giovedì 30 aprile 2009

Crisi economica: il falso ottimismo contraddetto dai dati reali

Negli ultimi giorni è in corso un tentativo, piuttosto in sordina e quindi disperato, di spargere ottimismo sul futuro che attende in particolar modo l'Europa e gli USA.

Ieri ad esempio ci è stato detto che ad aprile, per la prima volta dal maggio 2008, la fiducia di imprese e consumatori europei è tornata a salire. Ciò è quanto emergerebbe dagli indicatori della Commissione Ue (Bci ed Esi) che per Bruxelles però restano comunque ad un livello "molto basso", anche in seguito al vero e proprio crollo registrato nel mese di febbraio.
Tra gli Stati membri che guidano il rimbalzo ci sarebbe l'Italia, insieme con Regno Unito, Olanda e Spagna; mentre un aumento della fiducia molto più moderato si registra in Francia e Germania.

Sul fronte del Bci, l'indicatore che misura le aspettative dei manager delle imprese della zona euro, la Commissione Ue sottolinea come, nonostante i timidi segnali di ripresa, ad aprile si faccia sentire ancora il peso della crescita negativa della produzione industriale a marzo, dopo il crollo di febbraio. Produzione industriale che per Bruxelles "dovrebbe rimanere chiaramente bassa" anche in aprile.
Quindi non si capisce su che basi dovrebbe giustificarsi questo cosiddetto "aumento della fiducia".

Ma per Bruxelles il rimbalzo del Bci riflette comunque "un miglioramento della situazione generale", anche se in realtà sembrerebbe esserci solo un po' meno pessimismo tra i manager, che d'altronde non stanno ancora rischiando ne' il licenziamento nè la cassa integrazione e il lauto stipendio continuano a prenderlo.

Per quanto riguarda invece l'Esi, che misura la fiducia di imprese e consumatori di tutti e 27 i Paesi dell'Ue, l'aumento registrato in aprile (3 punti e mezzo in Eurolandia e 2 punti e mezzo nell'Ue-27) sarebbe di fatto il primo risultato di segno positivo dopo due anni, se si esclude un timidissimo aumento registrato nel maggio 2008.

Sprizza ottimismo anche l'indicatore che misura la fiducia nel settore dei servizi finanziari, che "è fortemente migliorato" sia nella zona euro che nell'intera Ue, rispettivamente con un balzo di ben 16 ed 11 punti.

Si tratta comunque di messaggi che sperano di infondere ottimismo facendo leva esclusivamente sulla psiche umana, essendo infatti contraddetti dai dati reali.

Ad esempio, è notizia di ieri che l'economia USA si è contratta più del previsto nel primo trimestre. Il Pil arretra del 6,1%, contro un'attesa contrazione del 4,9%.
Anche l'export USA è in forte calo e scende del 30% rispetto al quarto trimestre, l'arretramento più forte dal 1969, dopo il -23,6% dei precedenti tre mesi. Gli investimenti aziendali tracollano del 37,9% e quelli in immobili residenziali calano del 38%. Salgono invece i consumi, ma di un timido 2,2%, dopo essere crollati nel secondo semestre del 2008.

Per la FED le previsioni economiche sono migliorate da marzo, ma continueranno a restare deboli ancora per i mesi a venire. La FED infatti ha deciso di lasciare invariato il livello dei tassi d'interesse, compresi nel range tra lo zero e lo 0,25%, e resteranno bassi ancora per un lungo periodo. Ha confermato inoltre il piano di riacquisto di titoli di Stato USA per complessivi 300 miliardi di dollari, sperando così di garantire liquidità al sistema economico.

E' chiaro quindi che si sta cercando in tutti i modi d'infondere ottimismo nella mente delle persone, ma i dati reali dicono l'opposto.

A proposito, oggi l'Istat ha comunicato che "a febbraio l'occupazione nelle grandi imprese ha registrato una variazione negativa dell'1% al lordo della Cassa integrazione guadagni e del 3,2% al netto della Cig". Il raffronto è sullo stesso mese del 2008.
Quindi, senza la cassa integrazione aumentata del 320% su base annua, l'occupazione è calata del 3,2%. Il calo tendenziale più forte dal gennaio 2001.

E sempre secondo l'ISTAT, "la retribuzione lorda per ora lavorata nel totale delle Grandi imprese ha registrato a febbraio un aumento congiunturale (al netto della stagionalità) dell'1,2% rispetto al mese precedente ed un calo tendenziale, misurato sull'indice grezzo, del 2,7%".
Traduzione in soldoni: sono diminuiti i salari.

Ricapitolando: cresce la disoccupazione, diminuiscono i salari ma l'ottimismo e la fiducia sarebbero in crescita.

Qualcosa non torna...

FMI: quelle tre parole che smontano l'illusione di una ripresa a portata di mano

di Emilio Colombo - www.ilsussidiario.net - 30 Aprile 2009

Il Fondo Monetario Internazionale ha appena rilasciato due importanti rapporti. Il World Economic Outlook e il Global Financial Stability Report. Essi analizzano in modo approfondito lo stato dell’economia mondiale e dei mercati finanziari e formulano importanti previsioni a medio termine.

Nonostante gli argomenti trattati siano numerosi possiamo dire che dai due rapporti emergono tre considerazioni generali.

1) La dimensione e la profondità della crisi economica sono superiori alle aspettative. Le stime di crescita formulate meno di tre mesi fa dallo stesso Fmi per quasi tutti i paesi avanzati e non, sono state fortemente ridotte. In Italia è prevista una contrazione del Pil nel 2009 del 4,4%, solo tre mesi fa la stima era di -2,1%; in modo analogo la crescita prevista per la Germania passa da -2,5 a -5,6%, per il Giappone da -2,6 a -6,2%, per gli Usa da -1 a -2,8%. Allo stesso tempo è prevista una timida ripresa dell’economia mondiale nel 2010, ma anche in questo caso le stime di crescita sono fortemente ridimensionate e sono inferiori all’1% in tutti i paesi avanzati.

2) Il costo diretto dell’aggiustamento del sistema è estremamente rilevante. La stima di 4.000 miliardi di dollari è circa 4 volte la stima iniziale effettuata alla fine dello scorso anno. Il valore è enorme: per dare un ordine di grandezza è pari a circa il 6,5% del Pil mondiale. Solo negli Stati Uniti il costo delle svalutazioni degli asset tossici e delle ricapitalizzazioni bancarie ammonta a quasi il 20% del Pil.

3) Il combinato disposto dell’aggiustamento dei mercati finanziari e della recessione avrà un impatto sulle finanze pubbliche dei paesi avanzati e non senza precedenti. Nel 2009 gli Usa si stima avranno un deficit di bilancio superiore al 13% del Pil, il Regno Unito di quasi il 12% . Ancora più preoccupanti sono le implicazioni per il debito pubblico. Tra il 2007 e il 2014 il debito dei paesi avanzati aumenterà di circa il 30%. Negli Usa passerà dal 63 al 99%, nel Giappone dal 195 al 223% in Italia dal 105 al 120%. In media nell’area dell’Euro il rapporto debito/PIL passerà dal 65,8% del 2007 al 91,4% del 2014.

Nonostante nel nostro paese il sistema bancario sia stato colpito in misura meno rilevante dalla crisi, colpisce la forte crescita del debito italiano, che è interamente da imputare alla profonda contrazione economica da una parte e al peso sulle finanze pubbliche degli ammortizzatori sociali fortemente sollecitati in occasione di prospettive economiche così cupe (il tasso di disoccupazione è atteso salire dal 6 al 10% nell’arco di tre anni).

Lo scenario tratteggiato dal Fmi è dunque assai preoccupante e contrasta con i timidi segnali positivi che sono emersi negli ultimi giorni dai mercati finanziari. Molti infatti sostengono che la fase di turbolenza critica dei mercati finanziari è oramai alle spalle e che si iniziano ad intravedere i segnali di ripresa. I rapporti del Fmi ci riportano invece a una realtà ben più dura. Il vero problema che si presenta ora è che, una volta passata la paura del collasso del sistema finanziario internazionale, dobbiamo fronteggiare i costi dell’aggiustamento, realmente ingenti.

I dati citati precedentemente sono eclatanti: i paesi avanzati hanno pagato il costo della crisi emettendo una quantità enorme di debito. Le implicazioni di tutto ciò sono molteplici; mi limiterò ad accennarne a due, rilevanti per il nostro paese.

In primo luogo la forte domanda di liquidità e la scarsissima propensione al rischio che caratterizza oggi gli investitori è destinata nei prossimi mesi a esaurirsi. Quando ciò avverrà nel mercato vi sarà un considerevole eccesso di offerta di titoli di debito. Il mercato inizierà ad essere maggiormente selettivo e ad attribuire prezzi diversi ai diversi titoli.

Per un paese come l’Italia le implicazioni non sono irrilevanti: dovremo infatti collocare il nostro debito in un mercato in cui vi sarà una offerta molto più elevata di titoli di qualità quali quelli emessi dal governo tedesco, inglese o americano. Il rischio di essere penalizzati da spread crescenti non può essere trascurato.

In secondo luogo occorre considerare che il debito non costituisce altro che un trasferimento intergerenazionale di risorse. In un paese come il nostro caratterizzato già da un elevato livello di indebitamento, da un rilevante problema pensionistico e da un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa non possiamo non porci il problema dell’onere che stiamo mettendo sulle spalle delle generazioni future.

Sostenere i costi della crisi emettendo nuovo debito non può non essere accompagnato da una riflessione forte e chiara su quali siano le politiche più idonee ed efficaci per mettere le generazioni future nelle migliori condizioni per far fronte agli oneri che gravano su di loro. La soluzione della crisi passa dunque anche da politiche quali la riforma scolastica e universitaria e soprattutto da un sistema fiscale che non penalizzi le famiglie come quello attuale.

È forte la tentazione di pensare che le misure tampone dettate dell’emergenza finanziaria possano aver risolto il problema. In realtà occorre rendersi conto che hanno sì evitato il collasso del sistema finanziario, ma ne hanno anche differito i costi nel tempo. Il vero esame di maturità sarà costituito dalle politiche strutturali che riusciremo a implementare per gestire la seconda fase della crisi. Se ci riusciremo potremo veramente dirci un paese avanzato.


Ripresa e ottimismo? C'è chi dice no...

di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 28 aprile 2009

Ci mancava solo il timore per una pandemia globale di influenza suina a deprimere ulteriormente le Borse e i mercati, spaventati dal fatto che questa emergenza sanitaria possa rivelarsi un terrificante volano per le incertezze che ancora regnano sovrane rispetto alle cifre e allo stato di salute reale di istituzioni finanziarie e governi.

