sabato 31 maggio 2008

La Kaffiyeh terrorista

Il livello di puro delirio raggiunto dall’establishment neocon negli USA ha toccato l’ennesimo suo apice in questi ultimi giorni a causa di uno spot pubblicitario della Dunkin’ Donuts, la catena regina delle ciambelle.

In questo spot televisivo Rachel Ray, una star della cucina negli USA con il suo programma “Un piatto in 30 minuti”, appariva con il classico bicchierone di carta da fast-food in mano e al collo invece una kaffiyeh bianca e nera, la tradizionale sciarpa palestinese resa popolare in tutto il mondo da Arafat.

Immediatamente si è scatenata la bagarre dei neocon che hanno identificato nella kaffiyeh il simbolo della jihad islamica contro gli Stati Uniti e, tuonando uniti come un sol uomo, hanno affermato che lo spot con la kaffiyeh era “propaganda per il terrorismo”.
La Dunkin’ Donuts si è inutilmente difesa replicando che la sciarpa era stata disegnata da una stilista appositamente per lo spot e dopo due settimane si è arresa scusandosi per la violazione della “political correctness” e ha quindi ritirato lo spot.

La protagonista dello spot si era anche dichiarata apolitica ma la furia neocon, attraverso l'editorialista di Fox News Michelle Malkin, si era abbattuta su di lei “La kaffiyeh celebra i terroristi che nei video tagliano le teste degli ostaggi, è inaccettabile che venga indossata dalle icone liberal. L'ignoranza non giustifica questa provocazione, via la kaffiyeh ”.
Aggiungendo la chicca finale “Mai più spot filo musulmani”.

I liberal hanno cercato di reagire in qualche modo a questi deliranti attacchi, cercando di spiegare che la sciarpa non può essere ridotta a simbolo dello estremismo islamico, in quanto ora è indossata da tutti in Medio Oriente, dai giovani e dai vecchi, a scuola e sul lavoro. E che filmarla per uno spot pubblicitario non è certo apologia di reato.
Niente da fare, la delirante ottusità neocon ha prevalso in un Paese in cui l’intolleranza religiosa sembra dilagare sempre più, scatenando poi ovvie reazioni a catena nel resto del mondo

E infatti dalle scuse di Dunkin’ Donuts si passa alle scuse che Bush dieci giorni fa è stato costretto a fare al governo iracheno dopo che un soldato USA aveva avuto la “bella” idea di usare una copia del Corano come bersaglio per il tiro a segno, provocando una protesta ufficiale nei confronti di Washington e il rimpatrio del soldato.

Ecco, ora quel soldato potrà allenare la sua mira sparando alle ciambelle di Dunkin’ Donuts.

venerdì 30 maggio 2008

Intervista al direttore di Al Manar

Qui di seguito l’intervista rilasciata dal direttore della televisione Al Manar, di proprietà del movimento Hezbollah, in occasione della sua recente visita di due giorni a Roma.

Un’intervista che contiene due concetti chiave che molti in Occidente fingono di non capire “Il popolo è con noi. Le dichiarazioni del presidente iraniano su Israele non ci impegnano.”


Hezbollah battezza la missione Unifil
di Francesco De Leo – Il Riformista – 29 Maggio 2008

Incontri non ufficiali di particolare importanza. Questi i rumours sulla due giorni romana del leader di Hezbollah Abdallah Kassir, direttore di Al Manar, la televisione del Partito di Dio. Noi lo abbiamo incontrato a qualche giorno dall'elezione del presidente Suleiman mentre in Libano si susseguono incontri per la formazione di un nuovo governo di coalizione, che potrebbe essere guidato dal premier uscente Fuad Siniora. Hezbollah è ovviamente il massimo protagonista di questa importante fase politica del Paese e la radio dell'esercito israeliano ha diffuso la notizia, poi smentita da un alto funzionario israeliano, che Israele sarebbe pronto a liberare cinque detenuti libanesi e a restituire i resti di dieci miliziani di Hezbollah in cambio del rilascio di due soldati catturati quasi due anni fa.

Perché avete accettato l'elezione a presidente del generale Suleiman?
«Perché è un patriota. In dieci anni poi è riuscito a trasformare l'esercito e a guidarlo secondo sani principi. Lo sosteniamo perché ha mantenuto la pace sociale evitando per il Libano un'altra guerra civile. Non è stato scelto solo da noi, ma da tutte le parti del panorama politico libanese».

Facciamo un passo indietro. Il colpo di mano militare che ha preceduto la sua elezione non ha infranto il vostro mito di resistenti? Vi siete sempre appellati a questo per giustificare il possesso di armi e avevate più volte promesso che non le avreste mai usate contro i libanesi?
«È stata una forte reazione da parte di tutta l'opposizione a una vera e propria dichiarazione di guerra contro Hezbollah del governo Siniora. Un governo che noi non consideriamo legittimo per la mancanza di una componente sciita al suo interno. Hanno voluto mettere le mani sulla nostra rete di comunicazione sotterranea, che ha permesso di resistere agli israeliani nel 2004. Questo è stato un diretto attacco alla resistenza. Abbiamo fatto 18 mesi di opposizione a Siniora e al suo governo e neanche quando abbiamo portato in piazza un milione e mezzo di persone ci hanno dato attenzione».

Cosa c'entra tutto questo con il gravissimo attentato alla televisione Futura?
«Non siamo stati noi a bruciarla, ma un piccolo gruppuscolo dell'opposizione, il Partito Sociale Nazionalista Siriano. Hanno anche issato la loro bandiera, dopo essere entrati negli studi, tutto il Libano è al corrente di questo. Hezbollah è sempre stato per la molteplicità dell'informazione e ha invitato subito gli amministratori della televisione a riprendere le trasmissioni. E così è avvenuto».

Armi, rete di telecomunicazione, controllo dell'aeroporto. Siete uno Stato nello Stato, come può il Libano considerarsi uno stato sovrano?
«Quello che dice è il risultato di una deformazione della nostra immagine. Hezbollah non è altro che un movimento di liberazione, il suo compito è difendere il Paese da qualsiasi aggressione nemica. Dal '92 tutti i governi hanno riconosciuto il nostro ruolo e vedrà sarà lo stesso per il prossimo. La nostra scelta non è quella di conservare in eterno il possesso delle armi e non è questa la nostra forza. Abbiamo un largo consenso tra la gente, combattiamo la corruzione, offriamo servizi e una mano ai diseredati, difendiamo tutti i libanesi, non solo gli sciiti».

La presenza di Unifil è un problema per voi?
«Assolutamente. Abbiamo accettato la risoluzione 1701 che ha messo fine al conflitto con Israele. Unifil è di grande aiuto. L'importante è che non interferisca con le questioni interne del Paese».

Lei oltre che parlamentare è un uomo di comunicazione. Non crede che sarebbe mediaticamente vincente, oltre che moralmente, la liberazione dei due soldati israeliani che dal 12 luglio del 2006 custodite impunemente e illegalmente?
«Hezbollah da tanto tempo sta facendo un appello alle Nazioni Unite, al mondo arabo e a tutte le organizzazioni internazionali per la liberazione dei molti libanesi che sono stati rapiti dal nostro territorio durante l'invasione israeliana e ancora non sono stati restituiti. Sono in prigione in Israele da 23 anni, mentre i soldati israeliani lo sono solo da due. Noi leghiamo la loro liberazione a quella dei nostri, credo sia così per ogni conflitto».

Che ne è di loro, sa dirci qualcosa della loro condizione?
«Io non posso dare dettagli. Solo il segretario generale del Partito, Hassan Nasrallah, in stretto rapporto con gli organi di sicurezza, può dare le giuste risposte. Io posso dirle che guardiamo a questo sequestro anche con un occhio alla questione umanitaria».

Il presidente Ahmadinejad è atteso a giorni qui a Roma. Cosa pensa delle sue dichiarazioni sulla distruzione dello Stato di Israele?
«Quanto dichiara Ahmadinejad non ci impegna per nulla. Sono sue parole e riguardano solamente lui. Noi auspichiamo che palestinesi ed ebrei vivano assieme pacificamente. Però attenzione spesso l'informazione deforma la realtà, si estrapolano frasi da un discorso più articolato. Personalmente riconosco l'olocausto degli ebrei, ma allo stesso tempo ritengo che a volte lo si strumentalizzi per giustificare l'occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele».

giovedì 29 maggio 2008

Il mainstream italiota

Non rappresenta certo una novità il livello becero e servile dei mainstream media italiani, ma fa sempre bene mantenere in allenamento la memoria.

L’articolo qui di seguito ci aggiorna sulle ultime epiche imprese dei media italioti.


Si prega di non disturbare
di Marco Travaglio - L'Unità – 29 Maggio 2008

L´altra sera il Tg1 aveva l´imbarazzo della scelta, per la notizia di apertura: il governo Berlusconi battuto alla Camera sul decreto che contiene pure la porcata salva-Rete4; il pestaggio di alcuni studenti di sinistra alla Sapienza da parte di una squadraccia fascista; i 25 arresti a Napoli per la monnezza. Non sapendo quale scegliere, l´anglosassone Johnny Raiotta ha optato per la vera notizia del giorno, forse dell´anno: i pirati nel Mar Rosso.
Servizio di apertura e intervista a un esperto di alta strategia, per spiegare al cittadino come evitare l´assalto dei corsari, che può capitare a chiunque. Poi, con comodo, le notizie. Peccato avere sprecato un servizio sui 50 anni dell´orso Yoghi la sera prima, altrimenti per nascondere i primi disastri del Cainano III andava bene anche quello. È il «ritorno alla realtà» annunciato qualche giorno fa da Alberoni.
Qualche ora più tardi, Vespa tornava per la centoventesima volta sul luogo del delitto, cioè a Cogne, con un appassionante dibattito sulla grazia alla Franzoni. Che è in galera da ben cinque giorni per aver assassinato il figlio di tre anni, dunque va prontamente scarcerata (tesi sostenuta dalla vicepalombelli Ritanna Armeni).
Intanto, a Matrix, Mentana occultava i primi guai del governo con un puntatone sull´Inter: ospite il terzino Materazzi. Roba forte, questa sì è informazione. Tant´è che i vertici Rai non si sono scusati, i direttori di rete non han preso le distanze, l´Authority non ha minacciato multe. Va tutto bene.
Poi per completare l´opera sono usciti i giornali. Che, sia detto a loro onore, non hanno apprezzato lo scoop del Tg1 sui pirati del Mar Rosso. Ma hanno comunque trovato il modo di coprirsi di vergogna. Il primo premio spetta al fu Giornale. Prima pagina: «Proibito parlare alla Sapienza». Sommario: «Dopo la gazzarra che impedì l´intervento del Papa, salta anche il dibattito sulle foibe. Scontri tra studenti di sinistra e militanti di Forza Nuova: quattro feriti, sei arrestati».
Il fatto che quelli di sinistra stessero incollando manifesti armati di pennello e quelli di destra siano scesi da un´auto armati di spranghe e manganelli è del tutto secondario. Come il fatto che, a suo tempo, nessuno abbia mai impedito al Papa di parlare (fu il Vaticano a rinunciare all´invito per evitare contestazioni). Ma che cosa contano i fatti? Nulla. Si scrive «scontri», «gazzarra», e così quel poveretto ricoverato con una svastica stampata nella carne è servito.
Anche il Corriere fa pari e patta: «rissa», «opposti estremismi». Ma il meglio lo dà Pierluigi Battista sugli arresti di Napoli nell´entourage di Bertolaso e nelle solite Fibe e Fisia del gruppo Impregilo che, quando vinsero l´appalto per non smaltire la monnezza, era della famiglia Romiti (presidente e poi presidente onorario del Corriere).
Ora dalle intercettazioni si scopre che questa bella gente trafficava illegalmente in pattume, nascondeva monnezza non trattata («mucchi di merdaccia») nelle discariche e nei vagoni per la Germania, tentava di mascherarla sotto rari strati di roba bonificata o di profumarla con «polverine magiche», mentre la vice-Bertolaso chiedeva aiuto per «truccare la discarica» e Bertolaso si dedicava a «sputtanare i tecnici del ministero dell´ Ambiente» che pretendevano il rispetto delle leggi.
Ora Bertolaso, l´ex-commissario che non risolse nulla, torna come sottosegretario-commissario-salvatore della Patria. Come chiamare Calisto Tanzi a risanare la Parmalat.
Di fronte a questo quadro devastante, anziché complimentarsi con gli autori delle indagini, Battista che fa? Se la prende con i magistrati. Non una parola su Impregilo. Non una sillaba su Bertolaso & his friends. E giù botte ai giudici che han dato «una frustata dall´impatto micidiale» (e allora? Non era proprio il Corriere ad accusare la Procura di Napoli di occuparsi troppo di Berlusconi e Saccà e poco della monnezza, tra l´altro dimenticando il processo a Bassolino+30, compresi i soliti vertici Impregilo?).
Giudici che immaginano financo «una consorteria delittuosa ramificata e pervasiva nei gangli vitali degli apparati che hanno gestito l´intera vicenda dell´immondizia napoletana» (ma va? chi l´avrebbe mai detto). Giudici che hanno organizzato «addirittura una retata con la coreografia degli arresti di massa» (e che dovevano fare per arrestare 25 persone: andarle a prendere una alla settimana per non dar troppo nell´occhio?).
Arresti per giunta «eseguiti con grande clamore» (forse che i poliziotti urlavano? le manette non eran bene oliate?). E «proprio adesso vengono eseguiti arresti chiesti dai pm a fine gennaio» (ma lo sa Battista quanto tempo occorre a un gip per leggere migliaia di pagine, più le perizie allegate? non ricorda le polemiche sul gip di S. Maria Capua Vetere per aver disposto «troppo presto» gli arresti in casa Mastella?).
In realtà il «proprio adesso» ha un senso ben preciso: non disturbare il Nuovo Manovratore. Finchè c´era Prodi, manette a manetta. Ma ora che c´è Lui, caro lei… Il vicedirettore del Corriere denuncia (senza prove e senza contraddittorio) «una tempistica perfetta… per delegittimare chi sta conducendo una battaglia decisiva sui rifiuti di Napoli». Le toghe rosse han pianificato «l´azzoppamento preventivo delle istituzioni a cui gli italiani (ma quali? ma quando mai? ndr) stanno affidando il compito di risolvere la situazione», e financo la «demolizione delle strutture chiamate a eliminare le montagne di immondizia».
In realtà, secondo le indagini, quelle istituzioni e strutture le montagne di immondizia le hanno create. Ma Battista, che non ha mai messo piede a Napoli, ne sa più degl´inquirenti: ora che c´è il Cainano, «lo Stato sembra aver imboccato la strada per la soluzione dell´ emergenza». Ecco perché si muove la magistratura: per sabotare il governo.
Ed ecco di chi sarà la colpa se il governo non risolverà l´emergenza: della magistratura.
La logica non fa una grinza. Non arresti i colpevoli della monnezza? Il colpevole sei tu. Arresti i colpevoli della monnezza? Il colpevole sei tu.

Nepal: Viva la Repubblica

Il Nepal da ieri è ufficialmente una Repubblica. Con l’annuncio fatto dal presidente pro tempore dell’Assemblea Costituente, Kul Bahadur Gurung, la monarchia viene definitivamente abolita e l’ex re Gyanendra dovrà lasciare il palazzo reale entro 15 giorni. Dall’edificio, che sarà trasformato in museo, è stata rimossa la bandiera con il simbolo reale ed issata la nuova bandiera nazionale. Il 29 Maggio diventerà festa nazionale, la Festa della Repubblica.
Scompare quindi dopo 239 anni la monarchia ed è già sparita dalle banconote l’effigie dell’ex re.
Ma ci sono volute 9 ore di attesa prima che si desse inizio alla riunione dell’Assemblea Costituente, ma alla fine la proclamazione della Repubblica è stata annunciata.

Un risultato storico reso possibile anche grazie alla legittimazione politica della guerriglia maoista, che in soli due anni si è convertita in partito politico e ha vinto le elezioni politiche del 10 Aprile scorso aggiudicandosi 217 dei 601 seggi dell’Assemblea Costituente.
E l’attuale premier Koirala dovrebbe presto essere sostituito dal leader maximo della guerriglia, Prachanda.
Ma ora la battaglia politica comincerà sul serio e non sarà semplice raggiungere in due anni l’obiettivo di scrivere la nuova Costituzione e modellare il nuovo assetto federale dello Stato.

La strada è infatti lunga e irta di ostacoli, anche perché i maoisti rimangono sempre sulla lista nera di Washington che li considera terroristi, l’India ha dovuto accettare suo malgrado l’esito elettorale facendo buon viso a cattivo gioco e due giorni prima della proclamazione della Repubblica, tre ordigni sono stati fatti esplodere a Kathmandu. Il primo di fronte alla sede dell'Assemblea Costituente, un'altra bomba è scoppiata pochi minuti dopo davanti allo stesso edificio e una terza è esplosa in un parco, causando il ferimento di sei persone.
Attentati rivendicati dal gruppo nazionalista hindu Ranabir Sena.


Cronologia degli ultimi eventi:

Aprile 1990: il re Birendra, sotto la pressione del movimento pro-democrazia, toglie il divieto di formare partiti politici, in vigore dal 1960.

Novembre 1990: il re annuncia una nuova costituzione che istituisce una democrazia multipartitica nel quadro di una monarchia costituzionale.

1996: i maoisti lanciano una ribellione armata per tentare di rovesciare la monarchia.

Giugno 2001: il re Birendra e la maggior parte dei membri della famiglia reale sono uccisi dall’allora principe ereditario Dipendra, anch’egli poi rimasto ucciso. Il Principe Gyanendra diventa re.

Febbraio 2005: il re Gyanendra assume il potere assoluto giurando di voler schiacciare i maoisti.

Aprile 2006: il re Gyanendra lascia il potere assoluto dopo forti proteste di massa in tutto il Paese. Koirala, giura come primo ministro e invita i maoisti per colloqui.

Novembre 2006: il primo ministro Koirala e il capo ribelle Prachanda firmano un accordo di pace, ponendo fine ad una guerra che ha causato più di 13.000 morti.

2007: la coalizione di governo e i maoisti si accordano per l'abolizione della monarchia dopo le elezioni.

10 Aprile 2008: i nepalesi votano per eleggere l’Assemblea Costituente e i maoisti emergono come il più grande partito politico.

28 Maggio 2008: l’Assemblea Costituente abolisce la monarchia e il Nepal diventa una Repubblica.


---------------------
Addio al Re
Di Naoki Tomasini – Peacereporter – 28 Maggio 2008

Il 28 maggio è una data che rimarrà nella storia del Nepal. Oggi il re Gyanendra lascerà il palazzo reale e la nuova Assemblea Costituente democraticamente eletta, a maggioranza maoista, proclamerà la nascita della repubblica. “Oggi è una giornata epocale” dicharava martedì il leader dei maoisti Prachanda. La monarchia del regno himalayano lascerà dunque il passo a una nuova forma di governo repubblicano, che nei dettagli non è ancora stata concordata. Proprio per queste ultime indecisioni, la riunione dell'Assemblea per la proclamazione, attesa per questa mattina, è stata rimandata di qualche ora.

Nonostante i molti molti allarmi per la sicurezza, fin dall'alba di mercoledì mattina le strade di Kathmandù erano invase di gente festante, che dava l'addio al re e salutava l'avvento della repubblica. Può sembrare strana questa disaffezione popolare dopo un regno di 239 anni, esercitato come fosse una teocrazia. In Nepal, infatti, il re è considerato una reincarnazione del dio induista Vishnu. Nei fatti, però, il sostegno popolare alla famiglia reale era andato calando già nel 2001, quando l'attuale monarca salì al potere dopo la misteriosa strage dei suoi fratelli, tra cui il suo predecessore re Birendra, molto amato dalla gente.

Il prestigio reale è stato incrinato anche dagli insuccessi nei dieci anni di lotta contro i maoisti, iniziata nel 1996 e costata la vita a più di 13 mila persone. Ed è definitivamente crollato nel 2005, quando Gyanendra esautorò il governo e assunse i poteri assoluti. Una mossa quest'ultima che portò un anno dopo alle proteste antimonarchiche che decretarono la fine del suo potere.
Il sostegno alla repubblica non è però ancora totale, negli ultimi due giorni la capitale Kathmandù è stata presidiata dalla polizia per prevenire incidenti, proteste o saccheggi. E tra lunedì e martedì tre ordigni sono stati fatti esplodere in città, causando il ferimenti di sei persone. Due bombe di medio potenziale sono state poste vicino al palazzo dove si riunisce la Costituente e la terza, quella che ha causato i sei feriti, nel parco di Ratna, nel centro della capitale. Questi attentati sono stati rivendicati da un partito fondamentalista indu chiamato Ranabir Sena.

