sabato 31 gennaio 2009

Iraq al voto

Oggi si tengono in Iraq le prime elezioni dal 2005.
Queste elezioni per il rinnovo dei consigli provinciali dovrebbero rappresentare un test della stabilita' del Paese e della popolarita' del premier Al Maliki.

Ma almeno quattro colpi di mortaio sono gia' stati sparati contro un seggio elettorale a Tikrit, la citta' natale di Saddam Hussein.
E si prevedono altri incidenti del genere durante la giornata, alla luce anche dell'uccisione ieri di tre candidati in diverse zone del Paese, tra cui Mosul.

Qui di seguito gli ultimi sviluppi della situazione irachena, ancora ben lungi dall'essere stabile.


L'Iraq paralizzato aspetta le elezioni provinciali

da www.osservatorioiraq.it - 30 Gennaio 2009

Un Paese paralizzato e isolato dal resto del mondo. Così l'Iraq si prepara alle elezioni provinciali, che si terranno domani in 14 delle sue 18 province.

Chiuse le frontiere e gli aeroporti, mentre in alcune delle maggiori città, compresa la capitale, Baghdad, da stasera sarà in vigore il coprifuoco notturno.

A Baghdad divieto di circolazione anche per le auto, a meno che non siano autorizzate, mentre Bassora, la seconda città del Paese, all'estremo sud, è stata chiusa.

Fra le numerose misure di sicurezza decise dal governo per tentare di ridurre al minimo gli episodi di violenza, sono state reclutate centinaia di donne, insegnanti ma non solo, per perquisire le elettrici che si recheranno ai seggi, visto l'aumento delle donne kamikaze che si è registrato durante lo scorso anno.

Nelle 14 province in cui si voterà – Baghdad, al Anbar, Diyala, Ninive, e Salahuddin, e tutti e 9 i governatorati del sud a maggioranza sciita – sono oltre 14.400 in totale i candidati che si contenderanno i seggi dei consigli provinciali: 440 in tutto, ma questa volta, a differenza delle precedenti elezioni provinciali del gennaio 2005, ogni consiglio avrà un numero di seggi diverso, proporzionale alla popolazione della provincia.

I seggi apriranno domani in tutto il Paese alle 7 del mattino ora locale (le 5 ora italiana), e chiuderanno alle 17 (le 15 in Italia).

Si prevede che per i risultati definitivi ci vorranno diversi giorni.

Particolarmente tesa la situazione a Mosul, nel nord, che è stata chiusa anch'essa stamane ai veicoli, e dove sarà in vigore il coprifuoco esteso a tutta la città. Un coprifuoco particolarmente rigido: ai residenti di quella che è la terza città irachena è stato infatti vietato di uscire di casa fino a quando non andranno a votare.

Secondo il colonnello della polizia Safaa Abdul-Razzaq, portavoce del comando congiunto delle operazioni della provincia di Ninive, di cui Mosul è la capitale, la misura si è resa necessaria per limitare le possibili violenze, dato che la città è una delle più a rischio del Paese. Il divieto di circolazione per i veicoli qui sarà in vigore fino a dopodomani.

Il portavoce del ministero degli Interni, generale Abdul-Karim Khalaf, ha detto che sono state chiuse le frontiere con l'Iran, e che Bassora resterà isolata da stasera fino a dopodomani mattina. All'interno della città, tuttavia, non ci saranno restrizioni ai movimenti degli abitanti.

Si prevede che molte altre città adottino misure di questo tipo entro stasera.

Ieri sono stati uccisi tre candidati in diverse zone del Paese: uno dei quali proprio a Mosul, freddato da alcuni killer a bordo di una macchina di passaggio.

Hazim Salim, questo il suo nome, era un ex ufficiale dell'esercito, che aveva scelto di presentarsi con la Unity List [Lista dell'Unità] - un gruppo di sunniti indipendenti, secondo quanto riferito da un funzionario della polizia irachena, che ha parlato a condizione di restare anonimo, in quanto non autorizzato a divulgare l'informazione.



Iraq, Le elezioni provinciali irachene: che cosa tenere d'occhio
di Robert Dreyfuss - The Nation-DreyfussBlog - 28 Gennaio 2009
Traduzione di Ornella Sangiovanni per Osservatorio Iraq

Sabato 31 gennaio l'Iraq terrà le sue prime elezioni dal 2005, quando gli iracheni andarono alle urne per scegliere sia il Parlamento nazionale che i consigli provinciali. Questa volta, le elezioni decideranno solo i consigli provinciali, in 14 delle 18 province irachene. Tuttavia, esse rappresenteranno probabilmente una svolta per il Paese. In quale direzione – verso una maggiore democrazia, oppure verso un'ulteriore instabilità e il ritorno della resistenza violenta – dipende da che cosa accadrà sabato.

Non è un bel quadro. Le elezioni promettono di essere rovinate da violenza, frodi, intimidazioni, compravendita del voto e corruzione, voto di gruppo da parte delle tribù e delle componenti etniche dell'elettorato, e dall'influenza indebita degli esponenti religiosi sciiti.

Se le cose non andranno lisce, e se il risultato delle elezioni non si tradurrà in una crescita per i partiti che nel 2005 vennero tagliati fuori dal processo politico – in particolare fra il blocco dei sunniti iracheni privati dei diritto di voto – allora è molto probabile che la violenza aumenti nuovamente. E' possibile persino che molti sunniti tornino alla resistenza armata, e che alcuni di loro si riassocino ad "al Qaeda in Iraq".

Viste in termini più generali, le elezioni sono un test della capacità della coalizione di governo di restare aggrappata al potere, nonostante abbia presieduto a un collasso catastrofico dell'economia irachena, dei servizi sociali, e dei servizi pubblici, e nonostante la percezione diffusa che i partiti di governo sono colpevoli di un'enorme corruzione, gestione incompetente, e di aver esercitato il controllo mediante la forza paramilitare, attraverso le milizie di partito. I quattro partiti di governo sono i due partiti religiosi sciiti fondamentalisti – il partito islamico al Da'wa e il Consiglio Supremo islamico iracheno (ISCI) - e i due partiti kurdi separatisti – il Partito democratico del Kurdistan (KDP) e l'Unione Patriottica del Kurdistan (PUK). Secondo molte fonti che ho intervistato, compresi iracheni coinvolti nelle elezioni, un gran numero di iracheni guarda tutti e quattro i partiti di governo con disprezzo. Si attribuisce loro la responsabilità di non essere stati capaci di fornire servizi essenziali come l'elettricità, l'assistenza sanitaria, il carburante, l'acqua, e la raccolta dei rifiuti, che sono tutti intermittenti nella migliore delle ipotesi e inesistenti nella peggiore. Li si incolpa di aver gestito in modo incompetente l'economia, e in particolare il petrolio iracheno, e del tasso di disoccupazione, che è stimato al 50 per cento. In circostanze normali, tutti e quattro i partiti subirebbero una sonora sconfitta alle urne. Ma queste non sono circostanze normali.

Le elezioni sono considerate anche una sorta di referendum sul Primo Ministro Nuri al-Maliki, il cui partito, al Da'wa , è un attore che ha molto peso nel voto di sabato. Anche se la fazione di al Da'wa guidata da Maliki si è ripetutamente spaccata – dopo le scissioni, nel Parlamento composto da 275 membri è ridotta a soli sei seggi – essa trae vantaggio dall'utilizzo oppressivo del potere politico da parte di Maliki in quanto Primo Ministro. Nonostante al Da'wa abbia una storia di movimento chiuso, basato su cellule, e simile a una setta, con vedute sciite oscurantiste, Maliki si sta guadagnando il sostegno elettorale degli iracheni che lo vedono come un uomo forte, una specie di capo di Stato tipo Saddam in versione light, e si è rifatto una immagine di nazionalista. Ha costruito un suo feudo all'interno dell'esercito iracheno, spostando e rinominando generali che lo appoggiano, in un tentativo scoperto di trasformare l'esercito nella milizia privata di al Da'wa. Ha utilizzato un paio di apparati di sicurezza che riferiscono direttamente all'ufficio del Primo Ministro per eseguire arresti e intimidazioni di politici e partiti rivali, in particolare contro gli alleati di Muqtada al-Sadr. Ha messo su "consigli tribali" paramilitari nelle province in tutto l'Iraq, elargendo decine di milioni di dollari di finanziamenti governativi a queste organizzazioni, che in effetti non sono altro che bracci belli e buoni del suo ufficio. E sta utilizzando i media governativi di proprietà dello Stato apertamente per suo conto.

Ecco che cosa tenere d'occhio sabato:

Primo: riusciranno i partiti religiosi a tenere? Secondo molte informazioni, gli iracheni liberali, nazionalisti, e laici ritengono che la popolazione in generale è delusa da al Da'wa, dall'ISCI, e dai sadristi. Il risultato sarà una crescita per i partiti che hanno un approccio chiaramente laico, in particolare il partito guidato dall'ex Primo Ministro Iyad Allawi – uno sciita laico che piace molto a numerosi nazionalisti e sunniti? Oppure i vantaggi di cui dispongono in partenza al Da'wa e l'ISCI, che controllano i media e il governo, consentiranno loro di continuare a essere le forze dominanti?

Secondo: i sunniti otterranno il potere nelle province in cui sono maggioranza o dove sono forti ? Nel 2005, i sunniti boicottarono il voto, e solo il 2 per cento all'incirca degli arabi sunniti andò a votare. Questo portò a una vittoria per l'Iraqi Islamic Party (IIP), un partito religioso fondamentalista di sunniti legati ai Fratelli musulmani. Nel 2009, molti analisti si aspettano che l'IIP sarà decimato. Dal 2003, il partito ha cooperato con gli Stati Uniti e con l'alleanza di governo sciita-kurda: quindi, se l'IIP dovesse essere eliminato, aspettiamoci che una forza più bellicosa, più nazionalista, prenda il suo posto. Molti dei gruppi che prima appartenevano alla resistenza, il movimento del Risveglio, e i partiti sunniti tribali hanno formato dei partiti per le elezioni del 31 gennaio.

Le battaglie decisive saranno a Mosul, la capitale della provincia di Ninive, nel nord; a Baghdad, la capitale, che costituisce una provincia a sé, con quasi un quarto della popolazione dell'Iraq; e nella provincia di Diyala, una zona mista a nord-est di Baghdad.
Nella provincia di Ninive, a causa del boicottaggio delle ultime elezioni da parte dei sunniti, il consiglio provinciale è controllato a stragrande maggioranza dai kurdi, che a Ninive sono una piccola minoranza, limitata alla parte est della città di Mosul. I kurdi stanno cercando modi per sopprimere il voto sunnita, e hanno persino armato una milizia cristiana. Secondo tutte le informazioni, tuttavia, i sunniti dovrebbero prendere il controllo di Ninive. Se ciò non accadrà, nel nord probabilmente emergerà un movimento di resistenza arrabbiato e violento.

Nella provincia di Baghdad, ora controllata dall'ISCI e da al Da'wa, esiste la possibilità che i partiti nazionalisti, sunniti, e quelli laici possano conquistare molti dei 57 seggi del consiglio [provinciale], e se faranno le alleanze giuste – ad esempio, con i sadristi – potrebbero cacciare l'ISCI e al Da'wa nel cuore del Paese. Baghdad tuttavia ha subito una pulizia etnica [in realtà si è trattato di una pulizia confessionale NdT], e molti sunniti sono stati costretti ad andarsene. Non è chiaro se agli sfollati interni sarà consentito votare [sì, è consentito, ma devono registrarsi. Secondo la Commissione elettorale indipendente irachena, lo avrebbero fatto in 63.000. I dati delle Nazioni Unite parlano di un totale di oltre 2 milioni e 800mila sfollati interni. Non si sa quanti di questi siano gli aventi diritto al voto NdT], o, in caso affermativo, per chi. Se i partiti religiosi sciiti manterranno il controllo di Baghdad, anche qui è possibile che ci sia una reazione violenta da parte degli ex insorti e di elementi del Risveglio.