Già, perché se il Fondo Monetario Internazionale ha detto molto, bisogna ammettere che non ha detto tutto. Ci ha detto, ad esempio, che le perdite totale dovute all’infezione di subprime e assets tossici vari toccheranno i 4mila miliardi di dollari (dopo stime iniziali che parlavano di 300, poi 600, poi timidamente 1000 e via in un crescendo quasi da rabdomante). Bene, ammesso che quella cifra non debba essere ulteriormente rivista al rialzo.

Non ci dice, però, che un fondo speculativo di prim’ordine come Hayman Advisers sta scommettendo proprio in questi giorni - e pesantemente, molto pesantemente - su un’ondata di bancarotte e ristrutturazioni di Stati come non si vedeva dal 1934, quasi tutte concentrate in Europa, il vero fulcro del leverage dissennato e dei conti fuori controllo. A rischio sono quegli Stati che non possono stampare moneta, che non hanno una moneta propria (l’Irlanda in testa, ma anche il disastrato Club Med di cui fa parte anche l’Italia) e l’Europa dell’Est, aree in cui si sono concentrate in massa i prestiti dei paesi dell’eurozona.

Per la divisione studi di Commerzbank, «ogni asta di bond in Europa si sta tramutando in un evento a rischio». D’altronde lo Stato dell’arte globale è sotto gli occhi di tutti, anche se il Fmi tende a nascondere certe cifre scomode. Gli assetti sono cambiati, Cina, Russia, i paesi produttori di petrolio e gli emerging markets asiatici non hanno più - come avevano negli anni della bolla - 1.3 miliardi di dollari di riserve da riciclare in buoni del tesoro Usa o bond europei.

Le banche centrali hanno perso 248 miliardi di reserve scendendo a quota 6.7 trilioni negli ultimi sei mesi. Il Venezuela, da solo, ha visto dimezzare le proprie reserve di un terzo a causa del crollo del prezzo del petrolio. La Cina, poi, ha deciso di investire il suo surplus mensile di 40 miliardi di dollari in infrastrutture interne pesanti - leggi miniere - invece che nell’enorme mercato del debito Usa.

Insomma, qualcuno vorrebbe danzare al ritmo della musica di sempre anche se questa è cambiata trasformandosi da un walzer e un de profundis. A New York si scommette sui default e si punta il dito sul cocktail formato da alto debito pubblico e dalle debolezze ancora da emergere di istituti come Royal Bank of Scotland, Hypo Real e Fortis, sigle che vedono giacere nei propri libri prestiti sovrani di ultima istanza.

Insomma, c’è ben poco da stare allegri. Tanto più che nel silenzio pressoché generale in America ben 20 banche non hanno superato gli stress-test imposti dalla Fed e anche le grandi istituzioni che invece lo hanno fatto non hanno messo a disposizione del pubblico alcuni particolari interessati riguardo reale leva di leverage, contenuto nei book, assets diversificati e - come nel caso di Goldman Sachs - il fatto di aver cambiato regime fiscale essendosi tramutata in banca ordinaria e non più d’affari quindi legittimata a non ascrivere a bilancio le perdite pregresse.

Insomma, occorre tenere gli occhi aperti e informarsi il più possibile attraverso fonti indipendenti. Le migliori sembrano essere gli ex economisti del Fmi, i quali sono diventati tali proprio perché tendevano a non mascherare o imbellettare le cifre e dire la verità. Uno di questi è Ken Rogoff, ex economista del Fondo, secondo il quale siamo alla vigilia di «uno spasmo di default» ciclico, quasi schumpeteriano, dovuto alla perdita totale di fiducia dei detentori di bond: fu così nel 1830, fu così nel 1930. Insomma, per molti analisti non a libro paga di istituzioni statali o finanziarie siamo alla vigilia di una bancarotta globale che cambiare del tutto gli equilibri, come quella di Filippo II di Spagna che spianò la strada al potere finanziario olandese e orangista.

Nessuno però sembra dare troppo credito a questa interpretazione e ancora si eccita con i piani di Obama, le promesse ridicole del G20 o l’euforia isterica della Borsa: attenzione, perché il mondo rischia di trasformarsi in un G2 formato da Usa e Cina e questo duopolio appare pacifico solo per convenienza reciproca nel breve termine. Poi sarà Guerra. Senza esclusione di colpi, da nessuna delle due parti. Ormai, la crisi è geopolitica.


La Cina prepara la sua fuga dal dollaro?

di Ilvio Pannullo - Altrenotizie - 29 Aprile 2009

La crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti ha provocato e continuerà a provocare il crollo degli indici azionari. Nonostante la perdita massiccia di milioni di posti di lavoro e di una quantità ancora non quantificabile di valori monetari, le follie di Wall Street potrebbero, tuttavia, provocare danni geopolitici ancora maggiori. Tutto ruota intorno alla gigantesca esposizione del governo cinese nei confronti del sistema statunitense: ammontano infatti a ben 1.946 trilioni di dollari le riserve estere della Cina, la maggioranza delle quali è denominata in dollari. All’incirca mille sono poi i miliardi di dollari prestati dalla Cina agli Usa, in qualità di primo sottoscrittore di buoni del Tesoro americani. Queste sono le cifre che raccontano di un’economia americana in mano alla volontà cinese: se fosse infatti richiesta al Ministero del Tesoro americano la restituzione dell’intero prestito fatto, il paese sarebbe in bancarotta.

Fino ad oggi una simile ipotesi non sarebbe stata in piedi, vista l’incondizionata fiducia nutrita dai governi di tutto il mondo nel dollaro e nella sua solidità. La situazione, tuttavia, è cambiata irrimediabilmente. Parlando delle dinamiche economiche inerenti alla crisi dei mercati azionari, infatti, quello che volutamente non si considera è la dimensione numerica del problema. Secondo la Banca per i Regolamenti Internazionali, al 31 dicembre 2007, il valore nominale di tutti i contratti derivati era di 596.004 miliardi di dollari e, ad oggi, sulla base delle dinamiche di crescita esponenziale degli ultimi anni, tale valore si stima presumibilmente non inferiore ai 700.000 miliardi di dollari.

Una cifra incomprensibile per qualunque persona che si guadagni da vivere onestamente. Partendo da questo dato ben si comprende come già i 700 miliardi di dollari del piano Paulson prima e le vagonate di miliardi del piano Obama adesso siano ben poca cosa. In pratica nulla di più che un disperato tentativo di svuotare il mare con un secchiello.

Se da una parte, infatti, tutti i soldi messi sul piatto rappresentano un’enormità rispetto ad altre voci di spesa del bilancio americano, ad esempio se paragonate al totale del deficit del bilancio federale americano del 2007 (“appena” 162 miliardi di dollari, l’1,2 % del Pil Usa), dall’altra, nonostante tutto, il mare di miliardi di dollari stanziati sono, allo stesso tempo, un’inezia rispetto alla valanga di carta straccia in circolazione. Solo i famigerati CDS (credit default swap: assicurazioni sulle insolvenze di credito. ndr) alla fine dello scorso anno ammontavano a 57.894 miliardi di dollari, circa il 120 % di tutto il Pil mondiale, secondo i dati della Banca Mondiale. La valanga di liquidità cartacea è dunque più alta della montagna d’acqua di uno tsunami. Come il maremoto del 26 dicembre 2004, anche gli avvenimenti di questi giorni travolgeranno molti e porteranno distruzione. Questo è quanto desiderava chi ha fomentato o anche solo evitato di lanciare l’allarme per l’imminente catastrofe finanziaria.

Fino a qui la storia. Quello che ora interessa, tuttavia, sono le conseguenze che una simile situazione provocherà negli equilibri geopolitici internazionali, considerando che il dollaro è stata, fino ad oggi, la valuta di riserva mondiale, la moneta, cioè, attraverso la quale si rendeva possibile lo scambio di beni e servizi tra tutti i paesi rientranti nell’area d’influenza anglo-americana. Quello che si è definito - a ragione - come l’impero monetarista americano, l’imperialismo del dollaro.

Questo sistema, che ha permesso agli Stati Uniti di vivere secondo standard qualitativi ben al di là delle possibilità della nazione perché ben al di là dell’umana ragionevolezza, ora sta implodendo su se stesso. Più dollari vengono stampati per svuotare l’oceano della crisi, infatti, meno varranno i dollari in circolazione e gli altri attori della scena mondiale non si possono più permettere di stare a guardare perché in ballo vi è il futuro dei rapporti commerciali internazionali. Da qui l’interrogativo: cosa mai potrebbe sognare la Cina, catturata - a sentire Washington - nella trappola del dollaro?

Se ascoltiamo i leader americani e le loro schiere di esperti dei media, la Cina sogna non solo di restare prigioniera, ma anche di intensificare la durezza della sua condizione di prigionia acquistando sempre più T-Bonds (i titoli del debito americano) e dollari. In realtà, tutti sanno cosa sognano i prigionieri. Sognano di fuggire, naturalmente: di uscire dalla prigione.

Gli uomini del gruppo Europe2020, nell’ultimo numero del loro report (GEAB 34 parte I) non hanno dubbi: Pechino sta ora costantemente cercando di trovare il modo di liberarsi, prima possibile, della montagna di assets "tossici" che sono ora diventati i T-Bond e i dollari. Va detto, per onestà del vero infatti, che in un qualsiasi racconto avente ad oggetto una fuga, i prigionieri non passano certo il loro tempo annunciando che si stanno preparando per l’evasione. In realtà, al contrario, tendono ad evitare di sollecitare la vigilanza delle loro guardie.

In questa prospettiva, secondo il team LEAP/Europe2020, la dichiarazione cinese del 24 Marzo, che chiedeva la sostituzione del dollaro con una valuta di riserva internazione, era da interpretarsi sia come un "saggiare il terreno" sia come un avvertimento: un sondaggio per valutare le forze in campo, in particolare all'interno del G20, quando si tratta di spostarsi nell'era post-dollaro, ed un avvertimento costruttivo o distruttivo (in funzione della reazione all'idea precedente) inviato ai vari protagonisti globali.