Oggi dunque la capitale è presidiata dalla polizia anche per evitare nuovi attentati, mentre nel sud, il sedicente esercito del Terai ha indetto uno sciopero per protestare contro la Costituzione provvisoria. Da domani però la tensione si dovrebbe sciogliere e il governo ad interim del premier Gyria Prasad Koirala ha già proclamato tre giorni di festa nazionale.

Rimane aperta la domanda sul futuro di Gyanendra, che dalla proclamazione della repubblica perderà tutti i suoi privilegi e, secondo molti, potrebbe scegliere l'esilio in India. Il suo volto è già stato tolto dalle banconote e i suoi ritratti sono spariti dalle strade. Gyanendra, la regina Komal e la regina madre Ratna Rajya Laxmi si trovano ancora nel palazzo di Narayanhity, nonostante il governo li avesse invitati a lasciare la residenza reale entro ieri. Non essendo partito spontaneamente, il re dovrà ora attendere comunicazioni dal governo, che già nei giorni scorsi minacciava azioni legali contro di lui se non avesse liberato il palazzo, dove presto sorgerà un museo. Indiscrezioni riportate dai media locali riferiscono che Gyanendra avrà 15 giorni di tempo per andarsene.

Dai problemi del re al quelli del parlamento. Mercoledì la formalizzazione del passaggio alla repubblica è slittata di alcune ore per mancanza di un accordo sulle nomine e sulla forma di governo. I tre partiti vittoriosi alle elezioni dello scorso aprile, il partito del Congresso del premier Koirala, i maoisti e i leninisti, stanno ancora discutendo. Pare che i maoisti, che hanno la maggioranza, spingano per una forma di governo presidenziale che conceda loro maggior spazio di manovra. Manca ancora, inoltre, l'accordo sui nomi dei 26 membri dell'assemblea non eletti dal popolo: 575 deputati sono stati scelti nelle scorse elezioni, altri 26 devono essere nominati dal parlamento. Tante questioni sono insomma ancora da definire, ma l'Assemblea Costituente ha due anni di tempo per scrivere la bozza di Costituzione. Per ora basterà votare la fine della monarchia e, almeno su quello, l'accordo in parlamento è scontato.

mercoledì 28 maggio 2008

Frattini, l’imboscato in fureria

Durante l’ultima riunione dei ministri degli Esteri e della Difesa a Bruxelles, Frattini ha espresso al segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Scheffer, la disponibilità ad allentare le restrizioni per “uno spostamento temporaneo e caso per caso” delle truppe italiane in Afghanistan.
Dice Frattini “Ho espresso posizione favorevole alla modifica di alcuni 'caveat', quello che occorre è dare flessibilità all'impiego operativo del contingente. Serve una risposta quando viene chiesto un impiego operativo diverso. In ogni caso non mi aspetto molte più richieste rispetto a quelle che ci hanno fatto negli ultimi due anni”.

Ma un po’ di confusione alberga nella sua mente quando subito dopo aggiunge “Non ho detto che si tratta di andare al Sud, né che si tratta di uno spostamento permanente. Ho detto che non so affatto quali saranno le domande di impiego flessibile dei soldati italiani in Afghanistan”.
Ecco, Frattini dimostra soprattutto di parlare senza alcuna cognizione di causa.

E’ convinto che entro la fine di giugno l'Italia sarà “nelle condizioni di far maturare la decisione” sulla modifica dei caveat, in modo da ridurre da 72 a 6 ore il tempo necessario per decidere uno spostamento dei soldati su richiesta degli alleati.

Frattini però dichiara bellamente di non sapere affatto quali saranno le eventuali richieste degli alleati alle nostre truppe. Orsù Frattini, faccia uno sforzo di immaginazione.

Comunque Frattini stava sicuramente scherzando o mentendo, altrimenti un’irresponsabilità così manifesta e una posizione talmente prona a priori verso le decisioni prese da altri Paesi e che ricadono poi sull’Italia confermano per l’ennesima volta la sua totale inadeguatezza e impreparazione a ricoprire un incarico così delicato come quello di guidare la politica estera italiana, specie in anni così difficili come questi che stiamo vivendo.

Ma a Frattini importa solo che si elimini “l'alibi” di cui alcuni Paesi alleati si sono serviti per criticare il comportamento poco guerriero delle truppe italiane e infatti “spavaldamente” dichiara “I nostri non stanno nelle retrovie. Dobbiamo reagire a questa percezione”.
E così Frattini è contento e appagato, forse un po’ meno i nostri vertici militari e i soldati sul campo.

Perché purtroppo i nostri soldati in Afghanistan non stanno certo in fureria, mentre Frattini invece vi sguazza con piacere.


----------
L'evoluzione della missione Afghanistan e la subalternità della politica estera italiana
di Fabio Mini – La Repubblica - 27/05/2008

Le posizioni dei nostri ministri degli Esteri e della Difesa sull’impiego italiano in Afghanistan sono sostanzialmente identiche. Nel politichese di un tempo avrebbe voluto dire che sono distanti anni luce, ma non sembra questo il caso anche se il ministro Frattini vuole allineare le nostre forze ai maggiori alleati rendendo la missione più aggressiva, mentre il ministro La Russa vuole salvaguardare una parvenza di autonomia rendendola più efficiente.

Entrambi lasciano intendere che finora le nostre truppe non hanno fatto abbastanza ed invocano la flessibilità cercando di dimostrare che essa non comporta né cambiamenti, né maggiori rischi. Sbagliato. Tradotta in termini militari la flessibilità a cui fanno riferimento comporta invece più rischi, una gamma di operazioni più ampia, forze più mobili, più versatili e più integrabili in contesti multinazionali. In soldoni, più carri armati, missili, elicotteri, aerei, intelligence, più combattenti e barelle.

Il ministro La Russa ritiene di poter ottenere maggiore flessibilità incidendo sul fattore tempo. Secondo lui essere più flessibili significa non avere 76 ore di tempo per rispondere alle richieste Nato ma soltanto sei. Operativamente sei ore sono una eternità identica alle 76. In realtà non servono più di sei minuti per dare una risposta politica ad una richiesta militare della Nato. E se l’intervento è necessario e urgente, il caveat non si applica. Dal punto di vista operativo, il caveat temporale (massimo e non minimo) serve perciò da alibi per l’indecisione. Dal punto di vista politico serviva invece ad un governo diviso e traballante a prevenire e vagliare le richieste, a decantarle e a frenare le pulsioni omicide o le frustrazioni di gente che non faceva differenza nell’ammazzare dei civili o dei terroristi.

Quel tempo era una prova di profonda sfiducia nelle regole, nella politica e nella strategia dei maggiori alleati che, mescolando la missione di assistenza con la guerra di "Enduring Freedom", le avevano rese inefficaci e inutilmente vessatorie nei riguardi del popolo afgano. Nulla è cambiato nell’atteggiamento, nelle strategie o nei risultati dei nostri alleati perché questa sfiducia possa essere rimossa. Semmai, proprio perché tira un vento di allineamento acritico, il tempo di decantazione e riflessione è più necessario che mai.

Il ministro Frattini insiste sull’aspetto geografico della flessibilità: bisogna rimuovere i limiti ai nostri interventi in aree diverse da quelle assegnate. Anche questo è un caveat teorico che non ha mai impedito ai nostri di fare il loro dovere e più del loro dovere. È un caveat che tutte le nazioni hanno e che i cosiddetti alleati maggiori impongono in maniera feroce. Cattiveria, miopia? No, è una questione di autonomia di comando e controllo. La flessibilità geografica e l’allineamento di Frattini possono includere operazioni che destabilizzano gli equilibri locali che altri hanno faticosamente costruito, e comunque comportano l’impiego delle nostre truppe in settori distanti, diversi, sotto comando altrui, in situazioni provocate o subite da altri. Significa dare uomini per operazioni non chiare e per scopi diversi dalla lotta al terrorismo o dalla ricostruzione. La flessibilità geografica comporta quindi una preparazione diversa, mezzi diversi, regole d’ingaggio diverse, responsabilità e rischi diversi. Significa fare quello che vogliono gli altri alle dirette dipendenze degli altri.

Non è esattamente una evoluzione. È vero che la guerra è guerra, ma allora bisogna ribattezzare la missione e prendere atto che la rimozione dei caveat non ci consegna più libertà, efficienza e conoscenza, ma so lo più subalternità e maggiore corresponsabilità negli errori o nelle velleità altrui.

martedì 27 maggio 2008

Israele, Iran e il nucleare

L’ex presidente USA Jimmy Carter, dopo le dure critiche subite nell’aprile scorso per l’incontro avuto a Damasco con il leader di Hamas Khaled Meshaal, ieri si è tolto un altro sassolino dalle scarpe dichiarando, ad un festival letterario in Galles, che lo stato d’Israele possiede almeno 150 bombe atomiche.

Rispondendo ad una domanda su come il futuro presidente USA dovrebbe comportarsi con l’Iran e il suo programma nucleare, Carter ha detto:”Gli USA hanno più di 12.000 testate nucleari, l’ex Unione Sovietica circa lo stesso numero; Gran Bretagna e Francia ne hanno parecchie centinaia e Israele 150 o più”. Concludendo che gli USA dovrebbero parlare direttamente con l’Iran per convincerlo ad abbandonare le proprie ambizioni nucleari.

Si tratta quindi del primo presidente USA, anche se ex da quasi 30 anni, che riconosce pubblicamente l’esistenza dell’arsenale nucleare israeliano.
Carter comunque ha semplicemente dichiarato in pubblico una verità che in privato è invece sulla bocca di tutti.
Israele poi è sempre restata in assoluto silenzio sull’argomento, non confermando né smentendo mai queste accuse che da anni le sono rivolte.

L’unico israeliano che invece ne aveva parlato, il tecnico nucleare Mordechai Vanunu, è rimasto nelle patrie galere per 18 anni con l’accusa di aver svelato segreti nucleari prima di essere poi rilasciato nel 2004. Anche Vanunu aveva riportato una cifra compresa 100 e 200 testate nucleari possedute da Israele.

Intanto ieri l’AIEA, nel suo ultimo rapporto sul programma nucleare iraniano, ha scritto “Contrariamente alle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’Iran non ha sospeso le sue attività di arricchimento dell’uranio”, accusando poi il Paese di non aver permesso l’accesso ai siti, come richiesto dall’AIEA nell’Aprile scorso, né di aver fornito tutte le informazioni e le documentazioni necessarie per verificare quanto l’Iran ha sempre dichiarato, e cioè che le attività di arricchimento mirano solo a produrre energia elettrica e non armi nucleari.

Il rapporto prosegue poi “L’Agenzia è del parere che l’Iran possa disporre di informazioni ulteriori, in particolare sulla sperimentazione di alti esplosivi e su attività missilistiche, che potrebbero fare maggior luce sulla natura di questi presunti studi e che l’Iran dovrebbe condividere con l’Agenzia. Si richiedono dall’Iran spiegazioni sostanziali”.

Naturalmente le interpretazioni che danno su questo report USA e UE da una parte e Iran dall’altra sono diametralmente opposte.

Comunque sia, mentre l’Iran è oggetto di continue ispezioni, Israele invece non vedrà mai sul suo territorio un solo ispettore dell’AIEA.

E su questo le interpretazioni sono unanimi.

lunedì 26 maggio 2008

La sai l’ultima? Bin Laden è sul K2 e da lì progetta un nuovo 11 Settembre

La notizia del giorno arriva dalla Tv satellitare Al Arabiya, secondo cui Osama Bin Laden si nasconde nel nord del Pakistan nei pressi del K2. Secondo l'emittente che trasmette da Dubai, nei giorni scorsi i responsabili della sicurezza e dell'esercito americano si sono riuniti in una base militare USA di Doha, nel Qatar, per fare il punto della situazione sulla caccia a Bin Laden.

A questo summit avrebbe partecipato anche l'ambasciatore USA a Islamabad, Anne Peterson perchè la Cia lo ha localizzato in quella zona del Pakistan che confina con l’Afghanistan a ovest e a nord con la Cina. Un'area dove comandano le tribù filo-taliban.

Alla riunione di Doha era presente anche il generale David Petreaus, comandante delle forze Usa in Iraq, che proprio quattro giorni fa aveva parlato davanti al senato americano e in particolare alla commissione degli affari militari affermando che dalle zone tribali pakistane “Al Qaeda” starebbe pianificando un nuovo 11 Settembre servendosi di cittadini arabi ma anche di europei convertiti all’islam.

Siamo veramente alle comiche, anzi alle tragicomiche visto che se si continua a parlare di un nuovo attentato stile 11/9 c’è da preoccuparsi seriamente anche per il timing scelto – mancano pochi mesi alla fine del mandato presidenziale di Bush, calo inarrestabile negli USA dell’ondata patriottica e della “paura” post 11/9 e persistenza della ferma volontà di creare un “qualcosa” per giustificare anche un eventuale attacco all’Iran a ridosso delle elezioni presidenziali del novembre prossimo.

Il jolly-Bin Laden è sempre lì, nella stessa manica…

domenica 25 maggio 2008

La bolla di petrolio

Il prezzo del petrolio continua la sua folle corsa al rialzo eppure l’offerta di greggio aumenta con diversi nuovi giacimenti entrati in funzione in Arabia Saudita e Brasile, mentre la sua domanda diminuisce negli Usa e aumenta in Cina, India e America Latina ma a livelli ininfluenti sul prezzo in quanto inferiore al calo della domanda degli USA e UE.

Si tratta quindi solo dell’ennesima bolla finanziaria destinata prima o poi a sgonfiarsi come succede sempre ad ogni speculazione “degna” di tal nome.


Goldman Sachs: aggiotaggio sul petrolio
di Maurizio Blondet – Effedieffe – 25 Maggio 2008

Da settimane ormai i media ripetono la «previsione» emessa da Goldman Sachs: «Il barile arriverà a 200 dollari». E ciò, «inevitabilmente». Quel che non dicono i media è che Goldman Sach gestisce (e manipola) il GSCI, l’indice dei prezzi delle materie prime più usato nel mondo, e nel GSCI il greggio ha un «peso» sproporzionato. Goldman Sachs ha anche contribuito a far nascere il London ICE Futures Exchange, attraverso l’Atlanta Georgia ICE (International Commodities Exchange), che possiede la filiale di Londra, e di cui Goldman è comproprietaria: e l’ICE, dal gennaio 2006, è stato esentato dall’amministrazione Bush persino dalle lievissime regole vigenti in America.

L’organo di controllo sui futures americani, la Commodities Futures Trading Commission, che già non brilla per poteri di repressione, non ha accesso nemmeno ai dati degli scambi dell’ICE di Londra. L’ICE di Londra è stato oggetto di due inchieste del Congresso USA (al Senato nel giugno 2006, alla Camera bassa nel dicembre 2007) le quali hanno appurato che i rincari del greggio sono causati da contratti futures per miliardi di dollari, improvvisamente aumentati in quantità, che avvengono appunto in quel «buco nero» finanziario. Il rapporto senatoriale del 2006 ha scritto: «Ci sono là pochi gestori di fondi che sono maestri nello sfruttare le teorie sul picco petrolifero e i momentanei colli di bottiglia della domanda-offerta (1), e facendo audaci previsioni di straordinari rincari imminenti, essi gettano benzina sul fuoco rialzista in una sorta di profezie auto-avverantisi».

Insomma è chiaro: Goldman Sachs si è data i mezzi per manipolare al rialzo i prezzi del petrolio, e lo sta facendo con grande zelo. La sola domanda è come mai, dopo un simile rapporto del Senato USA, i suoi dirigenti non siano stati chiamati in giudizio per aggiotaggio o, come minimo, per conflitto d’interesse. Misteri del popolo eletto. Manipolare i rincari attraverso i futures è facilissimo, perchè all’ICE si può comprare sulla carta una partita di petrolio ad una data stabilita (future, appunto), versando in anticipo solo il 6% del prezzo. Con un margine così lieve, gli speculatori hanno in mano una leva moltiplicatrice da 16 ad 1. Rischiando mille dollari, generano una domanda di 16 mila dollari di petrolio. Domanda fittizia.

William Engdahl (2) infatti avanza il sospetto che la bolla speculativa petrolifera stia per scoppiare (come già quella edilizia sub-prime), e Goldman usi la sua «profezia» e le sue manipolazioni per rifilare agli ingenui investitori (tipicamente, i devastati fondi-pensione USA) contratti di cui la stessa Goldman si sta silenziosamente disfacendo. Sarebbe interessante vedere le posizioni sui futures petroliferi della stessa Goldman, dice Engdahl, per constatare se ha impiegato i suoi capitali sulla scommessa che il greggio andrà a 200; se, insomma, crede alla sua profezia. Naturalmente, dato che l’ICE di Londra è una stanza oscura o un buco nero, è quasi impossibile saperlo.

Ma Engdahl ricorda che nel 2001, quando a salire prodigiosamente erano i titoli delle «dot.com», ossia di micro-aziende neonate, con due o tre dipendenti, che promettevano mirabolanti avanzamenti nel software e nelle telecom e il cui valore azionario saliva in modo astronomico in base a quel che i media magnificavano di loro, avvenne proprio questo: alcuni lupi di Wall Street spingevano all’acquisto di tali azioni sopravvalutate, mentre loro, zitti zitti, le vendevano; o magnificavano le azioni di compagnie in cui le loro banche-madri avevano interessi.

Poi, la bolla delle dot.com scoppiò, l’indice NASDAQ crollò, e un’altra inchiesta del Congresso appurò che i lupi di Wall street avevano rifilato anche notizie esagerate ai grandi media ufficiali proprio per vendere a caro prezzo le azioni che stavano per cadere. Anche allora si seppe tutto «dopo», quando ormai i lupi avevano le tasche piene, i fondi-pensione le casse vuote, e senza conseguenze penali.
I segnali che la bolla petrolifera sia gonfiata deliberatamente dalla speculazione finanziaria non mancano. In aprile, l’analista petrolifero di Lehman Brothers, Michael Waldron, intervistato dal Telegraph, ha dichiarato: «L’offerta di petrolio sta superando la crescita della domanda. Le riserve sono in aumento dall’inizio dell’anno». Pochi giorni dopo a Dallas, si riuniva la American Association of Petroleum Geologists, da cui usciva questa indiscrezione: «I prezzi del greggio caleranno presto drammaticamente; sarà il gas naturale a mantenere una tendenza al rialzo a lungo termine».

Infatti, «una delle cose che è molto importante comprendere è che la crescita della domanda mondiale in petrolio non è tanto forte», ha detto David Kelly, l’analista strategico della J.P.Morgan funds. Infatti la domanda è piatta, e ciò non giustifica i rialzi. Cresce alquanto in Cina, ma cala in USA per la recessione americana: attualmente di 190 mila barili al giorno secondo i dati ufficiali dell’Energy Information Administration (ente del governo USA). E per valutare il dato occorre aver presente la differenza tra USA e Cina: la Cina consuma 7 milioni di barili al giorno, gli USA il triplo, 20,7 milioni barili al giorno. Un calo americano conta dunque molto più, sui mercati, di una accresciuta domanda cinese. La quale, peraltro, non è poi così esplosiva come ci raccontano i media (e Goldman): secondo l’ente ufficiale USA suddetto, la domanda cinese aumenterà quest’anno di 400 mila barili/giorno, un aumento non tale da turbare i mercati, rispetto ai 3,2 milioni di barili al giorno che la Cina importa.

E’ nel più grosso consumatore mondiale, l’America, che si sta profilando un calo dei consumi, che diverrà via via più pronunciato quanto più la recessione americana morderà i consumi delle famiglie, colpite dai pignoramenti, dai debiti, dalla disoccupazione crescente. Secondo Master Card, in un rapporto del 7 maggio, la domanda americana di carburanti è scesa di un imponente 5,8 %. Difatti, le riserve petrolifere americane aumentano («Per prepararsi alla guerra con l’Iran», dicono gli aggiotatori: ogni allarme è buono per tener alti i futures), mentre le raffinerie hanno ridotto i loro ritmi di raffinazione per affrontare la domanda calante: oggi lavorano all’85 per cento delle capacità, contro l’89 dell’anno scorso. E tengono basse le loro riserve di benzina allo scopo di sostenere i prezzi e i profitti.

