venerdì 31 luglio 2009

Niente di nuovo sul fronte iracheno...

Qualche aggiornamento sull'Iraq: le recenti elezioni svoltesi nel Kurdistan iracheno, la situazione sugli appalti petroliferi, i quotidiani attentati, i rapporti tra USA e governo iracheno.

Solo ieri sette persone sono rimaste uccise e otto ferite in seguito allo scoppio di una bomba di fronte all'ufficio di un partito politico sunnita a Baquba, nella provincia di Diyala. Un funzionario di polizia locale ha fatto sapere che la maggioranza delle vittime apparteneva al partito. Questa provincia è particolarmente problematica dato che la popolazione è composta da arabi, curdi e turkmeni ed è inoltre divisa in sunniti e sciiti.

E sempre ieri altre sette persone sono morte invece a Qaim, nella provincia di al-Anbar, al confine con la Siria, quando un attentatore si è fatto esplodere davanti a un posto di polizia.

Mentre pochi giorni fa sette dissidenti iraniani sono rimasti uccisi nel corso di un raid delle forze di sicurezza irachene a Camp Ashraf, la loro zona franca a nord di Baghdad.
Un portavoce del ministero della Difesa ha ribadito "il diritto ad entrare nel nostro territorio e imporre la legge dell'Iraq a tutti", aggiungendo che il governo sta cercando di creare un posto di polizia all'interno del campo. La presenza del campo Ashraf in Iraq risale agli anni '80 ed è stata protetta prima da Saddam Hussein, allora in lotta contro l'Iran, e successivamente dal governo americano dopo l'invasione nel 2003.

Inoltre le autorità irachene hanno aperto un'inchiesta in merito all'incontro, non gradito dal governo di al-Maliki, avvenuto nel corso dell'anno in Turchia fra alcuni ufficiali statunitensi ed esponenti dei gruppi di insorti.
Ma allo stesso tempo al-Maliki, commemorando la caduta dei 4328 soldati USA in Iraq dal 2003, ha avanzato l'ipotesi che le truppe statunitensi possano restare sul territorio nazionale oltre la data stabilita del 2011. "Se le forze irachene dovessero richiedere ulteriore addestramento e aiuto, dovremo esaminare la situazione sulla base delle necessità dell'Iraq. Sono sicuro che il desiderio di tale cooperazione è presente da entrambe le parti", ha detto al-Maliki.

In sintesi, niente di nuovo sul fronte iracheno...


La legge del clan

di Christian Elia - Peacereporter - 29 Luglio 2009

In fondo non ci credeva nessuno. Troppo forti Barzani e il suo clan per gli altri candidati, ma per la prima volta si è manifestata un'opposizione al sistema nepotistico e corrotto che governa il Kurdistan iracheno.

L'annuncio è arrivato oggi: quando sono state scrutinate il 95 percento delle schede, la coalizione del Partito Democratico del Kurdistan (Pdk) e dell'Unione Patriottica del Kurdistan (Puk) guidata da Barzani ha ottenuto il 68.8 percento dei consensi. E' fatta, salvo terremoti elettorali. Barzani, presidente uscente della regione autonoma del Kurdistan iracheno, alleato con il Puk di Jalal Talabani, attuale presidente dell'Iraq, ha ottenuto il primo consenso elettorale del post Saddam.

Nel 2005, infatti, la presidenza era stata decisa dal Parlamento di Erbil e non dai cittadini. Il risultato, però, vede per la prima volta l'ingresso nell'Assemblea curda delle opposizioni di coloro che denunciano la gestione padronale del binomio Barzani - Talabani. Un buon segno per i dissidenti. Troppo forti gli appoggi internazionali e gli affari interni dei clan al potere per sperare in una vittoria, ma il 30 percento dei voti non è poca cosa per liste come Il Cambiamento e il suo leader Noshirwan Mustafa, un ex Puk, che ha denunciato apertamente la corruzione del potere.

Il ticket Barzani -Talabani è quello uscito dalla lotta di resistenza del popolo curdo contro il regime di Saddam. Dopo il 1991, quando l'attacco Usa portò all'istituzione di una forte autonomia curda in Iraq, il clan Barzani e Talabani hanno provato a contendersi il potere con le armi, salvo rendersi conto che non conveniva e quindi allearsi per gestire un enorme potere economico e politico.

Il voto, quindi, rompe un tabù: il potere nel Kurdistan iracheno non è più affare solo del blocco storico, ma in Parlamento si assisterà anche a un'opposizione e alla denuncia di tutte le promesse che i leader storici non hanno saputo mantenere: dalla lotta alla corruzione alla libertà di stampa, dall'emancipazione femminile allo sviluppo economico per tutti.

In tema di appoggi stranieri, a Washington hanno tirato un sospiro di sollievo. Il Segretario della Difesa Usa, Robert Gates, è giunto a sorpresa in visita in Iraq proprio mentre si contavano le schede di voto. Il generale Ray Odierno, comandante in capo delle truppe Usa in Iraq, ieri aveva denunciato il rischio che il governo centrale iracheno e le milizie curde arrivassero al conflitto armato.

Il nodo delle relazioni tra Baghdad ed Erbil è noto: lo status di Kirkuk. La città è mista ed è uno dei più ricchi giacimenti di petrolio in Iraq. Washington teme l'espansionismo curdo, anche perché un Kurdistan che contasse anche sui proventi di Kirkuk sarebbe un rischio pure per Turchia e Iran, a loro volta impegnate nel contenere le ambizioni delle comunità curde all'interno.

Inoltre se la zona centrale dell'Iraq, rispetto al nord curdo e al sud sciita, perdesse il controllo di Kirkuk, gli Stati Uniti hanno il timore che i sunniti potrebbero essere tentati dall'idea di iniziare di nuovo la lotta armata.

Gates ha incontrato Barzani (che ha così ricevuto una sorta d'investitura internazionale, visto che non erano ancora noti i risultati ufficiali) e il premier iracheno al-Maliki. L'obiettivo per l'inviato dell'amministrazione Obama era quello di ottenere rassicurazioni in merito alla soluzione 'politica' della vicenda Kirkuk e di tutti gli altri nodi economici e politici tra l'autonomia curda e il potere centrale.

Resta ancora da sciogliere, infatti, anche il problema dei contratti di sfruttamento petrolifero che Barzani ha firmato con compagnie straniere (in particolare cinesi) senza il via libera di Baghdad e quello relativo ai gruppi armati curdi che attaccano Iran e Turchia rifugiandosi in Iraq. Baghdad non ha alcuna intenzione di tollerarli, mentre i curdi hanno un problema di opinione pubblica interna nell'arrestare curdi che si battono per le loro comunità. Come ha fatto Barzani in passato, ma quelli erano altri tempi, nei quali non esisteva neanche un'opposizione al clan.


In Kurdistan l'opposizione avanza e rompe il monopolio dei due partiti di governo
da www.osservatorioiraq.it - 29 Luglio 2009

Come era prevedibile, i due maggiori partiti kurdi conservano la maggioranza nel parlamento della regione autonoma del Kurdistan, mentre Mas'ud Barzani, il suo attuale presidente, è stato riconfermato per un secondo mandato.

E tuttavia - per la prima volta - il monopolio che Partito democratico del Kurdistan (KDP), il partito di Barzani, e Unione Patriottica del Kurdistan (PUK), del presidente iracheno Jalal Talabani, esercitano da 18 anni sulla vita politica della regione è stato rotto.

Lo mostrano chiaramente i risultati delle elezioni – parlamentari e presidenziali – che si sono tenute quattro giorni fa, annunciati oggi dalla Commissione Elettorale indipendente irachena (IHEC).

La lista Kurdistani, la coalizione formata da KDP e PUK, ha vinto con il 57,34% dei voti – la maggioranza, ma non schiacciante.

Goran
, ovvero "Cambiamento", il nuovo gruppo di opposizione che rappresenta la vera novità nel panorama politico della regione autonoma kurda ha avuto una forte affermazione, con il 23,75 % dei voti - che sarebbero stati di più, sostengono i suoi esponenti, se non ci fossero stati brogli e frodi elettorali.

Buono anche il risultato di un'altra lista di opposizione: "Servizi e riforme" - una coalizione improbabile di partiti islamici e laici di sinistra, che ha ottenuto il 12,8 per cento. Anche da qui sono partite accuse di frodi nei confronti dei due partiti di governo, che avrebbero impedito un risultato migliore.

Barzani, come era stato ampiamente previsto, è stato rieletto presidente della regione, ma non si è trattato di un plebiscito. Il leader del KDP ha infatti vinto con il 69,57 % dei voti, mentre l'intellettuale indipendente Kamal Mirawidly ha avuto il 25,32 per cento.

La IHEC ha chiarito che i risultati annunciati oggi sono da considerarsi "iniziali", perché adesso i partiti hanno un lasso di tempo per contestarli.

Hamdiya al-Husseini, uno dei suoi funzionari, ha detto che sono stati presentati 651 reclami, pari a 135.000 voti che ancora non sono stati conteggiati.

Alto il dato dell'affluenza comunicato dalla Commissione elettorale: il 78,5 % di circa 2 milioni e mezzo di aventi diritto al voto - a livello regionale.

Per quanto riguarda i dati relativi alle tre province che compongono la regione autonoma kurda, a Irbil l'affluenza è stata del 79%, a Dohuk dell'85,93%, e a Sulaimaniya del 74,5 per cento.

Ora bisognerà attendere i cosiddetti risultati "certificati" e la distribuzione dei 111 seggi del Parlamento regionale - 11 dei quali sono riservati alle minoranze. Sembra già chiaro tuttavia, che, per la prima volta da quasi 20 anni, al suo interno potrà esserci una opposizione reale.

Intanto, le due formazioni di opposizione – Goran e "Servizi e riforme" - continuano a lanciare accuse di brogli e di manipolazione del voto da parte di KDP e PUK. Puntando il dito, in particolare, contro Barzani.

Nawshirwan Mustafa, il leader di Goran, che fino a non molto tempo fa era il numero due del PUK, ha chiesto alla comunità internazionale di fare pressioni sul presidente e sulla Commissione elettorale irachena perché "blocchino i risultati falsificati".


Vittoria scontata, ma più donne
di Orsola Casagrande - Il Manifesto - 26 Luglio 2009

Tra le vecchie volpi Barzani e Talabani si fa largo Nawshirwan
Ventiquattro formazioni politiche, cinque candidati alla presidenza del governo regionale, oltre due milioni e mezzo di votanti, 111 deputati da eleggere. Si possono sintetizzare così i «numeri» delle elezioni che si sono svolte ieri nel Kurdistan iracheno. A sei mesi di distanza dalle elezioni regionali che si sono tenute nelle altre zone dell'Iraq, anche il Kurdistan ha finalmente aperto le urne.