“Un giocatore responsabile (e Pechino è uno di questi) deve inviare - si legge nel report - segnali silenziosi agli altri giocatori che potrebbero seguirlo o aiutarlo a pianificare il lavoro. La preparazione e l'implementazione di una Grande Fuga richiede la collaborazione di molti partner, e nessuno di quelli che sarebbero stati disponibili a collaborare deve finire nei guai perché non è stato informato”. Come sempre nulla da eccepire. “In ogni caso - si continua a leggere nel report - grazie alla saggiatura del terreno da parte della Banca Centrale Cinese, le autorità cinesi hanno la conferma dei seguenti punti:

1. Una buona fetta degli altri membri del G20 è chiaramente favorevole ad un passaggio rapido all'era post-dollaro, in particolare Russia, India, Sudafrica, Argentina e Brasile. Pechino, dunque, non sarà sola quando avverrà il grande salto.
2. USA e UK hanno rifiutato di considerare qualsiasi mossa nella direzione dell'era post-dollaro.
3. L'Europa non è in grado di prendere nessuna decisione veramente ferma riguardo al suo vecchio protettore, gli USA”.

Pechino si sta quindi dedicando ad annunci sempre più chiari e netti, sempre in modo graduale, a volte anche seguiti da vaghe smentite, provenienti da fonti meno importanti, ma che circolano ampiamente e rapidamente grazie ai media finanziari. Sta dunque aumentando la sua libertà di espressione senza danneggiare particolarmente il valore dei T-bonds o del dollaro. Quest'ultimo aspetto è effettivamente la necessità assoluta del governo cinese: evitare in qualunque modo un crollo del valore dei T-Bond e del dollaro prima che sia fuggita dalla prigione del dollaro.

LEAP/Europe2020 ritiene che, nei prossimi mesi, la Cina rivelerà l'esatto significato di queste esigenze; un fine o una necessità? Se si tratta di un fine, allora Washington, Londra e i media internazionali della finanza hanno ragione: Pechino seguirà i passi di Washington, cercando di aumentare la sua influenza nelle decisioni americane. Se è una necessità, allora il nostro team ha ragione e i leader cinesi si daranno da fare per vendere i loro T-bonds ed i loro dollari scegliendo il miglior prezzo possibile, sempre evitando di generare scompensi volti a ridurre il valore di questi beni il più a lungo possibile.

Tuttavia, è difficile immaginare, in contrasto con la prima opzione, un’America pacificamente ostaggio della volontà cinese. Si potrebbe mettere in relazione questa situazione finanziaria tra Usa e Cina con le forti critiche sul Tibet e con la tensione creata volutamente dalla marina americana verso quella cinese nel Mare Cinese Meridionale.

Stando alla storia e cercando di ritrovare esempi simili nel corso degli anni, i più maliziosi potrebbero ravvisare in questo l’inizio di una strategia della tensione per portare a qualche “incidente” capace di creare uno stato di guerra, magari non totale, ma sufficiente a bloccare i normali rapporti economici e di mercato, con lo scopo finale di azzerare l’esposizione debitoria americana nei confronti dello stato cinese. E’ probabile, infatti, che oggi, per i circoli della destra repubblicana, del Pentagono e della lobby israeliana, sia insopportabile l’idea di essere così profondamente condizionati dallo stato dei rapporti economici e monetari con Pechino.

L’antico e collaudato metodo di ricorrere alla forza per cambiare questa situazione è, purtroppo, nella storia americana passata e recente. Non si creda, infatti, che i Rumsfeld e i Cheney siano diventati tranquilli pensionati intenti alle cure dei nipotini. Oggi è in ballo la fine dell’egemonia americana e quella è gente che non arretra davanti a nessun crimine.

Obama sembra molto popolare ma le forze a lui ostili sono in grado di organizzare un “casus belli” prescindendo dalla volontà della sua amministrazione, contando su pezzi di servizi segreti, su molti generali del Pentagono, su tutta la lobby economica del complesso militare-industriale statunitense. Sono poteri forti in grado di colpire, e il momento di grande crisi sembrerebbe estremamente opportuno per poter liquidare l’enorme debito estero e dare così una speranza di ripresa. C’è da sperare, naturalmente, che ciò non accada. Ma se la crisi americana non arretra, la voglia di uscirne a spese degli altri, fidandosi della forza militare, potrebbe non essere cosa così remota.


L'oro di riserva
di Alessandro Ursic - Peacereporter - 28 Aprile 2009

Mille e cinquantaquattro tonnellate di oro possono essere un sogno per i comuni mortali, oppure ordinaria amministrazione per le riserve di uno Stato come gli Usa, che ne possiedono una quantità otto volte superiore; persino l'Italia ne ha di più. Per la Cina, però, sono improvvisamente tante. Nei giorni scorsi Pechino ha annunciato di aver portato a tale ammontare le sue riserve auree, quasi raddoppiandole negli ultimi anni. Confermando di voler gradualmente smarcarsi dalla dipendenza dall'economia americana, che lei stessa ha contribuito a creare finanziando per anni l'indebitamento di Washington.

Acquistando in particolare metallo prezioso prodotto in patria, la Cina ha così messo da parte oro come una formichina. La quantità attualmente nei suoi forzieri rimane trascurabile: rappresenta l'1,6 percento delle sue enormi riserve in valuta straniera, che ammontano a 2.000 miliardi di dollari di cui circa due terzi proprio in biglietti verdi, grazie all'acquisto massiccio di Bot americani.

Ma, messo insieme a dichiarazioni e altri fatti degli ultimi mesi, il quasi raddoppio delle riserve auree del gigante asiatico contribuisce a rendere evidente la volontà politica di raggiungere una serie di obiettivi a lungo termine: accrescere l'autonomia della Cina sulla scena economica globale, stimolare la domanda interna e ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni, fare dello yuan una valuta di riferimento per il sistema monetario mondiale. Il problema è che Pechino ha le mani legate, perché nel perseguire questi scopi rischia di veder svalutare il suo investimento multimiliardario in dollari.

Per anni, la Cina ha accumulato dollari mantenendo basso - secondo Washington troppo basso - il valore dello yuan, e favorendo così la crescita delle sue esportazioni. I risparmi dei cinesi finanziavano i consumi oltre le proprie possibilità degli americani, dando vita allo squilibrio reso evidente dall'attuale crisi. Negli ultimi tre anni, da quando Pechino ha abbandonato il cambio fisso tra la sua moneta e il biglietto verde, lo yuan si è leggermente rivalutato.

E se prima erano gli Usa a fare pressioni sulla Cina, ora è Pechino a mostrarsi baldanzosa: a marzo il direttore della Banca centrale cinese ha buttato lì l'idea che il dollaro non debba più essere la valuta mondiale di riferimento, e successivamente il premier Wen Jiabao ha auspicato una maggiore supervisione internazionale delle scelte economiche degli Stati Uniti. Proprio perché da esse dipende anche il benessere della Cina.

Tali preoccupazioni, alimentate dal fervore nazionalistico che accompagna l'ascesa del gigante asiatico, in Cina sono sentite non solo dagli economisti: nell'ultimo anno, un libro complottistico dal titolo "Currency Wars" (Guerre valutarie) ha venduto oltre un milione di copie. La tesi principale è che l'Occidente trama per frenare lo sviluppo cinese; da questo punto di vista, gli Usa avrebbero interesse a svalutare il dollaro non solo per rilanciare la propria economia travolta dalla crisi, ma anche per far perdere valore alle riserve di Pechino.

In realtà, gli Stati Uniti e il mondo hanno un tremendo bisogno della Cina, come si è visto anche dai sempre più frequenti auspici di vedere i cittadini cinesi aumentare i propri consumi, per rimpiazzare quelli degli americani. Sono movimenti tettonici che prenderanno decenni, ma è vero che Pechino sembra avere intenzione di percorrere questa strada: i suoi piani di stimolo all'economia premono proprio su questo tasto, sul progressivo potenziamento della domanda interna, e sulla diversificazione della sua politica monetaria. Far calare bruscamente le sue riserve in dollari sarebbe controproducente: se ne mettesse sul mercato una quantità consistente, il biglietto verde diventerebbe carta straccia, le esportazioni cinesi crollerebbero e le riserve cinesi in dollari brucerebbero gran parte del loro valore. Ma a lungo termine, l'obiettivo è comunque di farle lentamente scendere. E cominciare ad accumulare oro contribuisce allo scopo.



Le Borse? Lasciamole perdere, teniamo d'occhio le materie prime
di Mauro Bottarelli - www.ilsussidiario.net - 17 Aprile 2009

Guardo i listini di Borsa e mi pongo delle domande. A metà della giornata di contrattazioni le piazze europee nella seduta del 16 aprile correvano trainate da Nokia e dai titoli bancari: Ubs guadagna il 5 per cento, Deutsche Bank e Credit Suisse il 4,6, Barclays e Unicredit il 3,5 per cento. Evviva, tornano i corsi rialzisti, la paura è finita, le banche sono sane e appetibili per gli investitori. Fine del sogno. I dati sono veri ma c’è poco da festeggiare. La chiusura di molte posizioni short ha infatti permesso afflusso di liquidità sui mercati e la volatilità calata ai minimi da mesi - l’indice Vix è sceso a 38 dopo aver toccato anche 75 - pompano entusiasmo a basso prezzo che fa salire gli indici: non è ripresa, è euforica disperazione nel tentativo di fare qualche soldo.

Le banche ristrutturano per evitare di doversi dare mani e piedi ai governi - e quindi dover rendere conto delle loro operazioni - e il costo sono migliaia e migliaia di licenziamenti già annunciati: ovvero, migliaia di famiglie che rischiano l’insolvenza sulle rate del mutuo o dei finanziamenti, il ritiro della carta di credito, l’apertura di procedura di infrazione presso le varie centrali rischi che dopo novanta giorno intercettano il cliente e lo piazzano senza tanti complimenti nell’elenco dei cattivi pagatori: lista da cui uscire è improbo e molto doloroso. Emozionarsi per la Borsa o vedere in essa un segnale di ripresa è folle, le piazze oggi sono soltanto circhi della speculazione a breve: l’economia reale, invece, affonda giorno dopo giorno.

Ma volendo volare un po’ più alto, ci sono ragioni geopolitiche e geostrategiche che fanno pensare a un cambiamento epocale e quindi alla ridiscussione del ruolo degli Usa oltre che alla loro reale possibilità di combattere la crisi attraverso piani inattuabili, dispendiosi e autolesionisti come quello di Tim Geithner.

La Cina, infatti, sta scaricando il dollaro. Compra rame e altre commodities metalliche in quantità spaventose: lo sta facendo ora, in questi giorni. Lo State Reserve Bureau sta muovendosi in tal senso per riuscire a districarsi il prima possibile dalla propria dipendenza dal biglietto verde: parliamo di 2 trilioni di dollari di riserve che finiranno nell’acquisto di metalli invece che nell’immenso mercato del debito Usa, per anni mantenuto in vita proprio dagli acquisti cinesi dettati dagli enormi disavanzi.