Nella provincia di Diyala, dove il rapporto numerico fra sunniti e sciiti è più equilibrato, l'esito è in palio. Le enclavi sunnite e quelle sciite sono separate da muri, la violenza è endemica, i candidati non possono facilmente fare campagna elettorale o promuovere i loro partiti, e i risultati scontenteranno tutti. E' una polveriera.

C'è inoltre l'interrogativo del sostegno esterno. L'Iran sta indubbiamente dando un sacco di soldi in appoggio ai suoi alleati, tra i quali l'ISCI. In misura minore, l'Arabia Saudita probabilmente sta sostenendo alcuni partiti sunniti, e forse anche alcuni partiti laici. Si sospetta che la Turchia appoggi l'IIP. Ed è difficile credere che la CIA non stia dando contanti per appoggiare i candidati preferiti.

Nel frattempo, le elezioni saranno incomplete, perché non si voterà nella provincia contesa di Ta'amim, la cui capitale, Kirkuk, viene rivendicata dai kurdi espansionisti. A Kirkuk il problema è talmente esplosivo che il governo iracheno ha deciso di rinviare del tutto le elezioni. E non ci sono elezioni provinciali nelle tre province kurde del nord, che sono viste sempre di più come parte di una zona separatista, che pensa all'indipendenza – qualcosa che gli arabi, sia sunniti che sciiti, rifiutano.




Iraq, Il governo iracheno non rinnova la licenza alla Blackwater
da www.osservatorioiraq.it - 29 Gennaio 2009

La Blackwater non potrà più operare in Iraq. Il governo iracheno ha deciso di non rinnovare la licenza alla società privata di "sicurezza" statunitense, e ha informato l'ambasciata Usa a Baghdad che dovrà trovare un'alternativa per garantire la protezione dei suoi funzionari.

"Il contratto è terminato, e non verrà rinnovato per ordine del ministro degli Interni", ha detto oggi nella capitale irachena il portavoce del ministero, generale Abdel Karim Khalaf, che ha aggiunto di aver notificato la decisione all'ambasciata americana, che dovrà "trovare un'altra società di sicurezza".

All'origine della decisione, secondo il funzionario, ci sarebbe la sparatoria avvenuta il 16 settembre 2007 a Baghdad, nella quale alcuni dipendenti della Blackwater, che stavano scortando un convoglio del Dipartimento di Stato, uccisero almeno 14 civili iracheni, fra i quali dei bambini.

La società Usa sostiene che i suoi dipendenti avevano agito per autodifesa; tuttavia, testimoni oculari e parenti delle vittime affermano che gli agenti aprirono il fuoco senza essere stati provocati.

Per l'incidente, cinque ex agenti della società privata di "sicurezza" sono attualmente sotto processo negli Stati Uniti, ma si sono dichiarati innocenti.

Dopo il fatto, le autorità di Baghdad avevano fatto pressioni su Washington perché la Blackwater fosse ritirata dal Paese, ma nel 2008 il contratto della società era stato rinnovato.

Ora il nuovo accordo fra Stati Uniti e Iraq in vigore dal 1 gennaio consente al governo di Baghdad di decidere quali compagnie di "sicurezza" possono operare nel Paese. E la Blackwater, evidentemente, non è una di queste.

Un funzionario dell'ambasciata Usa nella capitale irachena ha confermato che la sede diplomatica ha ricevuto la comunicazione, e ha detto che i funzionari statunitensi stanno lavorando assieme al governo iracheno per affrontare "le implicazioni di questa decisione".

Da Washington, il portavoce del Dipartimento di Stato facente funzione, Robert Wood, ha detto che gli americani si conformeranno a quanto deciso dalle autorità di Baghdad.

"Non abbiamo altra scelta", ha dichiarato Wood ai giornalisti, "perciò adesso stiamo cercando di formulare come andare avanti".

Sulle eventuali alternative, tuttavia, il funzionario non ha voluto fornire altri particolari, sottolineando però che "faremo di tutto per garantire che i dipendenti della nostra ambasciata abbiano la sicurezza necessaria".

venerdì 30 gennaio 2009

Davos: Cina e Russia fanno la voce grossa e puntano il dito

Qui di seguito qualche aggiornamento sul World Economic Forum in corso a Davos in questi giorni.


WEF di Davos: prove tecniche del nuovo ordine economico globale

di Fulvia Novellino - http://italia.etleboro.com - 30 Gennaio 2009

Si era preannunciata come la conferenza per "uscire dalla crisi", ma si sta trasformando in un concilio multilaterale di discussione delle cause e dei reciproci errori compiuti in passato, lanciando le prime idee di riforma strutturale del sistema economico. La 39esima edizione del 2009 del World Economic Forum di Davos , dal titolo "Un progetto post-crisi", vede la partecipazione di 1.400 imprenditori provenienti da 96 paesi, 43 capi di Stato o di governo, 17 ministri delle finanze, i governatori delle 19 banche centrali, così come centinaia di giornalisti.

Una immensa tavola rotonda che ha come protagonisti i grandi veterani delle crisi economiche del passato, e gli illustri assenti della recessione globale del presente.

Mancano i dirigenti dei gruppi bancari che sono scomparsi dopo il terremoto della crisi finanziaria, nonché delle istituzioni finanziarie americane, travolti dagli scandali di Wall Street, dei mutui subprime e della crisi di liquidità.
Cina e Russia presiedono il Forum con le loro lezioni di geopolitica economica, senza nascondersi dinanzi alle domande e agli attacchi più pungenti, forti della consapevolezza del ruolo che avranno qualora vi sarà un nuovo ordine mondiale economico.
Ciò anche in considerazione del fatto che al miracolo della nuova amministrazione americana di Barack Obama non tutti credono, non potendo incidere da sola sul cambiamento strutturale di uno stato di crisi che è diffuso e diramato in ogni settore.

Come osservato da Joseph Stiglitz, economista e docente presso la Columbia University, "non si può fare peggio di quanto già fatto dalle banche. Il problema fondamentale è rappresentato dal fatto che il sistema è sbagliato, e non basta sostituire le persone o predisporre un team di esperti per risolvere il problema".
Stiglitz ha senz’altro centrato il problema di fondo, ossia che non si potrà arginare la situazione gettando soldi in un pozzo senza fondo, tutto sarà vano non si avrà una reale presa di coscienza che il sistema economico è cambiato, e in quanto tale ha bisogno di regole basate su diversi presupposti.
È quello che chiede infatti la Cina, che punta il dito contro quei Paesi "che hanno adottato un modello di sviluppo insostenibile caratterizzato da un debole risparmio su un lungo periodo e un forte consumo".
Per il Premier cinese Wen Jiabao, il nuovo ordine economico mondiale passa inevitabilmente per una riforma dei grandi istituti finanziari internazionali e una regolamentazione dei mercati capitali.

Sulla riforma delle regole su cui si basa l’economia, interviene anche Vladimir Putin chiedendo che Europa e Stati Uniti attuino una politica monetaria più aperta ed equilibrata, nel rispetto delle norme internazionali della macroeconomica e della disciplina finanziaria. E a tale proposito spinge per il ritorno ai vecchi principi economici che si basano sull'integrazione regionale delle valute, contro un'economia mondiale troppo dipendente dal dollaro. "Gli operatori occidentali dovrebbero abbandonare l'ideologia del colonialismo nelle relazioni bilaterali - afferma Putin spiegando - il mondo si è globalizzato ed è oggi interdipendente. Se vogliamo mantenere rapporti civili, è necessario formulare i principi fin dall'inizio". Putin chiede dunque una riforma delle norme di emissione della moneta, e così di regolamento degli scambi, che si basi sul concetto di "valore fondamentale" delle attività, "basato sulla capacità di un'impresa di generare valore aggiunto e non su mere considerazioni soggettive", e dunque sull’economia reale. Noi aggiungiamo a tale parole "sull’economia reale di nuova generazione".

Occorre infatti considerare che sta affondando innanzitutto quell'economia reale, che utilizza fonti di energia e tecnologie scoperte agli inizi del secolo, ossia quella siderurgica, petrolifera e automobilistica, ragion per cui occorre introdurre cicli produttivi con energia sostenibile e prodotti innovativi che contribuiscano al progresso economico sostanziale.
Allo stesso modo, sta cambiando anche l’economia immateriale, quella dei servizi, a cominciare da quelli finanziari, sino a quelli dell’informazione e della comunicazione, proprio in relazione all’introduzione di nuove piattaforme cibernetiche. È ormai chiaro che la crisi ha solo consentito la riconfigurazione degli assetti bancari, con concentrazioni e fusioni che hanno racchiuso il potere economico nelle mani di entità private, ma anche di fondi sovrani e Governi , come il caso di Russia e Cina, nonché alcun Paesi arabi: il mercato bancario pian piano si assesterà basandosi su nuove regole, che lo renderanno ancora più inattaccabile con l’introduzione di nuove tecniche per lo scambio di dati ed informazioni.

Una simile dinamica l’avremo nel settore dell’informatica e dell’informazione. Il caso di Microsoft è esemplare in quanto - come per Ford, GM e Crysler - ha costruito il suo monopolio su una tecnologia e una fonte di informazione che ormai è fuori mercato, e l’avvento di nuovi scenari e nuove esigenze decreteranno la sua fine. I software - come per le vecchie auto a benzina - non sono più dei beni indispensabili, in quanto sono perfettamente sostituiti dalla rete, che fornisce tutti gli strumenti richiesti anche attraverso un terminale che usa un unico programma necessario solamente ad accedere al web e a navigare. Microsoft dovrà solo sperare nella possibilità di scalare Yahoo per mettere le mani su un motore di ricerca, ed impedire che una qualsiasi joint-venture tra Google e un produttore di software possa mettere fine all’esistenza del concetto di "sistema operativo" stabilito da Windows.

La comunicazione cibernetica farà scomparire la netta distinzione tra utente e macchina, e così l’utente diventerà automatizzato senza aver più bisogno di interfacce "umane" o di processi lunghi, mentre la macchina non avrà più bisogno dell’intervento umano. Questo sistema necessità dell’abbandono della vecchia energia, delle vecchie regole, delle vecchia mentalità: tutto questo non avverrà senza creare disoccupazione, crisi strutturali, recessioni e guerre. Sarebbe dunque preferibile che i capi di Stato si siedano davvero ad una tavola rotonda e concordino le nuove regole per aiutare il sistema economico a cambiare, senza tanti stravolgimenti.


Usa sul banco degli imputati. Perchè il dollaro come moneta di riserva mondiale?

di Uriel - wolfstep - 30 gennaio 2009

Ho assistito ai discorsi introduttivi di Putin e del presidente cinese, all’apertura della conferenza di Davos, e devo dire che niente da quelle parti promette bene. Lo dico perche’ Obama ha sempre dato per scontato che una volta “ritornata” ad avere una politica “smart”, l’america sarebbe stata riaccolta a braccia aperte, come un parente che ha avuto una malattia e torna dall’ospedale. Le cose, pero’, non sembrano andare esattamente cosi’.

Da un lato, il discorso di Putin era inteso anche per preservare il suo consenso interno, ma lo scopo era assai chiaro: rendere evidente, fin dall’inizio, che questa crisi e’ nata negli USA, e che per come si e’ svolta sembra essere “a perfect storm”, un ottimo espediente per rinnegare tutto cio’ che gli USA hanno obbligato a fare.