I motivi dei ritardi sono molti e niente affatto risolti. Per questo, per «blindare» la loro vittoria (e la continuazione del regno) i due partiti-clan da sempre al governo, il Partito democratico del Kurdistan (Pdk) e l'Unione patriottica del Kurdistan (Puk) si sono presentati insieme: una lista di coalizione voluta dai due leader, Masud Barzani e Jalal Talabani. Barzani, con il placet di Talabani, presidente dell'Iraq, si è ripresentato anche come candidato alla presidenza del governo regionale.

A differenza delle ultime elezioni (nel 2005) quest'anno i kurdi potranno votare e scegliere il loro presidente direttamente. Anche se il risultato è praticamente scontato, in questo voto ci sarà qualche novità. Gli sfidanti di Barzani e Talabani hanno dato battaglia fino all'ultimo, denunciando i soprusi e le minacce dei partiti di governo nei loro confronti. Il 30% dei parlamentari sarà costituito da donne, grazie al sistema delle quote in vigore, mentre 11 seggi sono riservati alle minoranze, come quella turcomanna e i cristiani.

Goran, o gruppo per il cambiamento, ha registrato un notevole successo nelle settimane di campagna elettorale. L'ufficio centrale del gruppo a Sulaimaniya è diventato punto di riferimento per migliaia di persone stanche degli abusi e della corruzione dei due gruppi al governo. I fondatori di Goran dicono di essersi ispirati alla campagna presidenziale di Barak Obama.

I suoi rappresentanti sperano di fare il pieno di voti e di poter mandare al parlamento regionale almeno una quarantina di eletti. Difficile pensare a un successo di grandi proporzioni, perché il controllo di Pdk e Puk è molto forte. Ma qualche sorpresa ci sarà. E Goran già pensa alle elezioni del prossimo gennaio per il rinnovo del parlamento federale. Nella sua campagna elettorale il movimento ha fatto particolarmente attenzione a rispondere alle esigenze dei giovani: slogan accattivanti e musica rap.

E dire che il leader del movimento è un ex del Puk, il sessanticinquenne Nawshirwan Mustafa che ha rotto con Talabani un paio di anni fa, criticando la corruzione del partito. Goran si è fatto conoscere attraverso un quotidiano, un sito web e un canale satellitare. Gli ultimi sondaggi davano la lista di Barzani e Talabani al 56% e quella di Goran al 14%. Ma gli indecisi erano il 20%. Ieri la commissione elettorale ha deciso di protrarre di un'ora l'apertura dei seggi per consentire a tutti di andare a votare. Un dettaglio da non sottovalutare, per le opposizioni.

Masud Barzani dopo il voto ha ribadito che le questioni di cui discutere con Baghdad sono chiare. La più delicata è quella di Kirkuk, che i kurdi rivendicano come loro ma che gli arabi non sono così disposti a cedere, visto il petrolio che scorre in città. Su Kirkuk poi continua a gravare l'ombra della Turchia che non sembra essersela proprio messa in tasca del tutto. «Non farò mai compromessi su Kirkuk», ha dichiarato lapidario Barzani ieri mostrando il dito macchiato di inchiostro.

Una posizione più morbida sembra tenerla il nipote di Barzani (nel Kurdistan iracheno anche la politica è un affare di famiglia), Nechirvan, primo ministro del governo regionale. «Speriamo - ha detto ieri - che dopo le elezioni saremo in grado di sederci attorno al tavolo dei negoziati assieme a Baghdad per risolvere la questione di Kirkuk. Noi kurdi - ha aggiunto - siamo disposti a mostrare flessibilità». Oltre a Kirkuk i kurdi hanno un conto aperto con Baghdad anche su territori nelle regioni di Diyala, Nineveh, Salahuddin.


La Turchia chiede "più impegno" a Iraq e Stati Uniti nella lotta al Pkk
di Carlo M. Miele - www.osservatorioiraq.it - 28 Luglio 2009

La Turchia ha chiesto all’Iraq e agli Stati Uniti "risultati concreti" nella lotta ai guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk).

Secondo il governo di Ankara, infatti, i due governo non si impegnerebbero abbastanza per combattere i ribelli kurdi, che trovano rifugio nel Nord iracheno da cui lanciano i propri attacchi in territorio turco.

"Ci attendiamo di più. Vogliamo dei risultati concreti", ha dichiarato alla stampa il ministro degli Interni turco, Besir Atalay, al termine di una riunione con alti funzionari americani e iracheni incentrata proprio sulla lotta al Pkk.

Nel vertice – ha precisato lo stesso ministro - i tre Paesi si sono impegnati a "rendere la loro cooperazione più efficace... in modo da porre fine alle attività del Pkk in territorio iracheno".

La riunione di martedì si è tenuta nell’ambito della commissione creata a novembre da Ankara, Washington e Baghdad, proprio al fine di combattere l’organizzazione combattente kurda, accusata di terrorismo anche da Stati Uniti e Unione europea, oltre che dalla stessa Turchia.

Il rappresentante iracheno, il ministro della Sicurezza nazionale Shirwan al-Waeli, ha ribadito l’impegno di Baghdad per “ripulire” il suo Paese dal Pkk.

Soluzione politica?

In parallelo con la lotta militare al Pkk, nei giorni scorsi il governo di Ankara ha annunciato la prossima presentazione di un piano di proposte per trovare una soluzione politica al conflitto con la minoranza del sudest del Paese, iniziato nel 1984 e costato circa 45mila vittime.

Stando alle indiscrezioni giornalistiche, il piano prevedrebbe delle concessioni nell’utilizzo della lingua kurda, il ripristino dei nomi kurdi delle città e dei villaggi “turchizzati” e anche un’amnistia per alcuni militanti del Pkk.

Il piano dovrebbe essere reso noto a breve, in modo da precede quello annunciato dal leader in carcere del Pkk, Abdullah Ocalan, per la metà di agosto.


Silurato il direttore della South Oil Company
da www.osservatorioiraq.it - 30 Luglio 2009

Silurato per aver criticato pubblicamente le politiche del ministero del Petrolio (e del ministro), e in particolare la scelta di affidare alle compagnie straniere lo sviluppo di alcuni grossi giacimenti già in produzione.

E’ quello che è successo a Fayadh Nima, il direttore della South Oil Company (SOC), la società petrolifera di Stato irachena che gestisce i giacimenti del sud.

Il dirigente è stato rimosso dal suo incarico, e sarà sostituito da Dhya Ja’afar, già responsabile del dipartimento giacimenti della stessa compagnia.

A dare la notizia, oggi, è stato il portavoce del ministero del Petrolio, Asim Jihad, che si è limitato a dire che “il ministero del Petrolio e il governo sono sempre alla ricerca di modi per migliorare l’amministrazione del settore petrolifero”.

Nima aveva attaccato duramente la decisione del ministro Hussein al Shahristani di ricorrere alla compagnie straniere per lo sviluppo dei giacimenti inclusi nel primo round di gare d’appalto: sei di petrolio e due di gas.

Sostenendo che il compito avrebbe dovuto essere affidato alla SOC, la compagnia che lui dirigeva. Finora.


Al via ad agosto il secondo round di gare petrolifere
www.osservatorioiraq.it - 28 Luglio 2009

Il secondo round di gare d'appalto petrolifere sta per prendere il via – ufficialmente. Il ministero iracheno del Petrolio ha invitato le compagnie internazionali interessate il 25 agosto, a Istanbul, per un incontro nel corso del quale riceveranno le informazioni per partecipare.

Ad annunciarlo è stato il vice direttore del Direttorato che si occupa dei contratti e delle licenze, Abdel Mahdi al Amidi.

In ballo ci sono questa volta 10 giacimenti – tutti di petrolio, dopo che il ministero ha fatto sapere di aver deciso di togliere dal gruppo Siba, il giacimento di gas situato nella provincia di Bassora, che in un primo momento era stato incluso in questa seconda tranche di gare.

Adesso, molto probabilmente, il suo sviluppo sarà affidato alle compagnie di Stato irachene che operano nel sud. Lo deciderà comunque il ministero del Petrolio, ha detto Amidi.

L'offerta è comunque allettante – e varia. Tra i giacimenti compresi nel secondo round ce ne sono alcuni definiti "super-giganti", come Majnun e West Qurna Fase 2. E poi East Baghdad, Halfaya, Gharrafa, Badra, Qayara, Najmah, Kifl West/Kifl Mirjan: alcuni già in produzione, altri no.

Per quanto riguarda le compagnie petrolifere, a quelle già preselezionate in occasione del primo round di gare - che si è concluso il 30 giugno, con l'assegnazione di un solo contratto (quello per il giacimento petrolifero di Rumaila, il maggiore, a un consorzio guidato dalla britannica BP) - se ne aggiungono altre nove (di cui cinque asiatiche), scelte dal ministero del Petrolio fra le 38 che avevano presentato richiesta.

Tra queste ci sono le russe Rosneft e Tatneft, Sonangol (Angola), Pakistan Petroleum, Oil India, e PetroVietnam.



Scade l'accordo. Truppe britanniche trasferite in Kuwait
da www.osservatorioiraq.it - 28 Luglio 2009

I militari britannici che erano rimasti in Iraq sono stati trasferiti in Kuwait, perché l'accordo fra Londra e Baghdad che ne autorizzava la presenza scade fra tre giorni, e il Parlamento iracheno non è riuscito ancora ad approvare un nuovo mandato.

Così il ministero della Difesa di Londra ha deciso di spostare i 150 soldati di Sua Maestà, essenzialmente personale della Royal Navy che avrebbe dovuto addestrare la Marina irachena, mentre il governo britannico sta discutendo la loro posizione con le autorità di Baghdad.

A bloccare il tutto, nel Parlamento iracheno, è stato il gruppo dei deputati che fanno riferimento a Muqtada al Sadr, che della presenza di truppe straniere in Iraq non ne vogliono sapere - nemmeno se si tratta di un centinaio di marinai britannici.

Il nuovo accordo che avrebbe dovuto autorizzarne la presenza era stato approvato dal governo iracheno il 6 giugno, ma non ha mai avuto l'Ok del Parlamento, dove i sadristi hanno sempre fatto mancare il numero legale. Fino a ieri, quando è iniziata la pausa estiva dei lavori – che durerà come minimo fino ai primi di settembre.

E di fine settembre – per un eventuale rientro dei militari in Iraq - parla il Segretario alla Difesa britannico, Bob Ainsworth, facendo presente che, oltre alla pausa estiva del Parlamento, bisogna considerare il Ramadan - il mese santo per i musulmani, che termina intorno al 20 settembre.

