismo ideologico, del meno Stato e più mercato, che opera il più mostruoso intervento pubblico nell’economia - più precisamente nella finanza - che si sia mai visto nella storia. E’ la forma più disonesta di socialismo: anzichè nazionalizzare Freddie, Fannie e le banche insolventi e dichiarare: le sovvenzioniamo perchè sono di pubblico interesse, Paulson e Bernanke fanno ancora finta che ci sia un «mercato», dissimulando le sovvenzioni in un’enorme manipolazione dei mercati privati, e nascondendo il prezzo che graverà sui contribuenti.

Sovvenzionano, del resto, la sfera della finanza, non i piccoli proprietari rovinati dal mutuo variabile, non le attività economiche essenziali. Un socialismo per miliardari. O per grandi creditori, Cina, Giappone e Russia. Ma questa è filosofia.

Oggi, è urgente la domanda: ce la farà Paulson a salvare Fannie e Freddie? Basteranno 800 miliardi di dollari? Non è affatto certo. Perchè in queste stesse ore, la speculazione globale sta giocando d’azzardo «contro» l’Azienda America, e specificamente contro Fannie e Freddie, scommettendo sul loro ribasso - e creando una irresistibile pressione al ribasso. Come lo fanno? Con le vendite allo scoperto, «short». Gli speculatori vendono titoli che non possiedono, ma che si sono fatti prestare, attendendo di poterli comprarli (per la consegna all’acquirente) ad un prezzo più basso, prima di dover restituire il prestito.

Adesso, informa Bloomberg (1), ci sono nel mondo 1,4 trilioni di dollari di azioni e titoli presi in prestito, con un aumento del 33% rispetto al 2007. Chiaramente, sono i ribassisti che aspettano di assestare il colpo quando Freddie e Fannie crolleranno; giocare al ribasso è il solo modo di guadagnare, oggi, sui «mercati».

Ancora una volta, mettiamo la cifra in prospettiva: 1,4 trilioni, sono 1.400 miliardi di dollari. Quasi il doppio della immane cifra che Paulson e il Tesoro USA ha gettato nella scommesa. I ribassisti hanno il doppio delle munizioni del ministero rialzista. E’ un gioco sul filo del rasoio. Gli speculatori rischiano moltissimo se la partita si prolunga, perchè devono pagare interessi sui titoli presi a prestito, ed ogni rialzo dei corsi inferisce loro duri colpi.
Ma i guadagni possono essere favolosi.

Le azioni Fannie Mae sono calate del 64%, e quelle di Freddie Mac sono scese del 68% da giugno al 15 luglio; poi c’è stato un rimbalzo, del 90% e del 75% rispettivamente, negli ultimi tre giorni della settimana; nonostante questo i detentori di posizioni «short» hanno realizzato profitti combinati per 1,4 miliardi di dollari. Lo stesso stanno facendo gli speculatori europei.

L’Euro Stoxx 50 è crollato del 24% nel primo semestre 2008; ma intanto l’Euro Stoxx 50 Short Index, quello dei ribassisti, è salito del 29%, la miglior performance dal ‘92. Tardivamente, USA e Gran Bretagna stanno cercando di porre limiti alle vendite allo scoperto, che accelerano le perdite sui corsi azionari (11 trilioni quest’anno, si prevede: quasi il PIL degli Stati Uniti); ma contemporaneamente, una quantità di Paesi, dall’India all’Indonesia, hanno allentato le redini alle vendite short, perchè i più ardimentosi approfittino dell’ultimo saccheggio, a spese del mondo intero. E’ l’altro bello della globalizzazione senza regole globali.

«I venditori allo scoperto sono importanti nell’ecosistema del mercato finanziario: come i leoni che inseguono un branco, ammazzano solo gli animali più deboli. I ribassisti prendono di mira aziende la cui valutazione è legittimamente discutibile»: così sanciscono alla Georgetown’s McDonough of Business di Washington. E’ ancora l’ideologia liberista allo stato puro: darwinismo da preda, la spietata sopravvivenza del più forte.

Qualche dubbio albeggia nel britannico Roger Lawson, direttore della UK Shareholder’s Association (Società degli Azionisti): «Il mercato è diventato un posto per speculatori, non investitori. Questi signori stanno facendo grassi profitti. Bisogna limitare lo ‘short’, altrimenti diventa manipolazione dei mercati». Bella scoperta.Oltre a Fannie e Freddie, i leoni (o sciacalli) dello «shorting» stanno puntando anche grosse aziende brasiliane: in Brasile le azioni in prestito sono cresciute del 22% da un mese all’altro. E’ chiaro che sentono l’odore del sangue, hanno identificato le prede la cui agonia trascinerà il mondo nell’abisso; milioni di detentori di azioni pagheranno il prezzo, insieme a milioni di contribuenti. E di lavoratori.Schwarzenegger, governatore della California, ha ridotto le paghe dei 200 mila impiegati dello Stato, per mancanza di fondi: ora quegli Stati ricevono 6,24 dollari l’ora poco più di 4 euro). E i risparmiatori, visto che ce ne sono ancora persino in USA?