Cioe’, il discorso di Putin e’ stato: cari USA, avete scassato la minchia a tutti col liberismo e con la globalizzazione. Avete quasi imposto il vostro WTO a tutti, facendo pressioni immense perche’ i governi si adeguassero ai suoi standard. Avete inquinato il mondo con la vostra finanza truffaldina, garantendo che fosse la base per il “nuovo ordine mondiale” ove tutti sarebbero stati felici.

Poi, improvvisamente, ci dite “fermiamo tutto perche’ abbiamo un problema qui a Wall Street”. E iniziate a dire che metterete dazi alle importazioni di ogni cosa, che inizierete a produrvi ogni cosa in casa, e che il WTO e’ buono solo per spalmare sul mondo le perdite immense che la crisi ha causato.

Ecco, con queste premesse il presidente Putin ha voluto mettere le mani avanti, circa il fatto che pratichera’ una politica sempre piu’ protezionista a sua volta , riguardo alle fonti energetiche, e che importera’ solo da nazioni amiche: non per nulla Putin ha nominato anche la crisi Ucraina, giusto per dire che ogni tentativo di staccare Ucraina e Russia finira’ col causare instabilita’ nella zona. Insomma, lo scopo di Putin e’ di mettere subito gli USA sul banco degli imputati, e specialmente Putin pretende che gli USA chiariscano subito al mondo se essi credano ancora alla globalizzazione liberista (WTO e compagnia bella) oppure se intendano recedere: non e’ che a Putin interessi la risposta a questa domanda, sta solo cercando di mettersi nelle condizioni di fornire la propria risposta.

Non per nulla , la dialettica della “perfect storm” e’ mirata proprio a seminare sospetto, cioe’ a lasciar intendere che gli USA non potranno , dopo aver goduto dei vantaggi della globalizzazione, semplicemente ritirarsi nel loro guscio lasciando agli altri paesi il conto: probabilmente Putin intende recedere da ogni debito e da ogni impegno che trovera’ gravoso, come ritorsione per il ritiro degli investimenti occidentali dalla borsa di Mosca(1).

E’ stato ancora peggiore il discorso cinese. Dai cinesi, notoriamente orgogliosissimi della loro nazione, non ci si aspettava certo un discorso come quello udito, cioe’ un discorso che inizia con “e’ inutile nascondere che la Cina e’ stata colpita duramente da questa crisi, e molte difficolta’ stanno emergendo”. Non dai cinesi, e non dopo lo sfoggio nazionalista delle olimpiadi.

C’e’ un solo motivo per il quale un presidente cinese puo’ parlare cosi’: chiarire che la crisi arriva da fuori, che il governo cinese ha agito bene, e probabilmente porre le premesse per chiedere il conto, un conto salato. Che il conto verra’ chiesto si e’ visto subito dalla precisione con la quale il presidente cinese ha elencato i danni causati da questa crisi: sembrava una lista della spesa.

Non e’ affatto comune che il governo cinese ammetta di essere in difficolta’: dopotutto un 7% di crescita in una fase come questa potrebbe essere un paravento, se non certo per gli addetti ai lavori almeno per l’opinione pubblica. Se il presidente cinese rinuncia all’orgoglio nazionale per elencare i danni, e’ perche’ intende presentare il conto.

Sebbene i suoi toni siano stati meno demagogici di quelli di Putin (che in pratica ha insinuato che gli americani abbiano in qualche modo guidato la crisi a massimo svantaggio di alcuni paesi) , e’ assai piu’ preoccupante la portata delle ritorsioni che esso preannuncia: nel fare questo discorso Wen Jiabao si e’ in pratica liberato le mani da tutti quei vincoli internazionali che potevano trattenere la Cina dal ritorcere contro gli USA per la politica protezionista che hanno annunciato.

Il concetto, in pratica, e’ che il trucco di essere globalizzatori quando ci sono vacche grasse e diventare protezionisti nei periodi di crisi non e’ piu’ applicabile, e non verra’ accettato. Obama ha un bel dire che vuole rendere gli USA indipendenti sul piano energetico; i fatti pero’ dicono che l’ 8.5% del petrolio arriva loro dai russi, e tutte le smargiassate di Bush adesso gli presenteranno il conto.

La politica di reazione a questa crisi di Putin e’ stata ancora piu’ protezionista di quella di Obama: le aziende russe che hanno sedi all’estero e devono licenziare devono PRIMA farlo all’estero, se devono chiudere una sede devono PRIMA chiudere quelle all’estero, i commerci sono regolati da dazi che seguono il livello di “amicizia” della Russia col paese in questione, il che significa che ad un raffreddamento politico segue immediatamente una ritorsione doganiera.

Nel caso dei cinesi, la tentazione di passare con la mietitrebbia a raccogliere quanto resta degli investimenti stranieri, nazionalizzandoli di fatto (2), e di recedere da molti obblighi del WTO, e’ fortissima. Cosi’ com’e’ fortissima la tentazione di sfruttare la crisi in atto ad Hong Kong (colpita durissimamente dal crollo della City) per aumentare la propria ingerenza sull’ex protettorato. E infine, c’e’ una grossa voglia di allungare le mani su Taiwan.

Ma quello che e’ peggio, e’ che il governo cinese vorrebbe mettere mani sulla moneta. E con ogni probabilita’, una volta chiarito che la Cina sta pagando costi altissimi per colpa degli USA, con ogni probabilita’ non ci saranno scuse per contrastare le eventuali svalutazioni cinesi: adesso il petrolio costa poco, non c’e’ ragione di una moneta forte.

In ultimo, ci si sono messi anche i Pakistani, che hanno approfittato del palcoscenico per battere cassa, rifiutando il concetto dell’amministrazione USA di aiuti in cambio di risultati nella lotta al terrorismo: di fatto il Pakistan sta battendo cassa, e se non gli verra’ dato quanto chiede l’unica base USA nella zona sara’ in una ex repubblica sovietica, per intercessione di Putin.

Infine, un’altra cosa terribile che entrambi hanno sottolineato e’ che dubitano del dollaro come moneta di riserva. Forse Obama non ha idea di cosa significhi: Cina e Russia sono i detentori della prima e della terza riserva di dollari del mondo. Qualsiasi tipo di riforma valutaria abbiano in mente, entrambi i discorsi hanno lasciato intendere che i due paesi intendono iniziare una politica multipolare sul piano valutario, cioe’ intendono parlare in euro con chi usa l’euro, in yen con chi usa lo yen, in dollari con chi usa i dollari, eccetera. Questa diversificazione ovviamente rende inferiori i rischi, con un solo piccolo problema: che se anche una piccola parte del mostruoso indice M3 americano tornasse in patria, l’inflazione devasterebbe l’economia americana riducendola all’economia di un paese del terzo mondo, con effetti simili a quelli dell’inflazione tedesca nel primo dopoguerra del secolo scorso: cento milioni di dollari per un hamburger.

I due fatti, cioe’ il fatto che sia Cina che Russia contemporaneamente puntino il dito sulla causa della crisi (anche giustamente, volendo) e subito dopo vadano a nominare le riserve forex di dollari e’ enormemente preoccupante: se altri paesi , come quelli arabi, si unissero a questa fronda, potremmo trovarci ad inviare aiuti alimentari a Washington.

E la cosa pazzesca e’ che non e’ uno scherzo. Ovviamente, l’enormita’ del problema costringera’ l’amministrazione americana a trattare, quindi non si arrivera’ a questo punto. C’e’ pero’ da dire che il prezzo sara’ salatissimo, e del “new american century” restera’ assai poco: con ogni probabilita’, stiamo assistendo al declino definitivo dell’ impero. Che non e’ neanche durato tanto, btw.


(1) In effetti ritirare investimenti dalla borsa di Mosca perche’ c’e’ un problema in Georgia e’ come ritirarsi dalla Borsa di Milano perche’ in Somalia c’e’ cattivo tempo. E’ un atto politico in tipico stile Bush, che l’opinione pubblica russa considera un segno di ostilita’.

(2) Chi ha aperto in Cina ha dovuto formare una Joint con un’azienda locale, controllata di fatto da un funzionario del PCC. Il che significa che, avendo queste joint il 51% di capitale (formale) cinese, il governo cinese le puo’ nazionalizzare quando vuole. Per la precisione, gli appartengono gia’, quindi deve solo regolare i flussi di capitale delle aziende.


Erdogan acclamato al ritorno in Turchia dopo il duro scontro a Davos con Peres su Gaza

da www.ariannaeditrice.it - 30 Gennaio 2009

Innalzando bandiere turche e palestinesi ma anche manifesti con su scritto "Sei il leader del mondo" e "La Turchia è orgogliosa di te", migliaia di persone hanno accolto festanti poco dopo la mezzanotte di ieri all'aeroporto di Istanbul il rientro in patria del premier turco Tayyip Erdogan, che ieri ha abbandonato il Forum Davis per non aver potuto replicare al presidente israeliano Shimon Peres al Forum di Davos. Poco dopo il suo arrivo, Erdogan - acclamato come un eroe - ha parlato alla folla ed ha tenuto una conferenza stampa.

Allo scopo di facilitare l'affluenza della gente all'aeroporto Ataturk per festeggiare il ritorno di Erdogan, il Comune di Istanbul ha deciso di estendere sino alle 03:00 di stamani l'orario di servizio dei treni diretti all'aeroscalo su cui i passeggeri hanno viaggiato gratis. Ad attendere Erdogan c'era anche il sindaco di Istanbul, Kadir Topbas, espondente del filoislamico Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) guidato dal premier. Rincasando all'alba, Erdogan ha trovato la strada che porta alla sua casa di Istanbul tappezzata di garofani rossi. Stamani la stampa turca riporta l'episodio con abbondanza di foto e particolari oltre e titoli cubitali e risonanti come "Lo spirito di Davos è morto" (Hurriyet), "Storica lezione di Erdogan a Peres" (Turkiye), "Schiaffo storico" (Yeni Safak) e "Shock a Davos" (Milliyet).

Quest'ultimo riferisce anche che la moglie del premier, Emine, "é scoppiata in lacrime mentre Erdogan lasciava la sala" affermando "questo è un grave scandalo". La Turchia, che ha da anni un'alleanza strategica con lo Stato ebraico e buoni rapporti con i Paesi arabi e il non arabo Iran, è una nazione laica ma a maggioranza islamica e si è apertamente schierata contro Israele in occasione dell'offensiva militare contro il movimento integralista palestinese Hamas.


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Dialogo impossibile ieri a Davos (Svizzera) sul Medio Oriente. Saliti sul palco per parlare delle vie verso la pace, il presidente israeliano Shimon Peres e il primo ministro turco Recep Erdogan hanno entrambi pronunciato interventi durissimi e totalmente opposti sulla recente offensiva israeliana nella Striscia di Gaza.

Alla fine, per non aver ottenuto dal moderatore il diritto di replica, Erdogan ha lasciato il palco irritato minacciando di non tornare più al World economic Forum di Davos. Peres ha parlato per ultimo e a lungo. Prima di lui si erano espressi il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, il segretario della Lega araba Amre Moussa e quindi Erdogan. Il premier turco aveva aspramente criticato l'offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, scattata il 27 dicembre appena quattro giorni dopo una visita dell'omologo israeliano Ehud Olmert ad Ankara per parlare del processo di pace in Medio Oriente. Dopo di lui, Peres ha difeso con forza l'offensiva israeliana. "Non è stata la nostra scelta, la nostra scelta è la pace - ha detto - Perché hanno continuato a lanciare razzi? La tragedia di Gaza non è Israele, ma Hamas e la sua brutta dittatura". Nel suo intervento, il capo di stato israeliano ha più volte alzato la voce, a volte direttamente rivolto al premier Erdogan che poco prima si era pronunciato per l'inclusione di Hamas, movimento che ha vinto le elezioni nei Territori, nell'equazione per giungere alla pace. Dopo la sua dura requisitoria il presidente israeliano é stato applaudito da un uditorio composto da centinaia di top manager, politici e accademici ma Erdogan non ha gradito. "Trovo molto triste che la gente applauda, perché sono morte molte persone", ha detto senza poter continuare la sua replica: il giornalista che moderava il dibattito lo ha interrotto ed il premier a quel punto ha lasciato la sala.

giovedì 29 gennaio 2009

Crisi economica: lo scandalo dei manager premiati

Il presidente USA Barack Obama ha registrato una prima vittoria legislativa con il varo da parte della Camera di un pacchetto di stimolo per l'economia da 825 miliardi di dollari, senza però ottenere un voto bipartisan. Il provvedimento infatti è passato per 244 voti a 188, con i repubblicani contrari per i tagli alle tasse (275 miliardi di dollari) giudicati insufficienti e le spese (550 miliardi di dollari) considerate eccessive.