Dunque, questo "significa che l'accordo ora potrebbe non venire ratificato fino a fine settembre", ha scritto Ainsworth in una lettera, indirizzata al suo omologo Conservatore Liam Fox, ministro del governo ombra.

"Anche se questo ritardo è spiacevole, continuiamo nella ricerca di una soluzione assieme al governo iracheno, che fornisca alle nostre forze la base legale solida di cui hanno bisogno", ha detto un portavoce del ministero della Difesa di Londra.

"Dobbiamo rispettare i processi democratici iracheni".


Gli americani trattano con la resistenza (e Baghdad è furiosa)
di Ornella Sangiovanni - www.osservatorioiraq.it - 27 Luglio 2009

Lo sanno tutti (o quasi), però non si può dire, e quando – ogni tanto – salta fuori scoppia il finimondo.

Gli Stati Uniti stanno negoziando con gruppi della resistenza armata irachena. Non è una novità: i contatti vanno avanti da anni - a singhiozzo: a un certo punto si interrompono, poi ricominciano. E quando la cosa viene alla luce, il governo di Baghdad è furioso.

Adesso ci risiamo. Si scopre che la scorsa primavera americani e gruppi della resistenza si sono incontrati per ben due volte – in Turchia, e hanno firmato addirittura un protocollo: un accordo preliminare, preludio a negoziati veri e propri, che però non sono mai iniziati.

La rivelazione arriva – con una tempistica perfetta – a pochi giorni della visita a Washington del premier iracheno Nuri al Maliki – attraverso gli schermi di al Jazira. A parlare è lo sceicco Ali al Juburi, portavoce del “Consiglio politico della resistenza irachena”, una coalizione nata nell’ottobre 2007 che raggruppa alcuni dei principali gruppi della resistenza armata – quelli che vogliono giocare un ruolo politico, e non ne hanno mai fatto mistero.

Gli americani “non fanno sul serio”

Juburi parla di due incontri con gli americani – a Istanbul, per la precisione – in marzo e in maggio. Il terzo incontro, che avrebbe dovuto dare avvio ai negoziati veri e propri, era previsto in giugno, ma non se n’è fatto nulla. Il motivo? La parte statunitense ha mostrato “di non fare sul serio” per quanto riguarda le condizioni poste dai gruppi armati, dice Juburi.

Non è la prima volta che succede. In diverse altre occasioni, trattative in corso fra americani e resistenza irachena avevano avuto una battuta d’arresto per la stessa ragione.

Ma quali sono le richieste dei gruppi della resistenza armata? Stando a Juburi, essenzialmente quattro:

-scuse ufficiali al popolo iracheno da parte degli Stati Uniti per l’invasione del marzo 2003 e la successiva occupazione
- il rilascio di tutti i prigionieri
- impegno a ricostruire l’Iraq
- sostegno di Washington a riforme che riportino i gruppi armati all’interno del processo politico.

Solo che le trattative vere e proprie non hanno mai preso il via. Ed è proprio questo il motivo che avrebbe spinto Juburi a rendere pubblici i contatti in corso - con l’obiettivo di fare pressione sugli americani. Mettendoli in imbarazzo (e peggio), in particolare con le autorità di Baghdad. Che di negoziati con i gruppi armati (sunniti) non vogliono sentire parlare – almeno pubblicamente: per il governo Maliki, infatti, si tratta di “terroristi”.

Le rivelazioni via etere non potevano arrivare in un momento più adatto – o inopportuno, a seconda dei punti di vista. Dai media arabi la notizia degli americani che trattano con la resistenza irachena finisce su quelli statunitensi, proprio mentre Maliki si trova in visita a Washington.

Washington: Baghdad sapeva

Dal Dipartimento di Stato sono costretti a confermare: gli incontri ci sono stati – anche se le date di cui si parla sono leggermente diverse: marzo e aprile. Dettagli non ne vengono forniti, mentre Robert Wood, un portavoce del Dipartimento, sottolinea che “gli incontri in questione sono avvenuti alcuni mesi fa, e funzionari del governo iracheno ne erano a conoscenza”.

Ovvero: Baghdad sapeva. “Avendo passato gli ultimi sei anni ad aiutare l’Iraq a costruire un governo democratico rappresentativo ed efficace, l’ultima cosa che faremmo è compiere qualsiasi azione che potesse danneggiarlo”, sottolinea Wood.

E mentre funzionari turchi confermano che gli incontri fra americani e resistenza si sono svolti in Turchia, gli iracheni reagiscono male: chiedendo spiegazioni a Washington e ad Ankara, in particolare riguardo a un “protocollo” che sarebbe stato firmato fra un rappresentante dei gruppi della resistenza e un funzionario statunitense, come preludio appunto all’avvio di negoziati veri e propri.

Un protocollo preliminare

Protocollo che il governo Maliki avrebbe ricevuto qualche giorno dopo l’intervista di Juburi ad al Jazira, andata in onda il 15 luglio.

Il protocollo costituisce “una interferenza negli affari politici interni dell’Iraq”, dice un comunicato diffuso da Baghdad, che chiede “spiegazioni chiare” ai funzionari Usa e a quelli turchi attraverso le rispettive ambasciate nella capitale irachena. Che per ora tacciono.

Il governo Maliki continua a sostenere di essere stato tenuto all’oscuro dei contatti in corso fra americani e resistenza: a detta di Juburi agli incontri in Turchia avrebbero preso parte almeno tre rappresentanti dei gruppi armati (lui ha non era fra questi, ha precisato) e almeno tre funzionari del Dipartimento di Stato. Chi erano non lo dice – per il momento.

L’iniziativa di avviare i contatti, secondo Juburi, è partita dalle forze armate Usa, agli inizi di quest’anno. I diplomatici americani sarebbero stati inviati dopo che i gruppi della resistenza si erano rifiutati di negoziare con quelli che considerano “occupanti”.

Ora è di nuovo tutto fermo. Mentre Baghdad strepita, e Washington cerca di ricucire.

Hillary Clinton, Segretario di Stato Usa, in conferenza stampa con Maliki, sostiene di aver saputo delle trattative solo di recente, e promette di tenere il governo iracheno “pienamente informato” in futuro.

Ma ai giornalisti che le chiedono del protocollo, risponde solo che nessun funzionario Usa è stato autorizzato a firmare alcunché. Altri commenti non vuole farne.

Maliki, da parte sua, si dice soddisfatto dell’impegno in base al quale “l’Amministrazione [Obama] non negozierà né concluderà accordi con coloro che hanno ucciso soldati, americani, soldati, iracheni, e iracheni”.

Hoshyar Zebari, ministro degli Esteri iracheno, intervistato da al Hurra, Tv in lingua araba finanziata dagli Usa, definisce “scioccante” e "incredibile" il fatto che funzionari statunitensi e turchi (secondo le informazioni in suo possesso, agli incontri di Istanbul sarebbero stati presenti anche rappresentanti di Ankara) abbiano incontrato "sostenitori del passato regime, gruppi che adottano la violenza e il terrorismo come modo per cambiare la situazione, e le reti che credono nell’uccidere, colpire con le bombe, e prendere di mira gli innocenti".

La “mano della CIA”

Analisti iracheni vedono dietro tutto questo “la mano della CIA”, che avrebbe cercato di fare pressioni su Maliki proprio nel corso della sua visita negli Stati Uniti.

“Se fossi stato in lui, avrei interrotto la visita”, dice Jawad Talibi, un analista politico, dagli schermi di al Alam TV, televisione iraniana in lingua araba. A suo avviso, gli americani vogliono costringere il premier iracheno a riconciliarsi con i ba’athisti. E dietro questo tentativo, ci sarebbero altre potenze regionali - che vogliono il ritorno dei ba’athisti in Iraq, aggiunge Talibi.

Un riconoscimento della legittimità della resistenza

Juburi, da parte sua, considera comunque il protocollo preliminare firmato un “successo”, e un “riconoscimento” da parte degli americani della legittimità della resistenza armata irachena.

Nel documento, l’amministrazione Usa si impegnava, fra l’altro, a facilitare i movimenti di 15 rappresentanti dei gruppi della resistenza irachena che avrebbero preso parte ai negoziati, e anche a far pressioni sul governo di Baghdad per il rilascio, nel caso in cui qualcuno di loro fosse stato arrestato.

“Le nostre richieste non erano impossibili”, commenta Juburi, “Pensiamo tuttavia che gli americani abbiano perso la loro influenza e il loro potere all’interno dell’Iraq, a favore di Paesi come l’Iran”.


Nella città del cemento
di Anthony Shadid - Washington Post - 12 Luglio 2009
Traduzione di Arianna Palleschi per Osservatorio Iraq

Nella vecchia Baghdad c’è traccia di una Baghdad ancora più antica. Potremmo definirla ironia della sorte. È lì, alla statua del corpulento poeta Maruf al-Rusafi, bucherellata dai proiettili, che dà il nome a una piazza ribelle.

Attorno a lui si estende una città celebrata nella storia ma trasandata, che i soldati americani hanno finalmente lasciato. Almeno apparentemente.
Il passato è qui. Una cupola turchese di mattoni, decorata ad arabeschi, fa capolino dietro a un velo di polvere. Un colonnato maestoso sostiene balconi e balaustre dell’epoca britannica. Una sconsolata chiamata alla preghiera arriva da una moschea ottomana.

Ma pochi riescono a vedere la cupola: una ragnatela di cavi che portano sporadicamente elettricità ne impedisce la vista. Non si può passare sotto al colonnato: muri anti-esplosione impediscono il passaggio. E di rado la chiamata alla preghiera riesce a superare il diluvio dei clacson.

"Una città trasformata in un cumulo di spazzatura, finestre rotte, ed edifici fatiscenti”, lamenta Hussein Karim, un portiere che guarda fuori dal suo trespolo posto sopra al lembo di cartone sulla base di granito della statua. "Baghdad", aggiunge il suo amico, Hussein Abed, "è diventata una città distrutta".

Il 30 giugno le truppe da combattimento Usa hanno completato il ritiro da Baghdad e dalle altre città irachene. Ma i soldati si sono lasciati alle spalle una capitale che è stata mutata per sempre dalla loro presenza. Augusto si vantava del fatto che aveva trovato Roma era una città di mattoni e l’aveva trasformata in una città di marmo.

Baghdad era un’altra città di mattoni, e una cerchia di generali americani l’ha trasformata in una città di cemento. Il loro cemento è ovunque - dalla Green Zone che si estende disordinatamente fino alle barriere e ai muri anti-esplosione che si trovano lungo quasi ogni strada della città – e ha riorientato la geografia fisica, spirituale, e sociale che per più di mille anni era stata dettata dalle morbide anse del fiume Tigri.