Come non bastasse, nuovi giacimenti entreranno in produzione nel 2008, aumentando l’offerta. L’Arabia Saudita ha in progetto di aumentare di un terzo l’attività estrattiva, e di accrescere gli investimenti nel settore del 40%, per soddisfare la crescente domanda dell’Asia. Dall’anno prossimo la sua capacità di estrazione aumenterà dell’11% rispetto all’attuale. Già nell’aprile scorso funziona il nuovo campo petrolifero saudita di Khursanyah, aggiungendo all’offerta globale mezzo milione di barili al giorno di pregiato Arabian Light Crude; dal 2009 il giacimento di Khurai, il più grosso dei nuovi progetti di sfruttamento sauditi, aggiungerà 1,2 milioni del miglior greggio (e al più basso costo estrattivo) alla offerta mondiale.

In Brasile, la Petrobras sta cominciando a sfruttare il giacimento offshore di Tupi, che si valuta in 8 miliardi di barili, e dovrà portare il Brasile fra i primi dieci produttori globali, sotto la Nigeria ma sopra il Venezuela. In USA, la US Geological Survey ha riferito di nuove riserve in un’area che va dal North Dakota al Montana, e che stima in 3,65 miliardi di barili. L’Iraq ha riserve valutate non inferiori a quelle saudite, se solo il disordine americano non ne impedisse lo sfruttamento. E si tenga presente che già a 60 dollari il barile, diventano convenienti economicamente una quantità di pozzi chiusi quando il barile era a 27.

Insomma: la domanda non cresce, l’offerta aumenta - eppure, misteriosamente, i prezzi salgono. Non durerà molto: anche questa bolla scoppierà. Quando?
Questo lo deciderà Goldman Sachs, quando riterrà di averci depredato e impoverito abbastanza. Per intanto, tutti i media gridano con il padrone: «Petrolio a 200!».

-----------
1) Infinite notizie vengono diffuse, il cui effetto è rincarare i futures petroliferi: oggi sono disordini in Nigeria, domani un oleodotto fatto saltare in Iraq, dopo domani la Guerra imminente in Iran, o la «domanda insaziabile» in Cina. I rincari vengono inoltre spiegati in base al «rischio terrorismo» che impone un sovrapprezzo, e col «picco petrolifero». Tutte ragioni plausibili. Il fatto è che si addensano negli ultimi tempi, provocando istantanei colli di bottiglia per ingorgo di domanda da panico.
2) William Engdahl, «More on the real reason behind high oil prices», GlobalResearch, 21 maggio 2008.

sabato 24 maggio 2008

Il Sudafrica e gli immigrati: potenziale fenomeno “d’avanguardia”

In Sudafrica da quasi due settimane si susseguono le violenze contro gli immigrati, provenienti soprattutto da Zimbabwe Malawi Mozambico e Somalia, che finora hanno fatto 42 morti e più di 20.000 sfollati che stanno cercando di uscire dai confini per tornare nei rispettivi Paesi di origine.

Le cause di questa ennesima guerra tra poveri sono da addebitare alla presunta sottrazione di posti di lavoro da parte degli immigrati nei confronti dei sudafricani e all’aumento della criminalità.

Siamo quindi in presenza di un fenomeno “d’avanguardia” che potrebbe diffondersi anche nel ricco Occidente, dove gli immigrati sono già mal visti perché ritenuti la causa principale dell’aumento del tasso di criminalità e i primi roghi di campi rom testimoniano l’inizio di una potenziale escalation che potrebbe sfociare in un prossimo futuro nell’emulazione di ciò che sta accadendo in Sudafrica.


Sud Africa: violenza contro gli immigrati
di Marco Montemurro – Altrenotizie – 23 Maggio 2007

Da giorni proseguono dimostrazioni e assalti contro gli stranieri nei sobborghi delle città in Sud Africa. Il dilagare delle violenze ha causato decine di morti, 42 accertati al 21 Maggio, e migliaia di fuggitivi, oltre 13.000 ha reso noto il 20 Maggio l'Organizzazione internazionale delle migrazioni. L’ondata di proteste è scoppiata l’11 Maggio ad Alexandra, distretto ai margini di Johannesburg, dopo un violento litigio tra bande che ha causato due morti, sudafricani contro un gruppo d’immigrati dallo Zimbabwe.

Da quel momento si incomincia a dare sfogo alla rabbia contro gli stranieri, africani provenienti soprattutto dallo Zimbawe, Mozambico, Malawi e Somalia, e la situazione sembra degenerare nei sobborghi delle città. La polizia inizialmente è intervenuta per disperdere la folla e fermare gli attacchi ma, di fronte al precipitare della situazione, il presidente sudafricano Thabo Mbeki ha poi approvato il dispiegamento dell'Esercito. Tra i morti e i feriti ci sono uomini e donne dati alle fiamme, colpiti con il machete, bastonate, o linciati con pietre e mattoni. Migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le loro case per cercare riparo nelle stazioni di polizia, chiese e centri d’emergenza.

Gli stranieri, provenienti dai paesi poveri della regione, sono accusati dai sudafricani di “rubare il lavoro” perché disposti a lavorare alla metà della paga, malvisti perché ritenuti causa dell’incremento della criminalità. Il giornale The Sowetan ha riportato anche l’uccisione di un impresario, proprietario di un ditta edile, colpevole di aver assunto lavoratori stranieri. La Commissione per i Diritti Umani in Sud Africa (SAHRC) ha accusato il governo di aver sottovalutato il crescere della xenofobia e il presidente Tseliso Thipanyane ha ricordato: “E’ dal 1999 che ci occupiamo di queste problematiche, da quando due immigrati furono gettati fuori da un treno a Pretoria. Allora organizzammo la campagna “Fuori la xenofobia”.

Secondo ricerche di alcune organizzazioni umanitarie, infatti, fenomeni di violenza contro gli immigrati non sono una novità nel Paese. Dal 2005 si contano almeno 16 attacchi contro gli stranieri, eventi divenuti frequenti soprattutto negli ultimi mesi, e la Somali Association of South Africa rivela che 417 somali sono stati uccisi dal 1997 ad oggi.In Sud Africa risiedono tre milioni di immigrati regolari e altrettanti senza documenti e sono costanti i flussi migratori dalle regioni vicine, provenienti maggiormente dallo Zimbabwe, Paese in grave crisi economica. I nuovi arrivati trovano abitazioni nelle baraccopoli ai margini delle grandi città dove è già molto critica la situazione; ad Alexandra, sobborgo di 400.000 abitanti alla periferia di Johannesburg, il tasso di disoccupazione è molto alto e si aggira attorno al 60% della popolazione attiva (contro il 23% su scala nazionale).

Il vescovo Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, ha esortato la popolazione alla radio: "Vi prego, fermate subito queste violenze. Quelli che attaccate, che uccidete, che violentate, sono nostri fratelli e sorelle. Anche noi siamo stati aiutati da altri africani, abbiamo sofferto, sappiamo cosa significa fuggire dalla miseria. Noi stiamo uccidendo i loro bambini. Fermatevi, vi imploro: non possiamo disonorare le nostre conquiste. Stiamo di nuovo tornando agli anni delle catene e dei collari". Anche il presidente sudafricano Thabo Mbeki ha chiesto la fine delle violenze: “Sono azioni vergognose e criminali. I cittadini degli altri paesi africani e dei paesi più lontani sono esseri umani come noi e meritano di essere trattati con rispetto e dignità. Il Sudafrica non è un'isola separata dal continente”.

Nonostante gli appelli, dopo oltre dieci giorni le violenze non paiono però fermarsi e hanno provocato la fuga di migliaia di persone dalle loro abitazioni. Secondo la stampa mozambicana oltre 3000 connazionali sono ritornati nel paese per salvarsi. La polizia sudafricana ha arrestato oltre 400 violenti e il portavoce, Govindsamy Mariemuthoo, definendo gli eventi ha dichiarato: “Non stiamo parlando di xenofobia, ma di criminalità”. Il quotidiano di Johannesburg The Sowetan ha riportato le denunce che il “South African Institute of Race Relations” ha rivolto contro il governo, responsabile di non essere intervenuto in precedenza riguardo le condizioni di vita nei sobborghi.

L’ente ha così spiegato i motivi dei disordini: “Un’amministrazione povera e inefficace ha creato una miscela di malcontento che è esplosa ad Alexandra e che si è diffusa in molte altre aree. In pratica questi fallimenti hanno creato assenza di legge, povertà e aspettative insoddisfatte che sono degenerate in violenza”. Ha accusato inoltre l’incompetenza del Ministero della Sicurezza e la corruzione della polizia, e puntato il dito verso l’alto tasso di disoccupazione e la mancanza d’istruzione, definita “il più grande fallimento del governo”.

giovedì 22 maggio 2008

L'antipasto di Frattini

Frattini è appena ritornato alla guida della Farnesina e già si vedono i primi “risultati”.
Ha esordito proponendo un cambiamento delle regole d’ingaggio per il contingente UNIFIL in Libano ma è stato prontamente zittito dai vertici militari italiani, in particolare dal generale italiano Graziani alla guida della missione ONU, che non ne vogliono proprio sapere di modifiche.

Poco dopo sono scoppiati gli scontri tra le varie milizie libanesi e ovviamente Frattini si è ben guardato dal ritornare sull’argomento ammutolendosi del tutto.
Però domenica prossima farà una bella gita a Beirut, ospite del Parlamento libanese per assistere alla seduta che finalmente eleggerà il nuovo Presidente della Repubblica, il generale Suleiman.

Dopo questo primo svarione, Frattini ne ha commesso subito un altro quando ha annunciato che il nuovo governo italiano avrebbe tenuto una linea più “ferma” verso l’Iran rispetto al governo Prodi, dichiarandosi anche d’accordo per un ulteriore inasprimento delle sanzioni.
E si è subito beccato un beffardo rimprovero dal portavoce del ministero degli esteri di Teheran, Mohammad Ali Hosseini, che ha dichiarato “L'Iran si aspetta che il governo italiano abbia una posizione più realistica e non si faccia influenzare dalle affermazioni irrealistiche di altri Paesi”.

Ma non finisce qui. Frattini ha dovuto pure rispondere alle dure critiche del governo spagnolo verso la politica sull’immigrazione decisa dal nuovo governo.

Infine ieri ha dichiarato che sulla missione militare in Afghanistan “c’è bisogno di adeguarsi rapidamente alle minacce… l’Italia è pronta a discutere con la Nato la revisione dei caveat al fine di garantire una maggiore efficacia e flessibilità di impiego delle nostre truppe”.
Cambiamenti che saranno discussi alla conferenza sull’Afghanistan in programma per il 12 giugno a Parigi e saranno resi operativi ad agosto, quando l’Italia lascerà il comando della capitale Kabul ai francesi, spostando tutto il contingente (2.600 soldati) sul fronte occidentale di Herat e Farah.
Naturalmente queste sue dichiarazioni hanno subito incontrato l’approvazione del segretario generale della NATO Jaap de Hoop Scheffer.

Se poi aggiungiamo anche il rapimento dei due cooperanti italiani in Somalia, bisogna proprio ammettere che in pochi giorni Frattini si è già creato, volontariamente e non, una bella serie di gatte da pelare...complimenti.


Italia provincia d’Israele
di Maurizio Blondet – Effedieffe – 22 Maggio 2008

Lettore antelucano di giornali, Siro mi manda due SMS:
«PDL piazza Nirenstein e Ruben in commissione affari esteri. Curiosa coincidenza: che cosa di ‘estero’ devono mai tutelare questi due deputati ‘italiani’»?
«Berlusca apre TV per Paesi del Maghreb. La pornocrazia dell’occidente giudaico-cristiano più efficace del napalm».

Eh sì, sono queste le vere «svolte» del governo cosiddetto «di destra». Quelle strombazzate da tutti i grandi media improvvisamente non più ostili saranno bocciate dalla Corte Costituzionale o semplicemente inapplicabili. Il reato d’immigrazione clandestina, l’aggravante per atti commessi da immigrati eccetera, tutte configurano «leggi razziali» (in quanto comminano pene aggravate in base alla condizione soggettiva della persona), e finiranno nel tritacarne costituzionale e sotto i fulmini di Bruxelles.

Il carcere per chi si oppone alle discariche campane? Figurarsi che deterrente, per camorristi e pregiudicati incalliti. Vietati i matrimoni di comodo: vecchietto e badante dovranno dimostrare che convivono da due anni? E chi lo controllerà, i vigili urbani? Avremo un poliziotto sotto ogni talamo? Arresti e pene draconiane per chi affitta «in nero» ad extracomunitari? Benissimo: e gli intracomunitari, e gli italiani?

Praticamente tutte le locazioni, dalla Lombardia in giù, sono in nero almeno parziale. Una simile legge darà un potere di ricatto dei locatari sui locatori, e farà sparire il già asfittico mercato degli affitti, comporterà altre intrusioni nella vita privata, non esattamente liberali. A meno che non soccorra il rimedio italiota universale: la non-applicazione pura e semplice, sia pur con spada di Damocle incorporata.
Ma anche questo è nella tradizione: tutti noi incensurati lo siamo solo per caso, finchè il potere italiota non decide di contestarci una delle decine di reati che commettiamo ogni giorno per riuscire a campare: evasioni dall’IVA (su richiesta dell’idraulico e del dentista), detenzione di armi da guerra (la baionetta del nonno, 15-18), mancata dichiarazione di badante, falsi in atto pubblico... il Salame decisionista, mutando infrazioni amministrative in delitti penali, è riuscito in quel che pareva impossibile: aumentare il numero dei cittadini criminali di fatto, perseguibili ad arbitrio.

Una specialità - la persecuzione dell’incolpevole - che eravamo abituati a considerare «comunista», alla Visco o alla Lenin. Ora è «liberale». Le sole gravi novità sono quelle che segnala l’amico Siro.

Occorre avvertire che Ruben e la Nirenstein sono cittadini israeliani: ogni ebreo lo è di diritto, per jus sanguinis, loro lo sono anche di fatto. Due stranieri alla Commissione esteri. Sarebbe il caso di chiedere loro un giuramento di lealtà, perchè dichiarino quale patria si sentono in dovere di servire. Ma la risposta viene da sè. E già aver scritto questa frase ci farà incolpare, una volta di più, come «antisemiti» (altro reato potenziale che ci pende sul capo). Ma Giuliano Amato voleva imporre tale giuramento di lealtà ai musulmani cittadini: perchè a quei due likudnik no? A quei guerrafondai sionisti?
Anche questo dice che la tendenza a sancire il razzismo per legge travalica gli «schieramenti». Si tratta, precisamente, del razzismo sancito per legge e praticato in Israele. Ora lo jus judaicum (due pesi due misure, talmudicamente, in base al sangue) è esteso anche all’Italia. Siamo la loro colonia.

Non c’è bisogno di sottolineare l’altra «novità»: l’israeliano che è stato messo al ministero degli Esteri annuncia la sua «svolta» in Afghanistan. In pratica, i nostri soldati, che oggi sono lì come ISAF in funzione non combattente, saranno mandati a battersi a fianco di americani, inglesi e canadesi. Saremo dunque coinvolti in una guerra demenziale, e per giunta già perduta. Non solo il Pakistan, ma anche Karzai, raccomandano di aprire trattative coi talebani, anzichè combatterli. L’ambasciature russo a Kabul Zamir Kabulov, che fu giovane diplomatico sovietico nella stessa capitale nel 1977, dice con malcelata soddisfazione: «Non c’è errore commesso dall’URSS qui in Afghanistan che non sia stato ripetuto dalla comunità internazionale: sottovalutazione della nazione afghana, la convinzione nella superiorità nostra e nella inferiorità loro, la mancanza di conoscenza delle strutture etniche e sociali del Paese, la incomprensione delle tradizioni e della religione» (1).

Persino i poteri forti americani, quelli veri (da Kissinger a Brzezinski), preoccupati del liberismo globale in pericolo, già si preparano a come governare il mondo dopo Bush l’idiota unilateralista, e pensano di tornare al multilateralismo e al soft-power, al Washington Consensus morbido (2). La politica estera di Bush è agli stracci. Il Salame e i suoi israeliani di riferimento ci trascinano in ritardo in quella rovina, perchè Bush lo vuole, perchè Olmert lo vuole. E perchè a Berlusconi la politica estera non interessa, non ci capisce un’acca e non legge nulla. Gli è parso furbo appaltarla alla Sacra Giudea Unita. Ne avremo qualche morto inutile fra i parà. Se non di peggio: un otto settembre asiatico, con l’abbandono delle nostre truppe in Asia.

Persino il Council on Foreign Relations, per bocca del suo massimo esperto sull’Iran Ray Takeyh, considera saggio «concedere a Teheran una capacità di arricchimento nazionale» e «negoziare un accordo che venga incontro almeno a una parte delle loro domande». E’ una posizione che si affermerà quando Bush avrà sloggiato le bottiglie di whisky dalla Casa Bianca. Ed è convergente con quella tratteggiata dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov: meglio «garantire la sicurezza dell’Iran e riconoscergli uno status eguale nel risolvere i problemi del Medio Oriente» (3).

Invece Frattini sancisce: «Tutta l’Europa, Italia compresa, deve essere unita sulla linea delle sanzioni all’Iran». Ci porta allo scontro con l’Iran, con effetti che pagheremo carissimi, dato che il petrolio sale verso i 200 dollari (grazie a Bush), e che l’Iran, terzo produttore mondiale, sarà sempre più ricco e influente nell’area. Perchè lo vuole il Likud, perchè lo vuole il Talmud. E naturalmente la cittadina israeliana Nirenstein.

Berlusconi si è messo in testa di dare un aiutino in stile Mediaset alla politica fallimentare e presto liquidata di Bush: facendo quello che crede di saper fare, una TV «moderna e tollerante» diretta ai paesi nordafricani. L’esportazione delle veline e della volgarità. Su questa impresa da ritardo mentale e morale, non trovo di meglio che lasciare la parola a una lettrice seria, Carla L.

«E’ stato escogitato il sistema certo ed efficace per distruggere il mondo arabo, incenerirlo definitivamente, spegnere ogni possibile peculiarità e diversità culturale: l’istituzione di un canale televisivo, frutto della collaborazione di Berlusconi e Tarak Ben Ammar, tale Nesma TV, una copia di Canale 5, con gli stessi programmi, giochi, caratteristiche. A detta di Berlusconi essa mira a ‘diffondere un modello di vita moderno, tollerante, aperto’. La platea cui si rivolgerà è vastissima: dal Marocco alla Libia, decine di milioni di persone. Si prepara una nuova ‘normalizzazione’, più efficace di occupazioni militari con carri armati. Per chi considera ancora il mondo arabo, per quanto già mutato, ancora il ‘Katekon’ in quest’area del mondo, con la sua millenaria cultura, con ritmi di vita antichi, relazioni familiari ancora solide, una religione ancora praticata, che detta norme, stili di vita, valori, in grado di fronteggiare e opporsi al nuovo ordine mondiale, ebbene tale notizia è molto dolorosa e preoccupante. Spero solo questo: che sulla scorta delle esperienze dolorose subite da nazioni come l’Italia, che in pochi anni è stata devastata e annientata, annullando secoli di civiltà e tradizioni, gli amici arabi, attraverso gli uomini di cultura, le loro guide spirituali, ma anche i padri di famiglia siano più accorti, più critici, preparino meglio i loro figli a questa ‘modernizzazione senza progresso’ e non facciano come gli italiani dei passati decenni che ingenui e disarmati hanno aperto le porte al cavallo di Troia che poi li avrebbe distrutti».

Italia colonia di Sion. La colonia noachica per sua volontà. La provincia babbea.