Ma ancora nessuno ha preso seri provvedimenti contro i manager responsabili della serie di bancarotte a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi.
Anzi, continuano a ricevere bonus e incentivi come se nulla fosse.

La speranza e' che Obama li costringa a un esilio in aperta campagna, vista l'abbondanza di mani sottratte all'agricoltura.



Negli USA l'economia e' in ginocchio, ma i manager vengono premiati

di Ennio Caretto - Il Corriere della Sera - 28 Gennaio 2009

La finanza e l’industria licenziano migliaia di dipendenti al giorno – ben 71 mila lunedì scorso – e gli scandali alla Madoff, il finanziere che truffò 50 miliardi di dollari, si moltiplicano. Ma i responsabili del disastro finanziario ed economico americano non solo sembrano godere d’immunità, continuano anche a percepire stipendi e premi enormi. Da un sondaggio, soltanto 1 su 10 dei “big” delle banche e delle aziende finite in bancarotta o salvate dal denaro pubblico ha perso il posto. Da un altro, il 79 per cento ha intascato un pingue premio per il 2008, per la metà di loro superiore a quello del 2007. Sono scandali che suscitano indignazione nel Paese.

IL CASO DI JOHN THAIN - Il New York Times ha denunciato il caso di John Thain, l’ex presidente della Banca d’affari Merrill Lynch, che in autunno fu comprata dalla Bank of America. Thain, uno dei pochi a venire licenziato, spese 1 milione 200 mila dollari per abbellire il proprio ufficio e fece distribuire in anticipo 4 miliardi di dollari di premi a sé e ad altri dirigenti sebbene la Merrill Lynch avesse registrato un passivo di 15 miliardi di dollari nello ultimo trimestre del 2008. Il procuratore dello stato di New York Andrew Cuomo lo ha inquisito per recuperare parte dei soldi. A suo giudizio, i padroni del mondo, come lo scrittore Tom Wolfe chiamò Thain e i colleghi ne “Il falò delle vanità”, non hanno imparato la lezione. Qualche volta, il governo ha vietato lussi inaccettabili come l’acquisto da parte del Citigroup di un jet per 12 “big” per 50 milioni di dollari: il Citigroup ha ottenuto dallo stato 345 miliardi di dollari in sussidi e garanzie, una somma folle, ma non si è rassegnato a risparmiare. Qualche altra, il governo ha confiscato le proprietà dei truffatori, come è accaduto a Madoff, cosa che ha spinto Fuld, l’ex presidente della Lehman Brothers, scomparsa a settembre, a vendere per 10 dollari alla moglie un palazzo in Florida del valore di 13 miliardi e mezzo di dollari. Ma in massima parte, i “big” hanno conservato i loro privilegi. Un fenomeno che Obama intende stroncare.

I POCHI ARRESTI - Un giro di vite vero e proprio è in corso solo contro i “MiniMadoff”, come gli imitatori del re dei truffatori in borsa, che rimane agli arresti domiciliari su cauzione di 10 milioni di dollari, sono stati battezzati. Si segnalano tra i tanti l’arresto di Nicholas Cosmo, un finanziere newyorchese già imprigionato nel ’97 che avrebbe defraudato di 370 milioni gli investitori; quello di Arthur Nadel, un finanziere della Florida che si sarebbe appropriato di 30 milioni; nonché l’incriminazione da parte della Sec, la Commissione di controllo della borsa, di Joseph Forte, un finanziere di Filadelfia, per un ammanco di 50 milioni. L’America non conosceva scandali del genere dall’età d’oro del 1900 – 1930.

DISUGUAGLIANZA SOCIALE -
Come allora, l’1 per cento più ricco della popolazione possiede il 7 per cento della ricchezza nazionale, più di tutto il 90 per cento meno privilegiato della popolazione. Mentre in termini reali il reddito dell' americano medio è venuto diminuendo anche prima della crisi, i super manager hanno continuato a intascano fino a 100 - 150 milioni di dollari l’anno, e a riscuotere liquidazioni di oltre 200 milioni.



Black List: Le 17 persone che con i loro errori hanno portato il mondo verso la recessione

da La Stampa - 28 Gennaio 2009

La grande crisi, la peggiore dalla «Great depression» del 1929, non è un fenomeno naturale, ma un disastro in cui la mano dell'uomo ha avuto la sua parte. Già, ma quali mani? Ecco, allora, 17 uomini. Diciassette volti che hanno contribuito a far scatenare, con le loro azioni ed omissioni, la tempesta.

A cominciare da Alain Greenspan, il presidente della Federal Reserve. Sì, proprio lui. L'uomo che era riuscito a far superare agli Stati Uniti la crisi finanziaria del 1987 e a traghettare il Paese attraverso lo choc dell'attacco terroristico alle Twin Towers dell'11 settembre 2001. Lui che, sull'onda di questi successi, era diventato una star. Allora, lo chiamavano «l'oracolo», «il maestro».

Oggi, invece, è visto come un «appestato». Come il principale colpevole della grande crisi in atto. È biasimato per aver lasciato decollare la bolla immobiliare, alimentata dalle basse rate dei mutui e della mancata regolamentazione sui prestiti, lacuna che ha impedito di arginare lo scandalo dei subprime.

Greenspan, anzi, ha incoraggiato lo sviluppo vertiginoso e pericoloso dei mutui-spazzatura e ha convinto i proprietari delle case ad abbandonare il tasso fisso per quello variabile, esponendo così migliaia di famiglie alla «tagliola» dell'impennata dell'assegno mensile, sino al punto di non ritorno, quando la rata è diventata, sotto i colpi della tempesta, troppo alta per consentire loro di onorarla.

Il presidente della Fed, inoltre, ha difeso e sostenuto per anni il boom dei derivati, strumenti che già esistevano quando lui è arrivato alla banca centrale Usa e ne ha preso il controllo, ma strumenti che sotto la sua amministrazione sono letteralmente lievitati, passando da un valore di 100 trilioni (100 mila miliardi) di dollari nel 2002 a 500 trilioni cinque anni dopo. Di recente, Greenspan, ha ammesso che diverse sue convinzioni nel lungo termine si sono dimostrate sbagliate.

BILL CLINTON (Ex Presidente Usa) - Ex presidente degli Usa. Ha abolito nel 1999 il Glass Steagall Act, una legge che stabiliva la completa separazione tra le banche commerciali e quelle d'investimento. Questa mossa ha avviato l'era delle superbanche e ha innescato la «bomba» dei mutui subprime, esplosa dopo molti anni.

GEORGE W. BUSH (Ex presidente degli Stati Uniti) - L'amministrazione del presidente uscente degli Usa non ha certamente messo il freno all'erogazione della montagna di denaro finita in prestito a migliaia di sottoscrittori che non presentavano garanzie di rimborso. Non ha trattenuto la corsa di Wall Street, con regole che impedissero il successivo bagno di sangue.

GORDON BROWN (Premier britannico) - Si è lasciato completamente abbagliare dai protagonisti della City e dai loro vagiti. Ha anteposto gli interessi dello «Square Mile» a quelli di altre realtà economiche, coma l'industria manifatturiera. Ha reintrodotto la bassa tassazione per migliaia di banchieri stranieri che lavorano a Londra e società di private equity.

PHIL GRAMM (Ex senatore del Texas) - Ha combattuto a lungo e duramente per imporre la deregulation finanziaria, incoraggiato dall'allora presidente Bill Clinton. Il suo lavoro ha facilitato la crescita esplosiva dei derivati e dei «credit swaps». Nel 2001 disse in una discussione del Senato: «Guardando ai mutui subprime vedo il sogno americano in atto».

GEIR HAARDE (Primo ministro islandese) - Ha annunciato venerdì scorso che vorrebbe dimettersi e indire nuove elezioni a maggio, sull'onda delle proteste popolari per il crac finanziario del Paese. A ottobre le tre più grandi banche islandesi erano collassate sotto
i debiti. Il governo si è fatto prestare 2,1 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale e si è esposto con diversi Paesi europei.

MERVYN KING (Governatore della Bank of England) - Amava dire di avere un'ambizione: che il processo decisionale della politica monetaria diventasse «noioso», tanto le cose andavano bene. Nelle prime settimane della crisi si è rifiutato di finanziare le banche in difficoltà. Non ha saputo prevenire la bolla immobiliare. Non ha tagliato i tassi abbastanza in fretta.

DICK FULD (Ex «ceo» di Lehman) - Soprannominato «il Gorilla», è stato in Lehman per
decenni. Al Congresso si è detto meravigliato che il governo non abbia salvato la banca. Nell'audizione parlamentare gli hanno chiesto se riteneva giusto aver guadagnato 500 milioni di dollari in 8 anni. Ha risposto che erano solo 300. Subito prima che Lehman andasse in bancarotta ha mancato l'occasione di un grosso affare in Corea. E ha continuato a investire nell'immobiliare quando il mercato era al massimo.

HANK GREENBERG (Ex numero uno di Aig) - Ha fatto diventare Aig il più grande gruppo assicurativo del mondo. Ma con le sue mosse imprudenti ha anche reso la società estremamente vulnerabile alla crisi dei mutui. Per salvare Aig sono stati necessari fondi pubblici per 85 miliardi di dollari.

ABI COHEN (Ex capo strategie di Goldman Sachs) - Era definita la donna più potente degli Stati Uniti. Ma ha avuto torto troppo spesso. Non ha visto arrivare il crollo delle quotazioni azionarie. Prevedeva sempre mercati in rialzo. È stata sostituita nel marzo scorso.

ANDY HORNBY (Ex top manager di Hbos) - Reputatissimo, ammiratissimo e abilissimo, piazzatosi al primo posto nel suo corso di 800 studenti a Harvard. Però è stata la sua strategia, in occasione della fusione di Bank of Scotland e Halifax, che ha trascinato la Hbos al disastro. Chi avrebbe mai immaginato Halifax nazionalizzata?

FRED GOODWIN (Ex boss di R.B. of Scotland) - Era uno degli uomini d'affari preferiti da Gordon Brown. Adesso il premier è furioso con lui per la maniera in cui ha guidato la Royal Bank of Scotland. Ha portato la Banca a perdere 28 miliardi di sterline e a cedere il 70 per cento delle azioni al governo. Le perdite dipendono da prestiti inesigibili e da svalutazioni di investimenti fatti da lui.

ADAM APPLEGARTH (L'ex Mr. Northern Rock) - L'ambizioso dirigente ha lasciato la banca prima che il governo inglese decidesse di nazionalizzarla portandosi a casa una gratifica milionaria. Ha voluto gestire la banca seguendo un modello di business fallimentare che ha portato Northern Rock a subire una fortissima crisi di liquidità.

STEVE CRAWSHAW (Per 4 anni al timone di B&B) - Il manager è salito ai vertici di Bradford & Bingley (B&B) nel 2004 e ha trasformato la società di costruzioni in una finanziaria specializzata in prestiti immobiliari. Ha fatto fare al gruppo investimenti legati ai mutui subprime portandolo al tracollo. Si è ritirato con bonus di 1,8 milioni di sterline.