Tuttavia, col tempo, questi muri forse conteranno meno delle forze più profonde che sei anni di presenza americana hanno accelerato. Baghdad ora è una città divisa da se stessa. Nei quartieri sciiti si trovano raramente dei sunniti, e in quelli sunniti, che oggi sono molto meno numerosi, non ci sono più sciiti. I cristiani se ne sono andati quasi tutti. I politici al potere cercano rifugio nelle fortezze, e i poveri si arrangiano da soli.

Da Beirut al Cairo, fino a Baghdad, le grandi capitali del mondo arabo hanno perso tutte una parte di tolleranza, ritirandosi dietro muri, psicologici e non solo, che segnano i confini fra le varie confessioni, etnie, e classi. Tutte piangono la scomparsa di un cosmopolitismo che sembrava radicato una generazione fa. Tutte rivogliono quegli abitanti che davano alla città più grazia. In fondo, Baghdad può essere il culmine distopico di queste tendenze, non così distrutta dal presente, quanto separata dalla sua storia.

Non sono stati gli americani a creare queste tendenze, ma le hanno favorite, lasciando spazio ai peggiori impulsi della regione.

"Distruggere è facile", afferma Karim, il portiere. "Costruire, invece, richiede molto più tempo".

Saddam Hussein portò uno stile grossolanamente marziale in una Baghdad precedente. In una capitale funzionale, i suoi monumenti avevano portato una bizzarra vanagloria.

Le Mani della Vittoria sono probabilmente il monumento più illustre in questa visione, solo per il loro cattivo gusto. Concepito nel 1985, l’arco delle spade incrociate celebrava una vittoria irachena in un momento in cui l’Iran stava vincendo la guerra durata otto anni. I pugni che afferrano le spade sono stati modellati su quelli di Saddam, ingranditi di 40 volte. Le lame ricurve sono delle repliche delle spade di Saad Ibn Abi Waqas, il generale arabo che sconfisse i persiani nel VII secolo. Per ognuna di esse ci sono volute 24 tonnellate di metallo, ricavato dalla fusione delle pistole di soldati iracheni caduti in battaglia. Dai polsi pendono delle reti che contengono migliaia di elmetti di soldati iraniani, crivellati di proiettili. A quanto si dice, il piano originario prevedeva dei teschi iraniani.

I muri di oggi sono più funzionali, ma non meno caratteristici. Non hanno la permanenza aggressiva delle barriere che gli israeliani hanno costruito per separare loro stessi dai palestinesi. Mancano di quelle scritte politiche e di quell’arte ispirata che aveva reso così caratteristico il muro di Berlino. Invece esprimono chiaramente le ambizioni disparate in un Iraq che sta emergendo dalla guerra, anche se molti si chiedono che cosa questa abbia lasciato.

I dipinti sul cemento celebrano un Iraq idealizzato di gloria sumera e babilonese, o un futuro fatto di improbabili grattacieli. I venditori li utilizzano come cartelloni pubblicitari - per agenzie immobiliari, vestiti per bambini, e cambiavalute. Il governo ci scarabocchia sopra la sua visione autoritaria della legge come antidoto al disordine radicato. "Rispetta e sarai rispettato”, recita un motto. "Sii un eroe. Proteggi l’Iraq”, esorta un altro.

"Questi muri saranno rimossi quando il popolo iracheno si sveglierà di nuovo finalmente”, dice Wissam Karim, un soldato di 28 anni diretto verso la sua base, ad A’adhamiya.

Dà un’occhiata a un muro che si estende per poco più di tre chilometri e divide i residenti sunniti di A’adhamiya da quelli sciiti di Sleikh. "Viva la resistenza", recita uno slogan scarabocchiato su una parte del muro. Qualcuno ha cancellato l’ultima parola, sostituendola con “Iraq”.

Il Khan Mirjan è stato costruito nel 1359, e un’iscrizione sul muro del caravanserraglio rende omaggio al suo fondatore, Amin al-Din Mirjan: "Il più giusto, il re dei re del mondo”. L’edificio ha resistito 600 anni come capolavoro dell’architettura islamica.

Nei mesi successi all’invasione è stato saccheggiato. L'innalzamento della falda l’ha presto inondato. Maestoso, ma ammuffito, il Khan dà l'impressione che il Colosseo probabilmente dava a un romano del Medioevo.

"Ha resistito per centinaia di anni", dice Hassan Ibrahim, 41enne occupante abusivo o guardiano (fate voi). “ Se lo si volesse distruggere, ci vorrebbero pochi minuti”.

A differenza del Cairo o di Istanbul, con il loro paesaggio urbano imperiale, ben poco dell'antichità di Baghdad è sopravvissuto. Guerre, l’inondazione del capriccioso Tigri, e qualche fulmine sporadico hanno fatto in modo che poco si salvasse. La città, invece, sembra trarre orgoglio da una cultura della memoria.

"Quando abbiamo perso il nostro spirito civilizzato?", si chiede Saad Owaiz, 58enne cliente abituale dello Zihawi Café, con il pizzetto ingiallito dalle sigarette e gli occhiali in stile Lenin.

Vagheggia un passato immaginato quanto reale. Rimpiange Rashid Street e i suoi ristoranti e cinema, ormai chiusi da tempo. Gli mancano le conversazioni tra funzionari, sceicchi, e letterati al caffè del Parlamento.

"Di questi tempi conversazioni non ce ne sono più molte", si lamenta.

Il quartiere che si estende dalla statua di Rusafi una volta era il più vivace di Baghdad, con un mix di moschee ottomane, mercati, e appartamenti dell’epoca britannica. A River Street c’era la moda; a Rashid Street, con i suoi portici, la prima strada a essere illuminata in Iraq, la cultura. Le migliori pasticcerie, il miglior caffè, e il gelato più delizioso si potevano trovare qui. Le manifestazioni di protesta passavano sempre nella piazza, per poi riversarsi altrove.

Oggi c’è un commercio di tipo diverso, merci a buon mercato invadono le strade che non si intersecano più; i muri anti-esplosione le rendono più simili a un labirinto. Il pesce pescato nel Tigri muore asfissiato in una tinozza dentro una macchina. Una piramide di bibite (tra)suda come il suo venditore. I vestiti delle ragazze tingono di giallo, arancione, e rosa una strada grigia e marrone.

Foto guardano fisso fuori dagli sporadici caffè e dalle ancor più sporadiche librerie. Lo sguardo gradevole di re Ghazi contrasta con l’innocenza infantile di re Faisal II. Un principe indossa la sidara, un berretto legato per sempre a un’epoca.

Ai tempi di quelle foto, si vanta Owaiz, lui non avrebbe mangiato più di un pezzo di pane e una fetta di formaggio, e poi avrebbe bevuto un bicchiere di succo di melograno comprato a un chiosco chiamato Hajji Zibala.

"Era come se avessimo mangiato una pecora intera", dice. "Ora se mangiassimo una pecora intera avremmo ancora fame… Non siamo proprio dell’umore".

"Per me Baghdad", aggiunge, "è come un fantasma".

Nostalgia è forse il sentimento caratterizzante in un mondo arabo disincantato, che costella le conversazioni al Cairo e a Beirut, così come a Baghdad. Indica che qualcosa – un po’ di tolleranza, una vita più libertina, il cosmopolitismo di una cultura sicura di sé - è andato perduto.

Beirut aveva il suo centro, prima che la guerra civile lo distruggesse, dove le famiglie si mettevano in posa davanti alla statua nella piazza dei Martiri per una foto. Ora zona riservata ai ricchi, una volta era un crocevia di diverse classi sociali, dove i cinema si trovavano accanto al mercato del pesce, e le boutique e le banche condividevano lo spazio con i venditori di verdura. Anche il Cairo aveva il suo centro – il caffè Groppi e i cinema quali il Rivoli, il Metro, e l’Opera – la cui era finì con l’incendio del 1952 e la rivoluzione che seguì.

Non era tutto magnifico, naturalmente. Il Cairo era una città molto più piacevole per i residenti stranieri, che a volte non parlavano neanche l’arabo, piuttosto che per gli egiziani. I turisti a Beirut potevano ignorare un anello di miseria nella periferia, popolata da sciiti privati dei loro diritti civili. Ma pochi contesterebbero che l’identità, sia essa determinata dall’appartenenza a una confessione, un’etnia, o anche a una classe, fosse definita meno rigorosamente. E quasi tutti sarebbero d’accordo sul fatto che lo sciovinismo abbia ancora la meglio sulla tolleranza.

"Come si può raccontare questa storia senza sembrare troppo nostalgici verso un mondo che, sotto molti aspetti, non vorremmo riavere?”, si è chiesto Mark Mazower, autore di "Salonica, City of Ghosts". "Questo è il dilemma."

Per Mazower la nostalgia non è qualcosa di particolarmente arabo; è piuttosto una storia universale che sembra conquistare il fallimento così come la perdita.

"Tutti sono consapevoli di quanto sia difficile per gli stati-nazione creare dei regimi stabili e al tempo stesso tolleranti”, ha detto. "La nostalgia riflette il senso della loro crisi oggi".

Nella Baghdad del dopoguerra non ci sono né stabilità né tolleranza. Ma Maysun al-Damluji non si spinge fino a incolpare le truppe americane che in maggioranza hanno lasciato la sua capitale.

"Ho sempre detto che un esercito è un esercito, malgrado tutto. Si tratta solo di ragazzi con i fucili”, dice la Damluji, architetto e parlamentare appartenente a una famiglia in vista. “ Non ti aspetti che un esercito si prenda cura di una città, né che sia sensibile ai bisogni delle persone”.

Baghdad era già stata impoverita prima che arrivassero gli americani. C'erano stati gli otto anni di guerra con l’Iran, quando i prigionieri di guerra venivano fatti sfilare per la città sui pickup. Le sanzioni seguirono un’altra guerra, l’invasione irachena del Kuwait nel 1991, facendo sparire col tempo quella che una volta era la vivace classe media di Baghdad.

"Ci sono intere generazioni cresciute senza conoscere altro se non il linguaggio della guerra, dello scontro, e della sfida”, dice la Damluji. "Lo vedi nei loro occhi".

I baghdadi – con questo termine fa riferimento alla tolleranza della città - sono spariti. Coloro i quali vengono dalla campagna, con le regole severe degli uomini duri, hanno preso il loro posto. Ai suoi tempi, lo sceicco di una tribù avrebbe potuto rinunciare al suo copricapo durante una visita nella capitale.