--------------------
1) Arnaud De Borchgrave, «Kinetic response», Washington Times, 20 maggio 2008. «Speaking privately, not for quotation, Pakistani officials say NATO should encourage Afghan President Hamid Karzai to negotiate a deal with Taliban ‘moderates’ for a coalition government - or fight on for another 10 years, with no hope of a clear-cut victory».
2) Mark Engler, «How to rule the world after Bush», Asia Times, 19 maggio 2008. «The ‘free trade’ elite in the United States, upset by the George W Bush administration’s neo-conservative go-it-alone nationalism that disregarded multilateral means of securing influence, wants a ‘guerrilla assault’ to return to the softer empire of corporate globalization. These corporate globalists are now bidding to control the direction of the US's economic policy, and they see the Democrats as their best chance».
3) M.K. Bhadrakumar, «Bush’s Middle East policy in tatters», Asia Times, 20 maggio 2008. «The George W. Bush administration’s failure in rolling back Syrian and Iranian influence in Lebanon pales in comparison with the withering away of its Arab-Israeli ‘peace process’. Time and again during Bush’s recent Middle East tour, what emerged was the palpable sense that the US has been all but marginalized from a new Middle East that is taking shape. And now China, too, has appeared on the region’s chessboard». Si noti che Israele si prende il diritto di «trattare con la Siria», nonostante il divieto del burattino Bush («Non si parla coi nemici»); invece Frattini non consente all’Italia il diritto di «parlare con l’Iran». Puro servaggio verso il Padrone.

Il Medio Oriente inizia ad affrancarsi. Forse

Il Medio Oriente sembra finalmente aver cominciato ad affrancarsi dai dettami degli USA (e quindi di Israele) e ad agire in un’ottica di lungo periodo, grazie anche al continuo aumento del prezzo del petrolio e ai nuovi rapporti di forza regionali che si stanno consolidando sempre di più.

Il tutto a scapito dell’influenza USA nella regione che sembra destinata a diminuire ulteriormente e inesorabilmente.
A meno di un colpo di coda dei neocon nel prossimo autunno…


Qui di seguito tre articoli che parlano degli ultimi eventi mediorientali.

Il fallimento della strategia di Bush in Medio Oriente
di M. K. Bhadrakumar – Asia Times – 21 Maggio 2008

"[I leader arabi] hanno smesso di prendere istruzioni dall'Islam e hanno deciso che la loro opzione strategica è la pace con Israele, dunque sia dannata la loro decisione" - Osama bin Laden, messaggio audio, 18 maggio.Lo scorso martedì, mentre il presidente degli Stati Uniti George W. Bush partiva da Washington per un viaggio di cinque giorni in Medio Oriente, l'agenzia d'informazione semi-ufficiale iraniana Fars riferiva che il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad aveva alluso al fatto che Teheran potrebbe prendere in considerazione un taglio delle esportazioni petrolifere.

Naturalmente il ministro del petrolio Gholamhossein Nozari ha chiarito subito che Teheran stava solo valutando le proprie esportazioni, e che anche in questo settore bisognava prendere delle decisioni in merito a un aumento o a una diminuzione.Né Ahmadinejad né Nozari hanno detto che l'Iran stava rivedendo le esportazioni di petrolio in sé (che superano i 4,2 milioni di barili al giorno, il livello più alto dalla rivoluzione islamica del 1979). Ma i prezzi petroliferi statunitensi sono impazziti comunque, e mentre Bush atterrava nella regione del Golfo Persico hanno registrato il prezzo-record di 126 dollari al barile.

Ci si aspettava che Bush facesse pressione sull'OPEC perché organizzasse presto un incontro per concordare un aumento della produzione petrolifera (la prossima riunione dell'OPEC si terrà in settembre per decidere in merito alla questione). Stephen Hadley, il consigliere per la sicurezza nazionale, aveva dichiarato che Bush avrebbe detto al re saudita Abdullah che è nell'interesse dei paesi esportatori di petrolio “tener conto della salute economica dei clienti che pagano questi prezzi”. Quando si sono incontrati, venerdì, Bush ha scoperto che non c'era modo di persuadere il re saudita.
Nel frattempo Nozari era nuovamente sotto i riflettori. Ha dichiarato all'agenzia Fars: “Credo che non ci sia bisogno di una riunione [di emergenza] dell'OPEC. Perché dovrebbe esserci questa riunione quando i prezzi del petrolio salgono? I membri dell'OPEC stanno attualmente utilizzando tutta la loro capacità e stanno rifornendo il mercato... Con il petrolio a 126 dollari al barile non è saggio che coloro che hanno il petrolio non lo forniscano”. Nozari ha poi aggiunto di ritenere che “non è il petrolio che costa di più, è il dollaro che sta diventando meno caro”.

Cinque o sei anni fa sarebbe stato impensabile che un presidente statunitense in visita ricevesse un rifiuto così netto ed esplicito in Medio Oriente. I contatti della scorsa settimana hanno rivelato fino a che punto è giunto il declino del dominio statunitense in Medio Oriente durante l'attuale amministrazione Bush. Non c'è dubbio che il petrolio si trovi proprio al centro di questo declino. L'aumento vertiginoso del prezzo del petrolio ha portato a un enorme trasferimento di risorse ai paesi esportatori di petrolio. L'Iran ne è tra i principali beneficiari.

Il grande accumulo di ricchezza permette all'Iran di esercitare la propria influenza sulla regione e di far sì che gli Stati Uniti non possano fare praticamente niente per contrastarne l'ascesa. In un rapporto diffuso venerdì Goldman Sachs prevedeva che il prezzo del petrolio balzerà a 140 dollari al barile entro luglio. "La previsione a breve termine per i prezzi del petrolio continua a essere all'insegna del rialzo", ha detto Goldman. Gli investitori si stanno precipitando sul mercato petrolifero come riparo dalla caduta del dollaro. Il Wall Street Journal ha riferito che al momento gli iraniani possiedono circa 25 milioni di barili – circa il doppio delle importazioni giornaliere degli Stati Uniti – di greggio pesante in petroliere al largo del Golfo Persico.

Il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha sottolineato le realtà del nuovo ordine regionale quando ha recentemente invitato le grandi potenze ad “avanzare proposte concrete che garantiscano la sicurezza dell'Iran e assicurino all'Iran un posto equo e onorevole in un dialogo teso a risolvere tutti i problemi del Vicino e Medio Oriente”. Lavrov non è il solo a essere previdente. Anche gli esperti statunitensi si rendono conto della necessità di un nuovo atteggiamento verso il nucleare iraniano.

Tutto questo, essenzialmente, riflette i limiti della potenza americana. Un importante esperto statunitense di questioni iraniane, Ray Takeyh, senior fellow all'influente Council on Foreign Relations, ha preso il toro per le corna quando ha recentemente suggerito che era ora che gli Stati Uniti “consentissero all'Iran di sviluppare una capacità di arricchimento di dimensioni considerevoli”, concentrandosi invece sui modi e i mezzi per far sì che entro i perimetri delle sue infrastrutture nucleari non si svolgessero “attività infauste”. Come ha scritto Takeyh la scorsa settimana, proprio mentre Bush si trovava dalle parti dell'Iran, “L'Iran ha un apparato nucleare complesso e sta arricchendo uranio. Impossibile riportare indietro le lancette dell'orologio. Invece di resuscitare un pacchetto di incentivi respinto molto tempo fa dall'Iran o invocare punizioni militari che non preoccupano nessuno nella gerarchia del paese, gli Stati Uniti e i loro alleati europei farebbero meglio a negoziare un accordo che esaudisse almeno alcune delle loro richieste”.

È vero: la proliferazione nucleare e il petrolio sono una pericolosa accoppiata. Ma non sono che una faccia del fallimento della strategia dell'amministrazione Bush riguardo all'Iran. Il crollo è assoluto. Durante il suo viaggio, Bush ha cercato continuamente consensi per la sua strategia di contenimento nei confronti dell'Iran. I vicini arabi dell'Iraq si rifiutano di farsi coinvolgere nel caos di quel paese nonostante si lamentino che l'influenza iraniana in Iraq ha raggiunto un livello intollerabile. Non permetteranno che l'amministrazione Bush li recluti in vista di uno scontro con l'Iran. Mentre criticano in privato l'Iran con i loro interlocutori americani e sollecitano contromisure statunitensi, stanno in realtà valutando pro e contro, mettendo in conto il fatto che il prossimo presidente degli Stati Uniti potrebbe anche impegnarsi in un dialogo incondizionato con l'Iran.

I fatti del Libano hanno ulteriormente messo in luce il fatto che l'amministrazione Bush non ha un piano. Se si deve credere alla newsletter di Washington Counterpunch, un intervento israeliano già programmato (con il consenso degli Stati Uniti) in Libano durante i recenti scontri è stato rinviato all'ultimo minuto perché secondo informazioni di intelligence la rappresaglia di Hezbollah sarebbe stata molto pesante. Secondo i servizi statunitensi, Tel Aviv sarebbe stata bersagliata da “circa 600 razzi di Hezbollah nelle prime 24 ore della rappresaglia”. Secondo Counterpunch l'amministrazione Bush si sarebbe tirata indietro dopo aver dato “inizialmente il via libera” ai piani d'attacco militare di Israele al fianco delle milizie appoggiate dagli Stati Uniti. “La sconfitta delle milizie da parte di Hezbollah a Beirut Ovest e il timore di rappresaglie contro Tel Aviv hanno costretto a cancellare l'attacco israeliano”.

Non sorprende che tra i signori della guerra libanesi ci siano molta rabbia e amarezza per essere stati abbandonati dall'amministrazione Bush. Il primo ministro Fuad al-Siniora voleva dimettersi e i sauditi hanno dovuto convincerlo a non farlo. Il risultato è evidente a tutti. L'equilibrio politico si è spostato a favore di Hezbollah e le milizie filo-occidentali sono state umiliate. Ma soprattutto si è formata un'improbabile alleanza tra Hezbollah e l'esercito libanese (che l'amministrazione Bush ha finanziato con ben 400 milioni di dollari negli ultimi due anni).
Le conseguenze nella regione sono altrettanto importanti. L'Arabia Saudita e l'Egitto sostengono gli sforzi di mediazione della Lega Araba, prendendo le distanze dalla denuncia statunitense di Iran e Siria. I due pesi massimi arabi sarebbero a disagio per la lunga ombra dell'influenza iraniana sul Libano, ma sanno anche che l'Iran è una potenza regionale con cui venire a patti.Per citare il noto autore britannico ed esperto di Medio Oriente Patrick Seale, “Gli stati arabi del Golfo hanno vivaci scambi commerciali con l'Iran e accolgono una vasta popolazione iraniana. Non vogliono isolare l'Iran o minare la sua economia come sarebbe nei desideri di Israele e Stati Uniti. Appare chiaro che una maggiore comprensione e fiducia tra Arabia Saudita ed Egitto da una parte e Iran e Siria dall'altra – senza il peso delle interferenze di Stati Uniti e Israele – farebbero molto per facilitare il percorso del Libano verso la pace e la sicurezza”.

Riassumendo, l'amministrazione Bush non ha un Piano B neanche per il Libano. La mediazione della Lega Araba ha ignorato freddamente il desiderio di Washington di portare la questione del Libano al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e di mettere alla gogna la Siria e l'Iran. Alle autorità statunitensi non è restato che continuare a manifestare scetticismo sulla prospettiva dei colloqui intralibanesi che si terranno a Doha sotto gli auspici della Lega Araba.

Comunque il fallimento degli Stati Uniti nel contrastare l'influenza siriana e iraniana in Libano impallidisce se confrontato con quello del “processo di pace” arabo-israeliano. Quest'ultimo incombeva come un uccello del malaugurio sul tour in Medio Oriente di Bush. La credibilità del presidente palestinese Mahmoud Abbas ha sofferto gravi colpi; Fatah è stata eliminata da Gaza; Hamas sta guadagnando terreno in Cisgiordania dopo il consolidamento a Gaza. E così nessuno ha raccolto le parole di Bush quando venerdì ha detto davanti a un uditorio arabo a Sharm el-Sheikh, in Egitto: “Tutte le nazioni della regione devono unirsi compatte nell'affrontare Hamas, che tenta di minare gli sforzi per la pace con continui atti di terrorismo e di violenza”.

Gli arabi sapevano che comunque la retorica anti-Hamas di Bush ha qualcosa di falso. Solo due giorni prima Hamas aveva annunciato che lunedì avrebbe mandato in Egitto una delegazione per una nuova serie di colloqui con i mediatori. Domenica il quotidiano israeliano Ha'aretz ha riferito che vari ex ufficiali della sicurezza e dell'esercito israeliani – compreso l'ex-capo del Mossad Ephraim Halevi, l'ex-capo dell'esercito Amnon Lipkin-Shahak e l'ex-comandante delle truppe israeliane a Gaza, Shmuel Zakai – un mese fa hanno scritto al governo per sollecitare colloqui indiretti con Hamas e per esprimere opposizione a un attacco militare su vasta scala contro Gaza.Hanno scritto: “Riconoscendo che la fine del regime di Hamas a Gaza non è un obiettivo realistico e che la restaurazione di Fatah nella Striscia di Gaza per mezzo delle baionette israeliane non è auspicabile... dovrebbero svolgersi negoziati non pubblici con Hamas attraverso l'Egitto o un altro mediatore accettabile per entrambe le parti”.

Durante il viaggio in Medio Oriente di Bush ciò che a tratti emerge è questo senso tangibile che gli Stati Uniti siano stati completamente emarginati dal nuovo Medio Oriente che sta prendendo forma. La retorica di Bush non è riuscita a nascondere il fatto che neanche aggiungendo 300 milioni di americani a 7 milioni di israeliani è riuscito a confutare l'erosione della supremazia di Israele nella regione.
In un recente brillante articolo, l'ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer ha sottolineato che il centro di gravità del potere e della politica regionale in seguito alla guerra in Iraq si è spostato verso il Golfo Persico. Per citare Fischer, “Ora è davvero praticamente impossibile mettere in pratica una qualsiasi soluzione al conflitto tra Israele e Palestina senza l'Iran e i suoi alleati locali, Hezbollah nel Libano e Hamas in Palestina”.Il fatto è che il fallimento storico della guerra in Iraq dev'essere ancora compreso appieno. Su un piano regionale, mentre la guerra in Iraq si trascina interminabile, la situazione è gravida delle immense conseguenze dello stravolgimento dell'intero sistema di stati creato dopo la caduta dell'Impero Ottomano nel 1918. La guerra in Iraq ha innescato il potenziamento degli sciiti e ha liberato forze storiche che erano incatenate da secoli. Il suo significato geopolitico va ancora assimilato, mentre tutta la regione è spazzata dai venti del cambiamento.

Fischer ha sottolineato che la guerra in Iraq ha messo fine per sempre al nazionalismo secolare arabo, che era – storicamente parlando – di ispirazione europea. Al suo posto è comparso l'Islam politico, che coltiva il nazionalismo “anti-occidentale” e fa leva su problemi sociali, economici e culturali per affrontare con impeto rivoluzionario regimi autoritari, corrotti, ingiusti e privi di legittimità popolare. Gli islamici stanno pilotando questa tendenza alla “modernizzazione”, mentre il futuro dell'Islam politico è lungi dall'essere chiaro.
Anche la Cina ha fatto la sua comparsa sullo scacchiere mediorientale, e questo renderà il declino del dominio statunitense nella regione sempre difficilmente arrestabile. Curiosamente, alla vigilia dell'arrivo di Bush in Medio Oriente, un importante studioso cinese, Weiming Zhao, professore all'Istituto di studi sul Medio Oriente dell'Università internazionale di Shanghai scriveva: “La Cina ha un significativo interesse per il Medio Oriente, e qualsiasi cambiamento della situazione in quella regione influirà sulla sicurezza energetica della Cina... Per molto tempo dunque l'atteggiamento fondamentale della diplomazia cinese sarà caratterizzato da una maggiore attenzione per lo sviluppo della situazione in Medio Oriente, da una maggiore preoccupazione per gli affari mediorientali e dalla volontà di instaurare relazioni più strette con i paesi mediorientali”.

Il viaggio di Bush ha rivelato che gli Stati Uniti non hanno una strategia per il Medio Oriente con la quale affrontare queste molteplici forze. Sembra che l'amministrazione Bush si limitasse a fingere di averne una. Una sfida formidabile attende il prossimo presidente degli Stati Uniti.

------------
M. K. Bhadrakumar è stato diplomatico di carriera nell'Indian Foreign Service per più di 29 anni. Tra i suoi incarichi, quello di ambasciatore indiano in Uzbekistan (1995-98) e in Turchia (1998-2001).

Traduzione di
mirumir


Libano, raggiunto l’accordo tra maggioranza e opposizione. E Hizbollah si rafforza
di Carlo M. Miele - Osservatorio Iraq - 21 maggio 2008

Da una settimana sulla strada che porta all’aeroporto internazionale di Beirut campeggiava la scritta “Se non vi mettete d’accordo, non tornate”. E stamattina la maggioranza e l’opposizione libanese (i destinatari dell’avvertimento) hanno raggiunto l’intesa a Doha, nell’emirato del Qatar Il testo è stato sottoscritto dalla due parti al termine di sei giorni di intense trattative promosse dalla Lega Araba e, almeno per il momento, mette fine alla più grave crisi politica libanese dai tempi della guerra civile (1975-1990), iniziata alla fine del 2006 con l’uscita dei membri dell’opposizione dal precedente governo di unità nazionale e culminata nei violenti scontri della scorsa settimana.

Contenuto dell’accordo

Sono tre i punti principali dell’intesa raggiunta a Doha. Innanzitutto la maggioranza filo-Occidentale e l’opposizione guidata da Hizbollah e legata a Siria e Iran si impegnano all’elezione "immediata di un presidente della Repubblica", che con ogni probabilità sarà il generale Michel Sleiman. L’attuale capo delle forze armate, sulla cui candidatura già esisteva un consenso di massima delle due parti, dovrà essere eletto dal parlamento “entro 24 ore”, e andrà a occupare la massima carica istituzionale, scoperta dal novembre scorso, quando è scaduto il mandato di Emile Lahoud.

In secondo luogo, l’accordo prevede la formazione di un governo di unità nazionale, composto da 30 membri, che dovrà guidare il Paese fino alle prossime elezioni, previste per la primavera prossima. Del gabinetto entreranno a far parte 16 ministri della maggioranza, 11 dell’opposizione e tre di nomina presidenziale. In questo modo la coalizione del “14 marzo”, guidata da Saad Hariri, avrà la maggioranza in consiglio dei ministri e la possibilità di eleggere il premier, ma all’attuale opposizione (con un terzo più uno dei membri) spetterà quel diritto di veto che rivendicava da mesi, e il cui mancato accoglimento aveva finora impedito ogni intesa.

Infine, il punto più controverso dell’accordo, su cui si sono duramente scontrate a Doha le due parti, e cioè la nuova legge elettorale che dovrà regolare le prossime elezioni politiche. Alla fine è stata recuperata una legge precedente, risalente al 1960. Di fatto, saranno create circoscrizioni più piccole, in modo da garantire una migliore rappresentanza di tutte le confessioni nazionali.

Nel testo di Doha sono incluse altre questioni “minori” - dal divieto dell’utilizzo delle armi per la risoluzione dei contrasti interni, fino allo smantellamento (già in corso) della tendopoli messa in piedi in segno di protesta da Hizbollah nel centro di Beirut alla fine del 2006 – ma si fa cenno anche all’importanza del "rafforzamento dell’autorità dello Stato sulla totalità del territorio e dei suoi rapporti con le diverse organizzazioni, in modo da garantire la sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini". Argomenti particolarmente sentiti dopo le violenze della scorsa settimana, che hanno rischiato di far precipitare il Libano in una nuova guerra civile, e che saranno affrontati nell’ambito di una nuova conferenza che si riunirà nella capitale libanese sotto l’egida della presidenza della Repubblica e "con la partecipazione della Lega Araba".

“Trionfo di Hizbollah”

Intervenendo in una conferenza stampa a Doha, il leader dalla maggioranza parlamentare di Beirut, Saad Hariri, ha dichiarato che oggi si apre "una nuova pagina per il Libano", mentre il ministro delle Telecomunicazioni, Marwan Hamadeh, ha tenuto a precisare che, in base all’intesa raggiunta, "non ci sono sconfitti". Eppure, diversi analisti già parlano di un trionfo di Hizbollah, che dopo aver ottenuto la scorsa settimana il ritiro dei contestati provvedimenti del governo, adesso si è vista accogliere tutte le sue principali richieste in campo istituzionale, a partire dalla possibilità di bloccare le leggi del futuro governo, fino alla riforma della legge elettorale in chiave confessionale.
Secondo il corrispondente della Bbc, Jonathan Marcus, l’accordo di Doha ha evitato una grossa calamità tramite il riconoscimento di un più forte ruolo politico di Hizbollah. Parere analogo esprime l’esperto del Partito di dio Amal Saad-Ghorayeb, secondo cui “l’accordo è un prodotto degli scontri, che chiaramente hanno rovesciato l’equilibrio politico a favore dell’opposizione”.Il direttore del Daily Star, Rami Khouri prevede invece un anno o due di relativa calma, ma avverte che restano aperte le questioni sensibili, come quella dell’arsenale di Hizbollah e del condizionamento delle potenze internazionali sul Libano.