STAN O' NEAL (Ai vertici di Merrill Lynch) - È diventato una delle principali vittime sacrificali del credit crunch quando verso la fine del 2007 perse la fiducia del board della banca. Prima delle dimissioni Stan O'Neal annunciò che Merrill Lynch aveva un'esposizione di circa 8 miliardi verso asset tossici.

KATHLEN CORBET (Ex ad di Standard & Poor's) - Ha guidato la più grande agenzia di rating fino all'agosto del 2007, quando è stata costretta a dimettersi, travolta dalle polemiche. L'hanno accusata di aver sottovalutato i rischi sui prodotti finanziari legati ai mutui subprime americani. Durante la sua gestione Standard & Poor's ha assegnato rating di alto livello (tripla A) a obbligazioni, Abs e Mbs, che poi si sono trasformate in asset tossici.

JIMMY CAYNE (Ex guida di Bear Stearns) - È stato il top manager di quella che è poi risultata la prima banca d'affari a essere colpita dalla crisi finanziaria. Durante il suo mandato, sono falliti due hedge fund di Bear Stearns che hanno portato la banca sull'orlo del fallimento.



Quando la crisi colpisce le fortezze del denaro

di Federico Rampini - La Repubblica - 28 Gennaio 2009

La riforma adottata negli anni Trenta fu una nuova legislazione bancaria per impedire gli eccessi che avevano portato al ‘29


"Gangster. Nemici della democrazia". Sono le definizioni dei banchieri date ieri da Franz Muentefering, presidente dell´Spd tedesco, il secondo maggiore partito di governo in Germania. La sua frustrazione è comprensibile. Dall´inizio di questa crisi il governo di Berlino ha messo in campo una rete di protezione di 500 miliardi di euro di aiuti potenziali per proteggere le sue banche; più una partecipazione azionaria del 25 per cento per salvare da un crac la Commerzbank. Eppure ancora oggi il sistema bancario tedesco – un tempo ammirato nel mondo per la sua granitica solidità – assomiglia a un campo minato. Secondo la Bundesbank le 18 più grosse banche tedesche hanno tuttora più di 300 miliardi di euro di titoli tossici, invendibili sui mercati; solo il 23 per cento sono stati riconosciuti come tali e quindi cancellati dai rispettivi bilanci. Da qui il senso d´impotenza che regna a Berlino: nonostante gli sforzi dello Stato, la fiducia è ben lungi dall´essere ritornata nel sistema creditizio. Il mondo intero è nella stessa situazione. Causa primaria della crisi che viviamo, le banche ne rimangono tuttora l´epicentro.

In fatto di comportamenti anti-sociali e criminali, le parole del leader tedesco descrivono senza esagerazione i banchieri americani. Mesi dopo che le loro carriere sono finite nel disastro, l´arroganza di molti resta stupefacente. L´ultima l´ha combinata Richard Fuld, l´ex chief executive che ha guidato la Lehman Brothers fino alla bancarotta di settembre. Fuld ha appena venduto alla moglie per l´obolo simbolico di dieci dollari la sontuosa villa che aveva comprato a Jupiter Island (Florida) per 13 milioni di dollari: è un tentativo plateale di aggirare le leggi sulla bancarotta e sottrarre il proprio patrimonio ai liquidatori.

La frustrazione del governo tedesco è poca cosa in confronto a quella che si respira alla Casa Bianca e al Congresso di Washington. Da ottobre le 13 maggiori banche americane hanno già ricevuto 148 miliardi di dollari di aiuti cash dal contribuente, solo come ricapitalizzazioni da parte dello Stato, senza contare le garanzie assicurative accollate al bilancio pubblico per future perdite (altre centinaia di miliardi). Nonostante questo fra il terzo e il quarto trimestre del 2008 i finanziamenti erogati dalle banche sono scesi di ben 46 miliardi di dollari. Le banche hanno sequestrato gli aiuti senza che il paese – imprese e consumatori – ne ricevesse il minimo sollievo.

L´esasperazione di fronte allo "sciopero dei banchieri" è accentuata dalla disparità di trattamento rispetto ad altri settori dell´economia. Tutti soffrono la recessione ma nessuno potrà mai sperare di avere una frazione degli aiuti pubblici concessi alle banche. Industria automobilistica o elettronica, turismo o grande distribuzione, l´elenco dei settori colpiti dalla crisi non risparmia quasi nessuno. Solo per le banche i governi sono scesi in campo all´unisono, con rapidità, e senza badare a spese. Questo vale senza eccezioni, dagli Stati Uniti all´Inghilterra, dal Belgio all´Irlanda. Con quello che ogni contribuente americano o europeo ha già pagato per Citigroup, Northern Rock o Fortis, gli operai dell´automobile starebbero sereni fino alla pensione.

Per quanto sia ingiusto bisogna arrendersi all´evidenza: le banche sono diverse. La loro centralità per l´economia le rende uniche, insostituibili. Basta pensare al loro ruolo nel sistema dei pagamenti. Quanti di noi ancora ricevono lo stipendio in contanti a fine mese dal datore di lavoro? È significativo il caos in cui è precipitata la piccola Islanda: dà la misura delle conseguenze che può avere l´insolvibilità bancaria – anche momentanea – in un paese sviluppato. È così da molto tempo ormai. Non a caso le banche sono sempre state l´oggetto di un´attenzione speciale e di una legislazione su misura da parte degli Stati moderni. La più immediata riforma adottata negli anni Trenta, in paesi così diversi come l´America di Roosevelt e l´Italia di Mussolini, fu una nuova legislazione bancaria per impedire gli eccessi che avevano portato al 1929.

La lezione degli anni Trenta però fu via via dimenticata e cancellata, a ondate successive, con una serie di cambiamenti che hanno ridisegnato il ruolo delle banche. Si è persa per strada l´idea che le banche, in contropartita di una protezione superiore, dovessero essere molto più regolate di altri settori. Negli anni Settanta la congiunzione fra l´avvento dei computer e l´egemonia neoliberista della "scuola di Chicago" (Milton Friedman) portò al primo boom della finanza derivata, ai futures, alle liberalizzazioni dei movimenti di capitali. E la storia dell´ultima fase della globalizzazione è stata segnata da uno smisurato aumento d´importanza del settore finanziario, insieme con l´ipertrofìa dell´indebitamento. Nella escalation del laissez-faire le tappe finali verso il disastro sono state lucidamente descritte dall´ex vicepresidente della Federal Reserve, Alan Blinder. «Nel 1998 quando la commissione di vigilanza sui futures delle materie prime cercò di estendere i suoi controlli anche sui derivati, l´idea fu bocciata dalle due authority più potenti, la Federal Reserve e la Sec. Nel 2004 la stessa Sec, l´organo di vigilanza sulla Borsa, autorizzò un forte aumento dell´effetto-leva (leggi: indebitamento) per le banche d´investimento. Da un rapporto 12 a 1 si passò a una media di 33 a 1: con questi livelli di debiti basta il 3 per cento di declino nel valore degli attivi per cancellare tutto il capitale di una banca. E negli ultimi anni il mercato dei mutui subprime, che era sempre stato una frangia marginale e modesta, è stato lasciato crescere fino a diventare una componente grossa e pericolosa». Per finire Blinder definisce «disordinato, contraddittorio e incoerente» l´uso del fondo Tarp per i salvataggi bancari: non ha risolto il vero problema di fondo, che rimane l´immenso buco nero di titoli tossici dentro i bilanci delle banche.

Questa situazione apre la strada a scenari estremi. «Non avremmo mai pensato – dice la presidente della Camera Nancy Pelosi – di dover usare questo termine in America: nazionalizzazione delle banche». Per effetto degli aiuti recenti già ora lo Stato è il primo azionista di Citigroup con il 7,8 per cento del capitale e di Bank of America con il 6 (molto di più se si includono le garanzie sui titoli tossici). Eppure la voce del contribuente resta irrilevante nel management del credito. Questa semi-nazionalizzazione senza contropartite è una soluzione pericolosa. Ricorda da vicino gli errori compiuti dal Giappone negli anni Novanta, il "decennio perduto" di depressione economica per l´economia nipponica dopo lo scoppio della sua bolla immobiliare e finanziaria.

Sette giorni dopo l´insediamento di Barack Obama cominciano a giungere segnali di un ripensamento più drastico. Come il 1929 anche questa crisi può portare a una grande riforma del sistema bancario. Tra le nuove regole ci sarebbero controlli più stringenti per i derivati, i credit default swaps, gli hedge fund; nonché sui conflitti d´interessi delle agenzie di rating. Una radicale re-regulation dei mutui. Forse perfino una "ingerenza" del legislatore sulle retribuzioni dei manager, un tema finora tabù nell´America del libero mercato. In tal caso le ripercussioni potrebbero riguardare non solo l´economia ma anche le gerarchie di valori nella società in cui viviamo. Per qualche decennio una parte dei giovani talenti più brillanti furono attirati dai mestieri della finanza, perché il sistema degli incentivi era squilibrato a favore di quel mondo. In futuro forse avremo meno trader e più cervelli impegnati nella battaglia contro la malaria o il cambiamento climatico? Il tracollo delle banche avrebbe almeno un effetto collaterale positivo.

martedì 27 gennaio 2009

Voltastomaco italiota

Qui di seguito un paio di articoli sul ributtante Belpaese.

Il voltastomaco aumenta...


Io so

di Marco Travaglio - Voglio Scendere - 26 Gennaio 2009

"Io so che ancora una volta ci stanno prendendo per il culo, soltanto che non lo fanno con le solite ballette quotidiane. Questa volta stanno organizzando una grande operazione di disinformatia di stampo sovietico o sudamericano, come volete.
O italiano: diciamo pure di stampo italiano, italiota.

Lo fanno perché hanno paura degli elettori che forse hanno cominciato a intuire quale gigantesca porcata debbano nascondere, o quali gigantesche porcate debbano nascondere con questa legge inciucio contro le intercettazioni. Per la prima volta, non sono riusciti, Berlusconi e i suoi complici, a convincere l'opinione pubblica che in Italia ci vogliano meno intercettazioni.
Gli italiani, per motivi ovvi di intelligenza e per interesse alla loro sicurezza, sanno che è giusto e doveroso rinunciare a un pezzettino della nostra privacy per mettere qualche telecamera in giro, per acchiappare più delinquenti, per mettere dei telefoni sotto controllo per acchiappare più delinquenti.
Ma anche per scoprire, eventualmente, se c'è qualche innocente che è finito ingiustamente in un'inchiesta, grazie alle intercettazioni.
Si riesce immediatamente a scindere la responsabilità dei colpevoli e degli innocenti, quindi le intercettazione per chi non ha niente da nascondere è una risorsa.
Invece, per chi ha molto da nascondere, è un pericolo.