Una politica dal duplice effetto: dieci volte più di impatto sia sui prezzi delle commodities che sul fronte monetario Usa e in grado di garantire materiale per almeno 50 di infrastrutture in Cina. Ma c’è anche un’altra ragione: il futuro dell’auto sta nel settore ibrido che necessita di rame. Insomma, strategie commerciali di strangolamento e monopolio.

Ma Pechino sta comprando anche alluminio, zinco, nickel e materiale rari come il titanio, l’indio – utilizzato nelle pellicole ad alta tecnologia - , il rodio – fondamentale per i convertitori catalitici – e il praseodimio, necessario per la lavorazione del vetro. La nuova “rivoluzione industriale” parte dalla Cina e quando un colosso prende una decisione, difficilmente gli altri possono ignorarla. Tanto più che i numeri sono spaventosi: 329mila tonnellate di rame in febbraio, 375mila in marzo. Numeri che hanno fatto salire il prezzo del 49 per cento a 4.925 dollari la tonnellata quando gli analisti pronosticavano un crollo del 20 per cento.

Qualcuno comincia a pensare che Pechino stia pensando a una sorta di “Bancor”, una moneta globale ancorata a un paniere di commodities che sostituisse – come si pensava negli anni Quaranta per superare il Golden Standard – lo strapotere del dollaro e prevenisse gli eccessi basati sul credito che ci hanno portato alla situazione attuale. La Cina teme, non senza qualche ragione, che gli Usa stiano studiando una sorta di default “coperto” del proprio debito stampando moneta e ovviamente si preoccupa dell’enorme esposizione in dollari dei propri assets basati sul debito statunitense.

Quindi, entrare a gamba tesa nel mercato dei metalli invece che in quello Usa permette a Pechino di mantenere basso lo yuan senza incorrere nelle ire di Washington riguardo possibile manipolazione valutarie, garantisce riserve di materiali facilmente stoccabili a differenza del petrolio e permette nel medio-lungo termine un investimento fruttuoso, visto che le riserve di quei materiali non sono infinite e quindi il loro valore è destinato a salire.

Forse, per capire come sta evolvendo questa crisi e quale mondo ci lascerà in dote, è meglio smetterla per un po’ di guardare la Borsa e cominciare a tenere sott’occhio le commodities.

mercoledì 29 aprile 2009

Il piano di papi Silvio


In vista del referendum del 21 giugno sulla legge elettorale Berlusconi ha detto chiaramente che voterà SI “Il referendum dà il premio di maggioranza al partito più forte. Vi sembra che io possa votare no? Va bene tutto, ma non si può pensare di essere masochisti”.

E certo, ci mancherebbe…


Comunque tra interviste della moglie e compleanni di belle 18enni che ritroveremo presto in Parlamento, qui di seguito si preannuncia ciò che ha in mente “Papi Silvio”: vittoria del SI al referendum, elezioni politiche anticipate con il Pdl al 51% e quindi strada spianata verso il Quirinale poichè dal quarto scrutinio basta solo la maggioranza semplice, cioè i voti del solo Pdl.



Esclusiva: i piani segreti di Berlusconi

di Paolo Guzzanti – www.paologuzzanti.it – 8 Aprile 2009


Stroncare questa legislatura grazie al referendum o alle riforme elettorali e costituzionali, sostituire quasi tutti i suoi deputati con ragazzini clonati, essere eletto al Quirinale dalle nuove Camere e di lì guidare governi di suoi fidati come la Gelmini o Alfano, raggiungere il 51 per cento mettendo la Lega in un angolo e umiliare Fini stroncandone le aspettative. Quanto ai tempi, tutto dipende dall’erosione o dalla stabilità del consenso.


Le informazioni e le ipotesi che seguono sono frutto di una serie di colloqui con amici di Forza Italia con accesso diretto alle fonti. Queste informazioni invitano a concludere che l’attuale legislatura è destinata a morire in anticipo rispetto ai tempi, affinché i piani di Silvio Berlusconi possano realizzarsi.


Berlusconi ha vari problemi e una soluzione unica per tutti: elezioni anticipate stroncando l’attuale legislatura, malgrado la maggioranza bulgara di cui dispone.


Come è possibile? Basta guardare i fatti.


Primo: questo Parlamento non è quello che eleggerà il prossimo Presidente della Repubblica. Dunque se Berlusconi vuole diventare capo dello Stato, deve aspettare il prossimo Parlamento. Ma il prossimo Parlamento sarà eletto soltanto fra quattro anni e Berlusconi sa che quattro anni di crisi economica sono lunghi e corrosivi. Oggi è al massimo del consenso, ma nessuno può dire che cosa accadrà fra quattro anni. Anzi, secondo le previsioni più ragionevoli, un governo che affronti una dura crisi economica, secondo quanto insegna la storia europea, alla fine perde le elezioni, o comunque raccoglie meno consenso di quello che aveva avuto all’origine.


Altro problema: l’espansione della Lega Nord che in regioni come il Veneto marcia verso il 40 per cento.

E ancora: la concorrenza di Fini che ha preso seriamente le distanze da lui, candidandosi come futuro leader del centro destra. Berlusconi non vuole che, quando e se salirà al Quirinale, governi Fini. Vuole che governi uno dei suoi: presumibilmente Alfano o la Gelmini.


Berlusconi pensa di usare il settennato al Quirinale per seguitare ad avere un ruolo di comando sulla politica e i governi, scegliendo un primo ministro proveniente dalla sua nidiata e che esegua i suoi ordini, creando così di fatto un sistema presidenzialista alla francese, con un Presidente con ampi poteri e un primo ministro più o meno sottomesso. Come fare? occorre stroncare questa legislatura.


Ma come si fa a stroncare una legislatura in cui ha già la maggioranza assoluta?


In due modi: facendo in modo che il referendum abbia successo e vinca, oppure - se il referendum fallisce - attuando riforme costituzionali che costringano il Capo dello Stato a prendere atto del fatto che sono state approvate nuove regole che delegittimano le vecchie e che richiedono dunque elezioni generali anticipate.


Al Congresso di unificazione le prime file sono state occupate da giovani che saranno i deputati della prossima Camera, tutti berluscones intorno ai 30 anni, tanti carfagnini e carfagnine d’allevamento, di bella presenza e cresciuti in batteria nel pollaio del berlusconismo più puro.


Questi giovani riempiranno il prossimo Parlamento e circa l’80 per cento degli attuali parlamentari saranno licenziati. Questa conclusione è stata valutata da tutti come il risultato anche scenografico della scelta di relegare alle terze e quarte file gli attuali politici, privilegiando una generazione clonata e pronta ad eseguire con gioiosa passività gli ordini del capo.


Sono giovani che non hanno mai conosciuto la vera politica, la democrazia, i partiti, le idee e le ideologie. Sono ragazzi opachi e entusiasti che recitano il breviario berlusconiano come un catechismo e sono ambiziosi, carrieristi e animati da uno spirito di pura adorazione del leader.


Se il referendum dovesse funzionare, sarebbe facile per Berlusconi chiedere al capo dello Stato di concordare un calendario che conduca allo scioglimento di un Parlamento ormai delegittimato.

Berlusconi vuole anche sconfiggere la Lega Nord dando seguito all’annuncio fatto: lui vuole il 51 per cento, da solo e senza Lega.


Il che significa: Noi vogliamo governare con una maggioranza assoluta che non abbia bisogno di voi. Che poi Berlusconi abbia usato parole di delirante amore per la Lega non significa nulla. L’obiettivo è renderla non indispensabile.


Se il referendum fallisse non raggiungendo il 51 per cento, ci sono le riforme istituzionali e elettorali che possono rendere l’attuale Parlamento delegittimato da nuove regole. Berlusconi non ha fretta: segue i sondaggi e vede come va il trend: finché è stabile o in salita, condensa le cose da fare, aspettando la prova delle regionali del prossimo anno.


Ma se dovesse emergere una tendenza al ribasso che lasci prevedere un declino del PDL e una sua erosione veloce, Berlusconi è pronto a giocare il tutto per tutto: approvare leggi elettorali e istituzionali alla svelta e correre al Quirinale. Occorre naturalmente che Napolitano sia della partita, ma il Capo dello Stato non ha molte alternative.


Se il piano funzionerà, Berluscni di fatto governerà l’Italia non solo per quel che resta di questa legislatura, ma di fatto anche durante il settennato quirinalizio, guidando governi di gente sua e relegando le ambizioni di Fini alla soffitta dei sogni.


Non è una strada tutta in discesa: Berlusconi deve fare i conti con Lega e AN, è una partita dura e complessa, che prevede fra l’altro una tenuta flebile ma non rovinosa del PD di cui Berlusconi ha bisogno come elemento legittimatore. Questa è la ragione per cui PDL e PD d’accordo hanno voluto impedire che alle europee i piccoli partiti fossero rappresentati: grazie allo sbarramento al 4 per cento, il PD può fare il pieno dei voti di sinistra, senza mostrare per intero tutta la sua crisi e questo è un favore che Berlusconi ha reso prima a Veltroni e poi a Franceschini.


Inutile dire che noi ci batteremo affinché tutto ciò non accada e che non si instauri una riforma costituzionale cesarista mascherata. Ma saranno anni di dura battaglia per la difesa della democrazia parlamentare.

martedì 28 aprile 2009

Ecuador: la vittoria storica di Correa

In Ecuador si sono tenute domenica scorsa le elezioni presidenziali che hanno visto la vittoria schiacciante al primo turno di Rafael Correa, che si definisce socialista e cristiano, ottenendo un rinnovo del mandato fino al 2013. Il popolo ecuadoriano ha quindi riconfermato l'attuale capo di Stato e la via del socialismo e della riforma sociale fortemente promessa in campagna elettorale.

Come anticipato dai sondaggi, i risultati confermano il sostegno a Correa delle classi più povere e dei ceti medio-bassi. Infatti il presidente uscente aveva espresso chiaramente in campagna elettorale la volontà di continuare i programmi sociali iniziati con investimenti nell'educazione e nella lotta alla povertà.
Correa ha ribadito la scelta politica che lo ha portato alla vittoria dichiarando: ''La nostra opzione preferenziale sono i più poveri di questo paese ed il nostro impegno sarà sradicare la miseria".

Correa ha vinto al primo turno su altri sette candidati in lizza, tra i quali l' ex colonnello ed ex presidente (tra il 2003 e il 2005) Lucio Gutierrez, che ha ottenuto il 28% circa dei voti e l' imprenditore "re delle banane" Alvaro Noboa, l'uomo più ricco del Paese, che si attesta intorno all'11,6%.
Gli altri candidati però non hanno ancora riconosciuto formalmente la vittoria di Correa e hanno lanciato accuse di brogli elettorali. Ma per gli osservatori internazionali le elezioni si sono svolte senza irregolarità.