Vediamo: le banche americane hanno 6,84 trilioni di dollari in depositi, ossia 6.400 miliardi; ma in realtà, tutte insieme hanno in cassa, per i clienti che vogliono ritirare i quattrini, solo 273,7 miliardi. dove hanno messo i soldi ricevuti?Ma è ovvio: in titoli confezionati coi subprime, in obbligazioni Fannie e Freddie, in «derivati» e in «prodotti strutturati» nelle infinite varietà inventate dall’ingegneria finanziaria. Non in idustrie e in attività economiche reali; hanno giocato i soldi dei depositanti in queste cose, il cui valore oggi è «legittimamente discutibile», a dir poco.

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1) Alexis Xydias, «Investors worlwide are betting more than $ 1 trillion on collapse in American stock prices», Bloomberg, 24 luglio 2008.


Le terrificanti somiglianze tra il 1929 e il 2008
di Will Bagley – The Prairie Dog Press – 5 Luglio 2008
Tradotto per www.comedonchisciotte.org da ALCENERO

Vedere Wall Street e il mercato immobiliare americano crollare negli scorsi 10 mesi non ha ispirato molta fiducia nella nostra meravigliosa economia del libero mercato o nei pirati che la gestiscono. Avendo da poco lottato con cause e conseguenze della Grande Depressione ho trovato l'attuale naufragio ecomomico non semlicemente sinistro, ma realmente terrificante. Il lavoro di storico è qualcosa di scoraggiante. Nessuno sembra imparare alcunchè dalla storia - questo è abbastanza palese - ma noi continuiamo a sperare.

Essendo uno storico dell'america occidentale del 1900 ebbi un lavoro su misura per me quando un'amica mi chiese di scrivere una biografia di suo padre -- il giudice Wilson McCarthy.Herbert Hoover nominò McCarthy a rappresentare i democratici occidentali nel consiglio di amministrazione della Reconstruction Finance Corporation [Azienda per la Ricostruzione Finanziaria n.d.t.], la sola risposta di Hoover al peggior disastro economico della storia americana. La RFC tentò di riportare liquidità nell'economia ricavando contante dai materassi che vi erano sotto e rimettendolo in circolazione.

L'anno scorso dovetti cercare il termine "liquidità" nel vocabolario per ricordarmene il significato. Oggi ho potuto scegliere tra 23.2 milioni di segnalazioni di Google per saperne di più. Mark Twain disse che "La storia non si ripete, ma rima con se stessa", le somiglianze tra le condizioni economiche del 1929 e quelle del 2008 fanno rima come 'hickory -- dickory -- dock'. Già nel 1935 l'"organizzatore di cervelli" Rexford Tugwell identificò la causa alla radice della Grande Depressione nell'incapacità di "passare una porzione onesta della spettacolare produttività degli anni '20" tanto ai lavoratori quanto ai consumatori.

Una duratura depressione agricola, la distribuzione della ricchezza fortemente iniqua, un massiccio debito del consumatore, tagli alle tasse per i ricchi e quella che lo storico Robert S. McElvaine chiamò "la selvaggia speculazione dell'orgia di avidità del decennio", tutte resero le cose peggiori. Questa bancarotta dalle diverse sfaccettature portò alla Grande Depressione, ma una massiccia corruzione nelle aziende e l'incompetenza della classe di governo sono dei fattori sottostimati, ma familiari, nella creazione della catastrofe.

I sostenitori del libero mercato lottano per spiegare in altro modo il crollo dell'economia virtualmente priva di regole dei Ruggenti Anni 20. Nel 1963 l'economista Milton Friedman spiegò il fallimento del laissez faire come "la tragica testimonianza dell'importanza delle forze monetarie." I discepoli di Adam Smith diedero la colpa agli organismi regolatori, in particolare al tentativo da parte del Board della Federal Reserve di regnare nella speculazione di Wall Street.Ai festeggiamenti per i 90 anni di Milton Friedman nel 2002 l'allora membro del board della Fed Ben Bernanke disse: "Avevi ragione, siamo stati noi. Ci dispiace davvero". Mi chiedo di cosa si dispiaccia ora il Presidente della Fed Bernanke.