Sostegno unanime della comunità internazionale

Intanto dalla comunità internazionale arriva un consenso pressoché unanime per il testo sottoscritto in Qatar. Il ministro degli Esteri siriano, Walid al-Mouallem, ha sottolineato "l'importanza dell’intesa a cui sono pervenuti i fratelli libanesi" e si augura che essa "rappresenti un preludio a un regolamento della crisi politica del Libano". Anche l’Iran (altro alleato internazionale dell’opposizione libanese) "accoglie con favore l’accordo dei partiti libanesi”, come ha spiegato il suo ministro degli esteri Mohammad Ali Hossei. E consensi di massima arrivano dalle potenze legate alla maggioranza di Beirut.Il presidente francese Nicolas Sarkozy si è detto "particolarmente felice per l’accordo’’ per cui la Francia stessa si è a lungo impegnata, mentre l’ambasciatore dell’Arabia saudita in Libano, Abdel Aziz Khoja, ha espresso “il sostegno e l’appoggio” del Regno arabo.


Siria e Israele hanno avviato colloqui indiretti in Turchia
Osservatorio Iraq - 22 Maggio 2008

Se ne era parlato già un mese fa, ma la conferma ufficiale è arrivata solo ieri: Israele e la Siria hanno avviato “colloqui indiretti” con la mediazione della Turchia. Secondo fonti del governo israeliano, che hanno trovato conferma presso il ministero degli Esteri turco, dei funzionari dei due Paesi si trovano in questo momento a Istanbul. In un comunicato diffuso dall’ufficio del primo ministro israeliano Ehud Olmert si parla di trattative “senza pregiudizi e in uno spirito di apertura”, che si pongono “l’obiettivo di raggiungere un accordo di pace completo", mentre in un testo analogo del ministero degli Esteri siriano si parla di “buona volontà” e “serietà” per “arrivare a una pace completa”.

Gli sforzi per riavviare il dialogo tra Tel Aviv e Damasco, interrotto dopo il fallimento del negoziato patrocinato dagli Stati Uniti nel 2000, andrebbero avanti da tempo. Fonti israeliane parlano di quasi un anno. Ma l’ipotesi di colloqui faccia a faccia viene ancora giudicata prematura. La catena televisiva Cnn Turk ha fatto sapere che i funzionari di Tel Aviv e Damasco non sono seduti allo stesso tavolo, e il ministro degli esteri siriano Walid al-Muallim ha dichiarato che negoziati di pace diretti saranno possibili solo se, in questa prima fase, lo Stato ebraico dimostrerà di essere “serio”.Questione centrale della trattativa resta la restituzione alla Siria delle alture del Golan, occupate da Israele durante la guerra del 1967 e successivamente annesse.

Olmert si è detto disponibile a fare un passo in questa direzione, a patto che Damasco interrompa le sue relazioni con l’Iran e con le organizzazioni “anti-Israele”, in primo luogo Hamas e l’Hizbollah libanese. Per arrivare a questo punto – affermano diversi analisti – dovrebbero però mutare innanzitutto i rapporti tra la Siria e gli Stati Uniti. Stando a questa interpretazione, solo l’ipotesi di rinnovati legami diplomatici ed economici con Washington potrebbe convincere la Siria a rivedere le sue convinzioni di politica estera e ad accantonare la relazione privilegiata con Tehran.

Per ora, Damasco ha fatto sapere - tramite “fonti diplomatiche di alto livello” citate dal quotidiano al-Hayat - che con i colloqui diretti avviati con Tel Aviv e il contemporaneo accordo interlibanese di Doha “si è aperta una nuova fase” nelle sue relazioni con i Paesi arabi, con l'Occidente e con gli Stati Uniti. Dal canto suo, l’amministrazione Bush si è detta disponibile a sostenere un eventuale negoziato Israele-Siria sotto mediazione turca, a condizione che Damasco ponga fine alla sua “ingerenza” sul Libano.

mercoledì 21 maggio 2008

Lo specchio italico

Un lungo articolo a 360 gradi sull’informazione ufficiale e non, ma anche su alcuni tasti dolenti di cui molti rifiutano aprioristicamente la sola esistenza.
Si può essere ovviamente d’accordo o meno su quanto scrive Barnard, soprattutto per quanto riguarda l’enfasi su fatti che lo hanno riguardato in prima persona e da cui traspare un certa dose di fiele rancoroso.

Ma il nocciolo delle questioni che pone sul tavolo rappresenta comunque un interessante spunto di riflessione su alcuni comportamenti tipici di noi italiani e sulle conseguenze, spesso nefaste, che producono.

L’informazione è noi
di Paolo Barnard - 18 Maggio 2008

Di chi è colpa? Non è colpa di Silvio Berlusconi, di Romano Prodi, di Cicchitto, di Casini, di Caltagirone, e soci. Non è colpa della Casta, né di quella dei giornali coi milioni di euro di prebende, e non è stata colpa di Ingrao, Forlani o Craxi. Non è la Mafia, non sono le logge dei venerabili, né l’Opus Dei, non è Confindustria o la lobby bancaria. La colpa è nostra. Punto. L’informazione che abbiamo è quella che noi italiani vogliamo.
Qui si potrebbe concludere il mio saggio sullo stato dell’informazione in Italia. Non ho altro da dire, in sostanza. Quello che posso aggiungere nelle righe che seguono sono solo riflessioni a sostegno della mia tesi, per chi avesse voglia di leggere un poco di più. E inizio di nuovo da noi italiani.

Sono le nostre ombre sul muro.

Ciò che la gente vuole. Lo scadimento dell’informazione in questo Paese riflette ciò che noi siamo, in tv particolarmente. Nulla meglio si adatta al caso Italia del sagace commento di Barnes Clive, nota firma del New York Post, che sull’odierne tendenze dei palinsesti televisivi ebbe a dire: “La televisione è la prima cultura genuinamente democratica, la prima cultura disponibile a tutti e retta da ciò che la gente vuole. La cosa più terribile è ciò che la gente vuole”. E in effetti si rimane perplessi, se non un tantino delusi, dal semplicismo delle analisi di personaggi come Beppe Grillo e altri quando tuonano contro la legge Gasparri come il costrutto infernale che strozza il nostro diritto a essere decorosamente informati. Ci si chiede: c’è la Gasparri nei salotti di milioni di italiani di varie età che ogni sera, pomeriggio o mattina scelgono col loro telecomando le peggiori fregnacce televisive? E’ la Gasparri che impedisce a noi italiani di portare La Storia Siamo Noi di Giovanni Minoli a uno share visibile ad occhio nudo invece che al microscopio? O di portare Report al 25% invece di condannarlo a un cronico annaspamento per non affogare sotto il 10?
Eppure il contenitore di Milena Gabanelli è in prima serata, mica occorre perdere il sonno, basterebbe un click del telecomando. E state certi che Report o C’era una Volta oltre il 20% di share avrebbero prodotto una mischia degli inserzionisti per piazzare lì gli spot, garantendoci di conseguenza una certa qualità in più nelle nostre case tutto l’anno. Potete immaginare quanto ci metterebbero a sparire i prodotti-spazzatura come Porta a Porta o Amici, oppure le ragliate di Sgarbi o altra robaccia del genere, se agonizzassero nella pigrizia dei nostri telecomandi? Meno di un minuto, Gasparri o non Gasparri.
Illuminante fu un episodio da me vissuto in Gran Bretagna nel corso di un reportage sull’Auditel inglese che svolgevo a fine anni ’90 per conto proprio di Report. Nel corso dell’intervista al responsabile dei palinsesti della maggior Tv commerciale britannica, ITV, mi fu rivelato che la prima serata di quel network era riservata in maggioranza a programmi di alta qualità informativa. Com’era possibile? “Perché il miglior consumatore di questo Paese” spiegò il funzionario, “è l’inglese della classe media, e quel tipo di ascoltatore premia immancabilmente con il telecomando la tv di qualità. Ed è lì che ovviamente si fiondano i nostri inserzionisti”. Semplice. Sono inglesi, tutto qui. Non per nulla la sera della vigilia di Natale del 1999 la BBC 2 trasmise in prime time e per un’ora e mezza uno special dedicato al suo cameraman Mohamed Amin, l’uomo che nel 1984 ebbe lo straordinario merito di noleggiare un bimotore privato a sue spese ( e nei tempi delle sue ferie) per volare in Etiopia a filmare l’immane tragedia della devastante carestia che stava decimando quel popolo, e che divenne grazie a quelle scioccanti immagini una causa celebre con l’intervento di Bob Geldof e della sua Live Aid l’anno successivo. Ve l’immaginate voi una prima serata natalizia di quel tipo alla RAI? Che share farebbe? Ma poi, perdonate, c’è la legge Gasparri in edicola o su Internet? Lì l’informazione c’è, ma al chiosco dei giornali Sorrisi e Canzoni TV o CHI vendono cento volte Micromega o Limes. Su Youtube le pregnanti interviste a Giancarlo Caselli catturano poche centinaia di visitatori, mentre cinque minuti di bava alla bocca con Sgarbi e Mike Bongiorno ne registrano quasi mezzo milione. Mi direte: tutto questo è proprio il frutto del bombardamento mediatico dell’uomo di Arcore e dei suoi vent’anni e più di avvelenamento dei nostri cervelli. E io rispondo: e se a partire dal 1979 cliccavate altro sul vostro telecomando, come fanno gli inglesi, dove finivano il Biscione e relativi scherani? Era semplice, perché non lo abbiamo fatto? Lo si vuole capire che non è lui che ha fatto noi ma noi che abbiamo fatto lui? Silvio Berlusconi non ci ha rimbecilliti, ci ha semplicemente rispecchiati. E allo specchio ci siamo perduti in noi stessi.

(Ultima ora: poco prima di divulgare questo articolo mi imbatto nel sito http://www.corriere.it/ e leggo sulla colonna di destra la classifica dei servizi più letti del Corriere online: al primo posto “L’invasione dei ragni giganti”, al secondo “Basta volgarità, non sono una pin up”, al terzo “Che fine ha fatto Boy George?Vende magliette in un mercato di Londra”. Come volevasi dimostrare...)

Rimanendo con la vituperata figura dell’attuale presidente del Consiglio, è di questi giorni l’intervento di Marco Travaglio in chiusura del V2-day di Torino, dove il giornalista ha perentoriamente affermato che il Cavaliere trionfa oggi alle urne poiché proprio le devianti leggi dell’assetto radio-televisivo italiano gli hanno dato i mezzi per obnubilare la mente degli elettori in quindici anni di strapotere mediatico: “Prima non eravamo così”, ha sentenziato poi il noto cronista. Forse Travaglio è troppo giovane, e non ricorda, ma si vorrebbe chiedergli: chi aveva lavato il cervello dei nostri connazionali quando in massa premiavano alle urne i vari Cossiga, Gava, Cirino Pomicino, De Michelis, De Lorenzo, Andreotti, De Mita e i loro vassalli? Berlusconi a quei tempi era ancora alle prese con la sua Tv condominiale via cavo a Milano 2, non c’entra. Era un’Italia migliore quella? Per caso il Corriere o la RAI erano il Times e la BBC a quei tempi? L’Idra di Tangentopoli, col suo ventre molle di corruzioni endemiche in ogni anfratto del Paese, non fu il parto di “quindici anni berlusconiani”, ahimè no, non risulta. Le stragi, la svendita dei sindacati, dei servizi pubblici, della certezza del lavoro, e ancora l’Irpinia, l’IRI e le sue voragini, le devianze del sistema giudiziario, l’omertà a vuoto pneumatico di tutto il Sistema-potere pre e post P2 e cinquant’anni di cronica evasione a tappeto, dimostrano che obnubilati nel cervello e nel senso civico lo siamo sempre stati, prima di Berlusconi, durante, e lo saremo dopo purtroppo. E anzi: la cosa più onesta che possiamo fare è di affermare una volta per tutte che la famigerata Casta e le sue grottesche comparse sono solo un’ombra sul muro di ciò che noi italiani siamo e siamo sempre stati. Nulla di più.

I nuovi ‘paladini’ della controinformazione: poco utili, dannosi.

Ma purtroppo professionisti stimati e un po’ troppo acriticamente seguiti come appunto Marco Travaglio, Gianantonio Stella, Lorenzo Fazio o Gianni Barbacetto e molti altri, e capipopolo come Grillo o Piero Ricca hanno banalmente invertito l’ordine dei fattori, e sostengono che l’Italia è oggi vittima della Casta, quando è la Casta a essere il prodotto degli italiani.
Devo a questo punto della narrazione precisare un passaggio fondamentale, e invito il lettore a porvi attenzione. I nuovi ‘paladini’ della controinformazione che vanta l’Italia, di cui ho citato alcuni nomi qui sopra, denunciano cose sacrosante (quasi sempre): inciuci, corruttele, grottesche raccomandazioni, sprechi osceni, mafiosità e collusioni, decadenze del sistema democratico eccetra, perpetrate da parte soprattutto della cosiddetta Casta. Loro lo fanno, ma il fatto straordinario è che oggi in questo Paese il solo fatto di averlo fatto gli garantisce un plauso appassionato e febbricitante da parte di masse crescenti di cittadini. Un plauso cieco, ovvero un assegno in bianco di imperitura giustezza ed eroismo. Divengono degli intoccabili, incriticabili, e infatti Beppe Grillo tuona “I giornalisti che ancora danno dignità a questo Paese con la loro voce vanno protetti dagli sciacalli di regime, dai killer della parola. Nessuno tocchi il soldato Travaglio...” (1), e Michele Santoro si scaglia contro il Corriere e Repubblica per “aver aperto una campagna critica contro Anno Zero e contro lo stesso Travaglio” (2) - una campagna di critica, la più democratica delle iniziative, eppure. Chiunque osi infilare mezza osservazione nel loro agire viene immediatamente travolto dall’ira dei loro fans, il cui ragionamento è immancabilmente questo: ma come si fa a rompere le scatole a quei pochi ancora rimasti a dirci la verità in questo regime? E in effetti di fronte alla nauseabonda natura delle pratiche del ‘regime’ verrebbe proprio da gettarsi ciecamente dietro ai sopraccitati ‘paladini’. Ma la vita richiede saggezza, e in questi tumulti ne rimane ben poca. Infatti, la salute in democrazia impone che nessuno divenga intoccabile, neppure per il più sacrosanto dei motivi, proprio perché si corre il rischio che costui possa commettere malefatte o errori di grosso calibro protetto dal suo scudo di venerabilità, e che quelle malefatte o errori finiscano poi per far più danno del beneficio che il medesimo individuo procura alla società. E’ il caso proprio di Travaglio e compagni.

Sono oggi inutili. Hanno fondato negli ultimi anni un’Industria della Denuncia e della Indignazione che, come ho già avuto occasione di scrivere, “denuncia i misfatti politici a mezzo stampa o editoria a un ritmo incessante, nella incomprensibile convinzione che aggiungere la cinquecentesima denuncia alla quattrocentonovantanove in un martellamento ossessivo di libri fotocopia, blog e serate televisive serva a cambiare l’Italia. Eppure, che la politica italiana fosse laida, ladra e corrotta, milioni di italiani lo sapevano benissimo già prima che molti di questi industriali dell’indignazione nascessero, e assai poco è cambiato” (3). Infatti. Il loro lavoro, per quanto efficiente nello svelare il malaffare, è del tutto inutile se si spera che da esso derivi un miglioramento. Le prove sono davanti agli occhi di tutti, e sono incontestabili: oggi l’Italia non è un Paese più civile, né più onesto, né più libero di quanto lo fosse sedici o trent’anni fa, in barba all’offensiva della sopraccitata industria nel denunciare compulsivamente il marcio. Gomez, Travaglio e Barbacetto lo hanno persino confermato nel loro libro Mani Sporche, la cui tesi centrale è proprio il recidivo peggioramento di ogni indicatore civico, politico e morale in Italia da Tangentopoli ad oggi, cioè precisamente nel periodo della massima attività della loro Industria della Denuncia e della Indignazione. Notate: hanno scritto di loro pugno che ciò che fanno non serve quasi a nulla, ma non se ne sono resi conto, meno che meno sono disposti a porsi qualche domanda difficile ma vitale, del tipo: e se fosse altro quello che si deve fare? Le smentite che vengono loro dalla realtà dei fatti sono clamorose, ma non li smuovono dalla compulsività di ciò che fanno: hanno visto coi loro occhi Beppe Grillo celebrare un suo autoproclamato “successo pazzesco” di consenso l’8 settembre del 2007 per le 300.000 firme raccolte dal suo primo Vday, e quindi proclamare roboante che questi politici “non esistono più”. Ma con gli stessi occhi hanno visto poche settimane dopo 3.517.370 italiani fioccare entusiati al parto dell’ennesimo carrozzone della più rancida politica riciclata, il PD di Veltroni. Mettiamola così: l’Italia della Casta batte Grillo 10 a 1, e questo avvenne quando le sue ultime grida quasi ancora riecheggiavano in piazza Maggiore a Bologna, e all’apice del successo di libri come La Casta o Regime. Non suggerisce nulla questo?

E poi c’è il risultato elettorale dell’aprile scorso, che li ha travolti come mai nella storia republicana.

Possibile che a fronte di questa desolate Caporetto dell’Industria della Denuncia e della Indignazione a nessuno sorga il dubbio che forse è ben altro quello che si deve fare? Possibilissimo, infatti la reazione dei ‘paladini’ della controinformazione proprio in questi giorni è di rincarare la dose della loro inutilissima medicina. Questa recidività mi ricorda la vicenda della vegetariana inglese e delle sue carote, un fatto realmente avvenuto a metà degli anni ’90 a Londra e riportato dal quotidiano The Guardian: ella si era convinta che per proteggersi dai tumori era necessario divorare grandi quantità di carote, ma ne ingurgitò così tante da finire in ospedale con serissimi guai al fegato. Messa di fronte all’evidenza della sua patologia, la signora concluse quanto segue: se sto male è perché evidentemente non ho mangiato abbastanza carote. Si dimise e corse a rincarare la dose della sua verdura salvifica. Cosa fu di lei non si sa, ma non si fatica a immaginarlo.

E sono dannosi. In realtà, e tristemente, il modo di agire dei sopraccitati ’paladini’ serve a giustificare (oltre agli incassi degli autori e la loro ipertrofica fama) l’autoassoluzione di masse enormi di italiani, noi italiani come sempre entusiasti di incolpare qualcun altro, e mai noi stessi e la nostra becera inerzia, per ciò che ci accade. Questo è il motivo per cui il nostro Paese rimane perennemente al palo della civiltà. La colpa non è mai nostra, ce lo confermano incessantemente quegli sventurati ’paladini’ della controinformazione coi loro martellanti scritti e interventi, e questo è il danno tremendo che ci fanno. Assolti da ogni peccato, fervidamente impegnati a fustigare le nostre ombre sui muri, finiamo per non crescere mai, e le uniche speranze di ripulire questo Paese vanno perdute. E allora, codesti ’paladini’ piuttosto che celebrare processi in Tv, invece di fare i PR fanatizzanti di alcuni magistrati violando così le più basilari regole dei checks and balances della nostra professione, e invece di ossessionarci con i dettagli della mafiosità o corruttela del politico numero 847, dopo averci raccontato quelli del numero 846 e dopo che per le precedenti 846 volte nulla è cambiato, dovrebbero aiutarci a processare noi stessi, a metterci tutti davanti allo specchio per dirci: l’Italia siamo noi, i ladri siamo noi, i moralmente decomposti siamo tutti noi, coi nostri 270 miliardi di euro di evasione di sola IVA, con l’omertà endemica che ci tappa la bocca ovunque vediamo del marcio - al lavoro, per strada o nei pubblici uffici, con la nostra adulazione del potere, e col nostro amore per l’abuso del potere appena ne abbiamo un briciolo in pugno, dagli insegnanti ai vigili urbani, dai medici agli ispettori delle pubbliche amministrazioni. Noi italiani con il nostro individualismo ammalato che al massimo si espande in parrocchialismo, ma mai in capacità di fare gruppo civico aperto alla critica, e ciò neppure quando ci proclamiamo antagonisti. Questa Italietta sudicia, ipocrita, fregona e anche violenta siamo noi.
E allora cari ‘paladini’ è con noi che ve la dovete prendere per cambiare l’Italia, è su di noi che dovete scrivere fiumi di libri o articoli, perché lo ripeto: gli Schifani, Berlusconi o Ricucci sono le nostre ombre sul muro. E a che serve prendersela ossessivamente con delle ombre?
Il giornalismo investigativo in Italia deve esplodere, perché come ho appena dimostrato è un mito, poco utile e dannoso. Esso è certamente utile altrove, in Paesi come gli USA o la Francia o la Gran Bretagna, ma solo perché esso cade a pioggia su una società civile del tutto diversa dalla nostra. E allora di nuovo: la variabile determinante non è la denuncia, ma chi la recepisce. Se prima non educhiamo gli italiani a essere civici, cioè a partecipare, inutile denunciare compulsivamente.