Correa è al potere dalla fine del 2006, quando alle elezioni sconfisse proprio Noboa ma, a seguito della riforma della Costituzione dello scorso settembre, con l'attuale vittoria ricomincia da zero nella guida del Paese.
E in base alla nuova Costituzione è possibile oggi vincere le elezioni senza andare al ballottaggio se il candidato ottiene il 50% più uno dei voti, oppure se ottiene un distacco di almeno il 10% sul secondo candidato.

Correa pare aver raggiunto entrambi i risultati ottenendo il 51,69% delle preferenze con il 70% circa delle schede scrutinate. Un risultato storico per un Paese che fino a 3 anni fa era sempre stato governato dall'oligarchia latifondista legata strettamente al potere militare.


Vittoria storica, Correa rieletto al primo turno
di Stella Spinelli - Peacereporter - 27 Aprile 2009

La rivoluzione cittadina ha vinto contro la partitocrazia. È questo il clou di quanto è avvenuto in Ecuador ieri secondo la visione di colui che ha strappato il suo secondo mandato al primo turno delle presidenziali di ieri. Rafael Correa, presidente uscente dopo solo due anni dalla sua elezione perché ha rimesso il suo mandato dopo l'approvazione della nuova Costituzione da lui auspicata, è stato riconfermato alla guida di un governo che "mai imbroglierà il popolo". "Abbiamo fatto la storia", ha commentato sulla base dei risultati parziali che già lo danno oltre il 54 percento delle preferenze.

Dichiarazioni presidenziali. "In un paese dove dal 1996 al 2006 nessun governo democratico ha finito il suo mandato, dove si sono susseguiti sette presidenti, oggi si vince al primo turno. È qualcosa di inedito, compatrioti, abbiamo fatto la storia, insieme abbiamo fatto la storia", ha ripetuto con grinta il presidente. E ringraziando chi ha avuto fiducia in lui ha aggiunto: "E' chiaro che la destra, i gruppi che sempre hanno dominato questo paese, si sono uniti dietro una candidatura che tanto deprecarono in passato (quella di Gutierrez ndr)" pur di non votarlo. "È questa la moralità di certi settori di questo paese che privilegiano i loro interessi persino rispetto ai loro stessi principi e alla loro etica. Ma la storia li giudicherà", ha precisato, circondato dai suoi compagni nella città portuaria di Guayaquil. Quindi si è rivolto a chi non lo ha votato, dicendo: "Siete stati preda facile di demagoghi e ipocriti, ma noi vi aspetteremo".

Nel suo discorso a caldo non poteva mancare un riferimento alla stampa main stream che si è sempre mostrata molto ostile al giovane presidente, spesso in maniera plateale e ancor più spesso in modo viscido e insinuante. "La stampa, per questa campagna elettorale, si è inventata di tutto, persino un'esplosione di disoccupazione. Contro questa parte di stampa in malafede e corrotta, abbiamo dovuto sempre scontrarci. Questo è un punto fondamentale che rende la nostra vittoria ancor più rilevante. Il popolo ecuadoriano non si è lasciato ingannare e ha portato alla vittoria più splendida degli ultimi cinquant'anni".

"Il funerale della partitocrazia, che ha portato l'Ecuador alla rovina" è stata invece la frase che ha scelto per definire la sconfitta dei partiti da sempre al potere nel paese andino, e per ribadire come lui e il suo Alianza Pais rappresentino "l'alternativa socialista consegnata ai cittadini".

Le tappe di Correa. Ma cos'è che gli ecuadoriani hanno premiato? Dal suo arrivo, nel gennaio 2007, l'economista Correa ha messo in moto un ampio pacchetto di aiuti per i meno abbienti, privilegiando l'accesso a un'alimentazione di base e al materiale scolastico. Ha quindi imposto la gratuità dei servizi sanitari e in soli due anni ha moltiplicato per otto la spesa pubblica. Con l'intento di restaurare la "sovranità" nazionale, ha quindi preteso il pagamento di imposte più salate dalle compagnie petrolifere, che continuano a sfruttare le riserve nazionali (e questa è una delle note più dolenti della politica di Correa che gli ha attirato forti critiche da ecologisti e difensori dei diritti indigeni). Linea dura anche nei rapporti diplomatici.

Con la Colombia, ha rotto le relazioni dal bombardamento del primo marzo 2008 lanciato in territorio ecuadoriano e pretende scuse e risarcimenti prima di fare qualsiasi passo di riconciliazione; con gli Stati Uniti, non ha rinnovato alla Casa Bianca la licenza per usare la base strategica di Manta, nel Pacifico.Altra grande soddisfazione in questi due anni al potere è stata la vittoria a pieni voti nel referendum d'approvazione della nuova Costituzione dello scorso settembre, dopo il lungo lavoro dell'Assemblea Costituente da lui fortemente voluta. Quindi, si è registrata un'altra uscita insolita e coraggiosa a dicembre, quando si è rifiutato di continuare a pagare il debito estero, in quanto acquisito in maniera irregolare.

Vive voci. I commenti post elettorali su questa schiacciante vittoria si sprecano. I sostenitori di Correa gridano il loro entusiasmo e lanciano parole da tifo calcistico inneggiando alla rivoluzione cittadina. Nelle principali città ecuadoriane ci sono state manifestazioni di gioia fino a tarda notte, mentre dall'opposizioni si lanciano anatemi del tipo "Non ci arrenderemo. Non finisce qui" e altre frasi del genere. Ma fra tutte le dichiarazioni raccolte tra chi vive in Ecuador, ce n'è una lasciata in uno dei gruppi di supporto a Rafael Correa creati su Facebook, che dice molto di quello che sta vivendo il paese andino: "Non sono mai stato un socialista, ma sempre mi ha fatto male all'anima la differenza sociale, la povertà e l'indolenza dei corrotti che ci hanno governato - dice Francisco Endara - Per questo sostengo e continuerò a sostenere questo governo, perché è l'unico che ha tracciato un cammino di verità e futuro.

È l'unico che ha detto la verità e che ha affrontato coloro che hanno distrutto il paese, che sono gli stessi che lanciarono la polizia contro i cittadini di Quito, che incendiarono radio, che mandarono i carro armati contro la corte suprema, che rubarono milioni al popolo. Sono gli stessi che ora dicono di aver paura di Correa. Chiaro che ce l'hanno, perché finalmente ha tolto loro la maschera e le prebende, e li ha coperti di tasse. Finalmente, grazie a dio qualcuno ha portato qualcosa di giusto in questo paese, anche se ancora manca molto. Quello che hanno distrutto in 40 anni, non si può ricostruire in due".

lunedì 27 aprile 2009

La Padania mafiosa

Qui di seguito si parla dell'ormai consolidata presenza mafiosa nel Nord Italia.

Con tanti saluti alla ridicola e pietosa retorica leghista sulla "pulizia" e rettitudine della Padania e dei cosiddetti padani, italioti come tutti gli altri.



Adesso il padrino parla milanese

di Paolo Biondani e Mario Portanova - L’Espresso - 23 Aprile 2009

Imprenditori del Nord che entrano nelle cosche: non più vittime ma veri mafiosi. Pronti a eliminare la concorrenza e sfruttare la crisi. È il nuovo volto dei clan dove la violenza è al servizio degli affari

Anche il Nord sta imparando a convivere con la mafia. Dopo decenni di infiltrazione nei traffici illeciti e nel reimpiego dei capitali, le nuove inchieste svelano i sintomi di una malattia più profonda: decine di imprenditori e professionisti scendono a patti con i clan. E ne "strumentalizzano i vantaggi competitivi": si finanziano con capitali sporchi; ottengono protezione criminale; si prestano a dividere e reinvestire i profitti di droga ed estorsioni; affidano alla violenza dei clan il recupero dei crediti; ordinano attentati contro i concorrenti. Fino a diventare, come avvertono i magistrati più esperti, "imprenditori organici alle più pericolose cosche del sud". Un'escalation che la crisi economica sta amplificando.

Nell'ultima relazione annuale al Parlamento, il pm Ferdinando Pomarici, capo dell'Antimafia a Milano, ha denunciato "l'occupazione criminosa di interi settori economici caratterizzati da difficoltà finanziarie". Già negli anni Novanta le società della 'ndrangheta si erano impadronite di luoghi simbolo come la Torre Velasca e la Galleria Vittorio Emanuele. Ora il procuratore stila un impressionante elenco di "imprese mafiose" che puntano a un "sostanziale monopolio" in mezza Lombardia: le attività a rischio sono, nell'ordine, "edilizia, immobiliare, centri commerciali, alimentari, sicurezza, discoteche, appalti, garage, bar e ristoranti, sale da gioco, distributori, cooperative di servizi, trasporti".

Nel marzo scorso un'inchiesta ha dimostrato per la prima volta la partecipazione diretta di un cartello di cosche calabresi nelle grandi opere pubbliche come l'alta velocità ferroviaria e l'ampliamento dell'autostrada A4. In cella sono finiti i boss-imprenditori del clan Paparo, che da Cologno Monzese, tra un affare e l'altro, spedivano bazooka in Calabria. Il problema è che le loro aziende in teoria non avrebbero potuto comparire. Per aiutarle si sono mosse, secondo carabinieri e magistrati, imprese del Nord pronte ad affidare "subappalti totalmente in nero". La Locatelli spa è un'azienda che gestisce 160 cantieri tra Milano e Bergamo. Le Ferrovie dello Stato pretendono il rispetto delle norme antimafia: vietato subappaltare più del 2 per cento dei lavori.

A quel punto un manager rigorosamente lombardo suggerisce ai calabresi come nascondere le insegne del clan: "Sui camion schiaffaci due targhette Locatelli, così le Ferrovie non dicono niente". I colletti bianchi del Nord arrivano a fabbricare "un falso contratto retrodatato" per occultare l'esistenza stessa del subappalto: "Abbiamo superato il 2 per cento, capisci... Sono cose serie, perché qui diventa la famosa legge antimafia, è un casino... Adesso sentirò l'avvocato, io direi che tutte quelle bolle le facciamo sparire".
Il capo della contabilità di tutte le imprese del clan Paparo si chiama Mirko Sala, ha 36 anni, è nato a Vimercate e abita a Concorezzo, eppure è stato arrestato come presunto "associato alla 'ndrangheta". Il pm Mario Venditti aveva chiesto il carcere anche per il manager bergamasco della Locatelli. Il gip Caterina Interlandi lo ha negato con questa illuminante motivazione: l'impresa lombarda falsifica le carte "non per favorire il clan, ma per tutelare se stessa e continuare a lavorare in nero". Quanto al manager, ha "innegabilmente" aiutato i Paparo a "eludere le norme antimafia", ma questa "è solo una contravvenzione per cui l'attuale legge non consente l'arresto".