Herbert Hoover disse a un giornalista che l'unico problema del capitalismo sono i capitalisti: "Sono troppo dannatamente avidi". La Depressione mostrò che aveva ragione. "Dobbiamo tutti fare la nostra parte" disse J. P. Morgan, ma il grande finanziere non pagò un solo nickel di tasse federali sul reddito nel 1930, e né lui né i suoi partner pagarono alcunché nel 1931 e nel 1932.

Il Segretario al Tesoro Ogden Mills assegnò alle proprietà di suo padre 6 milioni di dollari di esenzioni con quella che è ora chiamata "tassa della morte" [death tax]. Il Chicago Tribune chiese ai cittadini di pagare tutte le loro tasse, mentre il suo editore, il tycoon Robert R. McCormick, pagò solo 1515 dollari. Il banchiere investitore S.J.T. Strauss pagò la cifra strabiliante di 18 dollari di tasse. Nello stesso momento, durante i primi mesi del 1932, i ricchi americani mandavano 100 milioni di dollari in oro verso l'Europa ogni settimana.

Da sopravvissuto di quello che chiamò "the Great Slump," [Il Grande Crollo n.d.t.] il grande storico europeo Eric Hobsbawm trovò quasi impossibile comprendere come l'ortodossia del libero mercato, così ovviamente screditata nel 1933, "sia tornata ancora una volta a presiedere il periodo di depressione globale dei tardi anni '80 e degli anni '90".

Hobsbawm credeva che questo strano fenomeno evocasse "l'incredibile brevità di memoria tanto dei teorici quanto dei praticanti dell'economia." Mostrava anche perchè la società avesse bisogno degli storici che agissero come "promemoria professionisti di ciò che i loro concittadini desiderano dimenticare".

Ci sono dfferenze tra oggi e il 1929; per esempio il dollaro era in ottima forma e il deficit era praticamente inesistente. Dunque perché preoccuparsi? Gran parte degli storici ritengono che la storia non si ripete. Sembra solo così.

giovedì 24 luglio 2008

USA-Iraq: a mani vuote

Il piano degli Stati Uniti di ottenere entro Luglio la firma del governo iracheno sull’accordo economico-militare - il SOFA, Status of Forces Agreement, che sancirebbe ufficialmente la presenza permanente di basi USA - e di dar luogo alle elezioni provinciali nel prossimo Ottobre, sta fallendo miseramente.

Questi obiettivi non saranno certamente centrati, perlomeno non nei tempi e nei contenuti previsti dall’amministrazione Bush.

Il “successo” degli USA in Iraq prosegue quindi a gonfie vele…


Iraq, I kurdi (e i loro alleati) silurano le elezioni provinciali
di Ornella Sangiovanni - Osservatorio Iraq - 24 luglio 2008

Le elezioni provinciali si allontanano. Dopo che ieri il presidente iracheno Jalal Talabani aveva respinto la legge elettorale approvata il giorno precedente dal Parlamento iracheno senza il voto dei deputati kurdi, l’intero Consiglio di presidenza si è rifiutato di ratificare il provvedimento.Talabani, che è kurdo, e uno dei suoi due vice - lo sciita Adel Abdel Mahdi, esponente di spicco del Consiglio Supremo islamico iracheno (ex SCIRI), uno dei due partiti sciiti della coalizione di governo – d’accordo sul fatto che la legge non andasse controfirmata, hanno telefonato all’altro vice presidente – il sunnita Tariq al Hashimi, leader dell’Iraqi Islamic Party , che si trovava in Turchia. Ad al Hashimi, comunque a quel punto in minoranza, non è rimasto che adeguarsi.

Il presidente iracheno aveva obiettato a un voto parlamentare che aveva visto l’abbandono dell’aula per protesta del gruppo dei deputati kurdi (assieme ad alcuni sciiti). Anche se tecnicamente valida dal punto di vista del numero legale, l’approvazione del provvedimento con 127 voti favorevoli (dei 142 presenti, su un totale di 275 parlamentari), e in assenza di una intera fazione politica - era stata bollata da Talabani come irresponsabile. Il capo dello Stato aveva inoltre criticato la decisione del presidente dell’Assemblea di ricorrere al voto segreto, invece di cercare un accordo fra le diverse forze.

Ora le legge torna in Parlamento, dove è rimasto pochissimo tempo per modificarla: sempre nell’ipotesi – assai improbabile – che i deputati dei vari schieramenti riescano ad arrivare a un compromesso.