"Sarebbe stato troppo imbarazzante per lui”, dice. “Quando questi uomini visitavano Baghdad, si comportavano come i baghdadi. Ora le persone che vivono a Baghdad agiscono come gli anziani delle tribù che vengono dalla campagna”.

Damluji ha una risposta: un progetto per ripristinare la fascia di zona selvaggia urbana attorno alla statua di Rusafi. I proprietari diventerebbero azionisti di una società che rinnoverebbe e farebbe risorgere una parte della città che si estende per poco più di tre chilometri lungo il Tigri, da Bab al-Sharji a Bab al-Moadhem. Il traffico sarebbe interdetto. Cinema e negozi sarebbero circondati da parchi. La sua idea è simile a quella che ha favorito la ricostruzione di Beirut, ma, a differenza della capitale libanese, dice, “Cercheremo di mantenere il tessuto sociale, e non di consegnarlo a Starbucks”.

Srotola una fotografia lunga 6 metri, un’immagine satellitare della città. Non c’erano barriere, né cemento, né muri a forma di T. “ Tutto questo verrà ricreato”, giura, accarezzando la foto con la mano.

C’è una famosa canzone di Kazem al-Saher, il più famoso cantante iracheno, che parla della capitale. “ Dio ha mai creato, in tutto il mondo intero, qualcosa che sia bello come te?”, chiede il cantante. Poi il tono sale, mentre con voce lamentosa grida: "Baghdad! Baghdad! Baghdad!"

Era davvero bella? La Damluji fa una pausa.

"No", risponde. "No, non penso che Baghdad sia mai stata una città bella. Ma era una città animata. Era civilizzata”.

La fotografia resta ai suoi piedi. Dà una tirata a una sigaretta Davidoff, mentre la sua terrier grigia, Apricot, salta sulla sua sedia.

"Ci vorrà un po’”, ammette. “E’ molto più difficile costruire che demolire”.

Anthony Shadid è il corrispondente del Washington Post dal Medio Oriente. È autore del libro Night Draws Near: Iraq's People in the Shadow of America's War.

giovedì 30 luglio 2009

Obama sul filo del rasoio

Come già preannunciato due mesi fa, la luna di miele di Barack Obama con i suoi concittadini è finita, per via soprattutto delle criticate riforme economiche del suo governo e del piano sanitario che non convince anche molti all'interno del partito democratico.

Riguardo alla riforma sanitaria poi, secondo un sondaggio di NBC News e Wall Street Journal, il 42% degli americani pensa che sia una pessima idea che rischia di peggiorare la qualità dei servizi sanitari.

E intanto già slitta il voto al Congresso e Senato su questa contrastata riforma. Obama lo voleva prima del 7 Agosto, ma sarà solo a settembre e si prevede già un taglio di 100 miliardi di dollari al suo costo complessivo, stimato tra i 1000 e i 1500 miliardi.

Se a tutto ciò si aggiungono l'escalation della guerra in Afghanistan, il panorama iracheno tutt'altro che confortante e soprattutto la crisi economica ben lungi dall'epilogo, i prossimi mesi per Obama saranno veramente sul filo del rasoio.


Una pioggia di dollari sulla riforma sanitaria di Obama
di Michele Paris - Altrenotizie - 27 Luglio 2009

La vera portata e gli effetti reali della riforma sanitaria in discussione negli USA e voluta dal presidente Obama non appaiono ancora del tutto chiari, nonostante la quasi certezza di un esito alla fine quasi certamente favorevole al presidente. La consueta retorica dell’inquilino della Casa Bianca presenta agli americani il proprio progetto come la soluzione che metterà fine allo strapotere delle compagnie private di assicurazione e garantirà, per decine di milioni di cittadini ora esclusi da ogni forma di copertura, un’assistenza accessibile. Ma la credibilità dei politici democratici e repubblicani incaricati di scrivere le regole della riforma appare fortemente minata. L’industria sanitaria privata ha infatti donato quasi 200 milioni di dollari per le campagne elettorali dei candidati al Congresso di entrambi gli schieramenti tra il 2007 e il 2008 e nei primi tre mesi di quest’anno gli “investimenti” sui politici sono risultati in media nell’ordine di 1,4 milioni di dollari al giorno.

Uno dei politici democratici che maggiormente ha beneficiato e continua a beneficiare, nella sua carriera politica, dell’appoggio delle compagnie operanti nel settore della sanità privata, è il senatore dello stato del Montana, Max Baucus. Presidente della Commissione Finanze del Senato, Baucus è emerso come un personaggio chiave nella stesura della nuova legge che dovrebbe rivoluzionare il sistema sanitario americano. Da qualche mese a questa parte si è poi contraddistinto per i suoi sforzi nel raggiungere un compromesso sulla riforma con l’opposizione repubblicana, con la quale condivide tradizionalmente molte preoccupazioni per l’equilibrio del bilancio federale e per il carico fiscale sui redditi più alti.

Le battaglie elettorali del senatore Baucus, entrato al Congresso per la prima volta nel 1979, sono state finanziate nel corso degli anni in buona parte proprio da strutture ospedaliere private, compagnie di assicurazioni ed altre grandi aziende con interessi nel settore sanitario. Il comitato elettorale di Baucus ha incassato 1,5 milioni di dollari solo negli ultimi due anni, da quando cioè la sua commissione ha iniziato le operazioni preliminari per la preparazione della riforma sanitaria.

Dal momento poi che a Washington, come altrove, è il denaro che permette il libero accesso di lobbisti e industriali ai politici, le serate destinate alla raccolta di fondi a favore di Max Baucus sono sempre affollate di dirigenti di compagnie assicurative e fornitrici di prestazioni sanitarie. Come quella del maggio scorso a San Francisco, documentata dal Washington Post, per assistere alla quale era necessario staccare un assegno di almeno 10 mila dollari. Proveniente da uno stato come il Montana dove la maggior parte degli abitanti vive quotidianamente a contatto con la natura, il senatore poi pare dilettarsi nell’organizzazione di escursioni a cavallo e arrampicate, rigorosamente a pagamento, per i suoi finanziatori e attivisti.

Sfiorato solo recentemente da qualche scrupolo di coscienza, Baucus e il suo staff hanno fatto sapere di aver rinunciato a partire dal primo giugno ai contributi provenienti da organizzazioni e comitati politici con interessi nel settore sanitario. Tale condizione tuttavia, per non rinunciare del tutto ad un flusso cospicuo di denaro diretto verso le proprie casse, non è applicato ai lobbisti registrati e ai dirigenti delle grandi compagnie, i quali proseguono nel manifestare la loro generosità nei confronti del senatore del Montana.

La profonda influenza delle aziende operanti in questo settore non è diminuita con la formazione di una maggioranza democratica al Congresso e con l’elezione di un presidente deciso a mandare in porto una riforma complessiva del sistema sanitario. Semplicemente, i contributi elettorali si sono spostati a favore dei membri del partito di maggioranza. Tra gennaio e marzo del 2009, il 60% di quanto versato da queste compagnie ha finito così per beneficiare proprio i democratici.

Max Baucus non è ovviamente l’unico parlamentare impegnato nella produzione del nuovo progetto di riforma ad aver goduto della magnanimità delle aziende interessate a modellare a proprio favore il progetto di legge sulla sanità americana. L’attenzione dei donatori è rivolta soprattutto ai moderati di entrambi gli schieramenti, elementi chiave nel raggiungimento di un compromesso sulla versione finale del piano di riforma.

Così, ad esempio, il senatore dell’Iowa Charles Grassley, il repubblicano più anziano presente nella Commissione Finanze, ha ricevuto oltre 2 milioni di dollari dal settore delle assicurazioni private a partire dal 2003; per il presidente della potente Commissione della Camera dei Rappresentanti che si occupa di tassazioni e welfare (“Ways and Means Committee”) - il democratico di New York Charles Rangel - i milioni sono stati 1,6 negli ultimi due anni; uno solo invece per il repubblicano del Michigan Dave Camp che fa parte della stessa Commissione.

Nonostante la competizione nell’accaparrarsi i fondi, è però proprio il senatore Baucus ad occupare un ruolo di primo piano nei rapporti con l’industria farmaceutica e delle assicurazioni private. Il suo comitato elettorale - Glacier PAC - ha raccolto infatti ben 3 milioni di dollari tra il 2003 e il 2008, vale a dire il 20% del totale dei contributi incassati. Di tutto il denaro versatogli, solo il 10% risulta poi provenire dal suo stato. Tra i maggiori donatori ci sono Schering-Plough, corporation farmaceutica del New Jersey, New York Life Insurance, Ameng Inc., società californiana delle biotecnologie, e Blue Cross and Blue Shields, organizzazione di Chicago che raccoglie 39 compagnie assicurative.

I membri dello staff del presidente della Commissione Finanze del Senato, spesso coinvolti in ruoli di primo piano nelle trattative per la riforma sanitaria, possiedono inoltre con una certa frequenza un curriculum inequivocabile, essendo stati o essendo tuttora lobbisti per l’industria dei farmaci o per compagnie di assicurazioni.

Di fronte ad una realtà di questo tipo, non è difficile immaginare quali saranno i referenti dei parlamentari di tutti e due i partiti nel momento in cui sarà necessario decidere, ad esempio, se e quale ruolo affidare ad un eventuale piano pubblico di assistenza sanitaria. Quasi tutti i finanziatori menzionati si oppongono infatti ad un progetto che comprenda un incisivo intervento del governo federale, opzione invece sostenuta da Obama e da molti leader democratici, soprattutto alla Camera dei Rappresentanti.

Se tali ingenti investimenti richiedono necessariamente un ritorno, le sorti della riforma sanitaria, e soprattutto la sua efficacia nel limitare il dominio incontrastato del settore privato, non sembrano far prevedere niente di buono. La realtà della politica americana d’altra parte rivela un peso sempre crescente dei grandi interessi economici e finanziari, le cui attività avvengono peraltro (quasi) sempre alla luce del sole.

Decisamente meno trasparente è apparso al contrario in questi ultimi giorni il comportamento della Casa Bianca, il cui inquilino aveva promesso in campagna elettorale e all’indomani del suo insediamento di voler mettere un limite all’influenza delle lobbies. L’amministrazione Obama ha infatti rifiutato di rivelare ad un gruppo di organizzazioni civiche il nome dei dirigenti di aziende operanti nel settore sanitario e dei lobbisti che recentemente hanno visitato la Casa Bianca per incontrare il presidente e, verosimilmente, fare pressioni affinché la legislazione in fase di studio possa comprendere le loro richieste principali. Anche questa, d’altra parte, è collaborazione al raggiungimento di una riforma che vorrebbe essere di portata storica per gli Stati Uniti d’America.