In attesa che la classe politica rattoppi questo e altri strappi nei codici, le imprese mafiose diventano sempre più competitive. Le banche strozzano il credito? Ci si finanzia con la cocaina. I rifiuti tossici costano? C'è l'imprenditore di Desio che offre una discarica abusiva. Un sindacalista dei facchini disturba le cooperative calabresi alla Sma-Auchan di Segrate? I mafiosi gli fanno "spaccare la testa".

Al Nord le cosche cominciano a trovare anche complici a pieno titolo. Maurizio Luraghi, nato a Rho 55 anni fa, e sua moglie, Giuliana Persegoni, sono stati arrestati in luglio come 'teste di legno' del clan Barbaro-Papalia, il più potente del Nord. Con la sua società Lavori stradali srl, Luraghi acquisiva commesse edilizie e le spartiva tra i membri del clan. Intercettato mentre nomina Domenico Barbaro e Rocco Papalia, l'imprenditore di Rho è commosso: "Tutti questi capannoni li abbiamo fatti noi... Tutto Buccinasco, il centro commerciale, li abbiam fatti io, Domenico e Rocco... Una città, abbiamo fatto".

Almeno per ora, le voci dei mafiosi continuano a restare incise nelle intercettazioni della Dia. "Facciamo saltare te e il tuo capannone". Con questa minaccia, seguita dal pestaggio di un agente immobiliare, un imprenditore di Gorgonzola viene costretto a "svendere a costo zero" tutto il suo patrimonio: capannoni, uffici, abitazione, seconda casa e villa all'isola d'Elba. L'estorsione è gestita dagli scagnozzi di Pepè Onorato, boss della 'ndrangheta a Milano. Ma il vero mandante, secondo l'antimafia, è un lombardo doc: Marino Bonalumi, ricco stampatore con aziende tra Milano e Bergamo. La sua è una storia simbolo di vittima dei mafiosi che ne diventa complice. All'inizio i calabresi gli bruciano un capannone a Gessate. Ma lui non li denuncia, perché sotto c'è una storia inconfessabile di usure ed estorsioni, da cui Bonalumi si emancipa alleandosi ai boss. Un editore di La Spezia, suo debitore, è costretto a caricare tutti i suoi libri su 30 Tir, prima di fallire.

Per almeno tre anni, Bonalumi e altri fiduciari lombardi tra cui Gianfranco Montali, ex presidente dell'Imperia calcio, avrebbero reinvestito il fiume di soldi incassati dai calabresi con la cocaina. E il canale più sicuro sono le 'cartiere': società-schermo che producono solo fatture false, aiutando decine di imprenditori del Nord a evadere le tasse. In cambio ai boss resta dal 30 al 50 per cento. Chi non paga salta in aria, ma non denuncia, perché il nero capovolge i ruoli: i lombardi "sono costretti all'omertà", annotano sconsolati i pm, mentre "sono i boss a minacciare di avvisare la Finanza".

Una storia di 'cartiere', secondo l'accusa, spiega anche il massacro dell'imprenditore bresciano Angelo Cottarelli, ucciso con la moglie e il figlio 17enne nell'agosto 2006. Il procuratore di Brescia, Fabio Salamone, da quella e altre indagini ha ricavato una convinzione: "Al Sud c'è omertà per paura, al Nord comincia a esserci omertà per interesse". Interesse che può valere decine di milioni lungo i canali del grande riciclaggio: a Milano hanno fatto scalpore i recenti arresti di avvocati rispettati come Giuseppe Melzi e Paolo Sciumè.

La droga garantisce capitali enormi. E i colletti bianchi, all'occorrenza, si sporcano le mani. Un solo esempio. Secondo la squadra mobile di Milano, l'ufficio di Ivano Mondini, 48 anni, di Cremona, era diventato la base del narcotraffico dalla Colombia organizzato dal clan Morabito-Palamara, infiltrato nell'Ortomercato di Milano. Una microspia lo ha intercettato mentre spiega come trasportare la droga: "Su una macchina più di 50 chili non puoi mettere, meglio un camper". Mondini è stato arrestato nel 2007, quando la polizia ha fermato il suddetto camper con 206 chili di coca pura.

Cosa nostra e 'ndrangheta ormai si spartiscono intere province anche al Nord. "I gelesi controllano estorsioni e spaccio nella zona est, tra Busto e la statale varesina", scrive il procuratore Pomarici: "Ai calabresi tocca la parte ovest fino a Malpensa. Dalle indagini dei carabinieri sembra che nella zona non vi sia un cantiere edile che non paghi il pizzo, come numerosi esercizi commerciali". A confermarlo è "un'escalation di attentati incendiari, sparatorie, ferimenti e omicidi" in tutti i paesi attorno all'aeroporto.

In questo nuovo quadro, i fondi miliardari annunciati per l'Expo 2015 stanno già mobilitando la 'ndrangheta. Nei comuni destinati a ospitare i maxi-cantieri stanno rinascendo le cellule dei clan (in gergo, 'locali'), favorite anche da scarcerazioni di vecchi boss e matrimoni combinati. I finanzieri dello Scico segnalano già dal novembre 2008 un vero boom di "prestiti a strozzo strumentali all'acquisizione di imprese sane", facilitata dallo "sfavorevole andamento dell'economia e sovraindebitamento di famiglie e aziende". Secondo lo Scico, sarebbero "oltre 150 mila i piccoli imprenditori coinvolti in rapporti usurari-estorsivi", di cui "almeno 50 mila con clan mafiosi".

Questa "eversione del mercato", come la definisce il pm Vincenzo Macrì, è "ormai diffusa a livello nazionale". In Piemonte e Lombardia la 'ndrangheta ha creato una sorta di 'cupola del Nord'. Il nuovo modello di mafia economica diffusa sta influenzando anche Cosa Nostra. A Modena, segnalano i pm, "è emersa la presenza di famiglie mafiose siciliane", che utilizzano "soggetti formalmente estranei come intestari fittizi di beni e imprese anche negli appalti".

In Liguria, dove nel dicembre 2008 risultano attivi 15 clan calabresi, "la 'ndrangheta di Ventimiglia ha una funzione di regia". Mentre Cosa Nostra ora punta al controllo del porto di La Spezia: un "ingente riciclaggio" che segue il modello dell'"infiltrazione nei cantieri navali di Palermo". Una vera tradizione è anche l'infiltrazione nei casinò: un cambiavalute di Sanremo, Luigi Raiteri, è l'ultimo arrestato come presunto riciclatore della 'ndrangheta.

Anche la camorra ha trovato soci al Nord, in particolare in Emilia. Per misurare pregi e difetti di certe alleanze, è emblematica una telefonata di Aldo Bazzini, immobiliarista di Solignano (Parma) condannato in primo grado per riciclaggio a favore dei casalesi. Una sua figlia acquisita è la moglie di Pasquale Zagaria, fratello del superlatitante Michele. Bazzini lo conferma a un avvocato: "Ha sposato un grosso boss... Fa la vita da ricchissima, da arabi: tutti ai suoi piedi. Certo non può uscire dalla villa, però quando vanno in giro, stanno nei migliori alberghi del mondo...". Il legale domanda: "Ma lui la rispetta?". E Bazzini risponde: "Sì, sì. Per la famiglia quelli lì sono meglio di noi!"



Caselli: al Nord la mafia è un'industria che tira
da L’Espresso - 23 Aprile 2009

Parla il procuratore di Torino che ha fatto della lotta alla mafia il suo primo impegno

La 'ndrangheta che fa i soldi con i subappalti e il lavoro nero. Cosa Nostra che s'infiltra nella maxi-sala bingo di Moncalieri. Per Gian Carlo Caselli, oggi procuratore a Torino, la lotta alla mafia è il primo impegno. In memoria di Bruno Caccia, il procuratore ucciso dai killer del clan Belfiore.

La crisi sta rafforzando il potere economico mafioso?
"La criminalità mafiosa che si fa impresa economica è il problema dei problemi. C'è il boss che fa direttamente impresa, anche usando prestanome. Quello che mette capitale in attività con altri soggetti, più o meno consapevoli. E c'è il mafioso che spolpa un'azienda già attiva e, quando l'ha svuotata, s'impadronisce del guscio e la gestisce in prima persona. Oppure continuando a lasciar apparire il vecchio titolare. In tempi di crisi e debiti crescenti, ovviamente aumentano gli spazi per spolpare e impadronirsi delle aziende".

Le imprese mafiose hanno reali capacità d'attrazione anche nel Nord Italia?
"Le organizzazioni mafiose hanno accumulato disponibilità per miliardi di euro. Le stime sono per forza approssimative, ma si tratta di tesori enormi. Con l'attuale sete di liquidità, è chiaro che questa massa di denaro sporco garantisce vantaggi imponenti: l'imprenditore disonesto possiede capitali a costo zero, senza garanzie e senza debiti con le banche. L'azienda criminale, inoltre, non ha bisogno di produrre guadagni immediati: può puntare a conquistare nuove fette di mercato, con prezzi e condizioni che spiazzano ed espellono la concorrenza. E ancora, l'imprenditore mafioso non ha nessuna preoccupazione per i diritti dei lavoratori o per l'ambiente. Sa bene come ottenere le migliori condizioni da fornitori e dipendenti. E se ha problemi, può risolverli con la minaccia, la corruzione o la violenza".

La crisi favorisce anche il riciclaggio di denaro sporco?
"È intuitivo. Più la crisi è grave, più aumentano le occasioni d'investimento per chi non ha problemi di capitale: commercio, immobili, alberghi, appalti... Questo vale per la 'ndrangheta, ma anche gruppi russi, cinesi o albanesi ormai hanno molti soldi da investire".