Questo non sono riusciti a farlo passare, ancora, nemmeno l'orchestra nera che ci martella da vent'anni è riuscita a convincerci che dobbiamo accettare, per il nostro bene, meno intercettazioni per i reati di lorsignori, e dunque anche per i reati di strada.
Pare che persino gli elettori leghisti – per fortuna, meglio tardi che mai – si stiano ribellando e stiano premendo sui loro rappresentanti perché non firmino la porcata che Berlusconi vuole fare.
E ci raccontano, i giornali, che la partita è se entrerà o meno la corruzione fra i reati per i quali non si potrà più intercettare.
Una porcata da buttare nel cesso

Il problema non è solo la corruzione: nel disegno di legge che è stato presentato dal Consiglio dei Ministri a luglio, come ci siamo già detti più volte ma repetita iuvant, si vieta di intercettare per reati come lo stupro – in questi giorni si parla molto di stupro, Berlusconi promette addirittura un soldato per ogni bella donna e in futuro magari anche per ogni vecchietta che va a ritirare la pensione, per ogni vecchietto maschio che ritira la pensione, per ogni massaia che va a fare la spesa.
Insomma, ci sarà metà della popolazione che fa il soldato e metà che fa il derubato.
E chi li deruba poi, fra l'altro? Bisognerebbe importare dall'estero i delinquenti. Siamo alla follia.
Ma per quanto riguarda il divieto di intercettazione, il disegno di legge del Consiglio dei Ministri le proibisce per lo stupro, il sequestro di persona, l'associazione a delinquere, l'estorsione, la ricettazione, la truffa, il furto, il furto in appartamento, la rapina, lo scippo, lo spaccio di droga al dettaglio, l'omicidio colposo e tutti i reati finanziari.
Il problema è prendere questa porcata gigantesca e buttarla nel cesso, questo dovrebbe fare un partito serio, ammesso che la Lega riesca ancora ad esserlo ogni tanto, invece di star lì a ritoccare un reato sì, un reato no.

Questi sono tutti reati per i quali oggi si può intercettare e, infatti, già abbiamo dei problemi a scoprire dei colpevoli perché ce ne vorrebbero di più di intercettazioni e di indagini collegate
Invece, causa riduzione continua dei mezzi e dei fondi, ne abbiamo sempre di meno e abbiamo pochi colpevoli scoperti.
Figuratevi quando non potremo nemmeno intercettarli quanti criminali in libertà avremo: dovremo barricarci in casa dopo che passa questo legge con i cavalli di Frisia e i sacchetti di sabbia alle finestre per farci giustizia da soli.
Questo è quello a cui ci vogliono portare.

La balla del Grande Orecchio

Allora, dato che la gente non l'ha ancora bevuta la bufala delle intercettazioni, stanno esagerando, stanno sfiorando il muro del suono, stanno superando i limiti della decenza, ammesso che ne abbiano.
Ci stanno, cioè, rifilando un'altra super balla per convincerci che siamo in preda al Grande Fratello, il Grande Orecchio, lo spione degli spioni, l'uomo nero che, nascosto in un ufficio a Palermo, intercetta tutto e tutti con gravi violazioni della privacy.
Mettendo in pericolo la democrazia.
Questo mostro si chiama Gioacchino Genchi, è un vice questore della Polizia in aspettativa, fin dai tempi di Giovanni Falcone collabora con i magistrati più impegnati in tutta una serie di indagini che hanno a che fare con l'informatica e la telefonia, perché ha accumulato un'esperienza unica in Europa, in questa materia.

Aiuta i magistrati a incrociare le telefonate e i tabulati telefonici nei processi di omicidio, di rapina, di mafia, di 'ndrangheta, di camorra, di tangenti, di strage.
Perché è utile e indispensabile una figura come la sua? Perché non basta fare come tante bestie con la penna in mano fanno sui giornali: prendere le intercettazioni, far il copia-incolla e spiaccicarle sulla pagina di giornale o farle sentire in televisione.
Le intercettazioni vanno lette e soprattutto vanno capite.

Al telefono, molte persone cercano anche di parlare un linguaggio convenzionale, o anche se non cercano di parlarlo finiscono per farlo: si parla molto male al telefono, si capisce poco, spesso.
Ecco perché è importante capire a che ora avviene quella telefonata, in che posto, dopo quali altre telefonate e prima di quali altre telefonate avviene quella chiamata.
Perché se senti dire a uno “ho parlato con Ciccio”, da sola quella telefonata non ti dice niente.
Allora devi andare a vedere cosa è successo prima, se ci sono dei “Ciccio”.
“Sto andando a parlare con Pippo”. Chi è Pippo? Andiamo a vedere dopo. Andiamo a vedere dove si trovava Pippo un attimo dopo che questo dicesse “sto andando a parlare con Pippo”.
Allora abbiamo la prova che il Pippo era veramente lui, che i due si sono incontrati, perché stavano nella stessa cella territoriale da cui è partita la chiamata e dove, poi, c'è stato l'incontro.

Dunque, gli incroci fra le telefonate intercettate e i tabulati telefonici richiedono intelligenza, perché prese così non dicono mai niente, non vogliono dire niente e nei processi non sono utili e a volte vengono assolti i colpevoli proprio perché gli investigatori non sono riusciti a far fruttare, a trasformare in prova evidente ciò che avevano nelle carte, nei tabulati e nelle telefonate.
Ecco perché sono utili questi consulenti tecnici che sanno usare l'informatica e sanno incrociare i dati e arrivare a delle conclusioni, per cui anche una telefonata insignificante può diventare la prova regina per incastrare un assassino.

In questi giorni si parla di Genchi come il consulente di De Magistris. Certo, è stato consulente anche nelle indagini di De Magistris, ma nessuno racconta quanti omicidi insoluti ha fatto risolvere Genchi con questo sistema, quanti assassini che stavano in libertà oggi sono in galera grazie alle consulenze di Gioacchino Genchi.
Io lo posso dire tranquillamente: lo conosco da anni, lo apprezzo, penso che sia una persona estremamente perbene. E' un signore che vive del suo lavoro, che praticamente lavora sempre, giorno e notte, al servizio nostro, per renderci più sicuri: al servizio della giustizia.
Questo per come lo conosco io è Gioacchino Genchi.

Lo sterminio di massa

Viene linciato per quale motivo? Per due motivi.
Uno è proseguire la guerra a quelli che, a Catanzaro, hanno osato sollevare il coperchio sul pentolone del letame che ribolliva e a ricominciato a bollire da quando De Magistris è stato cacciato e da quando i magistrati di Salerno, che avevano riaperto quel coperchio, sono stati a loro volta cacciati.
Ragion per cui ho iniziato il mio intervento con “Io so”, per proseguire quelli di Sonia Alfano, di Salvatore Borsellino, Carlo Vulpio, Beppe Grillo per invitarvi tutti quanti a essere con noi mercoledì mattina in piazza Farnese in difesa dei magistrati di Salerno e, direi, da oggi anche di Gioacchino Genchi e quelli come lui.

Bisogna proseguire nello sterminio di massa iniziato con De Magistris, proseguito con la Forleo, con il capitano Zaccheo che lavorava con De Magistris, con il consulente Sagona che lavorava con De Magistris, con i colleghi di De Magistris come il dottor Bruni che hanno voluto fare sul serio nel prosieguo delle sue indagini e sono stati ostacolati dai loro capi. Nello sterminio di Carlo Vulpio che non si occupa più di questo caso perché ci capiva troppo, nello sterminio di Gabriella Nuzzi, Dionigio Verasani e il loro procuratore Apicella che sono stati fucilati alla schiena da un plotone di esecuzione plurimo, che sparava tutto nella stessa direzione, formato dal CSM, dal suo capo – il Capo dello Stato – dall'Associazione Magistrati che adesso sta tentando dei penosi ripensamenti, delle penose lacrime di coccodrillo e da tutta la classe politica.

Voglio in qualche modo – sono disperati, ormai – dimostrare che a Catanzaro De Magistris e suoi hanno fatto qualcosa che non andava, perché sono tre anni che stanno cercando un pelino nell'uovo per dimostrare che c'era qualche irregolarità non in quelle enormi ruberie di fondi pubblici che si stavano scoprendo, ma nelle indagini e nelle persone di chi stava indagando.
Questa è la prima ragione per cui Genchi è nel mirino.

La seconda e fondamentale ragione per cui è nel mirino in questo momento l'ha detta Berlusconi, che ormai non se ne accorge neanche più ma confessa! Questo è il suo giornale, il suo house organ, il suo bollettino parrochiale: “Intervista a Berlusconi – un'esclusiva, intervista a padrone – intercettazioni, vi dico quel che farò” “Una legge che taglia tutto, Bossi è già d'accordo, gli altri verranno convinti dallo scandalo Genchi. Non ho paura per me ma per la privacy degli italiani”.
Lo fa per noi, naturalmente.
Gli altri verranno convinti dallo scandalo Genchi: naturalmente non c'è nessuno scandalo Genchi, l'unico scandalo sono le porcate che ha scoperto Genchi per conto del PM De Magistris.

L'ennesima operazione di disinformatia

Lo scopo di questa guerra a Genchi, in questo momento, è cercare di ribaltare l'opinione pubblica con l'ennesima operazione di disinformatia.
Ricordate quando il Cavaliere, nell'ottobre del 1996, si presentò con un oggetto enorme e lo mostrò alle telecamere per tutto il mondo e disse “questa è una microspia”.
Poveretto, era una specie di frigobar portatile per le dimensioni ma lui la chiamava microspia.
I giornali, alcuni spiritosamente, la ribattezzarono “il cimicione”.

Lui si era inventato di essere spiato dalle procure deviate che gli avevano nascosto dietro il radiatore del suo studio a Palazzo Grazioli una cimice perfettamente funzionante, e quindi sgomento annunciò al mondo che in Italia la magistratura era arrivata a un tale livello di eversione da intercettare illegalmente e incostituzionalmente il capo dell'opposizione.
Tutto il Parlamento abboccò, D'Alema in lacrime corse a dargli solidarietà.

Erano già d'accordo per fare la bicamerale e, mentre D'Alema veniva eletto anche coi voti di Forza Italia in bicamerale, la procura di Roma scoprì che quella cimice intanto non funzionava, era un ferrovecchio dell'ante guerra, e soprattutto a piazzarla non era stata nessuna procura deviata ma il migliore amico del capo della sicurezza di Berlusconi, mandato a bonificargli l'alloggio.
Dato che nell'alloggio non aveva trovato niente aveva pensato di nascondere questa ciofeca dietro il radiatore per aumentare il proprio compenso e farsi bello davanti al padrone di casa.

Noi abbiamo vissuto per una settimana in un clima da colpo di Stato a causa di una delle tante bufale orchestrate dal Cavaliere e dai suoi sodali.
Bufala che quando è stata poi smontata nessuno l'ha scritto, e infatti era servita per solidificare l'inciucio destra-sinistra con D'Alema presidente della bicamerale, proprio per tagliare le unghie ai magistrati che non avevano fatto niente. Come non avevano fatto niente neanche questa volta, di illegale.

Certo, ci sono stati episodi, scandali veri in questi anni di intercettazioni illegali.
Sono quelle di cui i politici non parlano mai.
Si è scoperto di spionaggi illegali, ancora peggio.
Si è scoperto che il Sismi del generale Pollari e del suo fedelissimo Pio Pompa - quello che teneva a stipendio il giornalista Renato Farina, detto Betulla, che adesso sta in Parlamento non a caso nel Popolo della Libertà provvisoria, dopo aver patteggiato una pena per favoreggiamento nel sequestro di persona di Abu Omar – spiava illegalmente magistrati, giornalisti, imprenditori.
Sono tutti a giudizio a Roma questi signori, naturalmente, ma nessuno ne parla.

Si è scoperto che la security della Telecom, un'azienda privata, aveva messo in piedi un archivio di informazioni e dossier completamente illegali.
Sono a giudizio anche il capo e i suoi collaboratori, Tavaroli & c.
Tronchetti Provera, che è molto perspicace, non aveva capito niente di quello che succedeva nell'ufficio accanto e ha avuto molti elogi dal suo giornale, il Corriere della Sera, per il fatto di non aver capito una mazza di quello che succedeva da parte di un signore a cui lui dava una sessantina di milioni di euro all'anno di budget.
Per fare che cosa non l'aveva capito, ma un manager non è mica li per capire cosa succede nella sua azienda, è pagato per non sapere.