Parsi: sarà la riforma sanitaria a dire se Obama sarà più Ronald Reagan o Jimmy Carter
da www.ilsussidiario.net - 27 Luglio 2009

A nove mesi dalla vittoria elettorale i sondaggi lo danno in forte calo, ma Barack Obama rilancia la sfida e dice di voler realizzare la riforma sanitaria entro l’anno. Dove cinque presidenti prima di lui hanno fallito, il nuovo presidente democratico vuole dare l’assistenza sanitaria pubblica ai 46 milioni di americani che ne sono sprovvisti. L’ostacolo maggiore sono i costi, davvero esorbitanti: la legge che dovrà finanziare la riforma dovrebbe costare tra i 1000 e i 1500 miliardi di dollari. «Il primo, vero momento cruciale della presidenza - dice Vittorio Emanuele Parsi -. Un fallimento sarebbe un vulnus permanente nell’azione politica del nuovo presidente».

Obama ha detto che la riforma sanitaria si farà. Tuttavia i sondaggi lo danno in forte calo, proprio mentre si accinge a intraprendere la riforma più difficile di tutte. Ce la farà?

Siamo di fronte al primo, vero momento cruciale della sua presidenza. Se non riesce a “quadrare il cerchio”, rischia di avere un vulnus permanente nella sua azione politica. Qui si vede se è possibile far la politica che ha promesso di fare.

Sarà davvero così discriminante il risultato?

Sì, perché da un lato c’è un certo consenso sul fatto che un paese come gli Stati Uniti non possono non avere un sistema sanitario nazionale all’altezza. Dall’altro un sistema sanitario universale lascia perplessi gli americani: il fatto che chi ha di più paghi di più, in cambio di niente, non li convince. La tassazione come redistribuzione del reddito è lontana dalla mentalità americana.

Secondo lei il Congresso è disposto a seguire ovunque il presidente? Pare che anche esponenti democratici siano contrari.

Qui ci sono due problemi. Il primo è la paura del deficit. Una paura che tutti i sondaggi sono concordi nel mettere in cima alla lista delle preoccupazioni dei cittadini americani, di tutti e non solo di quelli delle classi più alte. È la preoccupazione di una tassazione ulteriore e permanente. E Obama dovrà dimostrare e convincere, carte alla mano, che il suo progetto di riforma renderà più efficace la copertura sanitaria di quella attuata per via privata, e meno costosa per lo stato.

Cosa che non sarà facile. E l’altro problema?

Il secondo riguarda da vicino che deve votare la riforma. Ora, Obama ha una forte maggioranza, sia al Senato che alla Camera. Questo vuol dire che ci sono senatori democratici e deputati democratici che hanno vinto in collegi tradizionalmente repubblicani. Essi sanno, quindi, che se si presentano tra un anno alle elezioni di mid-term con un programma di tasse e spesa, rischiano seriamente di non essere più rieletti. Il sistema elettorale americano, basato sul collegio uninominale, è molto diverso dal nostro. Se tu, democratico, vinci in un collegio conservatore esprimi un elettorato che ti ha votato anche se è conservatore, e quindi devi fare attenzione a come voterai, perché è possibile vedere come hai votato i singoli provvedimenti.

Hanno allarmato la Casa bianca alcuni sondaggi dei giorni scorsi che davano la disapprovazione del presidente al 41% e il consenso a circa il 55%, ben al di sotto dal 70% di gradimento di inizio mandato. L’“effetto Obama” è svanito?

Obama succede ad un presidente, George Bush, divenuto molto impopolare per le sue scelte, o meglio impopolare perché alle sue scelte non ha arriso il successo sperato. In campagna elettorale si è scontrato con un candidato nettamente più debole e ha fatto valere l’effetto di novità. Partendo così alto, era inevitabile che il suo gradimento scendesse. Ora i dati ci dicono che è il terzo peggior risultato di un presidente a 180 giorni dall’elezione.

E qual è la sua lettura di questo fatto?

La prima ragione è che sia in politica internazionale che in politica interna non tutti i risultati auspicati sono stati conseguiti. E poi un conto è essere candidato, un conto è essere presidente. L’“effetto Obama” è servito per arrivare alla vittoria, poi i giochi si riaprono. Perché per vincere le elezioni possono servire qualità che sono diverse da quelle che servono per governare. Essere candidato vuol dire convincere gli altri a sostenerti, mettersi sul mercato. Ma un presidente deve convincere l’amministrazione, la macchina burocratica, il Congresso, a lavorare nella direzione che indica. È ben diverso.

Toccherà alla riforma sanitaria ridimensionare il fenomeno Obama?

Su Barack Obama ha sempre aleggiato un grande dubbio: quest’uomo è il nuovo Ronald Reagan, l’uomo capace di dare una svolta alla storia americana, o è semplicemente un nuovo Jimmy Carter? Il rischio di un presidente eletto con grandi aspettative di rinnovamento e un grande sostegno popolare, ma che poi risulta poco incisivo, non va dimenticato. Dobbiamo naturalmente augurarci che non sia così, nell’interesse degli Stati Uniti e nostro.

Qual è ora per Obama il dossier internazionale più importante?

L’Afghanistan è attualmente il fronte in cui Obama può ottenere un buon successo. Mentre le possibilità di incidere sull’Iran sono pochissime, perché il regime sta involvendosi e nessuno può sapere come va a finire e quindi la partita sul nucleare è sospesa, l’Afghanistan invece è una partita aperta. Nonostante le apparenze è il fronte più facile, perché si tratta di moltiplicare delle risorse che si hanno e di vincere la campagna. Qui molto dipende dal presidente e dalla sua capacità di mobilitare il consenso interno, gli alleati e la macchina politico-militare americana.


Come Obama riuscirà a superare Reagan nelle spese per la difesa
di Winslow T. Wheeler - www.counterpunch.org - 19 Giugno 2009
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di Rachele Materassi

Il Rubinetto del Pentagono è Completamente Aperto

Il 27 gennaio, il segretario alla difesa Robert Gates ha annunciato al Congresso quanto segue: “Il rubinetto dei fondi per la difesa aperto dall’11 settembre si sta ora chiudendo”. Subito dopo che il budget per le spese della difesa di Gates è stato approvato in data 7 maggio, il revisore dei conti del Pentagono, Robert Hale, ha confermato alla stampa: “Il rubinetto sta cominciando a chiudersi”. Un rubinetto che si chiude significa meno soldi, ma il nuovo budget stanziato per il 2010 per la difesa mostra abbastanza chiaramente che la valvola non si sta chiudendo; è intasata – piena fino all’orlo. Senza considerare i costi delle guerre in Iraq e Afghanistan, l’ammontare dei fondi stanziati per il Pentagono per il 2009 è stato di 514 miliardi di dollari. Per il 2010, Gates ne ha richiesti 534. Il flusso cresce di 20 miliardi di dollari.

Il revisore Hale ha altresì detto alla stampa “Non abbiamo una pianificazione per il periodo successivo al 2010”. Ha detto che non ce ne sarà una fino a che il Dipartimento della Difesa non avrà completato la propria revisione di strategie, programmi e linee guida – la Revisione Quadriennale della Difesa (QDR).

In realtà, c’è un piano per gli anni “dopo il 2010”. E’ compreso nel budget che il presidente Barack Obama ha approvato e inviato al Congresso lo stesso 7 maggio. I materiali sul budget dell’Office of Management and Budget* (OMB) mostrano un torrente di numeri per il futuro del Dipartimento della Difesa. Essi sono tutti visionabili dal pubblico nella Tavola 26-1 del tomo da 415 pagine edito dall’OMB per il budget del 2010, “Prospettive Analitiche”. Esso pianifica le spese del Dipartimento della Difesa fino al 2019.

Escludendo le somme stanziate per le guerre in Iraq e in Afghanistan, il piano di budget approvato dalla presidenza continuerebbe a far aumentare il budget del Pentagono: di altri 8,1 miliardi di dollari nel 2011 (1,5% in più), di altri 9 miliardi di dollari nel 2012 (1,6% in più) e di 10,4 miliardi di dollari nel 2013 (1,8% in più), e così via fino al 2019.

Se aggiungiamo i costi delle guerre Iraq e in Afghanistan, il budget del Pentagono per il presente anno fiscale – 2009 – supera quello di qualunque anno a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, inclusi i picchi di spesa per le guerre della Corea e del Vietnam.

Il piano del presidente Obama è di aumentare quell’indirizzo.

Obama supererà anche Ronald Reagan per le spese della difesa.

Obama ha intenzione di investire 2,47 mila miliardi nel Pentagono per gli anni dal 2010 al 2013. Se riuscirà ad ottenere un altro mandato pensa di investire altri 2,58 mila miliardi per il periodo dal 2014 al 2017. Sommati per otto anni, dal 2010 al 2017, la spesa programmata di Obama è di 5,05 mila miliardi di dollari.

Nei suoi primi quattro anni, Reagan ha speso, in dollari rivalutati sulla base dell’inflazione, 2,1 mila miliardi di dollari. Durante il secondo mandato, ne ha spesi 2,11, per un totale di 4,21 mila miliardi di euro in otto anni. Obama nei suoi primi quattro anni ha superato Reagan di 369 milioni di dollari. In otto anni, Obama lo sorpasserà di 840 milioni.

Molti repubblicani stanno cercando di accusare Obama di aver tagliato gli stanziamenti per la difesa. Sembrano aver scambiato i segni del più e del meno. Secondo la loro logica, il quasi-santo Ronald Reagan è stato uno che ha tagliato il budget della difesa.

E cosa dire allora di Hale e della sua implicita affermazione secondo cui nessuno di questi numeri significa qualcosa finché il Pentagono non completerà il suo tanto propagandato QDR? Il Pentagono ha condotto questo tipo di revisioni fin dall’epoca dell’amministrazione Clinton. Ciascuna di esse è stata oggetto di un ampio battage pubblicitario ed è stata citata come precursore essenziale delle grandi decisioni da prendere. Ognuna di esse è andata e venuta e non ha fatto nulla per cambiare la traiettoria che i leader del Pentagono avevano già deciso; funziona poco più che come una revisione che il dipartimento amministrativo conduce di se stesso.

Al pari delle 50 decisioni di ‘program e policy’ che Gates ha annunciato alla stampa lo scorso 6 aprile contenevano qualche notizia cattiva, come ad esempio la soppressione dell’Air Force F-22, anche il nuovo QDR probabilmente conterrà qualche decisione degna di nota una volta completato nel corso dell’anno. Vale la pena sottolineare, comunque, che le 50 decisioni di Gates erano neutrali dal punto di vista del budget (il budget del 2010 è rimasto di 534 miliardi di euro sia prima sia dopo di queste).

Possiamo aspettarci che per il QDR sarà lo stesso.