L'assalto delle imprese mafiose può essere frenato almeno nelle regioni del Nord?
"A Torino abbiamo 95 procedimenti per usura. In generale, il denaro sporco ha un potere d'acquisto solo potenziale. Per diventare effettivo, deve essere ripulito. E questo significa: diversificare nel tempo e nello spazio. Falcone spiegava che la mafia uccide a Palermo, ma investe a Milano. Più l'investimento è lontano dall'attività illecita, più è facile passare inosservati e farla franca. La nostra procura ha costituito un nuovo gruppo di lavoro sul riciclaggio, che è sempre più sofisticato. I mafiosi hanno i soldi per pagarsi i migliori cervelli. C'è uno sforzo di rispondere con competenze giudiziarie e non solo. Ma c'è anche chi non vede o fa finta di non vedere. È il vecchio discorso: pecunia non olet, il denaro non ha odore. Forse ha ragione uno studioso come Salvatore Lupo: ormai c'è una 'richiesta di mafia' anche al Nord".

domenica 26 aprile 2009

Dall'aviaria alla suina: un film già visto

A 3 anni dalla mancata pandemia che doveva essere provocata dall'influenza aviaria, adesso è la volta dell'influenza suina.

In Messico, stando a quello che ci raccontano, finora sono già 1324 i casi sospetti con 81 morti, mentre gli Stati Uniti hanno proclamato lo stato di emergenza sanitaria dopo che sono stati accertati 20 casi (8 a New York, 7 in California, due in Texas, due in Kansas e uno in Ohio). Quattro casi di sospetta influenza suina sono attualmente sotto osservazione in Francia, sei in Spagna, 4 in Canada e 10 in Nuova Zelanda.

Il ministro USA per la Sicurezza interna Janet Napolitano ha anche dato ordine di distribuire il 25% delle scorte USA degli antivirali Tamiflu e Relenza di cui gli USA hanno a disposizione 50 milioni di dosi.
Addirittura la Casa Bianca si è sentita in dovere di rassicurare l'opinione pubblica sull'ottima salute di Obama, reduce da un recente viaggio in Messico.

Mah...di sicuro nei prossimi giorni saremo bombardati mediaticamente dalla "suina" e tutti indosseranno il camice bianco improvvisandosi virologi dopo essersi vestiti per mesi da economisti.

A proposito...e la crisi economica globale?



Ci risiamo, l'influenza colpisce ancora
di Enrico Moriconi - www.enricomoriconi.it - 26 Aprile 2009

Ma nessuno si preoccupa del ruolo degli allevamenti intensivi nella genesi delle pandemie

“Possiamo dedurre che eventi epidemici di grandi dimensioni territoriali e di rilevante gravità sanitaria possono evolvere dall’affermarsi di ceppi virali geneticamente ibridi tra quelli umani e quelli aviari in cui ci sia la presenza combinata di siti antigenici parentali per cui la popolazione dimostri una copertura immunologica scarsa; tali ceppi possono originarsi dal riassortimento genico tra virus umani ed avicoli che può avvenire quando si ha la contemporanea presenza dei sottotipi parentali in “frullatori” quali il suino, ospite sensibile ad ambedue i ceppi, o l’uomo infettato accidentalmente da virus aviari a causa delle condizioni epidemiologiche degli uccelli da allevamento e dalla normale influenza.

Su base storica si può ipotizzare una frequenza di pandemie influenzali di tre o quattro volte per secolo con l’insorgenza di questi nuovi sottotipi virali ad alta trasmissibilità interumana per cui, pur non essendo prevedibile la sua comparsa, è possibile, vista la distribuzione negli ultimi decenni del ‘900 e le infezioni umane descritte dal ‘97, un nuovo episodio entro pochi anni "
(Cazzola).

La sindrome della febbre suina in Messico non è nient’altro che la ‘vecchia’ influenza aviare che ritorna, dal momento che non è mai andata via.
Non si capisce perché adesso si utilizzi una definizione diversa da quella ormai consueta di influenza aviare, in quanto il virus chiamato in causa adesso è l’H1N1 ovvero un Ortomixovirus, un tipo di virus che si contraddistingue per avere moltissimi sottotipi, fatto che ha portato a identificare le diverse varianti con le due lettere H e N e una serie di numeri per ogni lettera, 1,2 3, ecc. Il virus dell’aviare era H5N1 quello odierno, come detto, H1N1.

Per un caso non tanto strano, se la tipologia sarà confermata, si tratta dello stesso agente virale che aveva causato la famosa ‘spagnola’, l’influenza che ha ucciso più di cento milioni di persone in tutto il mondo subito dopo la prima guerra mondiale. Al tempo la condizione sanitaria della popolazione era più fragile di quella attuale e questo è importante da capire perché si deve ricordare che le malattie, per svilupparsi, richiedono sia la presenza dell’agente infettante, virus o batterio, come uno stato immunitario insufficiente e condizioni ambientali predisponenti, ad esempio il freddo intenso. Per questo il virus oggi dovrebbe a fare meno paura che quasi cent’anni fa, per la migliore situazione sanitaria delle popolazioni in generale.

Perché il virus dai volatili o dai maiali passa all’uomo?

Da un punto di vista scientifico si ammette che i volatili siano il serbatoio di questi virus, i quali passando da animale ad animale possono mutare le loro caratteristiche, cioè diventare più virulenti, cambiare il potere infettante, cioè colpire animali che prima non erano colpiti, ecc..

Il modo con cui avviene la trasformazione è stato studiato a fondo. Passando da animale ad animale trova condizioni immunitarie diverse, le quali interferiscono con la sua struttura genetica e facilitano la modificazione del patrimonio genetico.

È naturale che tali modificazioni siano più facili laddove vi sia una grande concentrazione di animali con caratteristiche immunitarie diverse come può avvenire negli allevamenti industriali, dove gli animali sono sottoposti a stress e a continui trattamenti terapeutici, per cui si generano le condizioni migliori per indurre la trasformazione dell’agente virale.

Il virus, proprio per le sue possibilità di modificarsi, ha elevate capacità di adattarsi ad altri soggetti cioè di colpire altre specie animali, per quello che viene definito il «salto di specie», passando da quella normalmente parassitata ad altre. E questa possibilità è ciò che lo rende più pericoloso per la specie umana.

I suini sono sensibili sia ai virus influenzali umani sia a quelli aviari, è quindi abbastanza comprensibile che siano loro i responsabili del riassorbimento genetico del virus, tale da renderlo patogeno per la specie umana. Questo probabilmente è quanto avvenuto e sta avvenendo in Messico e si sta diffondendo nei vicini Stati Uniti, dal Kansas alla California allo stato di New York come nel Regno Unito e in Nuova Zelanda (il rischio di pandemia quindi è reale ed è anche medio-alto, secondo l’Oms).

Come sempre accade le autorità sanitarie si preoccupano sia per la salute sia di non provocare, come dicono, il ‘panico’ nel mercato che potrebbe mettere a rischio la filiere produttive degli animali da allevamento. Qual è allora la situazione reale o realistica? ...

Il virus H1N1 ha subito una trasformazione, un riassorbimento genetico e ha assunto a capacità di contagiare non solo i suini ma anche gli esseri umani. La trasmissione avviene tramite gli escreti, cioè il catarro bronco polmonare e le feci e non con la carne.

Tramite gli escreti il virus, di cui però non è stato comunicato il potere infettante, cioè quanto virus occorre per trasmettere effettivamente la malattia, può diffondersi e permanere nell’ambiente dal quale per scarsa igiene, per inalazione o per contaminazione degli alimenti può essere introdotto dalle persone che avranno conseguenze diverse proporzionalmente alle loro condizioni di salute. Se gli individui sono immunologicamente deboli saranno colpiti in maniera più grave.

Alcune ulteriori osservazioni sono d’obbligo per chi, come noi, da anni si occupa di salute pubblica, di salute animale, di ecologia e di rispetto della vita animale.

In queste ore dai media ci viene detto che la forma potrebbe trovare giovamento da terapie a base di Tamiflu, di cui raccontiamo la storia completa qui sotto, però è utile conoscere alcune notizie.

Si deve ricordare che il Tamiflu non è stato giudicato a livello scientifico avere grandi poteri contro i virus ciononostante con l’influenza aviare, nei cui confronti non è stata ugualmente accertata la sua utilità, ha conosciuto una fortuna tanto alta e incredibile che ha portato ad esaurire tutte le scorte, fino a quel momento invendute, ed ha garantito profitti di miliardi di euro ai suoi produttori. Tanto grandi che solamente Donald Rumsfield, che possedeva azioni della ditta che per prima aveva sviluppato l’Oseltamivir, il principio attivo del Tamiflu, ha guadagnato un milione di dollari.

Dopo un rallentamento delle vendite di alcuni anni ora la nuova sindrome promette di rinnovare i fasti commerciali del Tamiflu.

Un ulteriore elemento su cui occorrerebbe riflettere è quello interente il problema degli allevamenti intensivi. Come si è detto, sono loro i principali sospettati per indurre la trasformazione dei virus e renderli capaci di saltare le specie!

Una prima conseguenza di ciò è che le pandemie sono sempre più comuni e frequenti perché sostenute da un sistema zootecnico intensivo globale che non si pensa di modificare.

Infatti le autorità sanitarie non si preoccupano minimamente di intervenire per contenerne l’espansione anzi li sostengono anche con contributi pubblici. Però è ugualmente degno di nota che gli allevamenti industriali siano ritenuti una necessità in quanto le richieste dei consumatori e dell’industria di avere sempre maggiori quantità di cibi di origine animale, anche carne di maiali e salumi, richiedono questi sistemi zootecnici industrializzati. È però necessario un altro corollario. È chiaro che i cittadini, le persone devono comprendere che sono anche loro a indurre quei sistemi con la smodata richiesta di carne e che il loro comportamento di fatto genera una delle probabili cause delle pandemie ricorrenti.



da Il Manifesto - 8 Marzo 2006


Il Tamiflu, principio attivo Oseltamivir, viene scoperto nel 1994 dai ricercatori della Gilead Sciences, impresa biofarmaceutica con sede in California. Di casa alla Gilead è il segretario di Stato americano Donald Rumsfeld: ne è stato direttore dal 1988, presidente del consiglio di amministrazione dal 1997 al 2001 e ne è tuttora azionista. Nel 1996 Gilead cede a Roche i diritti di sfruttamento del Tamiflu, in cambio del 10 per cento sul venduto. Il farmaco arriva sul mercato nord-americano e svizzero nel 1999-2000, nella maggiorparte dei paesi europei fra il 2002 e il 2003. Indicazione: influenza stagionale.

Fino all'avvento dell'aviaria, il Tamiflu vendeva poco - talmente poco che nei salotti della farmaindustria mondiale si sussurrava che Roche meditasse di ritirarlo dal mercato. Il tiepido successo dell'antivirale non stupiva i farmacologi. I test effettuati prima della commercializzazione indicano, infatti, che Oseltamivir, in gergo tecnico un «inibitore della neuraminidase», agisce sui ceppi «A» e «B» dell'influenza - ceppi che solo un apposito esame può individuare con certezza. Assunto entro 48 ore dalla comparsa dei primi sintomi, Tamiflu può ridurre la durata dell'influenza di un giorno e mezzo. Guadagno modesto, per competere con latte e miele, pezze fredde e aspirina. Per questo, più che una pillola dei miracoli, Tamiflu era considerato un «flop».