Questi sono gli scandali di cui frettolosamente ci siamo spogliati perché i politici sono ricattabili o ricattati da queste persone e quindi le coprono e le proteggono.
Di Genchi non c'è niente di scandaloso, nel senso che Genchi fa esattamente quello che gli chiedono i magistrati secondo quello che è previsto dalla legge.

Voi leggete sui giornali: “Berlusconi, è in arrivo uno scandalo enorme”, “I segreti che inquietano il Palazzo”, “Anche De Gennaro nell'archivio segreto Genchi”, “Rutelli: ci sono cose rilevanti”, “Archivio Genchi: fatti rilevanti per la democrazia” - questo dice Rutelli - “Rutelli: intercettazioni, libertà in pericolo”, “Mastella: denunciai l'archivio Genchi ma nessuno mi ascoltò”.
In realtà stavano ascoltando lui, perché parlava con una serie in indagati del processo Why Not, esattamente come Rutelli che era amico di Saladino.
“L'orecchio che ascoltava tutto il potere”, “In migliaia sotto controllo, presto un grande scandalo”. E avanti di questo passo.

Disinformazione organizzata allo stato puro

Questo è disinformazione organizzata allo stato puro.
Genchi non ha mai fatto un'intercettazione, ma nemmeno per scherzo. Genchi non intercetta.
Genchi riceve dalle procure della Repubblica che l'hanno nominato consulente le intercettazioni e i tabulati telefonici per fare quel lavoro di incrocio e di mosaico, per ricostruire la storia, il contesto di ogni telefonata e tabulato. Che differenza c'è tra l'intercettazione e il tabulato? L'intercettazione registra quello che le due persone al telefono, o in una stanza, si dicono – telefonica o ambientale.
Il tabulato è, come tutti sanno, l'elenco delle telefonate fatte e ricevute da un numero di telefono, da un utenza telefonica.

Il tabulato del mio telefono riporta tutte le telefonate che io ho fatto in partenza, cioè i numeri che ho chiamato io, e tutti i numeri che hanno chiamato me.
Aggiunge alcune informazioni: l'ora esatta, la durata esatta della telefonata, il luogo nel quale io mi trovavo mentre parlavo e l'altra persona si trovava, e naturalmente il numero di telefono dell'altra persona quando non è criptato. Questo è il tabulato.

Dimostra un rapporto più o meno intenso fra due persone: se si chiamano alle quattro del mattino sono persone che hanno un rapporto piuttosto confidenziale; se si chiamano quaranta volte al giorno hanno un rapporto confidenziale. Se c'è una telefonata in tutto potrebbe persino essere una telefonata muta, alla quale l'altro non risponde e non saprà mai di avere ricevuto questa telefonata.
E' evidente che ci vuole intelligenza investigativa per capire la differenza e capire che tipo di rapporti denotano questi tabulati e telefonate.

Genchi non ha mai intercettato nessuno: riceve telefonate già fatte e disposte da un GIP su richiesta di un Pubblico Ministero e riceve i tabulati che formano il corollario.
E studia, incrocia e riferisce al magistrato, viene sentito in udienza, viene contro interrogato dagli avvocati dell'imputato il quale ha tutti gli strumenti per dire “hai sbagliato, perché quella telefonata l'hai interpretata male, quel contatto non c'è stato”.

C'è il contraddittorio nel processo, questo avviene, questo fa Genchi.
Dice: “centinaia di migliaia di intercettazioni”. Assolutamente no.
Nelle indagini di Catanzaro, Poseidone e Why Not”, c'erano decine e decine di indagati e quindi decine e decine di intercettati, ciascuno dei quali usava diversi telefoni e schede.
In più, abbiamo i numeri degli indagati, diverse decine, e poi i numeri delle persone che venivano chiamate o chiamavano questi indagati e che risultano dai tabulati.
Quindi abbiamo evidentemente diverse centinaia di numeri.

I numeri trattati da Genchi nelle indagini di Catanzaro sono circa 730-780. Voi leggete che ci sono dei parlamentari, eppure non si può intercettare o prendere il tabulato di un parlamentare.
E' ovvio, ma prima devi saperlo che quel numero è di un parlamentare.
Se l'indagato Saladino chiama o riceve una chiamata da Mastella o Rutelli, che sono parlamentari e non possono essere intercettati, se è intercettato il numero di Saladino si sente la voce di Mastella o Rutelli.

Se si prende il tabulato di Saladino, certo che ci saranno anche i numeri che usano Mastella e Rutelli: e tu come fai a saperlo? Non si capisce mica dal prefisso se il numero è di Rutelli o è mio, se è di un parlamentare o no, di un agente segreto o no.
Quando chiedi di chi è il numero che compare nel tabulato ti dicono: “guarda che appartiene alla Camera dei Deputati”, e non basta ancora per stabilire che è di un parlamentare.
Potrebbe essere un impiegato, un cancelliere, un usciere.

Quando scopri di chi è, è chiaro che se scopri che è di un parlamentare prima di utilizzare quell'informazione devi chiedere il permesso al Parlamento perché in Italia è previsto questo.
Ma come fai a saperlo prima? Quando lo acquisisci è un elenco di numeri tutti uguali per te.
E' dopo, quando scopri di chi sono, che eventualmente ti fermi nell'utilizzarli e chiedi al Parlamento l'autorizzazione a utilizzarli.

Esattamente come la questione De Gennaro, l'ex capo dei servizi segreti e oggi capo del coordinamento dei servizi: non è vero niente, ma può anche darsi che non se ne sia neanche accorto che ci sia tra i numeri di telefono di questi incroci un numero usato dai servizi.
Chi lo può escludere? L'importante è che De Gennaro non era indagato e non è stato sospettato di niente, se poi risulta una sua telefonata con qualcuno, c'erano un sacco di persone, agenti di polizia, magistrati, che stavano sotto intercettazione: potrebbe risultare chiunque.

Vuol dire che Genchi spiava De Gennaro? Assolutamente no! Ma questo per fortuna De Gennaro, visto che di queste cose se ne intende, lo sa meglio di noi.
Dice: se ci sono agenti segreti e quelli parlano al telefono di segreti di Stato, intercettandoli si violano dei segreti di Stato. Pericolo! Aiuto! Il nemico ci ascolta!

Bene, questa è un'altra bufala clamorosa che è già venuta fuori quando la procura di Milano ha intercettato alcuni agenti del Sismi capeggiato dal generale Pollari, col fido Pio Pompa al fianco, nell'inchiesta sul sequestro di Abu Omar e ha acquisito dei tabulati.
Anche lì i soliti politici che proteggono Pollari, Rutelli, Berlusconi, sono insorti dicendo che – Cossiga! - non si possono intercettare agenti segreti perché se parlano di segreti di Stato al telefono questo esce fuori e la sicurezza nazionale è in pericolo.

Per legge, i militari e gli agenti segreti hanno il divieto di trattare argomenti classificati al telefono. Classificati vuol dire riservati in varie gradazioni, quindi a maggior ragione è vietato parlare al telefono con chicchessia di segreti di Stato, da parte dei titolari di quei segreti.
E' impossibile che qualcuno intercettando un agente segreto o un militare violi il segreto di Stato, perché già sa che per legge l'agente segreto al telefono non parla di segreti di Stato.

Se parla di segreti di Stato, chi lo viola il segreto? L'agente segreto che ne parla, non il magistrato che lo intercetta! Quindi, se tutti seguono la legge, non c'è mai un segreto di Stato che venga fuori da un'intercettazione, tanto meno da un tabulato da cui risulta un numero ma non il contenuto della telefonata.

Voi vi rendete conto della enormità della bugia con una piccola aggiunta: Genchi ha decine di migliaia di utenze sotto controllo? Vi ho già detto che non è vero.
Genchi può avere trattato, nella sua carriera che dura da trent'anni, centinaia di migliaia di utenze telefoniche: sono trent'anni che riceve intercettazioni, tabulati e li incrocia.
Indagati, non indagati, collaterali e affini, come diceva Totò.

Può darsi che in questo momento, dato che ha molti incarichi per molte procure d'Italia - casi di omicidi, rapina, mafia, camorra, 'ndrangheta, tangenti, evasioni fiscali, stragi, associazioni per delinquere, droga, delitti vari – può darsi che abbia in complesso migliaia di informazioni.
E' chiaro che se sta lavorando a qualche indagine a carico di qualcuno che ha rapporti con Berlusconi, ci sarà il numero di Berlusconi.
Esattamente come indagando su Saladino c'era nel tabulato il numero di Rutelli, di Mastella etc.

Li ha ascoltati lui? No, li hanno ascoltati i magistrati poi gli hanno passato le informazioni perché lui le elaborasse. Voi capite come da una questione innocua, anzi positiva – tutti dovremmo essere grati a Genchi per quello che fa – ci stanno montando ad arte un clamoroso caso di disinformatia non solo per impedire a lui di continuare a fare questo lavoro, utile per la collettività, cioè acchiappare i delinquenti.

Ma stanno anche cercando di usare questo caso per smembrare, devastare quel poco di controllo di legalità che ancora ci garantisce che ogni tanto venga acchiappato qualche delinquente.

Ci vediamo mercoledì a Roma in piazza Farnese. Mi raccomando: passate parola!"


Caso De Magistris: ora sotto accusa Gioacchino Genchi
di
Monica Centofante - www.antimafiaduemila.com - 25 Gennaio 2009

E’ il “caso Genchi” ad essere ora alla ribalta della cronaca. Messo fuori gioco De Magistris con le sue scottanti inchieste e i giudici di Salerno che avevano scoperto un complotto ai suoi danni (volto proprio a soffiargli le indagini), si punta ora al consulente informatico delle procure Gioacchino Genchi.

Da oltre un anno destituito dall’incarico che proprio su delega dell’allora pm De Magistris aveva assunto nell’ambito delle inchieste Why Not e Poseidone.
A intervenire sulla questione, neanche a dirlo, tutto il meglio della politica bipartisan, capitanata questa volta da Francesco Rutelli, presidente del comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica “Copasir”. E in straordinaria concomitanza con le polemiche sulla tecnica investigativa delle intercettazioni che dal Presidente del Consiglio in giù – chissà perché - tutti vorrebbero eliminare.

Il pretesto, questa volta, è un fantomatico archivio illegale del quale Genchi sarebbe in possesso e che conterrebbe oltre un milione di conversazioni telefoniche oltre a centinaia di migliaia di record anagrafici, più di 1400 tabulati utilizzati nell’ambito dei procedimenti catanzaresi e chissà quanto altro ancora. Accusa non nuova, per la verità, già formulata a seguito dell’avocazione del procedimento Why Not a De Magistris, quando l’Avvocato generale Dolcino Favi aveva sollevato il dottor Genchi dall’incarico di consulenza nel procedimento.

Punto sul quale avevano investigato i giudici di Salerno Apicella, Nuzzi e Verasani, riportando le loro conclusioni nel discusso decreto di perquisizione probatoria sfociato nei sequestri dello scorso 2 dicembre. “Gli approfondimenti esperiti da questo ufficio”, si legge nel documento, testualmente, “hanno evidenziato una serie di gravi patologie. Si evidenziano, in primis, i gravi profili di illiceità inficianti il modus operandi del procuratore generale avocante, dr. Dolcino Favi, che, dopo aver illegalmente avocato a sé il procedimento c.d. Why Not, disponeva la revoca con effetto immediato dell’incarico di consulenza del dr. Genchi, sulla base di un provvedimento privo di sostanziale motivazione, né sorretto da alcun dato concreto, documentale e/o informativo, di riscontro effettivo alle asserite presunte illegittimità ascrivibili al consulente nell’espletamento del mandato e alla eccessiva onerosità delle sue prestazioni”.