Incomprensioni. Quando Beppe Grillo nel ricordarci le malefatte della Casta grida dal palco del V2 day di Torino che i manigoldi saranno annientati perché “noi li pigliamo per il culo”, io mi dispero. Lo stesso faccio quando Piero Ricca si arma di coraggio e telecamera e attende il momento buono per gridare a Silvio Berlusconi “buffone!”. E mi dispero ancor più se possibile quando vedo così tanta gente esultare sia nel primo che nel secondo caso. Perché entrambe quelle affermazioni sono messaggi (cioè informazione) falsi e pericolosissimi. Grillo ignora (o vuole ignorare) cosa sia realmente il Sistema-potere, e cosa occorra per abbatterlo. Se la prende con una classe politica nazionale che “avendo abdicato tutti i suoi poteri ad organi sovranazionali come la Bce, la Commissione Europea, il WTO, la Banca Mondiale”, e io aggiungo alle lobby come il Trans Atlantic Business Dialogue (TABD), il Liberalization of Trade in Services (LOTIS), l’Investmente Network (IN) o la International Chamber of Commerce (ICC), “non può fare assolutamente niente se non l’ordinaria amministrazione” (4). Egli non comprende che i grandi mali che affliggono l’Italia, dalla disoccupazione alla precarietà, dal rilancio finanziario delle mafie all’informazione plastificata, e poi gli equilibri economici in disfacimento, il degrado ambientale e la pessima qualità dei servizi ecc., derivano ormai interamente da decisioni prese altrove. Da chi? Dai sopraccitati poteri, che in soli 35 anni hanno saputo ribaltare due secoli e mezzo di Storia, che hanno reso di nuovo plausibile l’inimmaginabile nella vita quotidiana di 800 milioni di cittadini occidentali, che muovono più di 1,5 trilioni di dollari di capitale al giorno, e che tengono ben salde nelle loro mani tutte le leve della nostra Esistenza Commerciale (inclusa quella di Grillo, moglie e figli). Costoro non stanno perdendo neppure un singolo minuto di sonno per lui e per i suoi colleghi ‘paladini’ dell’Antisistema italiano. Ma ha un’idea Grillo di come lavorano questi?
Dovrebbe smettere di sbraitare e capire, proprio visualizzare, il potere di chi è riuscito in un attimo della Storia a compattare migliaia di destre economiche eterogenee sotto un’unica egida e sotto un pugno di semplicissime ma ferree regole, per poi travolgere il pianeta ribaltandolo da cima a fondo: il Potere è ed è stato coeso, annullando ogni individualismo fra i potenti; è ed è stato disciplinato all’inverosimile, ossessivamente preciso in ogni analisi, immensamente competente, sempre silenzioso, al lavoro 24 ore su 24 senza mai un respiro di pausa, comunicatore raffinato, con a disposizione i cervelli più abili del pianeta e mezzi colossali. Crede Grillo che questa immensa macchina planetaria che regola ogni sospiro della vita italiana si preoccupi delle sue sceneggiate di piazza, o dell’incedere di un nugolo di personaggi e istrioni più o meno credibili con al seguito una minoranza di adepti/fans persi nell’ingenua buona fede? E allora: cosa mai risolveranno i referendum di Beppe Grillo fanaticamente concentrato in una guerra contro una Casta nostrana che nella stanza dei bottoni ha a malapena il controllo del pulsante del citofono?

Silvio Berlusconi sarà tante cose spiacevoli, ma di sicuro una non lo è: un buffone. E’ invece uno dei più geniali interpreti del carattere nazionale che sia mai esistito, e certamente il più geniale in epoca contemporanea. La sua abilità, sia come manager che come politico, incute soggezione. Lasciate perdere per un attimo che il suo percorso sia intriso di corruttele e malaffare, lo è quello di ogni singolo magnate del pianeta; ciò che ci interessa, qui, è capire che questo uomo tiene saldamente le leve di una macchina sofisticatissima e multimiliardaria di creazione del consenso, che per essere combattuta va presa estremamente sul serio, altro che buffone e prese per il sedere. E arrivo a dire che la cosa più demenziale e infausta che l’opposizione intellettuale e movimentista al Cavaliere potesse immaginare di fare in questi anni è quello che ha invece sempre fatto: sbeffeggiarlo, insultarlo, ridicolizzarlo, chiamarlo psiconano, e insistere compulsivamente nel denunciarne le malefatte già ultranote a ogni singolo italiano attraverso la cronaca quotidiana e il lavoro dei giudici, mentre lui intanto si mangiava il Paese col consenso. Andava invece attentamente studiato, andavano comprese e individuate le sinapsi della mentalità italiana su cui la sua comunicazione si allacciava con spaventosa efficacia, ed esclusivamente su quelle sinapsi bisognava lavorare, con una macchina comunicativa altrettanto fruibile e martellante quanto la sua, anche se portatrice di valori opposti, e che la sinistra intellettuale (snob) non ha saputo costruire. Altro che buffone e pernacchie.

Mafie, ‘parrocchie’ e informazione.

Guardiamoci. Siamo un popolo che si divide inesorabilmente in ‘parrocchie’ o ‘mafie’. Se non siamo mafiosi, siamo parrocchiali, una delle due, non si fugge. Cioè, se non ci aggreghiamo per colludere in affari criminosi di vario grado, col loro corredo di atrocità, truffe, omertà, insensibilità per la sofferenza altrui, adulazione del potente, piacere nell’abuso del potere (dall’associazione per delinquere di stampo narcomafioso o bancario, alla cordata assicurazione-pretura-avvocati-grande policlinico per tacitare un’operata di cancro nella mammella sbagliata; dal patto trasversale ipermercati-grossisti per fare cartello sui prezzi truffando i cittadini, al consapevole risucchio dei pensionati in difficoltà nelle più ignobili spirali di indebitamento da parte di finanziarie da galera ecc.), noi italiani ci raggruppiamo in parrocchiette di ‘compagni di merende’, litigiose, esclusive proprio nel senso di escludenti, solo formalmente aperte ma in realtà a strettissimo raggio, nemiche giurate della libertà di pensiero, insomma, consociative ma sempre travestite da qualcos’altro (e questo dal Corriere della Sera al periodico universitario, passando per le redazioni televisive, per i centri sociali, ONG, blog più o meno noti, gruppi online, comitati civici, ONLUS ecc.). Come si può facilmente immaginare, il pensare liberamente e la facoltà di criticare a 360 gradi non sono compatibili con gli interessi né delle mafie né delle ’parrocchie’. Ma sono proprio il libero pensiero e la critica senza barriere le componenti fondamentali della libera informazione al sevizio dei cittadini. E allora? In altre parole, noi italiani la libertà di informare non la vogliamo, e quando si affaccia sulla soglia della nostra ’mafia’ o ’parrocchia’ la odiamo e la cacciamo con singolare ferocia.

E come fa un popolo così ad avere una libera informazione?

Già posso già udire la levata di scudi di quelli che “Io? Io proprio no! Io compro il Manifesto... io leggo Libero... io sono Padano mica italiano... io sono con Beppe, vaffa te Barnard... io sono stato in Afghanistan con Gino, figuriamoci... io dico viva Travaglio, che c’entro io?...” . E invece c’entrate, c’entriamo tutti, e soprattutto proprio quelli di noi che sono confluiti negli ultimi anni nel cortile dei nuovi antagonisti, altra ’parrocchia’ che sta ahimè replicando molti dei tratti più meschini dei più trazionali conglomerati mediatici italiani. In questo mio scritto dedicato all’informazione mi concentro proprio su questo cortile antagonista per una serissima ragione: perché esso dovrebbe essere la fucina delle uniche speranze rimaste in Italia di ottenere un’informazione libera, e se dunque al suo interno si replicano le meschinità del Sistema-potere, se anch’esso è divenuto ’parrocchia’, è veramente una tragedia immane per tutti. Dell’altro cortile, quello del giornalismo reggimentato, non dico nulla qui, tutto è già stato scritto fino alla nausea.

Vi snocciolo ora alcuni esempi a riprova di ciò che sostengo, fra i tantissimi possibili. Sono tutti frutto della mia esperienza personale, e non per protagonismo ma solo per la certezza di ciò che posso descrivere, avendoli vissuti in prima persona.
Nella primavera del 2007 inviavo agli amici di Peacereporter, sito portavoce dell’ONG Emergency, una critica all’operato di Gino Strada, che da settimane si scagliava con crescente acrimonia contro il governo Karzai in Afghanistan, reo, secondo il chirurgo e un ampio stuolo di intellettuali italiani, di violare tutte le più elementari regole del garantismo giuridico con la detenzione di Ramatullah Hanefi, manager dell’ospedale di Emergency a Lashkargah e mediatore per l’Italia nel noto rapimento di Daniele Mastrogiacomo. Un appello per la liberazione di Hanefi venne scritto e divulgato, con firme della posta di Claudio Magris, Enzo Biagi, Gherado Colombo e Maurizio Costanzo fra gli altri. Il testo cominciava con le parole “La Costituzione afghana...”. Ma quale Costituzione? Quella esportata laggiù a colpi di bombe cluster e di migliaia di morti? Quella solennemente varata a Kabul nel 2003 da Hamid Karzai e dalla sua Lloya Jirga, e cioè da un pupazzo del Dipartimento di Stato americano ex consulente del gigante pertrolifero USA UNOCAL, tenuto sotto la mira dei B52 della US Airforce, e in combutta con la peggior masnada di criminali di guerra e stupratori noti con l’appellativo di Alleanza del Nord? Quella contemplata con stupore dagli afghani nella speranza che qualunque cosa (anche un testo marziano venuto da chissà dove) fermasse le stragi della NATO e le inaudite violenze dei ceffi dell’Alleanza del Nord - responsabili di oltre 50.000 morti civili dal 1993 al 1998 di cui 24.000 solo nel 1994, e poi stupri, mutilazioni, spaccio di eroina? (5) Cioè la più classica “Constitution at gunpoint” per promuovere la “Democracy at gunpoint”? Quella? Sì, proprio quella. E il testo degli intellettuali italiani continuava così: “Il prolungarsi della detenzione di Rahmatullah Hanefi, in spregio ai diritti universali e alla più elementare dignità umana, avviene in palese violazione della Costituzione afgana... L’attuale sistema giuridico afgano è stato costruito con la collaborazione e l’importante sostegno finanziario per cinquanta milioni di dollari dell’Italia”. Diritti universali, dignità umana, e leggi eufemisticamente nate dalla collaborazione e dal denaro italiano. Risulta a qualcuno che i pastori tagiki, che i commercianti pashtun, o che le donne hazara se li siano mai scelti quei diritti? Sappiamo almeno se li condividono? Ha un senso per loro la nostra dignità? Si sono mai espressi su quella? Cosa hanno da spartire le regole delle democrazie parlamentari europee con duemila anni di relazioni tribali centroasiatiche? Con che diritto l’Italia, Gino Strada e l’intellighenzia al suo seguito pretendono il rispetto di regole e di diritti che con secoli di vita afghana c’entrano come un intervento di laparoscopia robotica con le pratiche curative sciamaniche? Importa qualcosa che a magistrati, medici e giornalisti cresciuti su un altro pianeta certe regole afghane creino sgomento e riprovazione? Sono afghane, sono le loro regole. E il mio ragionamento continuava: se si sancisce il diritto di una potenza conquistatrice di imporre ad un altro Paese le sue regole di “democrazia e giustizia occidentale ora, subito!” a suon di proteste (di insulti, di ricatti commerciali e di missili), allora sanciamo fin da ora il diritto degli afghani, dei talebani, o dei cinesi o di chiunque al mondo di gridare “tortura e pena di morte ora, subito!” se mai capiterà che un giorno siano loro ad avere abbastanza bombe per offrirci la loro Costituzione.
E tornando dunque alla ferrea determinazione di Gino Strada e soci nell’avanzare quelle perentorie richieste, quale differenza c’è fra il loro modo di pretendere “democrazia e giustizia occidentale ora, subito!” in Afghanistan e quello tipico dell’imperialismo culturale dei neocons americani capitanati da Samuel Huntington con il loro “democrazia all’americana ora, subito!” esportato in mezzo mondo? L’uso delle bombe invece che una petizione scritta a Milano? I sordidi fini di sfruttamento degli americani invece del sentimento di giustizia dei nostri intellettuali? Davvero? Credete voi che la lettera di Strada, Colombo e soci sarebbe mai giunta a Kabul senza quel dettaglio degli 8.000 morti civili di questa orribile invasione, della coventrizzazione di interi villaggi, e della nova resa in schiavitù delle donne afghane che oggi si danno fuoco con disperazione senza precedenti? (6) Credete che le consulenze giuridiche discese da Roma su Kabul non servano proprio a spianare la strada agli avvocati delle solite note corporazioni o agli infausti ’cooperatori’ internazionali? La realtà, per chi vuole vederla, è che Gino Strada, proprio lui, si era accodato al più classico imperialismo culturale, e questo era sbagliato. Terribilmente sbagliato. Scrissi tutto ciò a Peacereporter, li invitai a una riflessione fondamentale, che va al cuore dell’intercultura, che è oggi di drammatica attualità. Sostenevo che non è in quel modo che si ottiene un avanzamento dei valori fondamentali dei popoli (ciascuno i suoi). Lo pubblicarono? Macché. Concessero ai loro lettori il beneficio del dissenso? Macché. La ’parrocchia’ si chiuse a riccio, e fine del libero dibattito. Infatti su Peacereporter un libero dibattito su Emergency e sulle sue tante controversie è impossibile. Se questa parrocchialità accade fra i ’nuovi’, fra quelli che non hanno Confindustria o il Vaticano che gli soffia sul collo, immaginate al Corriere o al TG1 di Gianni Riotta.

E di seguito: si chiuse a riccio la ‘parrocchia’ del Manifesto quando, dopo vent’anni di collaborazione, mi negarono la pubblicazione di un editoriale dove gli chiedevo: “Se Calipari fosse morto nelle stesse identiche circostanze, ma per salvare Agliana, Quattrocchi, o Cupertino, voi cosa avreste scritto di lui? Avreste celebrato la morte di un eroe, o avreste scritto di uno ’sbirro’ al servizio sciagurato dei contractors imperialisti?”. In altre parole, l’onestà intellettuale non andrebbe posta in cima al lavoro della storica testata senza padroni? Se non si fa chiarezza su questo punto in via Bargoni, come si procede? Si può procedere? Silenzio.

Spettacolare la parrocchialità di un gruppo No Tav della Val di Susa, e sto sempre nell’ambito dei cosiddetti ’liberi battitori’, per gli essenziali motivi citati in precedenza. Il 14 febbraio 2008 ricevo da una loro attivista un invito a tenere un dibattito in valle: “Sia come associazione che come comitati No Tav saremmo felici di averti ospite a qualcuna delle serate informative che organizziamo, oppure di organizzarti alcune serate (nei vari paesi della Val di Susa e Sangone) sul tema della censura sull’informazione in Italia.” Notate che il fulcro della cosa è la censura. Rispondo il 27 dello stesso mese e fra le altre cose scrivo: “Possiamo parlare di informazione, società civile organizzata, cosa fare e come. Sappi che dico cose molto impopolari per i fans di Grillo, Travaglio ecc.”. La solerte signora cinque giorni dopo specifica: “Nella riunione di comitato di giovedì scorso ho portato il nostro scambio di mail e ci siamo chiesti cosa intendi con ’cose molto impopolari per i fans di Grillo, Travaglio ecc’... vorremmo capire meglio, anche per non creare confusione fra la gente a cui ci rivolgiamo, visto che martedì avremo, per l’appunto, Marco Travaglio che presenterà il suo libro Mani sporche... Se riesci a mandarci uno spunto per fargli magari qualche domanda specifica che ci faccia capire te ne saremmo grati.”. La indirizzo alla lettura del mio Considerazioni sul V-day (7) e allego una precisa serie di domande critiche per Travaglio, poi attendo. Attendo, attendo. Dopo divesi giorni sollecito, e a metà marzo mi arriva una mail di centosette righe fitte, dove l’attivista No Tav si dilunga eternamente sulle sue lotte sociali, sul coraggio, sugli alti ideali. Poi, in fondo: “... Devo dirti in tutta onestà che non abbiamo sfidato Travaglio... gli siamo riconoscenti per essere venuto... grazie a questo fatto sono arrivati tantissimi cittadini (uno stadio zeppo come da foto allegata, nda)”. Ed ecco la stoccata finale: “Tu sei un grande e coraggioso giornalista... all’interno del nostro comitato il dibattito è al punto che ci piacerebbe avere prima un incontro-confronto con te, per capire...”. Ah sì?, rispondo. Lo avete fatto “l’incontro-confronto per capire” con Travaglio? Con Imposimato? Con Diego Novelli? Cioè con tutti gli altri ospiti delle vostre serate? E vi siete preoccupati anche con loro di “non creare confusione fra la gente a cui ci rivolgiamo”? Da quando si fanno i pre-esami agli intellettuali che si invitano a parlare alle serate? Risulta a qualcuno che questa sia la prassi? Non commento oltre, non credo ce ne sia bisogno. Censura, altro che libero dibattito in quel No Tav. La ’parrocchia’ è chiusa in Val di Susa, e perdonate la rima.

La medesima cosa mi accade in un centro sociale di Bologna, l’XM24, forse ancora peggio. Questi sono gli antagonisti arrabbiati, i giovanissimi irriducibili, gli sfasciaSistema per eccellenza. Bene. L’invito che ricevo è a parlare di informazione, e tutti sanno che sono nel mezzo di un’aspra polemica con Report di Milena Gabanelli, che accuso di essere collusa con la RAI in Censura Legale (8) e impegnata in un’opera di censura a tappeto del dissenso nel forum della sua trasmissione (9). Tre giorni prima dell’incontro, un rappresentante del collettivo si presenta a casa mia: ha parlato con Bernardo Iovene, collaboratore stretto di Gabanelli ma soprattutto amico intimo del leader di XM24. Iovene sostiene che io vado raccontanto balle e diffamazioni sia su Censura Legale che sulla censura nel forum di Report, è vero? In via del tutto eccezionale, data la giovanissima età del ragazzo, gli perdono quello che non ho perdonato ai No Tav, e mi sottopongo a verifica preventiva. Mostro al giovane tutti i documenti processuali, le prove nero su bianco, rispondo a ogni domanda. Lui è soddisfatto. L’incontro si fa. Dopo 48 ore mi arriva una chiamata: Iovene è stato di nuovo al collettivo, c’è stata discussione, e allora “Barnard lei può venire, può parlare di informazione, ma non può parlare di Report (sic)”. Avete letto giusto: i giovani antagonisti, gli antiSistema duri e puri, vietano preventivamente all’ospite di parlare, gli mettono un guinzaglio affinché più in là di qualche metro non vada. Non credo sia mai capitato a Porta a Porta, non così spudoratamente. ’Parrocchia’ anche qui.