Il 1 agosto inizia la pausa estiva dei lavori, e l’eventualità di un rinvio del voto provinciale, che era stato fissato per il 1 ottobre (una data che appariva sempre più a rischio), è praticamente ormai realtà.La questione ora non è se rinviare le elezioni, ma di quanto.La Commissione Elettorale irachena aveva già proposto, pochi giorni fa, di spostare il voto al 22 dicembre, avvertendo che non c’era più tempo per i preparativi necessari, anche se la legge elettorale fosse stata approvata. Adesso anche questa data comincia ad apparire ottimistica.

Ieri, prima che il Consiglio di presidenza annunciasse la sua decisione di rinviare la legge al Parlamento, un funzionario della commissione – coperto dall’anonimato - aveva detto che, se il provvedimento fosse stato respinto, si sarebbe andati al 2009. Anche secondo lo sceicco Khalid al-Attiya, uno dei due vice presidenti del Parlamento, sarebbe ormai improbabile che si riesca a votare prima del prossimo anno.

A Washington, che su queste elezioni provinciali puntava molto, la preoccupazione per un rinvio a tempo indeterminato è tale che ieri, dopo il rifiuto di Talabani, si è mossa persino la Casa Bianca - per chiedere agli iracheni di tenere le elezioni entro fine 2008.

Il nodo di tutta la vicenda, apparentemente, è stata la questione di Kirkuk. Ma in Iraq, tutto è sempre meno semplice di come (non) appare.
In molti queste elezioni provinciali non le volevano, o le volevano al più tardi possibile. Sembra proprio che siano riusciti nel loro intento.



Negoziati Usa-Iraq, Addio SOFA, si lavora all’accordo “ponte”
di Ornella Sangiovanni - Osservatorio Iraq - 14 luglio 2008

Adesso la notizia è sul Washington Post. Sia i negoziatori iracheni che quelli statunitensi avrebbero abbandonato le speranze di concludere un accordo globale – e a lungo termine – che definisca la presenza militare Usa in Iraq, non solo entro la scadenza del 31 luglio, ma prima del termine del mandato presidenziale di George W. Bush.Dunque, addio Status of Forces Agreement (SOFA), almeno per ora. La palla passerà, eventualmente, al prossimo presidente – che sia il Repubblicano John McCain oppure il Democratico Barack Obama.

Le fonti del quotidiano statunitense, da sempre molto ben introdotto nell’establishment di Washington, sono “alti funzionari” Usa – rigorosamente, e ovviamente, coperti dall’anonimato, secondo i quali, al posto del SOFA, ora i due governi starebbero lavorando a un documento “ponte”, più limitato quanto a portata e arco temporale, che consentirebbe agli Stati Uniti di mantenere una presenza militare in Iraq dopo il 31 dicembre – quando scadrà il mandato Onu che autorizza la cosiddetta “Forza multinazionale”.

Nonostante il presidente Bush abbia più volte respinto al mittente tutte le richieste di stabilire un calendario per il ritiro delle truppe dall’Iraq, ora “stiamo parlando di date”, ammette “un funzionario vicino ai negoziati”.

Alla base ci sarebbero le pressioni dei leader iracheni, i quali “ci stanno dicendo tutti la stessa cosa”: ovvero che hanno bisogno che nell’accordo, patto, o memorandum di intesa come chiamar si voglia, ci sia qualcosa che assomigli a una scadenza – perché, dicono, “gli iracheni vogliono sapere che le truppe straniere non saranno qui per sempre”.

Fino al 2009

Quello che si sta discutendo è un accordo che probabilmente si limiterà al 2009, e dovrebbe includere un “orizzonte temporale” (secondo l’espressione utilizzata da alcuni leader iracheni, fra cui il vice premier Barham Salih), con obiettivi specifici per il ritiro delle forze Usa da Baghdad e da altre città, nonché da complessi come l’ex palazzo presidenziale di Saddam Hussein, all’interno di quella che ora è la cosiddetta Green Zone, e che attualmente ospita l’ambasciata statunitense.

A detta delle fonti Usa, il riferimento alle date sarà probabilmente accompagnato da avvertimenti sulla capacità delle forze irachene di operare indipendentemente, ma tutti concordano sul fatto che sarà inevitabile inserirlo: perché senza di esso è assai dubbio che la parte irachena firmi.

Il Primo Ministro Nuri al-Maliki e i suoi alleati di governo sono infatti sottoposti a forti pressioni nel Paese, non solo da parte delle forze di opposizione (né solo da parte di ambienti politici), e vogliono che l’accordo con Washington sia formulato in modo da sottolineare le condizioni in base alle quali gli americani se ne andranno dall’Iraq, piuttosto che quelle in base alle quali rimarranno – dice uno dei funzionari che ha parlato col Washington Post.