Lo scorso 9 gennaio - lo ricordiamo - nel totale silenzio della stampa, il decreto in questione è stato giudicato “legittimo” dal Tribunale del Riesame di Salerno. L’unico abilitato per legge ad esprimersi in merito e che per questo avrebbe dovuto dissolvere in una bolla di sapone tutte le inutili polemiche sorte intorno alla cosiddetta “guerra tra procure”.

Ciò nonostante il Csm, senza tenerne minimamente conto, ha deciso per il trasferimento dei magistrati Nuzzi e Verasani e per la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio del procuratore Luigi Apicella. Una sanzione esemplare alla quale hanno applaudito il sindacato delle toghe e il dicastero della Giustizia.

Ora le attenzioni si concentrano su quel ginepraio di contatti tra utenze telefoniche che, nel corso di anni di indagini, avevano fatto emergere una serie di “relazioni pericolose” tra soggetti appartenenti alla politica, all’imprenditoria, alla criminalità organizzata e alla massoneria. Relazioni dietro le quali si nascondevano attività affaristiche e clientelari, che rappresentano il cuore delle inchieste sottratte a De Magistris prima e ad Apicella, Nuzzi e Verasani poi.

Al pari dello stesso De Magistris, Genchi è stato sottoposto per anni al fuoco di fila delle interrogazioni parlamentari chieste ininterrottamente da entrambi gli schieramenti, uscendone sempre indenne. Ma oggi è tutto diverso.

La spudorata avocazione dell’inchiesta Why Not e tutto ciò che ne è seguito ci dimostrano che i tempi sono cambiati, qualcuno dirà: sono maturi. L’immotivata sottrazione delle inchieste a De Magistris e il suo trasferimento di ufficio e funzioni hanno immancabilmente creato un precedente, con il pieno appoggio di settori della magistratura e dell’informazione compiacenti, quando non direttamente “interessati”, in una logica di gestione criminale del potere su cui si reggono i reali equilibri del nostro Paese.

Ora solo una seria presa di coscienza da parte della società civile e dell’informazione in appoggio a quei magistrati onesti che mettono in pratica il principio costituzionale che la legge è uguale per tutti potrà farci sperare in una nuova inversione di rotta.


Al dott. Gioacchino Genchi e a tutti coloro che nel nome della giustizia e del diritto all'informazione vanno oltre se stessi, pagando un prezzo altissimo, tutta la nostra solidarietà e il nostro più profondo ringraziamento.

La Redazione di AntimafiaDuemila


ASCOLTA L'INTERVITA DI RADIO ANCH'IO A GIOACCHINO GENCHI: Clicca!


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Nuova Costituzione boliviana: un'altra vittoria di Evo Morales

Approvata con il 60% la nuova Costituzione "indigenista" della Bolivia.
Un grande successo per il presidente Evo Morales e una svolta storica per la Bolivia, ma anche la conferma di un Paese spaccato in due.


Bolivia, approvata la nuova Costituzione

di Alessandro Grandi - Peacereporter - 26 Gennaio 2009

Vittoria per il Mas e per Morales. "Da oggi inzia la rifondazione della Bolivia" dice il presidente. I governatori ri belli chiedono un patto fra governo e opposizione

Approvata la nuova Costituzione con oltre il 60 percento delle preferenze. Nelle cinque regioni d'opposizione, però, il testo è stato respinto. Morales si dice soddisfatto e parla di "rifondazione della Bolivia".

Il tanto atteso voto referendario sull'approvazione della nuova costituzione boliviana di fatto spacca in due il paese. Da un lato i favorevoli alle proposte di Morales dall'altro i fedelissimi delle regioni d'opposizione, quelle più legate all'autonomia, come Tarija, Pando, Beni, Santa Cruz e Chuquisaca. "Oggi da qui comincia una nuova Bolivia" ha detto Morales festeggiando la vittoria e ricordando che la giornata elettorale si è svolta senza eccessi e senza violenze. Particolarmente emozionato per la grande affermazione indigenista il presidente ha voluto soffermarsi sul nuovo periodo storico e sociale che si troverà ad affrontare il Paese. Su un punto in particolare Morlaes si è voluto soffermare. Grazie all'approvazione della nuova Costituzione si è messo fine allo strapotere dei latifondisti: il voto ha infatti stabilito che la proprietà privata di terra non dovrà superare i 5mila ettari. In questo modo si eliminerà progressivamente il latifondo. Poi il monito ai governatori "ribelli": "Non esiste mezza luna senza la nascita di una luna piena".

L'opposizione comunque non dispera. Il prefetto di Santa Cruz, Ruben Costas, ha in qualche modo festeggiato. Nel suo dipartimento infatti la nuova Costituzione non è passata, confermando ancora una volta l'avversione della regione ai progetti politici presidenziali. Insieme a lui possono dirsi soddisfatti anche i prefetti delle altre regioni autonomiste. Su tutte spunta il caso di Savina Cuellar, governatrice indigena dello stato di Chuquisaca che si oppone alla riforma socialista di Morales e che ha invitato la popolazione a disobbedire alla nuova Costituzione. Mario Cossio, prefetto di Tarija, a questo punto chiede che si lavori insieme alla ricerca di un patto nazionale fra governo e regioni d'opposizione per costruire una nuova Bolivia. Proposta, però, che lascia dubbi in altri settori anti governativi.

Comunque fino a questo momento i risultati non hanno creato tensione sociale, solo qualche scaramuccia politica. Forse la necessità di avere un patto di stabilità nazionale è allo studio di entrambe le parti. In ogni caso Morales ha detto che dopo l'approvazione della nuova Costituzione non si potrà più tornare indietro. I punti più importanti della riforma erano: la rielezione del presidente: Morales potrà candidarsi nuovamente alle presidenziali del 2009. Più poteri e autonomia alla maggioranza della popolazione, quella indigena. La definizione di autonomie etniche e regionali e la nazionalizzazione delle risorse naturali del Paese, oltre a una seria riforma agraria. Inoltre la nuova Costituzione, che nel suo complesso rivede circa 400 articoli, mette sullo stesso piano il Dio dei cristiani e la Pachamama, simbolo religioso Incas, facendo di fatto perdere il rapporto privilegiato del Vaticano con lo Stato boliviano. Da ieri è nata una nuova Bolivia con la speranza che cresca con una sana e robusta Costituzione.


Bolivia, di sana e robusta Costituzione

di Fabrizio Casari - Altrenotizie - 26 Gennaio 2009

“Oggi, 25 Gennaio 2009, si chiude l’epoca coloniale e si rifonda una nuova Bolivia, che offre pari opportunità a tutti i boliviani”. Con queste parole, pronunciate dal Palazzo del Quemado, il Presidente Evo Morales ha salutato il suo ennesimo trionfo elettorale nel paese andino, sancito da un voto favorevole al referendum sulla nuova Costituzione della Bolivia che ha raccolto oltre il 60 per cento dei voti, che mandano in soffitta 184 anni di storia coloniale boliviana. La nuova Costituzione, elaborata dall’Assemblea Costituente, aumenta notevolmente il controllo statale sull’economia e l’influenza delle 36 nazioni indigene nella rappresentanza politica, impone - con l’articolo 398 - il limite invalicabile di cinquemila ettari per l’estensione massima delle proprietà terriere e stabilisce che sarà necessario, in futuro, ottenere l’approvazione delle comunità indigene prima di poter sfruttare le risorse naturali nel loro territorio.

Ha quindi ragione il presidente Morales che vede nell’approvazione della nuova Carta costituzionale, da lui fortemente voluta, “la fine del latifondismo e dell’epoca coloniale, interna ed esterna”. La Costituzione approvata, infatti, prevede la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a “tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”. La nuova Carta prende atto della struttura plurinazionale del paese che viene rappresentata direttamente ed indirettamente in tutti i suoi 411 articoli, che riconoscono sullo stesso piano le autonomie regionali, provinciali, territoriali indígene e municipali che già esistono. Il testo costituzionale riconosce tre tipi di democrazia: rappresentativa, diretta e comunitaria e allo stesso tempo stabilisce una conseguente articolazione tra la giustizia ordinaria e la quella comunitaria.

Anche per questo il voto, oltre a rappresentare il certificato di nascita ufficiale della sovranità boliviana, conferma la natura di classe dello scontro politico interno al paese, con una mappatura dei “Si” e dei “No” che coincide perfettamente con la composizione sociale delle diverse regioni del paese. Se infatti il “Si” si è imposto massicciamente nelle zone dove la popolazione è indigena, nelle quattro regioni orientali, componenti la cosiddetta zona della “mezza luna”, dove la popolazione è di origine europea, il latifondismo filo statunitense è riuscito a far prevalere i “No” al referendum. L’opposizione esterofila parla di frode, ma le operazioni di voto si sono svolte senza incidenti e nel massimo ordine, secondo quanto hanno confermato i numerosi osservatori internazionali della UE, dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani ndr) e di altri organismi indipendenti locali ed esteri.

Con il supporto statunitense, gli esponenti del latifondo locale e i nostalgici del vecchio regime invitano alla disobbedienza e a vigilare. C’è da capirli: d’altro canto, la limitazione per legge del latifondo, insieme alla concessione di ampi spazi alle comunità “Aymara”, “Quecha” ed alle altre etnie del paese, di fatto consegna la Bolivia alla maggioranza dei boliviani, allentando con ciò, robustamente, la presa della multinazionali straniere e del latifondo locale sulle risorse naturali di cui è ricco il paese.

Risorse che, storicamente, hanno sempre contribuito ad arricchire la borghesia indoeuropea della zona orientale, lasciando invece la zona andina nella miseria. Salute, educazione, casa, trasporti, rappresentanza politica, erano (fino alla vittoria di Evo) parte del patrimonio esclusivo delle regioni orientali “ricche” e termini privi di senso per le comunità indigene, che si vedevano spogliati delle ricchezze giacenti nel loro territorio a vantaggio delle multinazionali dell’energia. Il saccheggio del sottosuolo prima e l’esportazione all’estero dei capitali poi, erano i due principali rami d’attività che determinavano le politiche economiche della storia boliviana, fatta di governi nati a Washington e ufficializzati a La Paz. Lo ha detto chiaro e tondo Evo Morales: “Abbiamo posto fine al neoliberismo, alla vendita al miglior offerente delle nostre risorse naturali. Con il voto odierno - ha proseguito - è il popolo a decidere, ad approvare o rifiutare una nuova Costituzione. Prima questo tipo di riforme le decidevano i capi dei partiti”.

Il risultato del referendum in Bolivia rappresenta quindi un nuovo passo in avanti sia per l’affermazione della sovranità popolare del paese andino che per un ulteriore consolidamento della nuova America Latina. Non si può però non evidenziare come di fronte all’avanzata elettorale della sinistra nel subcontinente, il Dipartimento di Stato Usa ha imposto una linea che indica brogli e frodi ovunque le elezioni (dal Venezuela al Nicaragua, dall’Ecuador alla Bolivia) diano un responso di sinistra ed indipendentista, tentando di delegittimare ogni voto che si oppone agli obiettivi politici della Casa Bianca.

La verità, però, è che le classi subalterne dei diversi paesi latinoamericani, un tempo aliene ai processi democratici interni, hanno assunto un ruolo preponderante attraverso la rappresentanza politica delle loro istanze che i partiti e i movimenti politici nazionalisti ed indipendentisti, a chiara impronta socialista, sono riusciti a dare. L’impatto mediatico e politico della linea di difesa statunitense appare quindi di corto respiro, giacché quella che appare a tutti gli effetti come una svolta storica, difficilmente potrà essere messa in discussione da un impero alle corde, in grave deficit di credibilità politica e in totale crisi di leadership. In attesa che Barak Obama apra il dossier su quello che fino a qualche anno fa è stato il “patio trasero” (giardino di casa ndr) degli Stati Uniti, i latinoamericani hanno preso gusto a prendersi la parola . Difficile ora rimetterli a tacere.