E poi i meet up di Beppe Grillo, e Grillo in persona. Qui la ’parrocchia’ ha veramente funzionato, soffocando un pezzo di informazione con la stessa efficienza di un Tg di Emilio Fede. Spiego i fatti. La eco della mia pubblica denuncia della collusione di Milena Gabanelli con RAI in Censura Legale ha toccato gli angoli più disparati della Rete, e naturalmente è approdata ai meet up. Alcuni membri di quei gruppi hanno d’istinto portato la vicenda nella pagine del blog di Grillo, visto che si parlava di censura e a pochi giorni dal V2 day sull’informazione. Ma a quel punto un fatto curioso ha iniziato ad accadere: i loro messaggi indirizzati al comico genovese sparivano. Strano. Vi lascio alla spettacolare sequenza di eventi così come sono accaduti al meet up di Napoli, per comprendere di cosa sto parlando:

“Posted mar 27, 2008 at 11:32 AM Qualche giorno fa mi hanno passato questi due link: http://www.arcoiris.t... e http://www.arcoiris.t... Questi video non sono altro che l’intervista a Paolo Barnard: uno dei migliori giornalisti... scusatemi... EX giornalista di Report, la famosa trasmissione televisiva di rai tre condotta da Milena Gabanelli. Dovete - per favore - vedere i video perchè DOVETE aprire gli occhi. Milena Gabanelli come Pozio Pilanto se ne è lavata le mani, sul forum di Report sono stati bannati (censurati) tutti gli interventi su questo argomento (CESURA LEGALE). Sul sito di Beppe Grillo è stata fatta la stessa cosa... Apriamo gli occhi. Vittorio Emanuele”

“Posted mar 28, 2008 at 3:38 PM Io scrivo sul forum di annozero e qualche volta su quello di report. Ho partecipato solo all’inizio alla lunghissima discussione che c’è stata e che poi è sparita. Conosco le persone bannate, sono persone civili, educate, acute, con un senso civico altissimo. Non hanno mai sforato nell’offesa o nella volgarità, ma hanno dato fastidio chiedendo, pretendendo chiarimenti. Tutto questo può diventare improvvisamente non interessante perchè barnard ha fatto il nome di grillo? Grillo sta organizzando un V-day sulla informazione, perchè non affrontare anche questa questione? E’ importante o no per la democrazia, per il sistema informazione in italia... la gabanelli non ne parla. Maria Gabriella”

“Posted mar 28, 2008 at 9:51 PM Ho bisogno di una risposta a questo quesito: io e altri abbiamo ripetutamente postato la lettera aperta (su Censura Legale di Barnard, nda) sul blog di Grillo. Non è mai stata postata. Come mai? Qualcuno sa darmi una spiegazione? Grazie. Maria Gabriella”

“Posted mar 28, 2008 at 10:03 PMProva a spezzettarla, il blog accetta 2000 caratteri per volta. Mariano.”

“Posted mar 28, 2008 at 10:37 PM ...cmq è vero è da piu di mezz’ora che cerco di postare su blog di Grillo la lettera aperta su Censura Legale (di Barnard, nda), non riuscendoci... Non mi postano neanche le mie proteste in merito... non capisco... Mariano.”

“Posted mar 29, 2008 at 1:17 AMnon potevo, non volevo crederci... mi chiedo che senso abbia il v2day sull’INFORMAZIONE se Grillo sul suo blog applica la censura nei cfr. di determinati argomenti... sono confuso... deluso... pretendo chiarimenti... chiedo a Roberto Fico, Marco Savarese e Vittorio, e a tutti gli amici del meetup di napoli di pretendere altrettanto... di chiedere chiarimenti a Grillo... che questa discussione venga puntinata.”
La notizia che anche Grillo stia censurando sul suo blog rimbalza allarmante a diversi altri snodi italiani dove si raggruppano i seguaci del comico, come Milano, Roma, Bologna, Ladispoli, Carbonia, o Messina:
“Posted apr 13, 2008 at 5:07 PM Sul BLOG di Grillo i post che contengono il nome di BARNARD vengono censurati. Provate voi stessi e vedrete. Io ho fatto alcune prove, anche camuffando il nome. Niente. Mi pare una questione molto seria. Ne vogliamo discutere?”
“Posted apr 9, 2008 at 9:09 PM Se ci tappiamo gli occhi di fronte a questa vicenda; se non siamo in grado di rompere quelle che assomigliano alle vecchie regole di omertà e fedeltà alla linea di partito; se non facciamo questo, ora e subito, credo dobbiamo rinunciare ad ogni speranza di cambiamento e di battaglia per la verità. Voglio poter andare al prossimo V-Day con l’animo in pace e con la coscienza pulita. Stefano”“Fabio bergonzoni (cipputi) Commentatore certificato 01.04.08 11:09 quando mi capita di scrivere un commento non troppo "consono" al blog viene censurato... dio mio c’è del marcio anche qui? ho visto che non capita solo a me. è triste. è sconfortante. non si sa più dove girarsi... non c’è piu niente di pulito.”Io stesso ricevo diverse mail che confermano puntualmente la censura sul blog di Grillo e di cui offro solo alcuni esempi:
Date: Mon, 07 Apr 2008 15:32:29 +0200From: Stefano To: dpbarnard@libero.itSubject: Di nuovo su censura legale
“Ho provato a spedire un messaggio nel blog di Beppe Grillo, le cui uniche parole riconducibili al tuo caso erano RAI, Gabanelli, Report e Barnard: niente, il messaggio non è arrivato.Ultimo tentativo, questa volta con le parole camuffate... Ne ho spediti un paio e sono rimasti là almeno una mezz’ora/un’ora (probabilmente erano un po’ distratti). Stamattina i miei post erano spariti. Questa vicenda mi disgusta...”
Date: Tue, 11 Mar 2008 12:17:03 +0100From: mariapiapil@****To: dpbarnard@libero.itSubject: Re: Report e Anno Zero
“Ho scritto quanto segue nel blog di Grillo. Non ne ho trovato traccia... Mp.“Vorrei esprimere il più totale rifiuto e indignazione verso la Censura Legale di cui è oggetto Paolo Barnard e tutte le persone che in diversi blog e forum...”
Date: Fri, 21 Mar 2008 18:21:08 +0100 From: sapesci@****To: dpbarnard@libero.itSubject: Grillo censura...
“Avevo già segnalato il tuo caso sul sito di Beppe Grillo. Una delle due segnalazioni che ho inviato, quella nel commento più votato, è stata bannata!... La Gabanelli anche lì evidentemente non si tocca! ma tu resisti... non sei solo!”Tutto questo accade a meno di un mese dal V2 day di Torino. In sostanza: Beppe Grillo, che sta lanciando la più imponente crociata popolare contro l’informazione “di regime” della storia contemporanea, usa la censura nel suo stesso blog, da lui sventolato ai quattro venti come il futuro della libertà di espressione, come il salvagente della libertà di parola in Italia. Lo fa, aggiungo, perché notoriamente amico intimo di Milena Gabanelli, e fra compagni di ’parrocchia’... Ma ciò che sarà ancor peggio, è come l’ondata di indignazione di tanti membri dei meet up si spegnerà docilmente al sopraggiungere dell’adrenalinica giornata del 25 aprile, con la sua cornucopia di emozioni, protagonismo per un giorno e trascinamento acritico di tanti da parte dell’istrionico genovese. Eppure non sarebbe stato difficile capire che in gioco vi era un fatto gravissimo, e cioè la scoperta che il grande inquisitore aveva replicato lo stesso odioso comportamento che si accingeva a castigare con feroce intransigenza in tanti altri. E se una frazione di rigore intellettuale e morale fosse riuscita a sopravvivere a quella festa di piazza, i seguaci di Beppe Grillo avrebbero dovuto imporre una riflessione all’intero evento: quella replica ipocrita lo aveva già corrotto fin nelle fondamenta prima ancora di iniziare, inaccettabile continuarlo così. Ahimè rimane un fatto che da quella data è calato il silenzio su questo caso. Di nuovo, la ’parrocchia’ dei meet up ha chiuso i portoni, e un libero dibattito sulla gravità del comportamento di Beppe Grillo è rimasto fuori.

Il caso Gabanelli. Il ’litmus test’.

Quando il parroco chiama a raccolta. E sempre in tema, mi soffermo sulla reazione di alcuni dei più noti rapppresentanti dell’Antisistema italiano a quella parte della mia denuncia su Censura Legale che inevitabilmente ha gettato ombre sulla conduttrice di Report Milena Gabanelli. Essa si è rivelata un litmus test, per dirla all’inglese, e cioè un vero banco di prova. Infatti, nella ’parrocchia’ che si è chiusa a riccio a protezione della nota giornalista si sono infilati alcuni dei nomi più celebri della compagine dell’informazione antagonista italiana. Non è loro bastata la schiacciante mole di prove documentali che inchiodavano Gabanelli e la RAI; non gli sono bastate le proteste per iscritto con nomi e cognomi dei tanti cittadini censurati brutalmente dalla Gabanelli per aver osato dissentire e chiedere spiegazioni; non è stato sufficiente spiegargli accoratamente che la replica al loro interno dei metodi del Sistema-potere è una bomba a orologeria moralmente inaccettabile e che finirà per delegittimarli danneggiando irreparabilmente tutti gli attivisti italiani. Nulla di tutto questo è servito, e così Marco Travaglio, Aldo Grasso, Lorenzo Fazio, Sabina Guzzanti, Beppe Grillo e persino Piero Ricca si sono schierati in difesa della propria ’parrocchia’, ciascuno a modo suo.

Prima di continuare preciso e sottolineo: il fatto che il caso Gabanelli sia ricorrente lungo diverse parti di questa narrazione non è segno di un mio accanimento rancoroso, di una malcelata velleità vendicativa, di squilibrio professionale. Le ragioni sono quelle appena citate, e solo quelle: si è trattato di un punto di svolta clamoroso, un episodio che ha per la prima volta squarciato il velo su una dibattito soffocato anche se di fondamentale interesse pubblico: sono veramente diversi dal Sistema-potere i nuovi ’paladini’ italiani della libertà di parola? Come reagiscono quando sono loro a essere colti in fallo? Possono centinaia di migliaia di italiani fidarsi ciecamente di loro? E in ogni caso, è giusto affidarsi? Ecco perché quell’affaire ricorre così spesso qui. Mi ha scritto una lettrice: “Gent.le Dr. Barnard, sono rimasta colpita sia dalla vicenda in sé, sia dalle relative implicazioni sociali. Ritengo che quanto è avvenuto sia gravissimo: anche i programmi e le rubriche che (apparentemente) prendono posizione a favore di una cultura della legalità e dei diritti sono, dunque, "sepolcri imbiancati" (per usare un’espressione molto forte ma, credo, non fuori luogo)”.

Marco Travaglio.
La prima volta che portai all’attenzione del giovane cronista di giudiziaria le crepe che si stavano aprendo nel gruppo dei ’paladini’ fu il 14 dicembre del 2006. Le risposte che mi arrivarono furono dei monosillabi inespressivi e seccati. Mai alcunché sui punti specifici. Fu uno dei primi a ricevere la mia denuncia su Censura Legale, di cui lui stesso è vittima fra l’altro, ma nulla. L’ho sollecitato di recente con una lettera aperta, nella quale gli chiedevo di esprimersi sia sul critico rapporto fra fama/potere e libertà d’espressione (Travaglio è un’idolo nazionale e corre seri rischi in questo), sia sul comportamento della collega Gabanelli. Nessuna replica. Poi ricevo da un lettore quello che Travaglio aveva a lui dichiarato in merito a ciò che gli avevo scritto: “Sono tutte balle (vicenda Gabanelli)” e “Non ho tempo da perdere dietro ai delirii di uno squinternato che mi diffama su internet con processi alle intenzioni (le mie considerazioni su fama/potere e libertà)”. Replico a questo livello di tracotanza offensiva e di ignoranza dei fatti (Travaglio, che è un cronista, evidentemente non sa nulla delle prove documentali che ho fornito in Censura Legale) e fra le altre cose scrivo: “Nessun processo alle intenzioni. Travaglio si è già corrotto. Come fa lui, il censore morale, a stare fisso nel salotto Tv di uno che per prima cosa è un arcinoto raccomandato di lunga data della lottizzazione Tv dell’asse PCI-Sandro Curzi, ma che ha poi fatto scempio del mandato elettorale di tanti italiani per scendere da Strasburgo (dove ha soggiornato a spese dei cittadini) a riprendersi il suo ’giocattolo’ preferito? Cos’è un mandato elettorale? Un parcheggio temporaneo? Una cura ricostituente? E costui, cioè Santoro, oggi sta in televisione a bacchettare il malcostume della politica (sic). Può Marco dire quanto sopra in faccia a Santoro in diretta ad Anno Zero? Eppure sono fatti conclamati. Può? Lo ha fatto? Può Travaglio dire che la sua casa editrice Chiarelettere è diventata il fans club di un magistrato e di una fetta di magistratura con tanto di striscione e motto sul sito (caso unico in occidente), facendo così a pezzi il più sacro dei principi dei checks and balances nel giornalismo? Può? Lo ha fatto? Può Travaglio spiegarci cosa ci stanno facendo lui e Milena Gabanelli in prima serata Tv dopo che lui stesso ha perentoriamente dichiarato nel 2006 quanto segue: “In televisione è vietato tutto ciò che è libero, indipendente e autonomo. Perché? Perché non si sa mai cosa può dire uno libero, che non risponde, non si sa mai cosa potrebbe fare, non si sa mai cosa potrebbe raccontare... Se uno è asservito è controllabile, si conoscono le dimensioni del suo guinzaglio, e si sa anche chi lo tiene in mano il guinzaglio. Chi non ha il guinzaglio in televisione in questo momento non lavora e chi ci lavora in un modo o nell’altro un suo guinzaglio ce l’ha. Si tratta a volte di scoprirlo, per quelli più furbi, che lo nascondono meglio, per altri si tratta di capire quanto è lungo, ma non c’è dubbio che chiunque lavori in televisione nei posti chiave, che si occupano di informazione, di attualità, o che si occupano di settori limitrofi, il guinzaglio c’è e lo tiene in mano qualcuno. Poi ci può essere qualcuno che ha il guinzaglio e pure è bravo (sic, nda), non è mica escluso, è difficile, ma non è escluso; la regola è comunque che ciascuno deve essere controllabile e ciascuno deve essere prevedibile , ciascuno deve avere qualcuno che garantisce per lui altrimenti sulla base delle proprie forze e delle proprie gambe lì dentro non ci si entra’?”

E ora aggiungo: può Travaglio farci capire come è possibile che il direttore di RAI 3 Ruffini sia, secondo le sue lapidarie parole, un censuratore di professione “perché ha cancellato Raiot di Sabina Guzzanti”, quando lo stesso Ruffini lascia Report in prima serata da più di 4 anni? Lo è o non lo è un censuratore? Oppure è la Gabanelli che ha le spalle coperte? O è Travaglio che diffama a casaccio? Può chiarire? Può questo giornalista dare conto della sua partigianeria manifesta per un partito politico con tanto di indicazione di voto pre elettorale (IDV e Di Pietro) e di come questo suo comportamento deturpi l’abc della nostra deontologia, che pretende una netta separazione del giornalista dalle fonti del potere che dovrebbe severamente monitorare? Può infine avere la decenza di leggersi le carte processuali che così chiaramente espongono Milena Gabanelli come collusa con la RAI in uno dei più gravi casi di Cesura Legale, e le testimonianze dei cittadini censurati dalla condutrice di Report? E avrà la coerenza di prendere posizione contro quel malaffare nato nel cuore dell’informazione ’pulita’, così come lo condannerebbe se praticato da chi non è suo amico personale? Insomma, avrà la forza di non finire a erigere muri attorno all’ennesima ’parrocchia’?
La risposta a ciascuno di questi quesiti è no. Perché fra ’parrocchiani’ non ci si tocca, e al diavolo la libertà di pensiero, la libertà d’espressione e l’onestà personale.

Lorenzo Fazio e Aldo Grasso.
Editore di provenienza Rizzoli e patròn della casa editrice Chiarelettere - che pubblica Travaglio, Gomez, Corrias, Barbacetto, Beha ecc. - Lorenzo Fazio ha avuto fra le sue firme sia il sottoscritto che Milena Gabanelli. Da notare che questo editore ospita nel suo sito un blog dal titolo Tiro Libero, spazio dedicato al monitoraggio del giornalismo italiano. Sono ancora in attesa che quel ’monitoraggio’ dedichi a Censura Legale qualcosa di meglio di tre righe vaghe e fuori tema. La Censura Legale non è cosa da poco, è a tutti gli effetti una minaccia serissima alla libertà di stampa italiana, come conferma mirabilmente un saggio di una delle nostre più rispettate giuriste, Giovanna Corrias Lucente, e che così riassume la serietà della questione: “Sulla testa di ogni giornalista pende oggi la spada di Damocle di una querela per diffamazione. Lui - e il suo giornale - rischia la bancarotta, chi querela assolutamente niente. Anche se la denuncia si rivela infondata, infatti, è quasi impossibile ottenere un risarcimento. Risultato: i giornalisti scrivono sempre di meno e sempre più politically correct, le querele per diffamazione non si contano e i danni morali liquidati raggiungono cifre sbalorditive. Con buona pace del pluralismo e della libertà di stampa”. (10) Ma Lorenzo Fazio è della ’parrocchia’, ha la conduttrice di Report in prima fila fra le firme Vip dei sostenitori della sua impresa editoriale, e dunque zitto, “con buona pace del pluralismo e della libertà di stampa”.

Aldo Grasso, il critico televisivo più caustico d’Italia, uno spirito libero, così dicono. Lo chiamo in febbraio, gli espongo la questione Censura Legale, e lui: “E’ grave, è capitato anche a me, un editore mi ha lasciato solo in tribunale a sorbirmi tutte le grane di ciò che mi aveva pubblicato...”. Bene, replico, allora sai di cosa parlo, ci scrivi due righe sul Corriere? Grasso: “Ma... sai... io sono amico della Gabanelli, e prima di attaccare un’amica dovrei vedere meglio...”. Notate bene che non ha detto ’prima di attaccare un cittadino’, che sarebbe stato solo giusto. Ha detto “un’amica”, cioè il critico televisivo è ’compagno di merende’ di chi dovrebbe scrutinare. Non demordo, gli mando ogni prova documentale, ogni riscontro nero su bianco, tutto. Lo richiamo dopo quasi un mese, e la solfa è la stessa: “Ma sai... io sono amico della Gabanelli, e prima di attaccare un’amica...”.

Piero Ricca.
Il 2 aprile 2008 mi scrive: “Caro Barnard, vorrei capire meglio la vicenda che la riguarda. Vorrei farle un’intervista, magari video, ma non necessariamente, da far girare on line, a partire dal mio blog. Un cordiale saluto, Piero Ricca”. Ne sono felice, accetto. Lui ribadisce: “M’interessa anche il tuo punto di vista su leadership e responsabilità individuale nel campo della società civile ’progressista’ o ’antagonista’...”. Perfetto, ancora meglio. E ancora lui: “Confido in video-intervista sugli sviluppi e il signficato del caso non appena possibile per entrambi”. Nel frattempo lo rendo edotto di ciò che penso dell’Industria della Denuncia e dell’Indignazione, e glielo dico chiaro, lui c’è dentro fino al collo. Parliamone. Inoltre gli manifesto il mio disagio di fronte a certi suoi, chiamiamoli, eccessi di provocatorietà nel corso dei suoi arrembaggi a Vip politici o finanziari. Il rischio, suggerisco, è proprio quello di replicare metodi violenti nel nome di una autoreferenziale giustezza civica. Piero si risente un poco, me lo comunica. Il tempo però passa, e dell’intervista che mi voleva fare si sono perse le tracce.