Oppure ci possiamo aspettare che i numeri cresceranno un poco. Il 14 maggio, Gates ha detto al Comitato dei Servizi Armati del Senato che per sostenere il programma presentato dal Pentagono servirà un aumento annuale del 2 percento del budget del dipartimento.

Questo supera di poco quello che Obama ha pianificato.

Alcuni obietteranno strenuamente che dobbiamo aspettare i risultati del QDR e i grandi cambiamenti che tutti sanno essere necessari. In ogni caso, se ci basiamo sulla performance di Obama sulle questioni di sicurezza nazionale, questo non succederà. Con le sue decisioni sull’Afghanistan, le speciali commissioni militari giudicanti su sospetti terroristi, la pubblicazione di registrazioni di abusi sui prigionieri e altre questioni, Obama ha già dimostrato di non avere stomaco per staccarsi del tutto dalla saggezza convenzionale e da quanto di moderato – cioè politicamente sicuro- bisogna fare sulla questione della difesa nazionale.

Allo stesso modo, possiamo aspettarci che il primo esercizio di Obama con il QDR del Pentagono atterrerà su un territorio sicuro, non sui mari tempestosi delle riduzioni effettive – o sulle acque inesplorate di una riforma vera e significativa del Pentagono.

Il rubinetto è piuttosto bloccato nella posizione in cui si trova. Ci vorrebbe un cambiamento radicale perché le cose cambino.

* L’Office of Management and Budget è il principale ufficio dell’Executive Office del Presidente degli Stati Uniti, a cui è affidata una funzione di sorveglianza sulle attività poste in essere dalle agenzie federali. L’OMB, che attualmente impiega 500 persone, ha il compito di dare consigli tecnici ai membri anziani della Casa Bianca su una molteplicità di questioni, dall’ambito legale alle problematiche relative al budget. Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/Office_of_Management_and_Budget (NdT)

Winslow T. Wheeler ha speso 31 anni a lavorare su Capitol Hill con i senatori di entrambi gli schieramenti politici e con il Government Accountability Office, specializzandosi in questioni di sicurezza nazionale. Attualmente dirige il Straus Military Reform Project del Center for Defense Information a Washington. Egli è l’autore di The Wastrels of Defense e l’editore di una nuova antologia: ‘America’s Defense Meltdown: Pentagon Reform for President Obama and the New Congress’.


La "mano tesa" agli Africani. I tre errori di Barack Obama in Africa
di Luc Mukendi*, Damien Millet*, Jean Victor Lemvo*, Emilie Tamadaho Atchaca*, Solange Koné*, Victor Nz - www.voltairenet.org - 29 Luglio 2009
Traduzione a cura di Tiberio Graziani

Barack Obama continua a migliorare l’immagine degli USA. In un discorso pronunciato a Accra al Parlamento ghanese, ha teso la mano agli Africani e si è impegnato ad aiutarli a vincere il sottosviluppo. Come nei messaggi precedenti del Cairo e di Mosca, questa retorica ha sedotto i media atlantisti –finalmente sollevati nel promuovere un “imperatore” simpatico-, ma ha annoiato fortemente gli interessati. I responsabili del Comitato per l’annullamento dei debiti del terzo mondo (CADTM) analizzano questo discorso paternalista.

Dopo il vertice del G8 in Italia, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è volato in Africa con un presunto regalo: un pacchetto di 20 miliardi di dollari da distribuire nell'arco di 3 anni in modo che i "generosi" donatori dei paesi ricchi "aiutino" a ridurre la fame nel mondo. Mentre la promessa di sradicare la fame viene regolarmente fatta dal 1970, le Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO), il mese scorso, hanno pubblicato un rapporto il mese in cui indicano che il numero di persone sottoalimentate ha superato il tetto del miliardo, cioè 100 milioni in più rispetto all’ultimo anno. Contemporaneamente, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (PAM) lanciava l'allarme e annunciava di dover ridurre le razioni distribuite in Ruanda, Uganda, Etiopia, nella Corea del Nord e in Kenya (paese di origine della famiglia paterna di Obama), principalmente a causa della riduzione del contributo degli Stati Uniti, il suo principale finanziatore [1].

Oltre all’effetto mediatico della dichiarazione del Presidente Obama, che viene ad aggiungersi a un lungo elenco di pii desideri i quali non hanno contribuito affatto a migliorare la situazione attuale, occorre ricordare che l'importo degli aiuti di 20 miliardi di euri nell'arco di 3 anni è inferiore al 2% di quello che gli Stati Uniti hanno speso nel 2008-2009 per salvare i banchieri e gli assicuratori responsabile della crisi.

Così, dopo aver teso la mano agli "amici musulmani" nell’ambito del discorso al Cairo (pur continuando dietro le quinte a destabilizzare il Medio Oriente) [2], dopo aver teso la mano agli "amici russi" (pur mantenendo le sue posizioni sulla difesa missilistica in Europa orientale), Obama tende la mano agli "amici africani" (pur mantenendo il suo elmetto neocoloniale molto ben calzato sulla testa) [3].

Quando Obama deresponsabilizza i paesi ricchi

Il lungo discorso d’Obama a Accra, nel Ghana [4], fa seguito ad una serie di incontri con i suoi omologhi stranieri. Con il preteso di rifondare le relazione statunitensi con il resto del mondo, Obama, ancora una volta, eccelle nell’arte di sostenere l’apertura e il cambiamento, pur continuando ad applicare le funeste politiche dei suoi precedessori [5].

All’inizio, egli afferma che “tocca agli Africani decidere il futuro dell’Africa”.
Tuttavia, mentre questa dichiarazione di buon senso mette tutti d’accordo, la realtà è sempre diversa, e l’azione dei Paesi del G8 è determinante da circa mezzo secolo nel privare i popoli africani della loro sovranità. Obama non dimentica di ricordare ch’egli ha « sangue africano nelle vene », come se ciò conferisse automaticamente più forza e legittimità al suo discorso. In ogni caso, il messaggio è chiaro : il colonialismo, di cui i loro antenati sono state le vittime non deve più costituire una scusa per gli Africani. Ci sono forti similitudini con il discorso pronunciato a Dakar dal presidente francese Nicolas Sarkozy qualche mese dopo la sua elezione [6], discorso che aveva sollevato un’onda di meritate proteste alla quale Obama sembra, per il momento, essere miracolosamente sfuggito… Ma noi abbiamo l’intenzione di riparare questa ingiustizia!

Velocissimamente, Obama deresponsabilizza l’Occidente riguardo allo stato attuale dello sviluppo del continente. Dichiarando che “lo sviluppo dipende dal buon governo” e che “questa è una responsabilità che soltanto gli Africani possono acquisire”, parte dal falso presupposto che la povertà che regna in Africa sia dovuta principalmente al cattivo governo ed alle libere scelte dei dirigenti africani. Insomma, la colpa è degli Africani. Niente di più sbagliato!

Con affermazioni quali « l’Occidente non è responsabile della distruzione dell’economia dello Zimbawe degli ultimi dieci anni, né delle guerre, né dei bambini che vengono arruolati come soldati », il presidente Obama occulta il ruolo centrale dei paesi ricchi nell’evoluzione dell’Africa. Ed in particolare quello delle istituzioni finanziarie internazionali, FMI e Banca mondiale in testa, questi potenti strumenti di dominazione delle grandi potenze che organizzano la sottomissione dei popoli del Sud. Ciò viene fatto attraverso politiche di aggiustamento strutturale (sovvenzioni per l'abbandono di beni essenziali, tagli della spesa pubblica, privatizzazione delle imprese pubbliche, liberalizzazione dei mercati, ecc.) che impediscono la soddisfazione dei bisogni fondamentali, diffondendo una miseria dilagante, accrescono le disuguaglianze e consentono i peggiori orrori.

Quando Obama compara l’incomparabile

Per sostenere le sue tesi, Obama confronta l’Africa con la Corea del Sud. All’inizio spiega che cinquanta anni fa, quando suo padre lasciò Nairobi per andare a studiare negli Stati Uniti, il Kenya aveva un PIL per abitante superiore a quello della Corea del Sud, prima di aggiungere: “Si è parlato dell’eredità del colonialismo e delle altre politiche praticate dai paesi ricchi. Senza voler minimizzare questo elemento, voglio dire che la Corea del Sud, lavorando con il settore privato e la società civile, è riuscito a impiantare alcune istituzioni che hanno garantito la trasparenza e la responsabilità”. Tutti coloro che leggono attentamente le nostre pubblicazioni hanno avvertito un senso di soffocamento!

Giacché il preteso successo economico della Corea del Sud è stato fatto contro le raccomandazioni della Banca mondiale imposte alla maggior parte degli altri paesi in via di sviluppo. Dopo la Seconda Guerra mondiale e fino al 1961, la dittatura militare al potere nella Corea del Sud ha beneficiato di importanti donazioni da parte degli USA per un importo di 3,1 miliardi di dollari. Più del totale dei prestiti accordati dalla Banca mondiale agli altri paesi del terzo mondo nello stesso periodo! Grazie a queste donazioni la Corea del Sud non si è indebitata per 17 anni (1945-1961). I prestiti diventeranno importanti solo a partire dalla fine degli anni 70, quando l’industralizzazione della Corea è ben avviata.

Dunque, in Corea è tutto cominciato con una dittatura dal pugno di ferro che ha applicato una politica statalista e molto protezionista. Questa dittatura è stata istituita da Washington dopo la Seconda Guerra mondiale. Lo Stato ha imposto una riforma agraria radicale con cui i grandi proprietari terrieri giapponesi furono espropriati senza indennizzo. I contadini sono diventati proprietari di piccoli appezzamenti di terreno (3 ettari al massimo per famiglia) e lo Stato ha messo le mani sull’eccedenza agricola, che prima veniva intascata dai proprietari giapponesi, quando la Corea era una colonia nipponica. La riforma agraria ha costretto i contadini a forti vincoli. Lo Stato fissava il prezzo e le quote di produzione, non permetteva il libero gioco delle forze del mercato.

Tra il 1961 e il 1979, la dittatura militare di Park Chung Hee venne sostenuta dalla Banca mondiale, benché la Corea rifiutasse di seguire il suo modello di sviluppo. A quell’epoca, lo Stato pianificava con mano di ferro lo sviluppo economico del paese. La continuità dell’adozione della politica d’industrializzazione per sostituzione d’importazione e il supersfruttamento della classe operaia costituiscono due degli ingredienti del successo economico del paese. La dittatura di Chun Doo Hwan (1980-1987) sarà egualmente sostenuta dalla Banca mondiale, anche se le sue raccomandazioni non saranno seguite (in particolare quelle relative alla ristrutturazione del settore automobilistico).