E Roche, in effetti, non sembrava puntarci particolarmente. Tanto che nel 2005 Gilead ha chiesto - ed ottenuto - la revisione dell'accordo del 1996, pena la decadenza del contratto, perché la multinazionale svizzera svizzera non avrebbe fatto abbastanza per promuovere il farmaco e omesso di versare al partner americano quasi venti milioni di dollari. Gilead riassume: «Roche ha ottenuto l'autorizzazione per il mercato in 64 paesi, ma l'ha portato solo in 21 (...) e non l'ha promosso presso medici, pazienti e autorità sanitarie». Roche nega. Ma paga: nello scorso novembre, il contenzioso è stato dichiarato chiuso con reciproca soddisfazione. E' un farmaco efficace? Ma perché Roche non avrebbe investito le sue potenti risorse di comunicazione e marketing su questo farmaco? Una risposta sorge spontanea a leggere articoli e ricerche pubblicati dalle riviste specializzate. Sulla questione chiave, ovvero «è un farmaco efficace?», non ci sarebbero sufficienti evidenze scientifiche.

La stroncatura della newsletter svizzera Infomed/Pharmakritik è lancinante: «In base alle conoscenze attuali, non c'è nessun gruppo ben definito di malati di influenza ai quali si possa consigliare un trattamento a base di Oseltamivir». La francese Prescrire è categorica: «A parte gli effetti collaterali, non si capisce cosa aggiunga alla terapia sintomatica tradizionale». Nel febbraio 2006, The Lancet ci mette una pietra sopra. I ricercatori del gruppo Cochrane hanno esaminato 50 studi sull'efficacia del Tamiflu e concludono: «E' troppo modesta, per consigliarne l'assunzione».

Ma se l'effetto sull'influenza sarebbe blando, nessun addetto ai lavori può garantire dell'efficacia del Tamiflu sull'influenza aviaria umana. Anzitutto, perché è un virus che non esiste. Il ceppo attuale non si trasmette fra esseri umani - una manciata di casi sospetti sono stati segnalati in Asia, ma se il virus fosse già mutato, a fronte di 180 milioni di pennuti morti, le vittime umane sarebbero ben più del centinaio scarso registrato fino ad oggi. E soprattutto, spiega da Ginevra il portavoce dell'Oms per l'aviaria, Dick Thompson, è impossibile giurare che il Tamiflu funzioni, perché «non abbiamo dati clinici per affermarlo». La speranza dei governi mondiali è scaturita, invece, dal «pezzo da novanta » della strategia di Roche per collocare Oseltamivir nell'arsenale contro la temuta pandemia.

Si tratta di un test di laboratorio, i cui esiti sono stati resi noti nel 2004. Venti topi sono stati infettati con il virus H5N1; i dieci trattati con un altro antivirale sono morti; dei dieci che hanno ricevuto Oseltamivir, due sono sopravvissuti. Esperimento ripetuto in seguito, con analoghi risultati: sui topi in preda all'aviaria, Oseltamivir almeno un poco funzionerebbe. Ma sugli esseri umani? In letteratura sono riportati pochissimi casi di persone affette da influenza aviaria curate col Tamiflu.

Uno studio vietnamita ha analizzato dieci pazienti: dei cinque trattati col Tamiflu, quattro sono morti. Molto citato, uno studio olandese che risale al 2003 - ma il virus era un altro (H7N7) e i risultati sono definiti «inconcludenti». The Lancet nello scorso gennaio ha dato il colpo di grazia: «Non abbiamo trovato nessuna evidenza dell'efficacia degli inibitori della neuraminidase sull'influenza aviaria umana», ha scritto Tom Jefferson del gruppo Cochrane. Le prove dell'efficacia del Tamiflu sono talmente labili da mettere in imbarazzo il portavoce dell'Oms, che dichiara: «È frustrante, ma è la situazione in cui ci troviamo. Il virus ha colpito talmente poche persone al mondo che non abbiamo pazienti su cui testare il Tamiflu».

Peggio: nelle scorse settimane alcuni ricercatori giapponesi hanno constatato che, somministrato il farmaco ad alcuni malati di aviaria, questi sviluppavano immediatamente la resistenza al principio attivo - che dunque non funzionava affatto. Dick Thompson ammette che sulla questione non c'è uno speciale programma di coordinamento con gli ospedali asiatici, né ci sono test clinici in corso. D'altronde: «Non sappiamo cosa potrebbe accadere in futuro. Perché se il virus mutasse e si trasmettesse all'uomo, magari non sarebbe più H5N1 - e allora potremmo sperare che altri antivirali potrebbero rivelarsi efficaci».

E cosa ce ne faremmo delle tonnellate di Oseltamivir stoccate in giro per il mondo? La risposta degli addetti ai lavori è univoca: nel dubbio, per sicurezza e sperando serva a qualcosa, facciamo riserve. Un farmaco sicuro? La seconda domanda elementare a proposito di farmaci, oltre all'efficacia, è quella della sicurezza. Secondo la Roche, Tamiflu ha pochi e lievi effetti collaterali - fra cui nausea e vomito. Tesi sposata dalle autorità sanitarie e punto forte di tanto nebuloso dubitare: «non siamo sicuri che funzionerà», dicono gli esperti, ma almeno.. non fa male. Ma anche su questo, nella comunità scientifica non c'è consenso.

Prima dell'approvazione da parte delle autorità sanitarie, un farmaco viene testato su poche migliaia di persone e difficilmente emerge un effetto collaterale raro. Il profilo di sicurezza del farmaco si chiarirâ con il passare degli anni, quando milioni di persone lo avranno assunto. Del Tamiflu, giovane e tutt'altro che campione di incassi, la rete mondiale della farmacovigilanza sa dunque poco e niente. Drugdex, una delle banche dati internazionali in materia, alla voce Oseltamivir inanella una sequela di «non testato».

Nel dubbio, e nell'attesa di studi clinici puntuali, le autorità e la farmaindustria ostentano ottimismo. Ma è il Giappone, la spina nel fianco: nel paese in cui la pillola d'oro è stata più venduta, il Tamiflu è stato collegato alla morte improvvisa di bambini piccoli. Il presidente dell'istituto di farmacovigilanza giapponese, Rokuro Hama, da due anni lo va ripetendo per congressi e riviste scientifiche. Sul British Medical Journal, Hama sottolinea che i bambini sono deceduti per collasso respiratorio e cita tre studi di laboratorio, dove «la somministrazione di Oseltamivir a cuccioli di topo ne ha provocato la morte per collasso respiratorio».

Proprio sulla scorta di questi studi, non è consentito somministrare il Tamiflu ai bambini che hanno meno di un anno. Molti ricercatori, però, data la carenza di dati clinici, nutrono dubbi anche sulla fascia da 1 a 12 anni. Dal punto di vista delle autorità sanitarie, quello dei bambini è un punto dolente per il motivo opposto. In caso di pandemia, sarebbero la categoria più a rischio.

E se il Tamiflu è l'unico rimedio a disposizione, è necessario poterlo dare anche a loro. Per questo, le autorità europee e americane ne hanno recentemente autorizzato l'uso a scopo di profilassi anche su pazienti da 1 a 12 anni. L'altro effetto indesiderato del Tamiflu registrato in Giappone riguarda la psiche: ci sono state alterazioni del comportamento e suicidio in giovanissimi che l'avevano assunto. Secondo Roche, sono dati falsati perché «in presenza di febbre alta, è facile che peggiorino le condizioni psicologiche di un paziente».

Ad ogni buon conto, nel maggio 2004 le autorità giapponesi hanno aggiunto alla lista dei possibili effetti collaterali del Tamiflu «disturbi neurologici e psicologici: alterazioni di coscienza, comportamenti anormali e allucinazioni ». Nel novembre 2005 l'Emea, l'autorità europea che vigila sulla sicurezza dei farmaci, dopo avere ricevuto due segnalazioni di suicidio, ha chiesto a Roche di fornirle tutti i dati clinici disponibili sugli effetti a carico della psiche. Intanto, soldi a palate In tanta confusione, una cosa è chiara: il gruppo Hoffmann-La Roche sta facendo soldi a palate.

Nel 2005, il fatturato del Tamiflu ha superato il miliardo di euro e la multinazionale ha realizzato una cifra d'affari pari a oltre 22,5 miliardi di euro - il miglior risultato della sua storia. Niente male, per un farmaco la cui efficacia è legata a una serie di «se» e «forse». Nel frattempo, mentre mezzo pianeta implorava di aumentarne la produzione o mollare il brevetto e consentire così la messa a punto di «generici», la farmaindustria svizzera ne alimentava la leggenda. Ricavato dall'anice stellata coltivata in Cina, Tamiflu «ha un processo produttivo articolato in 12 tappe, che richiedono da 6 a 8 mesi di lavorazione e si basano su tecnologie sofisticate».

Nell'ottobre 2005, Roche fa sapere che è disposta a negoziare. La pressione di Nazioni Unite e Usa si è fatta sentire - ma è la scelta della strategia di comunicazione che ancora una volta è fenomenale. Roche si dichiara preoccupata per la salute pubblica e dunque pronta a discutere le condizioni di cessione della licenza «a qualunque governo e azienda che ci contatterà». D'altronde, l'Organizzazione Mondiale del Commercio aveva stabilito nel 2001 (e ribadito nel 2003) che in caso di emergenza sanitaria i governi hanno il diritto di copiare i farmaci, a dispetto di qualunque brevetto.

Anticipando i tempi, Roche fa un'altra bella figura da Robin Hood - e si garantisce una parte di royalties. Visto il successo della prima donazione, rincara la dose con altri due milioni di trattamenti all'Oms - il relativo comunicato dell'Organizzazione Mondiale della Sanità recita: «Siamo grati a Roche per la generosa donazione ». La produzione del farmaco, che era di 5,5 milini di dosi all'inizio, è prevista per il 2007 in 300 milioni di dosi. Oltreoceano, anche gli azionisti della Gilead Sciences non se la passano male.

Scrive Fortune (novembre 2005): «Grazie alla paura di una pandemia, le azioni della Gilead sono passate in sei mesi da 35 a 47 dollari. Il capo del Pentagono ci ha guadagnato un milione di dollari».