Sabina Guzzanti.
Stessa trafila di Ricca, anche lei mi contatta per una intervista, l’11 di febbraio: “Caro Paolo Barnard, dato che sto lavorando a un film documentario sull’informazione vorrei intervistarti e raccogliere la tua testimonianza (sperando che la parola non ti ricordi troppo i tribunali)”. Scottato come sono dall’effetto ’parrocchia’, decido di mettere le mani avanti: cara Sabina, leggi prima quello che ho scritto di voi Vip alternativi e di ciò che state facendo, poi se ancora vorrai sentirmi... Lei replica: “Caro Paolo, grazie della risposta. Ho letto il tuo articolo e non mi è passata la voglia di intervistarti. Ti chiamerò un giorno di questi per prendere un appuntamento”. Sono ammirato, forse qui si respira aria nuova. Nelle settimane seguenti le mando via mail i dettagli della vicenda Censura Legale, e con essi una sintetica cronaca in diretta della censura che sta calando implacabile su molti utenti del forum di Report man mano che la cosa monta. Le segnalo anche quella del blog di Grillo. Sabina inizia a mandarmi messaggi interlocutori: “Su Grillo mi sono arrivate voci che sul blog ci sia censura, mi pare che la voce si stia spargendo, d’altra parte è pure una sua scelta parlare di quello che vuole...” Le rispondo: “No, scusa, ma hai preso un granchio. Non si tratta del suo diritto di postare ciò che lui vuole. Qui parliamo dei cittadini, i cui contributi lui non deve filtrare, se non in casi di palesi volgarità o illegalità. I post dei cittadini sul suo blog sono liberi, e lo sono sempre stati. Lui cancella quelli scomodi, li censura”.Sabina di nuovo: “Mi sembra che il senso della tua battaglia debba essere protezione legale da parte degli editori per i giornalisti che si espongono, più che una guerra contro la Gabanelli”. Comprendo subito il pericolo del fraintendimento che talvolta mi accompagna, e cioè la convinzione di alcuni che io mi stia accanendo per un rancore personale contro una giornalista, piuttosto che sui principi di una battaglia per la libera informazione. Replico con fermezza: “Il senso della battaglia è sia contro gli editori che ci abbandonano sia contro chiunque censuri, se mi permetti. Gabanelli sta censurando a man bassa e partecipa a Censura Legale. Cosa devo fare? Il solito ’compagno di merende’ alla Aldo Grasso o Grillo che con la censura di Mimun sbraitano furibondi ma con la loro amica no? Fammi capire Sabina, la censura puzza di meno se la fa una amica tua o mia? Dimmi come ti posizioni tu, perché qui veramente si fa fatica a capire. La guerra la si fa contro chiunque censuri e se si chiama Gabanelli chissenefrega. O sbaglio?”. La Guzzanti non si convince, lo scoglio Gabanelli rimane nel mezzo. Poi, quando scrivo di Marco Travaglio ciò che avete letto sopra, Sabina cambia tono, ahimè. Mi premuro di ricapitolarle tutti i punti spinosi, le gravi contraddizioni e i rischi che accompagnano la celeberrima figura del cronista, e concludo: “Sabina, quando si diventa Star non si è più liberi. Perché la fama dà potere, e il potere diventa prioritario rispetto alla libertà. Rileggi i nomi che ho citato (Ivan Illich, Noam Chomsky, Howard Zinn, John Pilger, Rachel Corrie... Giovanni Ruggeri, Giorgio Ambrosoli, Corrado Staiano, Ilaria Alpi, Peppino Impastato, nda), quelli non furono e non saranno mai in prima serata Tv. Va fatto altro, e l’ho scritto e credo che tu l’abbia letto”. Lei: “Caro Paolo, condivido la battaglia perché i giornalisti siano protetti legalmente dalle testate per cui lavorano, non condivido la battaglia anti Gabanelli. Non condivido la battaglia anti Travaglio di cui ho stima”. E di seguito, a proposito dell’impianto generale delle mie critiche ai ’paladini’ antisistema, la Guzzanti sentenzia: “Francamente mi sembra un’analisi che nasconde frustrazione e rivalsa mal indirizzate”.
Dunque, sarei in fondo proprio un rancoroso frustrato che fa battaglie anti qualcuno per rivalsa personale e invidia. Ci risiamo. La mia ultima replica alla Guzzanti sarà dura, le scrivo che in fondo anche lei, messa di fronte all’evidenza scritta nero su bianco della replica fra i suoi colleghi antagonisti della censura e dell’arroganza tipiche del Sistema-potere, sceglie di non prendere posizione, di non vedere. E’ facile, le dico, e soprattutto fruttuoso scendere in campo quando c’è da difendere i censurati Vip, dà visibilità mediatica; ma non vedo in lei lo stesso fervore di giustizia di fronte alla censura degli anonimi Marisetta, Salvo, Silvia, Francesco..., o di fronte alla palese violazione della coerenza morale da parte dei suoi amici Marco, Beppe, Milena, con il pericolo per tanti che ne consegue. Così, amica mia, si sceglie la propria appartenenza alla ’parrocchia’, non l’interesse comune. (Non mi ha più risposto. Anche l’intervista con la Guzzanti credo si andata a farsi benedire, ma tant’è)

Beppe Grillo.
Del suo essere ’compagno di merende’ della Gabanelli (ma anche di molti altri), e della censura che questa condizione ha generato nel suo blog ho già detto. Vi rivelo solo un ulteriore aneddoto assai significativo: una sua cara amica, di nome Valentina, ex studentessa dell’amico Carlo Belli dell’università di Perugia e attiva nel meet up di Losanna, si interessò a Censura Legale, di cui postò il testo integralmente. Ne seguì uno scambio di mail col sottoscritto e la sua iniziativa di sensibilizzare Grillo con una interpellanza personale. Il comico le rispose: “Dì a Barnard che faremo il V2 day anche per lui”. Di questa risposta faccio notare una sola parola: per piuttosto che con. Non con i temi che Barnard porta allo scoperto. In altre parole: se ne stiano a distanza Barnard e ciò che denuncia, che noi lavoriamo anche per lui (sic).
In conclusione, quanto sopra dovrebbe in un pubblico sano destare una profondissima preoccupazione e molte domande. Ma tornando al punto di partenza, ne rimane una fondamentale: come fa un Paese così intriso nel Sistema e anche nell’Antisistema dalla perenne tendenza alla parrocchialità a difendere la libera espressione e ad esprimere una libera informazione?*

Inutile proporre riforme, leggi, invocare esempi esteri di trasparenza. Fra questi ultimi, per citarne uno, la britannica BBC è perennemente menzionata. E allora diamo una breve occhiata a come è gestita la BBC e da chi. Il suo CDA si chiama BBC Trust; la sua dirigenza è la Executive Board. Il BBC Trust è nominato dalla Regina su consiglio dei ministri del governo. La Executive Board (16 direttori e direttore generale) è interamente nominata o approvata dal BBC Trust. Riflettiamo: tutta l’emittente pubblica britannica, esempio mondiale di indipendenza e qualità, è gestita a cascata da un monarca e dai suoi ministri, attraverso lo strumento del BBC Trust che di fatto controlla tutto quanto è sotto di lui. Un monarca, e dei politici oltre tutto neppure di maggioranza e opposizione, ma solo di maggioranza. E dov’è dunque il tanto celebrato sbarramento alla potenziale lottizzazione e manipolazione della Tv pubblica inglese? Non c’è, o meglio, c’è e si chiama ’sono inglesi’, tutto qui. Infatti, basta immaginare il trasferimento di un simile sistema di controllo nel sottobosco corrotto e bizantino della nostra Italia e capite benissimo perché in queste righe io insisto sul punto imprescindibile: non va cambiata l’informazione, vanno cambiati gli italiani.

* (e cosa sarà di Canale Zero di Giulietto Chiesa se prima non affronteranno il pericolo ’parrocchia’?)

Cos’è informare. Cosa fa un giornalista.
Ve lo diciamo noi. Ogni pomeriggio dell’anno i direttori di testata, i caporedattori e giornalisti assortiti si riuniscono e decidono cosa raccontarci il giorno seguente (quotidiani), la settimana entrante (periodici), la sera stessa (Tg). Sul tavolo delle redazioni giacciono pile di notizie, principlamente sotto forma delle cosiddette ’agenzie’ (dispacci delle agenzie di stampa), ma anche fatti raccolti in ogni modo immaginabile, gossip, segnalazioni, e di rado qualche inchiesta. Dopo alcune ore l’80% di tutta quella roba viene scartato, e il rimanente 20% viene eticchettato in ordine di importanza: titolo d’apertura per questo... questo in evidenza... quello meno... quell’altro solo un accenno, e così via. I criteri di questa selezione e attribuzione di visibilità li sapete bene, sono spessissimo vergognosi, inutile qui ricordarli o ricordare chi li detta (dall’esterno delle redazioni). Ma ciò che è assurdo in tutto questo non è tanto la vergogna dei criteri sopraccitati, quanto il fatto che si dia per scontato nel giornalismo attuale che informare significhi selezionare notizie e offrirle ai cittadini. Questo non è informare. Informare correttamente è invece solo questo: pubblicare, nei limiti degli spazi fisici delle testate, tutte le notizie possibili, il maggior numero possibile. Punto. La selezione di ciò che è importante, e dunque a cosa dare il titolo in evidenza, la farà il cittadino nella sua testa leggendo o guardando le notizie. Ciascuna persona, nella sua libertà di pensiero e facoltà di discernimento, cioè protagonista dell’informazione, farà i propri titoli a caratteri cubitali sul giornale o i propri titoli di apertura del Tg, che di conseguenza nei quotidiani e nei telegiornali dovrebbero scomparire. Ma per potere fare ciò, le persone devono poter avere tutte le notizie che è possibile dare nei limiti delle 24 ore, e non una striminzita cernita precotta e opportunamente enfatizzata rifilatagli ogni santo giorno come l’omogeinizzato al bambino. I direttori e le redazioni dovrebbero solo verificare l’attendibilità delle fonti delle notizie, e scartare solo ciò che palesemente incita alla violenza, palesemente diffama o palesemente falsifica la realtà. E sottolineo palesemente. Lo spazio per le idee del direttore, delle firme di prestigio, o dell’editore (e dei loro refrerenti inevitabili) dovrebbe essere quello della pagina delle opinioni, o degli editoriali Tv. Parimenti, uno spazio va riservato alle inchieste, saggi ecc. Ma oltre a ciò, la discrezionalità dei giornalisti non dovrebbe esistere. Questi dovrebbero essere i limiti del mestiere di chi pubblica notizie.
Utopia? Mi interessa poco. Di fatto informare dovrebbe essere questo, cioè raccontare al cittadino quello che lui/lei non può conoscere, tutto quello che lui/lei non può conoscere. Non vedo l’alternativa.

Compagni di merende. Il mestiere del giornalista, in Italia più che altrove, è anch’esso male interpretato. La più bella definizione di cosa significhi fare il nostro mestiere l’ho sentita anni fa da una giornalista straordinaria, l’israeliana ebrea Amira Hass. Disse: “Il nostro compito principale è di monitorare le fonti del potere”. Semplice e cristallino. Monitorare le fonti del potere significa scandagliarne quattro primariamente: le tre della notissima suddivisione di Montesquieu - esecutivo, legislativo e giudiziario - e l’ultimo arrivato, il quarto potere, cioè proprio l’informazione. Per fare ciò, il giornalista necessita di una dote sopra a tutte: saper essere un professionista solo. Significa essere un libero battitore, capace di guardare e se necessario criticare a 360 gradi tutto e chiunque, e cioè gli sconosciuti e i distanti, ma anche i conosciuti e i compagni di strada. In particolare questi ultimi, perché è proprio all’interno del proprio cortile di casa (o ’parrocchia’) che spesso si annidano i misfatti più difficili da snidare. Ne consegue appunto che il giornalista non deve mai far comunella con alcuno, con i politici, con i magistrati, con i colleghi ecc., e deve tenersi da tutti a debita distanza. Invece in questo Paese la norma è che i giornalisti facciano ’parrocchia’ con altri ’compagni di merenda’, che siano visti a cena con legislatori, in vacanza con industriali o con giudici, allo stadio con amministratori pubblici, ai dibattiti a braccetto coi magistrati, ai convegni coi banchieri, e che se ne vantino. Capita in Italia di vedere dilagare la banda dei quattro col comico, il politico, il cronista e il manager occulto che fanno e disfano mischiando deplorevolmente giornalismo, politica, attivismo, business, manipolazione di massa col codazzo di altri volenterosi giornalisti; capita che un direttore di giornale si vanti dell’amicizia personale con l’ex presidente del Senato grazie alla cui firma il suo quotidiano esiste, in un incredibile conflitto d’interessi; capita che la nota firma di prestigio saltelli con disinvoltura dentro e fuori dai poteri che dovrebbe monitorare, parte PR man-manager-affarista, parte diplomatico-lacché di potente famiglia, e poi di nuovo giornalista, tutto in uno; capita che giornalisti e magistrati si abbraccino a tal punto da sfondare nell’ambito del movimentismo, quasi ci si aspetta di vederli fare picchetti e volantinaggio di fronte ai palazzi di Giustizia. Alla faccia dei checks and balances che la tradizione anglosassone ci ha così opportunamente tramandato. Essere ’compagni di merenda’, gemelli combattenti, amici degli amici, cordata di colleghi, commilitoni addirittura, è la norma qui da noi nel giornlismo.
Insomma, tutto ciò è grottesco. E nessuno lo nota più. E’ una mischia ormai fuori controllo.

Ma così, chi controlla più chi?
In concreto.
Per dare una pennellata di decenza all’informazione italiana occorre prima di ogni altra cosa puntare il dito sull’informazione che ogni giorno i cittadini di questo Paese si scelgono, e dire a gran voce che non vi è soluzione di continuità fra ciò che noi italiani siamo e i media che abbiamo.
Il lavoro è di ordine epocale, cioè dimenticarci per un attimo delle Caste e metterci davanti allo specchio con vergogna. E avere il coraggio di vedere nei contorni delle nostre fattezze quegli spicchi di Berlusconi, Mieli, Riotta, Lerner, Del Noce, Petruccioli, Ricci, Costanzo, Chiambretti e Sgarbi - e con essi anche tutte verruche nascoste della compagine dell’Antisistema - che emergono dal nostro derma.Dobbiamo dunque recuperare il senso della nostra importanza di persone, la nostra autostima, e poiché importanti e dunque ciascuno di noi primo cittadino della vita pubblica, dobbiamo decretare inammissibile in noi stessi l’essere meschini, omertosi, disonesti, pigri, accomodanti, egoisti, qualunquisti, bugiardi, indifferenti. Inammisibile cioè che lasciamo scorrere il peggio sotto i nostri occhi senza intervenire, senza pretendere che ciò non accada. Intervenire e pretendere, tutti noi, indipendentemente dallo status sociale o dalla cultura, e dunque cambiare il nostro mondo, la politica e l’informazione.

Un percorso lungo e difficilissimo, lo so bene. Ma in Italia da qualche anno si era formata una Società Civile Organizzata che prometteva bene. Si trattava di una miriade di organizzazioni con al seguito schiere di cittadini attivi potenzialmente capaci di formare un esercito di creatori di consenso in grado proprio di aiutare gli italiani a fare ciò che ho appena descritto - aiutare, lo ripeto, chi non ha il tempo, il denaro, l’autostima per informarsi, per capire, per intervenire; aiutarli a fare quelle tre cose affiché un giorno si riescano a mettere al centro, a sentirsi imprescindibili e infine a cambiare questo Paese. Se questo esercito avesse lavorato diligentemente, pazientemente, capillarmente, e soprattutto orizzontalmente, avremmo visto in Italia un inizio di cambiamento verso una cittadinanza onesta, consapevole e capace di partecipare. Capace infine di spazzar via ogni Casta politica o mediatica, poiché le Caste sono solo il riflesso di una cittadinanza disonesta, inconsapevole e incapace di partecipare. Sarebbe stato il primo passo verso il goal di cui sopra. Era una promessa, l’unica rimasta. Invece altro è accaduto, purtroppo. La Società Civile Organizzata si è voluta munire di Guru, Personaggi, Star, in tutto e per tutto replicando le strutture verticali e vippistiche del Sistema massmediatico commerciale. L’ipertrofismo di questi nuovi Guru, come ho già scritto in passato, ha finito per annullare ancor più la capacità di azione dei singoli cittadini attivi, rendendoli dipendenti dal carisma, dalle proposte, e dalla presenza di quelle Star. Infatti oggi in assenza del carisma, della presenza e delle indicazioni di quei Guru pochissimi cittadini agiscono, e all’indomani della feste di piazza, delle serate col personaggio o delle manifestazioni, poco o nulla accade. Per cambiare questo stato di cose, per cioè riportare i cittadini attivi all’essenziale ruolo di formatori di consapevolezza nei milioni di cittadini passivi, dovrebbe idealmente accadere che i primi si scuotessero dal torpore e dall’adorazione acritica dei loro Guru. Lo auspico.

Nel frattempo però codesti divi dell’Antisistema potrebbero dare una mano compiendo un atto di responsabilità che sarebbe storico, in particolare nell’ambito proprio dell’informazione e di come essa va ottenuta da parte del cittadino. Lo sintetizzo in una battuta: devono sgonfiare se stessi e aiutare le persone a ingrandirsi.
La prima cosa che questi ipertrofici personaggi dovrebbero fare è di restituire alla gente il potere di informarsi. Lo si fa innanzi tutto incoraggiandoli a coltivare l’abitudine al dubbio, ovvero il dubbio che ciò che gli stessi Guru scrivono o proclamano possa essere parziale, miope, sbagliato, addirittura manipolatorio. Il messaggio di apertura nel rapporto col loro pubblico dovrebbe sempre essere: siamo solo fonti di notizie, non oracoli, ascoltateci, ma a debita distanza, fra le tante altre fonti che ascolterete. Così facendo restituirebbero al pubblico il suo ruolo di protagonista che deve farsi la verità da solo, e non apprenderla pedissequamente da un Personaggio visto come un Vate. Si comincia così. Poi ci si rifiuta di fare i Vday, di avere i megablog, di essere fissi in prima serata Tv come Guest Stars, di fare il club esclusivo dei divi antagonisti, di pavoneggiarsi nelle pagine delle opinioni di riviste patinate, e si dismette interamente quell’abito da eroi della nuova resistenza che così tanti vestono oggi con orgasmo.
Gli odierni divi della controinformazione dovrebbero lavorare proprio per ottenere che il pubblico non si relazioni più col giornalista Personaggio/divo/esperto, ma che lo veda sempre come un suo piccolo consulente di informazioni fra i tanti. Per far comprendere a chi legge quale dovrebbe essere l’atteggiamento esteriore e interiore di una cittadinanza sana nei confronti di chi li informa, chiuque egli/ella sia, vi chiedo di immaginare come il top management di un gigante industriale - per es. la Microsoft Corporation - si relazionerebbe con un loro consulente. Lo convocherebbe, gli direbbe senza troppe storie “Prego si faccia avanti, ci dica”, lo ascolterebbe e poi “Bene, grazie, si accomodi”. Punto. E il consulente saluta e si mette da parte piccolo e secondario, per lasciare ai manager l’importante compito esecutivo. Ora, un pubblico di cittadini sani dovrebbe sentirsi come il management, cioè al centro del potere e delle decisioni, e gli odierni giornalisti/divi/esperti si dovrebbero ridurre al ruolo del consulente. Questo dovrebbero fare i Travaglio, Guzzanti, Grillo, Barbacetto o Gomez ecc.
Oggi purtroppo accade l’esatto contrario: il giornalista/divo/esperto troneggia, sentenzia e lancia il diktat, e il pubblico piccolo piccolo lo adora, lo ammira, e peggio, si raggruppa in fans club e ’parrocchie’ dal seguito quasi sempre acritico. Ed è tristemente emblematico che l’immaginario colloquio che ho sopra descritto sia nella realtà di oggi esattamente il modo in cui, al termine della serata-dibattito con l’esperto/divo, viene invece accolto il pubblico quando chiede timidamente la parola: “Prego si faccia avanti, ci dica”, e poi “Bene, grazie, si accomodi”, cioè torni piccolo piccolo.
In questo modo la gente è solo sospinta a rimanere secondaria, cioè si annulla e non crescerà mai. Così l’Italia non cambierà mai. L’informazione italiana meno che meno.

1) http://www.beppegrillo.it/2008/05/in_memoria_del_giornalista_beppe_alfano.html)
2) Corriere della Sera, venerdì 16/5/2008
3) http://www.disinformazione.it/lettera_paolo_barnard.htm
4) Ripartire dal basso (subito). Centrofondi.it - L’economia per tutti. 21 sett. 2007
5) http://www.hrw.org/backgrounder/asia/afghan-bck1005.htm Military Assistance to the Afghan Opposition, Human Rights Watch, Ott. 2001
6) http://www.greenleft.org.au/2003/556/29437 John Pilger: Bush’s `war on terror’ is a cruel hoax, 1 Ott. 2003, Green Left Online
7) http://www.disinformazione.it/lettera_paolo_barnard.htm
8) http://www.disinformazione.it/censura_legale.htm
9) http://polinux.altervista.org/index.php
10) Il business della diffamazione. Giovanna Corrias Lucente, Micromega, 29-06-2007