Così, quando Barack Obama dichiara che « la Corea del Sud, lavorando con il settore privato e la società civile, è riuscito a impiantare alcune istituzioni che hanno garantito la trasparenza e la responsabilità», egli omette di dire che il settore privato era chiaramente orientato dallo Stato e che la dittatura coreana « dialogava » con la società civile con la forza del fucile e del cannone : la storia della Corea del Sud dal 1945 fino agli inizi degli anni 80 è caratterizzata da massacri e repressioni brutali..

È egualmente importante rinfrescare la memoria di Barack Obama quando si riferisce all’esempio dello Zimbawe per illustrare il fallimento degli Africani e a quello della Corea del Sud come modello. Il 1980, l’anno in cui lo Zimbawe accede all’indipendenza, è stato segnato, in Corea del Sud, da manifestazioni popolari contro la dittatura militare. Esse vengono represse nel sangue: oltre 500 civili sono uccisi dai militari con il sostegno di Washington. Allora, e dal 1945, le forze armate sud-coreane erano sottoposte al comando congiunto americano-coreano che, a sua volta, era sotto il controllo del comandante in capo degli USA nella Corea del Sud. I massacri perpetrati dall’esercito sud-coreano nel maggio del 1980 furono completati da una repressione di massa nei mesi che seguirono. Secondo un rapporto ufficiale datato9 febbraio 1981, più di 57.000 persone erano state arrestate in occasione della “Campagna di purificazione sociale” intrapresa nell’estate del 1980. Di queste, oltre 39.000 furono inviate in campi militari per una “rieducazione fisica e psicologica”. Nel febbraio del 1981, il dittatore Chun Doo Hwan venne ricevuto alla Casa Bianca dal nuovo presidente degli USA, Ronald Reagan. È questo l’esempio che Obama vuole proporre al popolo dello Zimbawe e degli altri paesi africani?

La posizione geostrategica della Corea del Sud fu uno degli assi principali fino al termine degli anni ottanta, gli permisero di non cadere sotto i colpi del FMI e della Banca mondiale. Ma negli anni novanta, la situazione venne sconquassata dal collasso del blocco sovietico. Washington cambiò progressivamente la propria attitudine verso le dittature alleate ed accettò di sostenere i governi civili. Tra il 1945 e il 1992, la Corea del Sud è stata sotto regime militare con la benedizione di Washington. Il primo oppositore civile eletto alla presidenza durante elezioni libere è Kim Youngsam, che accetta il Washington Consensus e mette in atto un’agenda chiaramente neoliberale (soppressione delle barriere doganali, privatizzazione, liberalizzazione del movimento dei capitali), che farà immergere la Corea del Sud nella crisi economica del sud-est asiatico nel 1997-1998. Nel frattempo, la Corea del Sud aveva potuto realizzare una industrializzazione che i paesi ricchi hanno rifiutato all’Africa. Comprendiamo allora quanto l’esempio della Corea del Sud sia lontano dall’essere convincente e riproducibile.

Inoltre, la povertà di risorse naturali ha paradossalmente favorito lo sviluppo della Corea del Sud, giacché il paese ha evitato l’avidità delle società transnazionali. Gli Stati uniti consideravano la Corea come una zona strategica dal punto di vista militare contro il blocco sovietico, non come una fonte cruciale di rifornimenti (come la Nigeria, l’Angola o il Congo-Kinshasa). Se la Corea fosse stata dotata di forti riserve di petrolio o di altre materie prime strategiche, essa non avrebbe beneficiato da parte di Washington dello stesso margine di manovra per dotarsi di un potente apparato industriale. Gli Stati uniti non sono disposti a favorire deliberatamente l’emergere di concorrenti forti dotati contemporaneamente di grandi risorse naturali e di industrie diversificate.

Quando Obama esonera il capitalismo dalle sue colpe

A proposito dell’attuale crisi mondiale, Obama denuncia « le azioni irresponsabili di coloro [che] hanno generato una recessione che ha colpito il pianeta ». Pertanto, egli lascia pensare che questa crisi sia dovuta all’irresponsabilità di un pugno di uomini, i cui eccessi avrebbero gettato il mondo nella recessione. In tal modo, egli cela la responsabilità di coloro che hanno imposto la deregolamentazione finanziaria da quasi trenta anni, Stati uniti in testa. Sarebbe più corretto sottolineare il modello di sviluppo capitalista produttivista, imposto col forcipe dai paesi del Nord, quale causa delle attuali molteplici crisi, le quali, lontano dall’essere soltanto economiche, sono anche alimentari, migratorie, sociali, ambientali e climatiche.

Tutte queste crisi hanno per origine le decisioni prese dai governi imperialisti del Nord, e principalmente da quello degli USA che, controllano contemporaneamente l’FMI e la banca mondiale, imponendo condizioni favorevoli ai loro interessi e a quelli delle grandi imprese. Dall’ “indipendenza “ dei paesi africani, avvenuta, per la maggior parte di essi al virare degli anni 60, l’FMI e la Banca mondiale agiscono come dei cavalli di troia per favorire l’appropriazione delle ricchezze naturali del Sud e difendere l’interesse dei creditori. Sostenendo le dittature Ai quattro angoli del mondo (Mobutu nello Zaire, Suharto in Indonesia, Pinochet in Cile e tanti altri), poi facendo applicare rigorose politiche antisociali, i governi occidentali successivi non hanno mai permesso che siano garantiti i diritti umani fondamentali di una parte del mondo. Le espressioni” diritto all’autodeterminazione”, “democrazia”, “diritti economici e politici” non sono realtà in Africa, contrariamente al peso schiacciante dei debiti e le suppliche degli affamati.

A quando l’emancipazione dell’Africa?

L’Africa è stata spezzata dal sistema devastante della tratta degli schiavi nel quadro del commercio internazionale triangolare instaurato dall’Europa e dai suoi coloni nelle Americhe dal XVII al XIX secolo. Successivamente è stata messa sotto la tutela del colonialismo europeo, dalla fine del XIX sino all’indipendenza. Tuttavia, in seguito, la dipendenza è continuata attraverso il meccanismo del credito e dell’aiuto pubblico allo sviluppo. Dopo le indipendenze, stata lasciata a dei potentati (Mobutu, Bongo, Eyadema, Amin Dada, Bokassa, Biya, Sassou Nguesso, Idriss Déby…) i quali per lungo tempo erano o sono stati protetti dalle capitali europee e da Washington. Molti alti dirigenti africani, che volevano uno sviluppo autonomo e favorevole alle loro popolazioni, sono stati assassinati su ordine di Parigi, Bruxelles, Londra o Washington (Patrice Lumumba nel 1961, Sylvanus Olympio nel 1963, Thomas Sankara nel 1987…).

Le classi dirigenti africane e i sistemi politici che esse stabiliscono hanno chiaramente la loro parte di responsabilità nel perpetuare i problemi dell’Africa. Il regime di Robert Mugabe nello Zimbabwe è uno di questi. Oggi, i popoli africani sono direttamente colpiti dagli effetti della crisi globale il cui epicentro si trova a Washington e a Wall Street, rivelando il fatto che il capitalismo conduce a una situazione di stallo inaccettabile per i popoli.

Le origini africane di Barack Obama sono pane benedetto per le imprese del suo paese che difende il suo paese interessi economici molto specifici nello sfruttamento di materie prime provenienti dall’Africa.

Ecco una realtà che Obama spazza via con un colpo di mano, proseguendo un discorso paternalistico e moralista per convincere gli Africani a non impegnarsi nella lotta per una indipendenza vera e un reale sviluppo che assicuri finalmente la piena realizzazione dei diritti umani.

*Luc Mukendi
Coordinatore di AMSEL /CADTM Lubumbashi (RDC).

*Damien Millet
Segretario generale del CADTM France (Comité pour l’Annulation de la Dette du Tiers Monde). Ultimo libro pubblicato : Dette odieuse (avec Frédédric Chauvreau), CADTM/Syllepse, 2006. .

*Jean Victor Lemvo
Membro di Solidaires à Pointe Noire (Congo).
Emilie Tamadaho Atchaca
Presidente del CADD (Bénin).

*Solange Koné
Militante per i diritti delle donne (Csta d’Avorio).

*Victor Nzuzi
Agricoltore, coordinatorer di GRAPR e NAD Kinshasa (RDC).

*Aminata Barry Touré
Presidente di CAD-Mali/Coordinatrice del Forum des Peuples.

*Ibrahim Yacouba
Sindacalista (Niger).

*Éric Toussaint
Presidente di CADTM Belgio (Comitato per l'annullamento dei debiti nel terzo mondo). Ultimo libro pubblicato: Banque du Sud et nouvelle crise internationale, CADTM/Syllepse, 2008.

*Sophie Perchellet
Membro del Comitato per l’annullamento dei debiti nel terzo mondo (CADTM).

Note:

[1] Vedere il Financial Times (FT) del giugno 2009. Secondo FT, Burham Philbrook, il Sottosegretario di Stato all’agricoltura degli USA, ha dichiarato che Washington non poteva garantire i finanziamenti del PAM per l’anno 2008, nel corso del quale gli USA avevano contribuito con 2 miliardi di dollari. Sempre secondo FT, Philbrook suggeriva che il PAM dovesse ridurre il suo aiuto mentre sapeva perfettamente che il numero di affamati sarebbe aumentato nel 2009.
[2] « Discours à l’université du Caire », Barack Obama ; « Obama et les arrières-pensées de la main tendue aux musulmans », Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 4 e 9 giugno 2009.
[3] « Entretien avec AllAfrica.com », Barack Obama ; « Derrière la visite d’Obama au Ghana », Manlio Dinucci, Réseau Voltaire, 2 e 12 luglio 2009.
[4] « Discours devant le Parlement du Ghana », Barack Obama, Réseau Voltaire, 11 luglio 2009.
[5] Questa continuità apparve egualmente nell’inazione di Obama di fronte al putsch in Honduras. Mentre lo condanna, lascia che accada. Il Pentagono, peraltro, è molto vicino ai golpisti. Costoro non resterebbero al potere se il Pentagono non intimasse loro l’ordine di ritirarsi. « Honduras : les "intérêts USA" encore aux mains des militaires de la Joint Task Force Bravo », Manlio Dinucci ; « Le SouthCom prend le pouvoir dans un État membre de l’ALBA », Thierry Meyssan ; "Honduras : la politique à "deux voies" des États-Unis et du Canada », Arnold August, Réseau Voltaire, 29 giugno e 13 luglio 2009.
[6] « Discours à l’université de Dakar », Nicolas Sarkozy, Réseau Voltaire, 26 luglio 2007.