Salvare la faccia a Maliki?

L’idea – spiega - è quella di rendere la vita un po’ più facile al premier iracheno, e togliere argomenti ai suoi oppositori, trovando una nuova formulazione, che chiuda la bocca a tutti quelli che lo accusano di negoziare una presenza militare americana permanente in Iraq.Ci sono comunque ostacoli seri.

Il principale oggetto di contenzioso tuttora irrisolto riguarda l’immunità nei confronti della legge irachena per i militari Usa e il personale del Dipartimento alla Difesa.
Qui la faccenda sarebbe veramente spinosa, e le posizioni inconciliabili, dice un altro funzionario statunitense “vicino ai negoziati”. Anche perché gli americani su questo non mollano.

E tuttavia, perfino qui una formulazione che parli di scadenze potrebbe aiutare, spiega il funzionario, perché “un conto è l’immunità se nella mente degli iracheni si tratta di un accordo che preveda le truppe Usa per sempre” - diverso invece, “se questi accordi relativi all’immunità sono temporanei perché le forze Usa sono temporanee”.

Che tradotto dal linguaggio diplomatico significa: stiamo cercando di salvare la faccia a Maliki e fregare gli iracheni.
Anche su altre questioni controverse sarebbero stati raggiunti compromessi “per lo più cosmetici”, scrive il quotidiano statunitense.

Fra questi, la formazione di commissioni miste Usa-Iraq per la supervisione di tutte le operazioni unilaterali Usa – sia quelle che riguardano operazioni di combattimento sia quelle relative all’arresto di cittadini iracheni.

Il tutto per dare “una vernice di controllo iracheno”: per questo, ad esempio, Washington avrebbe acconsentito a cedere, rinunciando all’immunità per i cosiddetti contractors.

Insomma, entrambe le parti riporrebbero le loro speranze nel nuovo accordo che si sta negoziando- che a Washington chiamano "protocollo operativo temporaneo", e a Baghdad "memorandum di intesa".

“Per non trasformarci in una zucca il 31 dicembre”

I negoziati per un accordo a lungo termine dovrebbero continuare – almeno così dicono i funzionari dell’Amministrazione Usa. Tuttavia, con la scadenza del mandato Onu che incombe, sottolinea uno di loro, “abbiamo bisogno di un ponte che ci consenta di avere una qualche autorità per continuare le operazioni”. “Per non trasformarci in una zucca il 31 dicembre”, dice il funzionario, utilizzando la similitudine della favola di Cenerentola. Né Washington né Baghdad vorrebbero una proroga del mandato delle Nazioni Unite.

L’Iraq desidera soprattutto non essere più soggetto al Capitolo VII della Carta dell’Onu – che lo definisce una “minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”, con tutta una serie di limiti alla sua sovranità.
Gli Stati Uniti ritengono che una proroga limitata di detto mandato non farebbe che rinviare la necessità di un accordo bilaterale con il governo di Baghdad, e potenzialmente lascerebbe le loro truppe in Iraq “con le spalle al muro”.

Ma un protocollo temporaneo, secondo i funzionari Usa, farebbe felice anche Maliki, in quanto gli permetterebbe di aggirare il Parlamento – dove una opposizione contro un accordo a lungo termine con Washington è forte, e dove è improbabile che riuscirebbe ad avere la maggioranza dei due terzi necessaria alla ratifica di un SOFA.
"Sta cercando di capire, proprio come abbiamo fatto noi, come si può configurare un accordo bilaterale e fare in modo che sia legalmente vincolante”, dice uno dei funzionari che hanno parlato con il Washington Post, “ma senza passare per l’organo legislativo".

La smentita di Baghdad

Per il premier – e per il governo – iracheno non è proprio un ritratto lusinghiero – e infatti da Baghdad è arrivata rapidamente una smentita. Il consigliere per la sicurezza nazionale, Muwaffaq al Rubai’e – lo stesso che pochi giorni fa aveva detto: “Non accetteremo nessun accordo se non conterrà anche un calendario per il ritiro delle forze Usa” – ha liquidato l’articolo del Washington Post, dicendo che “non coglie la sostanza” dei negoziati in corso, e ha aggiunto che Iraq e Stati Uniti sperano ancora di arrivare a un accordo entro il 31 luglio.

"Stiamo lavorando sodo per arrivare a questa scadenza, e penso che ci sia ancora speranza”, ha detto ieri al Rubai’e ai microfoni della CNN, aggiungendo che le due parti stanno facendo buoni progressi.